La nave romana “LIBURNA”: Un capolavoro da salvare
Associazione CORNELIA ANTIQUA– Siete appassionati della Storia poco raccontata, quella da riscoprire e vi piace l’ Avventura ,oppure siete affascinati dalla bellezza della Campagna Romana ? Allora unisciti a noi. Ecco cosa facciamo: Produciamo Documentari e Fotoreportage, organizziamo viaggi ,escursioni domenicali e tantissime altre iniziative culturali. Tutti sono benvenuti nella nostra Associazione, non ha importanza l’età, noi vi aspettiamo !Per informazioni – e.mail.: cornelia.antiqua257@gmail.com– Cell-3930705272–
Articolo e foto di Tatiana CONCAS
FIUMICINO (Roma)- ISOLA SACRA–27 ottobre 2022-Oggi,noi dell’associazione Cornelia Antiqua, ci siamo recati nel quartiere Isola Sacra di Fiumicino per visitare il cantiere navale dove è in costruzione la “Liburna” e, finalmente, conoscere i Maestri d’ascia impegnati in questa Opera navale , unica al mondo.
La Liburna rappresenta una ricostruzione fedele, a grandezza naturale, di una veloce nave romana da guerra del primo secolo dopo Cristo, di cui attualmente non esistono resti archeologici rinvenuti (ad eccezione di alcuni rostri, armamenti, anfore, ecc.), in quanto solitamente, tali imbarcazioni affondano nel mare.
L’Opera è stata realizzata, esclusivamente, grazie alla passione e all’abilità della famiglia Carmosini (l’ultima famiglia di Maestri d’ascia del Lazio e della Toscana), assieme ai fedeli amici ed aiutanti, Mino Cuccuru e Giuseppe Barucca.
L’impresa ebbe inizio circa 24 anni fa, grazie al progetto del defunto maestro Francesco Carmosini (padre di Oscar), che sognava di realizzare questa grande ricostruzione della nave romana sin dalla sua giovane età.
I lavori, inizialmente intrapresi senza alcun aiuto economico, furono sovvenzionati alcuni anni fa, grazie ad un piccolo finanziamento dalla Provincia di Roma, ma, ahimè, purtroppo questo contributo non fu sufficiente per acquistare il materiale necessario per completare l’Opera.
La Liburna ,infatti, misura ben 35 metri di lunghezza, 9 di altezza e 12 di larghezza.
La Liburna è stata costruita studiando ed applicando, il più fedelmente possibile, la tecnica e i materiali che venivano utilizzati all’epoca (come i sistemi di incastro e l’ossatura dell’impalcatura) e, quindi, sarebbe perfettamente in grado anche di navigare.
La Liburna è un capolavoro studiato ed apprezzato da molti ricercatori ed Università italiane e straniere, essa costituisce un’importante testimonianza storica dell’antico sistema navale ,portuale – logistico della Roma imperiale.
Nonostante ciò, per mancanza di fondi, la Liburna è ancora incompleta ma, non essendo munita di un’apposita copertura, risulta esposta alle intemperie, che stanno, impietosamente, provocando il degrado del materiale impiegato il quale, per la maggior parte , è legno pregiato.
Proprio per tale motivo il Comitato Promotore SAIFO (Sistema Archeo-ambientale Integrato Fiumicino Ostia), insieme al suo portavoce, il consigliere Raffaele Megna, si stanno prodigando al fine di reperire le risorse necessarie per completare, tutelare e rendere fruibile quest’Opera a tutta la collettività.
A breve, infatti, prenderà il via un vasto crowdfunding (una grande raccolta fondi internazionale), che avrà come obiettivo, oltre alla conclusione dei lavori, anche la musealizzazione dell’Opera.
La Liburna , ad Opera ultimata, era destinata al “Museo delle Navi”, nei pressi dell’Aeroporto Internazionale “Leonardo da Vinci” di Fiumicino, ma ,per questioni logistiche ed economiche, è stato sviluppato un nuovo progetto di esposizione e valorizzazione della nave romana.
A breve sarà firmata la concessione dell’area e del giardino pubblico limitrofo (ora in stato di abbandono) che verrà lasciata in gestione a SAIFO (Sistema Archeo-ambientale Integrato Fiumicino Ostia) da parte della Regione Lazio.
Questo nuovo progetto prevede di lasciare la Liburna, posizionandola meglio, all’interno dell’area “cantiere” in cui attualmente si trova e proteggendola con una copertura idonea .
Con questa Idea-Progetto sarà possibile creare un Museo proprio a ridosso delle case popolari e la presenza della Liburna costituirà un importante “Polo Culturale” per il Quartiere Isola Sacra di Fiumicino.
Articolo e foto di Tatiana CONCAS-Associazione CORNELIA ANTIQUA
Tatiana CONCAS-Associazione CORNELIA ANTIQUAnave romana “LIBURNA”nave romana “LIBURNA”nave romana “LIBURNA”nave romana “LIBURNA”nave romana “LIBURNA”nave romana “LIBURNA”Associazione CORNELIA ANTIQUA- Siete appassionati della Storia poco raccontata, quella da riscoprire e vi piace l’ Avventura ,oppure siete affascinati dalla bellezza della Campagna Romana ? Allora unisciti a noi. Ecco cosa facciamo: Produciamo Documentari e Fotoreportage, organizziamo viaggi ,escursioni domenicali e tantissime altre iniziative culturali. Tutti sono benvenuti nella nostra Associazione, non ha importanza l’età, noi vi aspettiamo ! Per informazioni – e.mail.: cornelia.antiqua257@gmail.com- Cell-3930705272-nave romana “LIBURNA”nave romana “LIBURNA”
Maria Zambrano-Luoghi della poesia. Testo spagnolo a fronte-
-Editore: Bompiani-
Maria Zambrano
DESCRIZIONE-
I luoghi decisivi del pensiero filosofico – ha rilevato Maria Zambrano – si incontrano nelle rivelazioni poetiche. Di qui la ricerca della filosofia che si trova nella poesia, non come pensiero poetico, bensì come filosofia in senso stretto, come una modalità dell’esercizio filosofico finora emarginato dalla storia del pensiero e che nella crisi della modernità è invece capace di configurare un orizzonte di superamento. Ecco perché tutto il pensiero di Maria Zambrano è volto a indagare lo sfondo comune di filosofia e poesia nonostante la scissione ed il conflitto – segno della storia occidentale – e l’orizzonte dal quale è possibile intravvedere una possibile riconciliazione: la ragione poetica. A tal fine, ‘Filosofia e poesia’ (1939) rappresenta l’opera fondamentale, insieme al presente libro, a cui stava lavorando prima della morte, e che comprende testi sulla parola poetica in rapporto alla filosofia, e saggi sui poeti più amati dalla Zambrano.
Nota Biografia –Maria Zambrano nasce a Vélez Málaga da Blas José Zambrano e Araceli Alarcón Delgado, entrambi insegnanti. Nel 1909 la famiglia si trasferisce a Segovia, dove María trascorrerà tutta l’adolescenza. Fondamentale per la formazione di Zambrano è la grande amicizia che il padre coltiva in quegli anni con Antonio Machado.
Editore: Bompiani
Collana: Il pensiero occidentale
Data di pubblicazione: 02/03/2011
ISBN: 9788845266683
Maria Zambrano
Biografia di Maria Zambrano scritta da Lucia Vantini
Maria Zambrano (Vélez Malaga 1904 – Madrid 1991) non avrebbe mai incoraggiato un’attenzione alla sua persona. Sperava che il suo nome non comparisse da nessuna parte: le interessava solo scrivere ed esistere per i suoi amici e «per coloro che si presentano con il cuore aperto». Eppure, davanti ai suoi testi così traboccanti di sapienza, si ha la certezza che assecondare questa sua ritrosia sarebbe un grave torto per l’intera umanità.
Maria Zambrano, nata da una famiglia di maestri nella terra assolata dell’Andalusia – terra di incrocio di Ebrei, Arabi, Gitani – è stata una filosofa nel senso più profondo del termine: era convinta che al mondo non avrebbe potuto fare altro che «vivere pensando» e, occorre aggiungere, “da donna”, cioè guardando le cose «attraverso l’anima».
Dal 1921, Maria Zambrano frequenta la facoltà di filosofia presso l’Università centrale di Madrid e dal 1931 al 1936 vi lavora come assistente alla cattedra di metafisica. Il suo percorso viene segnato dalle lezioni di Zubiri, Garcia Morente e soprattutto di Ortega y Gasset, che sarà per lei un vero e proprio maestro, rispetto al quale riuscirà però a trovare, non senza qualche piccolo conflitto, un cammino totalmente personale: la filosofia non poteva essere ripetizione o imitazione, ma sempre interpretazione a partire dalla propria esperienza. Fin dagli anni universitari intreccia filosofia e politica, pubblicando vari articoli in difesa della Repubblica, per scongiurare, e poi contrastare, la dittatura. Emblematicamente, il suo ultimo scritto, pubblicato nel novembre 1990, è I pericoli per la Pace, composto di fronte all’orrore della guerra nel Golfo Persico. Perseguitata dal regime franchista, vive gran parte della sua vita in esilio: dal 1939, e per 45 lunghissimi anni, si sposta continuamente per vari Paesi. Nel 1936 si trova a Santiago del Cile, dopo il matrimonio con il diplomatico Alfonso Rodriguez Aldave (dal quale si separerà dieci anni dopo).
Maria Zambrano
Solo nel 1984, finalmente, può tornare in Spagna. Non vuole un’accoglienza ufficiale, ma solo alcuni amici. L’esilio è stato un dramma, segnato dall’apprensione affettiva e dalla precarietà economica, ma anche un’esperienza di rivelazione che farà per sempre parte di lei. Spogliata di tutto, dello spazio in cui abitare e del tempo della libertà, le appare di accedere alla rivelazione della vera fisionomia della natura umana: siamo tutti «nati a metà», esseri incompiuti che non hanno mai finito di nascere. Eppure, nonostante la tragicità del momento che assomigliava tanto ad una morte in vita, Zambrano trova in sé un’energia di resistenza: una certa «fame di nascere del tutto» continua a spingere la sua anima verso la speranza di una nuova rigenerazione.
Una volta a casa, la sua attività è intensa, circondata da amici e collaboratori. Nel 1987, viene insignita del dottorato honoris causa dall’Università di Malaga e l’anno dopo le viene conferito il prestigioso premio Cervantes. Nel 1989, nasce a Vélez Malaga la Fondazione che tutt’ora porta il suo nome. Due anni dopo, si spegne in un ospedale di Madrid. Per sua volontà, la lapide porta incisa una frase del Cantico dei Cantici, emblema di quella fiducia nelle rinascite che attraversa fin dall’inizio tutta la sua filosofia: «surge, amica mea, et veni».
Questa pensatrice poliedrica si è ovviamente occupata di molti temi che, in sintesi, si potrebbero distribuire secondo tre direttrici: teoretica, religiosa e politica.
Maria Zambrano critica la filosofia contemporanea per il divorzio fra logica ed esistenza ed è convinta che «ogni verità pura, razionale e generale, deve sedurre la vita; deve farla innamorare»: una filosofia sganciata dal mondo è vuota, sterile e asfittica, mentre la vita, senza una parola che la rischiari, la potenzi, la innalzi o dichiari i suoi fallimenti, si disperde nel nonsenso e in ordini simbolici stranieri. Un pensiero così incarnato arriva fino alle viscere e si snoda, senza dualismo, fra passività e attività: mai immunizzato rispetto al mondo, da un lato si lascia ferire e modificare dalle realtà con cui entra in contatto, fossero anche le più piccole, e dall’altro, paradossalmente proprio attraverso quest’aderenza pensante, diviene attivo e crea uno squilibrio che scombina – ma anche polarizza in altro modo – la realtà, offrendo imprevedibilmente aperture e squarci dapprima impossibili. La filosofia di Maria Zambrano vuole dunque essere poetica, pensiero che vive «secondo la carne» e non si stacca né dalle cose né dall’origine, e materna in quanto disponibile a rinunciare alla dialettica e all’astrazione per mantenersi aderente al concreto, accogliente e generante. Sarà questa ratio a condurre Zambrano sui sentieri del sacro, oscura e viscerale matrice della vita. Da un lato, il sacro affascina perché può salvare, ma dall’altro terrorizza, perché può distruggere. Cercando di gestire quest’inquietante ambiguità, la filosofia ha oscillato tra un atteggiamento di rimozione e uno sforzo di nominazione che lo rendesse divino, cioè in qualche modo avvicinabile. Oggi, scrive Zambrano, l’Occidente non fa più questo lavoro di tessitura: gli uomini raccontano la loro storia, esaminano il loro presente e progettano il loro futuro senza tener conto di Dio o di qualunque forma di eccedenza. Tutt’al più, mantengono un pallido ricordo del Dio cristiano, ma solo del suo lato potente e creatore e mai di quello oblativo che l’ha portato a donarsi loro in pasto. Pensando di poter assumere tale potenza, essi hanno rinnegato la propria creaturalità, per rifare il mondo a loro misura. Tuttavia, smettendo di essere figli hanno soffocato la propria umanità e si sono votati ad un destino di distruzione, lasciando un’Europa violenta e agonizzante, che ha realizzato la democrazia solo a parole.
Maria Zambrano, allora, consegna all’Occidente un’eredità impegnativa: realizzare un mondo effettivamente democratico, dove ciascuno e ciascuna possa essere persona, unica realtà che davvero conti, perché solo nella persona «il futuro si fa strada». L’avvenire auspicabile dovrà essere una sinfonia, un’armonizzazione delle differenze che, per essere davvero incontrate e non malamente sopportate, domandano pietà, cioè «sapienza di trattare con il diverso, con ciò che è radicalmente altro da noi».
Quello che Maria Zambrano offre è allora una filosofia della speranza: il sapere delle cose della vita è stato per lei frutto di lunghi patimenti, ma fino alla fine è rimasta certa che tale sapere «può – anzi dovrebbe – sgorgare dall’allegria e dalla felicità».
Lucia Vantini-Docente di Filosofia della Conoscenza presso l’ISSR di Verona.Attualmente è dottoranda in Filosofia presso l’Università degli Studi di Verona e sta completando il primo ciclo di specializzazione in Teologia presso la Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale di Milano. Ha pubblicato Maria, in Diotima, L’ombra della madre, Napoli, Liguori 2007 e La luce della perla. Maria Zambrano tra filosofia e teologia, Torino, Effatà 2008.
Fonte-Società per l’enciclopedia delle donne APS, via degli Scipioni 6, 20129, MILANO-
. L’esegesi biblica tedesca e gli ebrei da Herder e Semler a Kittel e Bultmann, Paideia 2020
Transport Train to Auschwitz II Birkenau Concetration Camp. Railway wagon to transport people to the death camp. German Concentration Camp in Oswiecim, Poland.
L’Europa che permise l’aggressione all’universalismo ebraico
Articolo di Paolo Ribet
Anche le scienze bibliche e teologiche avallarono l’antisemitismo
Con una regolarità allarmante riemergono, in varie parti del mondo, casi più o meno violenti di antisemitismo. O forse sarebbe meglio dire: di antiebraismo, perché è contro gli ebrei che si manifesta l’odio o il rancore. É una storia che arriva da lontano, su cui le Chiese cristiane hanno responsabilità non da poco. Tanto più questa risorgenza si rivela un dato preoccupante, anche perché su questo tema ormai da parecchi anni le chiese sono intervenute riconoscendo i guasti causati nel passato. In questa linea, per tentare di comprendere nei giusti termini il rapporto fra il cristianesimo e l’ebraismo, si pone anche il ponderoso libro del professore svedese Anders Gerdmar*.Come indicato dal sottotitolo, il nostro autore ripercorre la teologia biblica protestante tedesca fra il 1750 e il 1950, per verificare se e come gli autori presi in considerazione abbiano condizionato l’atteggiamento della gente nei riguardi degli ebrei. Va ricordato che tra la metà del 700 e per tutto l’800, quando nasceva e si imponeva il sentimento nazionale di “germanità”, la posizione degli ebrei nella società e nella teologia tedesca diventava una problematica scottante. A ciò si aggiunga che è in questo stesso periodo che nascono l’idea di razza e di razzismo “scientifico”, così come lo concepiamo oggi.
Il nostro autore, con un lavoro estremamente puntuale, analizza a fondo l’opera di una quindicina di autori tedeschi che hanno segnato profondamente gli studi sia del Primo sia del Secondo Testamento nel corso di questi due secoli, per verificare come ognuno di essi si ponga nei confronti dell’ebraismo. Si nota che in tutti questi autori, in modo ora più ora meno marcato, affiora un giudizio pesantemente negativo nei confronti dell’ebraismo del tempo di Gesù. Essi affermano che, se al tempo dei profeti era presente una forte carica vitale, al tempo della nascita della chiesa cristiana il giudaismo rabbinico appariva sterile e pesantemente legalistico, tale per cui il messaggio cristiano si poneva in assoluta antitesi con quello ebraico.
Ma, e questo è a mio avviso l’aspetto più preoccupante, questo giudizio che potremmo definire storico o teologico, si riverbera anche nei giudizi espressi nei confronti dell’ebraismo contemporaneo. «Il giudaismo è una potenza mondiale e un corpo estraneo nella società, esclusivista […] gli ebrei stessi sarebbero la causa dell’odio razziale, poiché odiano tutti e sono odiati da tutti»: con simili termini si esprimeva Wilhelm Bousset all’inizio del ‘900 (p. 185). Per cui, anche laddove si invocava tolleranza nei confronti degli ebrei, con difficoltà si accettava una loro piena integrazione nella società tedesca.
L’esempio più eclatante è però dato dall’esegeta Gerhard Kittel (1888-1948), al quale Gerdmar dedica un centinaio di pagine. Figlio di un professore di Antico Testamento, Kittel era un professore quarantenne, già noto e apprezzato come uno dei più profondi conoscitori dell’ebraismo quando nel 1933 Hitler prese il potere. Egli si iscrisse al partito nazionalsocialista e, come molti protestanti del tempo, dimostrò subito di condividerne la filosofia e gli intenti. Scrisse anche un libretto sulla Questione ebraica ** che si attirò la risposta del filosofo ebreo Martin Buber. Ciò che colpisce in questo scritto è il fatto che di biblico non c’è praticamente nulla e il discorso teologico è marginale. Il pensiero centrale sta nell’idea del popolo, della razza e del sangue: «ora in mezzo a noi [tedeschi] è scaturito un nuovo movimento [il nazismo], pieno di vita, per il quale l’ideale non si chiama cosmopolitismo e cultura dell’umanità, bensì cultura legata al popolo e radicata nel popolo […] curandosi di ciò che è radicato e autentico, di ciò che è spuntato dal suolo patrio di terra e sangue».
È chiaro che in questo contesto non c’è spazio per la realtà universale dell’ebraismo e il popolo ebraico (perché si parla di popoli e non di persone singole) deve essere considerato un elemento estraneo e quindi marginalizzato. No dunque a qualsiasi forma di integrazione, no all’accesso ad alcune professioni come il magistrato o l’insegnante perché un tedesco non può essere giudicato o istruito da un estraneo. In pratica, la proposta di Kittel è che si ripristini per gli ebrei la condizione di “popolo forestiero”, con tutte le conseguenze che questo può portare. E se un ebreo si converte e diventa cristiano? Sia accolto come un fratello, dice Kittel, ma laddove possibile si costituiscano comunità apposite, con pastori anch’essi provenienti dall’ebraismo. Questo è il tono del suo pamphlet. Dopo la guerra, Kittel sarà sottoposto a restrizioni nel quadro del processo di denazificazione che vide coinvolti anche altri intellettuali. In una memoria redatta per difendersi, egli affermò che lo scopo del suo scritto era quello di proteggere gli ebrei dagli eccessi violenti delle campagne antisemite in atto nel suo Paese. Cosa che evidentemente non fu creduta.
Il prof. Gerdmar all’inizio della sua fatica afferma di voler verificare come la teologia e l’esegesi in particolare abbiano contribuito a determinare la condizione degli ebrei in Germania. Alla fine della lettura, ciò che colpisce in questi autori è il fatto che, più che condizionare, furono essi stessi condizionati dalle idee circolanti al loro tempo che assunsero, ahimè, con poco spirito critico. Come ebbe a riconoscere l’esegeta statunitense Ch. H. Charlesworth: «Noi studiosi siamo naturalmente esseri umani e non soltanto facciamo degli errori, ma siamo spesso inconsapevoli di quanto possiamo essere influenzati dallo spirito del nostro tempo». É esattamente ciò che è successo sul tema della “questione ebraica”.
* G. Anders, Bibbia e antisemitismo teologico. L’esegesi biblica tedesca e gli ebrei da Herder e Semler a Kittel e Bultmann, Paideia 2020, pp. 643 euro 79,00.
** I testi di questo dibattito sono stati tradotti in italiani a cura di G. Bonola in G. Kittel, M. Buber,
Anders Gerdmar- Bibbia e antisemitismo teologico.
L’esegesi biblica tedesca e gli ebrei da Herder e Semler a Kittel e Bultmann, Paideia 2020
DESCRIZIONE
Lo studio di Anders Gerdmar fa emergere in tutta la loro portata i diversi indirizzi di ricerca delle varie scuole e chiese tedesche, mostrando come in queste tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento l’antisemitismo teologico organizzato poté svilupparsi sulla base di tradizioni plurisecolari fino a costituire l’ambiente fertile in cui attecchirono visioni del mondo radicalmente antiebraiche. Fu in questo terreno ideologico che Adolf Hitler trovò il supporto e il favore delle chiese e della teologia tedesche. A tanto poté condurre l’applicazione di modelli che disgiungendo Gesù e il cristianesimo dall’ebraismo giustificano la dissociazione tra le religioni e la discriminazione etnica fino a propugnare il razzismo esplicito e il genocidio programmatico.
La traduzione dell’opera è stata realizzata grazie a un contributo del SEPS, segretariato europeo per le pubblicazioni scientifiche.
Indice testuale
Premessa
1. Introduzione. Alle radici dell’antisemitismo teologico
Parte prima
L’esegesi illuministica e gli ebrei
2. Introduzione
3. Gli ebrei nell’esegesi illuministica dal deismo a de Wette
4. Johann Salomo Semler: il cristianesimo degiudaizzato
5. Johann Gottfried Herder: la nozione di Volk e gli ebrei
6. Friedrich Daniel Ernst Schleiermacher: religione illuministica ed ebraismo
7. Wilhelm Martin Leberecht de Wette: il giudaismo come ebraismo degenerato
8. Gli ebrei nell’esegesi illuministica da Baur a Ritschl
9. Ferdinand Christian Baur: l’ebraismo come antipodo storico del cristianesimo
10. David Friedrich Strauss: continuità e discontinuità fra ebraismo e cristianesimo
11. Albrecht Ritschl: il Kulturprotestantismus e gli ebrei
12. La scuola di storia delle religioni e gli ebrei: svolta epocale?
Parte seconda
L’esegesi storico-salvifica e gli ebrei: da Tholuck a Schlatter
13. Introduzione
14. Friedrich August Tholuck: «la salvezza viene dai giudei»
15. Johann Tobias Beck: continuità organica tra giudaismo e cristianesimo
16. Franz Delitzsch, innovatore dell’ebraistica
17. Hermann Leberecht Strack: missione agli ebrei e loro difesa
18. Adolf Schlatter e l’ebraismo: erudizione sconfinata e opposizione irriducibile
Parte terza
La critica delle forme e gli ebrei
19. Introduzione
20. Karl Ludwig Schmidt: popolo eletto e «questione ebraica»
21. Martin Dibelius e gli ebrei: un atteggiamento ambivalente
22. Rudolf Bultmann, tra liberalismo e antiebraismo
Parte quarta
L’esegesi nazista e gli ebrei
23. Introduzione
24. Gerhard Kittel: la fondazione teologica dell’Unheil ebraico
25. Walter Grundmann: verso un Gesù non ebreo
26. Esegesi neotestamentaria, ebrei ed ebraismo
Appendice
Materiali d’archivio
Elenco delle sigle
Bibliografia
Indice analitico
Indice dei passi neotestamentari
Indice dei nomi
Indice del volume
Biografia dell’autoreAnders Gerdmar è presidente della Scandinavian School of Theology di Uppsala (Svezia) e professore associato di Esegesi Neotestamentaria all’Università di Uppsala. Noto per un importante studio sul giudaismo in età ellenistica è autore di numerosi saggi sulla storia dell’esegesi biblica sotto il nazismo e dopo Auschwitz.
RIETI-Presentato il libro “Il resto è silenzio” di Chiara Ingrao.
L’autrice è stata ospite del Seminario dialogante sulla Costituzione promosso dalle associazioni NOME Officina Politica, il Sorriso di Filippo e Raggi di Speranza.
Rieti- 3 marzo 2023-Un libro che ritorna, perché ritorna la guerra, ciclicamente, nella storia degli uomini e delle donne. Un libro ispirato alle vicende di un’altra tragica guerra europea, quella nei Balcani, pubblicato nel 2007 e che oggi torna in libreria, mentre infuria un’altra guerra in Europa.”Il resto è silenzio” è il titolo di questo romanzo di Chiara Ingrao, che cita una celebre battuta dell’Amleto. Ieri l’autrice è stata ospite protagonista nell’ambito del Seminario dialogante sulla Costituzione promosso dalle associazioni NOME Officina Politica, il Sorriso di Filippo e Raggi di Speranza.
Rispondendo alle domande della giornalista Paola Rita Nives Cuzzocrea e colloquiando con il numeroso pubblico, Chiara Ingrao ci ha fornito la sua chiave di lettura sulla guerra, una lettura personale e arricchita dalle esperienze che la stessa autrice ha vissuto nell’ambito delle iniziative solidali verso popoli colpiti dai conflitti. «Ho sempre sentito, in questo mio vissuto, la difficoltà che abbiamo di misurarci con il dolore delle vittime. La tragedia della guerra è troppo grande. La mente rifugge di fronte all’orrore. Tentiamo di idealizzare, di categorizzare, di semplificare, di mantenere un distacco», ha detto la scrittrice. «Ed è invece solo la relazione con l’altro, vera e profonda, che può consentirci di rispecchiarci nella nostra comune umanità. Le vittime sono persone come noi. Ma spesso il linguaggio alza muri, anche le parole e la comunicazione della solidarietà, paradossalmente, lo fanno quando collocano il bisognoso di aiuto (sia esso profugo, migrante, richiedente asilo) in una condizione di subalternità e dipendenza da chi quell’aiuto può offrire». L’intervista ha consentito, da queste premesse, di ragionare intorno alle lacerazioni delle comunità che soffrono le guerre: «I conflitti non sono tra i popoli, ma tra i potenti», ha sottolineato Chiara Ingrao. La guerra dissipa e annienta la ricchezza sociale che nasce dalla contaminazione, dalla mescolanza, dal multiculturalismo. Pone quelli che prima erano fratelli su fronti opposti, pronti a uccidersi.
Il romanzo narra di tre coppie di sorelle, a Roma, a Sarajevo, e nella Tebe del Mito, in bilico fra quotidianità e tragedia, dolore e speranza. La nuova edizione è integrata da nuovi contenuti, fra cui una postfazione di Raffaella Chiodo Karpinsky sui nessi fra la guerra di oggi e quella di allora. In copertina, la foto di una ragazza che corre, nelle strade di Sarajevo, per sfuggire alle bombe. Una immagine colta dal vivo, dal fotografo Mario Boccia, cui il libro è dedicato, che quella guerra documentò e che ebbe la ventura, anni dopo, di ritrovare ancora in vita alcuni soggetti dei suoi scatti come, appunto, la donna ritratta nella foto “La ragazza che corre”. Chiara Ingrao racconta il momento di quell’incontro: al fotografo la donna disse solo «per fortuna, sono sopravvissuta». Una frase che, per l’appunto, lascia tutto il resto, tutte le sofferenze e tutto l’orrore, nel silenzio.
il libro “Il resto è silenzio” di Chiara Ingrao.
Chiara Ingrao
DESCRIZIONE
La guerra. La guerra che dopo il 24 febbraio 2022 pare rimbombare ovunque, nelle televisioni e sui giornali e sui social, e qualche mese dopo invece scompare, inghiottita dall’assuefazione e menzionata quasi solo come minaccia alle nostre bollette del gas. La guerra in Europa, che potrebbe farsi totale e travolgerci tutti ma rimane lo stesso guerra degli altri, come tutte le altre in ogni parte del mondo: non sono mai nostre, le carni che morde e la sofferenza di chi fugge. Anche se ci sfidano nel profondo dell’anima, come racconta Raffaella Chiodo Karpinsky nella Postfazione a questo volume. La guerra. Cosa succede, quando una degli «altri» scappa, e ce la troviamo accanto ogni giorno? Trent’anni fa, sfidando i commenti sarcastici di sua sorella, Sara ha ospitato in casa Musnida, fuggita da una guerra ai nostri confini. Anche Musnida, come Sara, aveva una sorella ingombrante: un’eroina, uccisa mentre tentava di recuperare il corpo di un fratello nemico. L’Antigone di Sarajevo, come nell’antico mito tebano i cui echi risuonano sulle pagine con la voce dolente di Ismene, la sorella opaca. Nell’alternarsi di banalità quotidiane e tragedia, fra queste tre coppie di sorelle (a Roma, a Sarajevo e a Tebe) rimbalzano come in un gioco di specchi gli interrogativi dell’oggi: i conflitti, le barriere che frantumano la verità e la vita, la paura dell’Altro che fa da scudo alla paura di ascoltare noi stessi.
FARFA-Nutrito da autentica umiltà, il 𝗕𝗲𝗮𝘁𝗼 𝗣𝗹𝗮𝗰𝗶𝗱𝗼 𝗥𝗶𝗰𝗰𝗮𝗿𝗱𝗶 ha incarnato il profondo spirito cristiano che mai si è arreso alle spine generatrici di un dolore fisico divenuto prova della sua indissolubile fede.
Una figura emblematica di cui la nostra Biblioteca conserva scritti interessanti che possono gettare luce non solo sulla vita del Beato ma anche sulla realtà benedettina dell’Abbazia di Farfa, dedicata alla 𝗠𝗮𝗱𝗼𝗻𝗻𝗮.
“In uno degli ultimi giorni d’agosto 1895, Don Placido lasciava Roma, dopo cinque giorni dal suo addio ad Amelia e prendeva la via per la Sabina. Doveva raggiungere la celebre Badia di Farfa, destinatovi da quel Rev.mo – allora residente in Roma – Abate, Don Giuseppe Cristofori, per sostituire un disgraziato prete secolare che, in mancanza di religiosi, vi era stato eletto cappellano, ed allora si era dovuto rimuovere per la sua vita scandalosa. Fara, Farfa e i castelli della Sabina avevano veduto il lupo, e qualche anima ne era stata sbranata. Abbisognava un santo. E Dio lo mandò” (𝗖𝗮𝗻𝗼𝗻𝗶𝗰𝗼 𝗣𝗶𝗲𝘁𝗿𝗼 𝗚𝗼𝗿𝗹𝗮, “𝗜𝗹 𝗦𝗲𝗿𝘃𝗼 𝗱𝗶 𝗗𝗶𝗼. 𝗗𝗼𝗻 𝗣𝗹𝗮𝗰𝗶𝗱𝗼 𝗥𝗶𝗰𝗰𝗮𝗿𝗱𝗶”, 𝗦𝗼𝗰𝗶𝗲𝘁𝗮̀ 𝗘𝗱𝗶𝘁𝗿𝗶𝗰𝗲 𝗜𝗻𝘁𝗲𝗿𝗻𝗮𝘇𝗶𝗼𝗻𝗮𝗹𝗲, 𝗧𝗼𝗿𝗶𝗻𝗼 𝟭𝟵𝟯𝟳, 𝗽. 𝟮𝟭𝟵).
“Il Beato Placido da qui trae ispirazione per la sua ferventissima devozione alla beata Vergine Maria da cui viene attratto e costantemente conquistato: egli instaura un rapporto filiale che darà una tipica configurazione alla sua spiritualità. A San Paolo come a Farfa il Riccardi richiama alla mente il ruolo della Beata Vergine Maria nel Cristo e nel mistero della Chiesa e parla con semplicità delle grandi cose che ha compiuto in Lei l’Onnipotente e come Ella è stata associata alla passione del Cristo e alla sua gloria” (𝗔𝗻𝘀𝗲𝗹𝗺𝗼 𝗟𝗶𝗽𝗮𝗿𝗶, 𝗜𝗹 𝗕𝗲𝗮𝘁𝗼 𝗣𝗹𝗮𝗰𝗶𝗱𝗶 𝗥𝗶𝗰𝗰𝗮𝗿𝗱𝗶 𝗠𝗼𝗻𝗮𝗰𝗼 𝗲 𝗽𝗿𝗼𝗳𝗲𝘁𝗮 𝗱𝗶 𝗗𝗶𝗼”, 𝗔𝗯𝗮𝗱𝗶𝗿, 𝗣𝗮𝗹𝗲𝗿𝗺𝗼 𝟮𝟬𝟬𝟴, 𝗽. 𝟱𝟰).
“Verso le ventidue si affievolì il rantolo dell’agonia, il respiro cominciò a farsi più leggero e meno frequente. Mi avvicinai pertanto al capezzale del morente, impartitagli giusta la promessa, l’assoluzione sacramentale, recitai le litanie della santa Vergine. Fu durante questa tenera preghiera alla Santissima Madre di Dio, quella di cui il Servo di Dio era stato il fedele custode nel di Lei santuario Farfense, che l’anima sua benedetta placidamente abbandonò il corpo e, accompagnata dalla Madonna, si presentò al Signore in cielo per ricevere la corona promessa” (𝗜𝗹𝗱𝗲𝗳𝗼𝗻𝘀𝗼 𝗦𝗰𝗵𝘂𝘀𝘁𝗲𝗿, “𝗣𝗿𝗼𝗳𝗶𝗹𝗼 𝘀𝘁𝗼𝗿𝗶𝗰𝗼 𝗱𝗲𝗹 𝗕. 𝗣𝗹𝗮𝗰𝗶𝗱𝗼 𝗥𝗶𝗰𝗰𝗮𝗿𝗱𝗶 𝗢.𝗦.𝗕.”, 𝗦.𝗧.𝗘.𝗠. 𝟭𝟵𝟱𝟰, 𝗽. 𝟭𝟮𝟱).
I suddetti testi possono essere consultati presso la Biblioteca Monumento Nazionale di Farfa:
𝗢𝗿𝗮𝗿𝗶𝗼 𝗱𝗶 𝗮𝗽𝗲𝗿𝘁𝘂𝗿𝗮 – dal lunedì al venerdì: mattina dalle 9:30 alle 12:30; pomeriggio dalle 15:30 alle 18.
Il testo del Lipari può essere anche acquistato presso l’Erboristeria del monastero.
Gruppo FAI Sabina- Giornate FAI d’autunno- due Conferenze su GIROLAMO TROPPA-
GIROLAMO TROPPA
Gruppo FAI Sabina-Quando verrete a trovarci, il 15 e 16 ottobre, sentirete molto parlare di Girolamo Troppa, il pittore seicentesco nativo di Rocchette. Uno dei punti forti della visita è la chiesa del SS. Salvatore, che qualche critico ha denominato la “Pinacoteca Troppa”, visto che tutte le pitture in essa contenute sono sue (firmate o attribuite).
I nostri narratori sono bravi e vi racconteranno del pittore rocchettano, della sua vita, dei suoi maestri e delle sue opere. Ma se volete saperne di più, le nostre Giornate d’Autunno sono anche l’occasione giusta per approfondire. Sia sabato che domenica infatti sono previste due conferenze molto interessanti, entrambe dedicate a Troppa, alle quali vi invitiamo caldamente a partecipare.
Nel pomeriggio di sabato alle 17 il professor Francesco Petrucci, Conservatore del Palazzo Chigi in Ariccia e direttore del Museo del Barocco, parlerà de “Il cavalier Girolamo Troppa nell’ambito del Barocco romano”.
Domenica alle 16 sarà la volta di Giuseppe Cassio e Monica Sabatini, rispettivamente storico dell’arte e restauratore della Soprintendenza Abap Roma-Met-Rieti. E il titolo della loro conferenza è “Girolamo Troppa, dalla ricerca alla valorizzazione”.
Gli incontri avranno luogo nella chiesa del SS. Salvatore e ad essi potranno accedere al massimo 40 persone. Le prenotazioni per le conferenze si effettueranno al nostro desk, dalla mattina del sabato. Chi volesse farlo in anticipo può scriverci sul nostro canale Messenger o inviare una mail a sabina@gruppofai.fondoambiente.it.
In coda, il link per prenotare la visita dei due borghi. Vi consigliamo caldamente di farlo il prima possibile. Alcuni orari sono già esauriti…https://fondoambiente.it/luoghi/rocchette?gfa
Testa di Lepre- 20 febbraio 2023-“Carnevale 2023 “Credo che oramai si possa dire che il Carnevale del Borgo di Testa di Lepre, assieme al Palio dei Fontanili, è un appuntamento radicato nel calendario degli eventi della Campagna Romana. Domenica pomeriggio abbiamo assistito ad una “imponente” sfilata dove le Contrade e i Gruppi mascherati si sono esibite in gare di bravura. Le sfide erano tra tecnica, creatività e scenografica, assieme all’impegno e all’aggregazione . Vorrei sottolineare che i carri avevano una componente realistica di scene che tengono presente anche la tecnica cinematografica . Come non evidenziare che in questa grande e colorata manifestazione, della durata di molte ore, i figuranti in maschera hanno animato i carri, trainati durante il tragitto dai pazienti e attenti “trattoristi” ai quali va il Grazie degli organizzatori . Il pubblico, stimato in varie migliaia di persone, ha decretato il successo di questa manifestazione che, nata nel 2018, ha oramai basi solidissime per le future edizioni. Un carnevale diverso, lontano dall’urbanizzazione selvaggia e dalle auto infestanti. Festa salutare nella Campagna Romana dove, parafrasando Pasolini, “Lo sguardo buca l’orizzonte”. La Protezione Civile di Castel di Guido, capitanata dal Presidente Attilio Zanini, ha garantito la sicurezza durante tutta la manifestazione. Le Contrade: BORGO, COLONNACCE, MALVICINA e PRATARONI hanno permesso il successo dell’evento .Il successo del Carnevale 2023 è frutto della regia e dell’organizzazione del Direttivo Pro Loco, del suo Presidente Anna Rita Rastelli e del Priore del Palio dei Fontanili Luigi Conti.
Articolo di Franco Leggeri
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Il Carnevale è una festa mobile e un periodo dell’anno cattolico/cristiano[1] che precede il tempo liturgico della Quaresima e prevede celebrazioni pubbliche a febbraio o all’inizio di marzo, includendo eventi come parate, giochi di strada e altri intrattenimenti, che combinano alcuni elementi di un circo.[2][3][4][5]Costumi e maschere consentono alle persone di mettere da parte la loro individualità quotidiana e sperimentare un accresciuto senso di unità sociale. I partecipanti spesso indulgono nel consumo eccessivo di alcol, carne e altri cibi che saranno messi da parte durante la prossima Quaresima. Questo festival è noto per essere un momento di grande indulgenza prima della Quaresima con il bere, l’eccesso di cibo e varie altre attività di indulgenza. Ad esempio, frittelle, zeppole, ciambelle e altri dolci vengono preparati e mangiati per l’ultima volta. Durante la Quaresima si mangiano meno prodotti animali e gli individui hanno la possibilità di fare un sacrificio quaresimale, rinunciando così a un certo oggetto o attività del desiderio.[6][7]
Altre caratteristiche comuni del Carnevale includono battaglie simulate con i coriandoli, espressioni di satira sociale, costumi grotteschi, e un generale capovolgimento delle regole e delle norme quotidiane. La tradizione italiana di indossare maschere risale al Carnevale di Venezia nel XV secolo e per secoli è stata un’ispirazione per la commedia dell’arte.
Storia
Etimologia
Secondo la più accreditata interpretazione la parola ‘carnevale’ deriverebbe dal latinocarnem levare (“eliminare la carne”),[8][9] poiché indicava il banchetto che si teneva l’ultimo giorno di Carnevale (martedì grasso), subito prima del periodo di astinenza e digiuno della Quaresima[10][11][12][13]. In alternativa si è ipotizzato che il termine possa invece aver tratto origine dall’espressione latina carne levamen (avente l’analogo significato di “eliminazione della carne”), oppure dalla parola carnualia (“giochi campagnoli”) o ancora dalla locuzione carrus navalis (“nave su ruote”, quale esempio di carro carnevalesco)[14] se non addirittura da currus navalis (“corteo navale”), usanza di origine pagana e occasionalmente sopravvissuta fino al XVIII secolo tra i festeggiamenti del periodo[15]. Le prime testimonianze dell’uso del vocabolo “carnevale” (detto anche “carnevalo”) vengono dai testi del giullareMatazone da Caligano alla fine del XIII secolo e del novelliere Giovanni Sercambi verso il 1400.[16]
I festeggiamenti maggiori avvengono il giovedì grasso[senza fonte] e il martedì grasso, ossia l’ultimo giovedì e l’ultimo martedì prima dell’inizio della Quaresima. In particolare il martedì grasso è il giorno di chiusura dei festeggiamenti carnevaleschi, dato che la Quaresima nel rito romano inizia con il Mercoledì delle ceneri.
Origine
I caratteri della celebrazione del carnevale hanno origini in festività molto antiche, come per esempio le Dionisie greche e i Saturnali romani, durante le quali si realizzava un temporaneo scioglimento dagli obblighi sociali e dalle gerarchie per lasciar posto al rovesciamento dell’ordine, allo scherzo e anche alla dissolutezza. Da un punto di vista storico e religioso il carnevale rappresentò, dunque, un periodo di festa ma soprattutto di rinnovamento simbolico, durante il quale il caos sostituiva l’ordine costituito, che però una volta esaurito il periodo festivo, riemergeva nuovo o rinnovato e garantito per un ciclo valido fino all’inizio del carnevale seguente.[17] Il ciclo preso in considerazione è, in pratica, quello dell’anno solare. Nel mondo antico romano la festa in onore della dea egizia Iside, importata anche nell’Impero romano, comporta la presenza di gruppi mascherati, come attesta lo scrittore Lucio Apuleio nelle Metamorfosi (libro XI). Presso i Romani la fine del vecchio anno era rappresentata da un uomo coperto di pelli di capra, portato in processione, colpito con bacchette e chiamato Mamurio Veturio[18].
Durante le antesterie passava il carro di colui che doveva restaurare il cosmo dopo il ritorno al caos primordiale.[19] In Babilonia poco dopo l’equinozio primaverile veniva riattualizzato il processo originario di fondazione del cosmo, descritto miticamente dalla lotta del dio salvatore Marduk con il drago Tiamat che si concludeva con la vittoria del primo. Durante queste cerimonie si svolgeva una processione nella quale erano allegoricamente rappresentate le forze del caos che contrastavano la ri-creazione dell’universo, cioè il mito della morte e risurrezione di Marduk, il salvatore.
Nel corteo c’era anche una nave a ruote su cui il dio Luna e il dio Sole percorrevano la grande via della festa – simbolo della parte superiore dello Zodiaco – verso il santuario di Babilonia, simbolo della terra. Questo periodo, che si sarebbe concluso con il rinnovamento del cosmo, veniva vissuto con una libertà sfrenata e un capovolgimento dell’ordine sociale e morale. Il noto storico delle religioni Mircea Eliade scrive nel saggio Il Mito dell’Eterno Ritorno: “Ogni Nuovo Anno è una ripresa del tempo al suo inizio, cioè una ripetizione della cosmogonia. I combattimenti rituali fra due gruppi di figuranti, la[20] presenza dei morti, i saturnali e le orge, sono elementi che denotano che alla fine dell’anno e nell’attesa del Nuovo Anno si ripetono i momenti mitici del passaggio dal Caos alla Cosmogonia”[21].
Più oltre Eliade afferma che “allora i morti potranno ritornare, poiché tutte le barriere tra morti e vivi sono rotte (il caos primordiale non è riattualizzato?) e ritorneranno giacché in questo momento paradossale il tempo sarà annullato ed essi potranno di nuovo essere contemporanei dei vivi”.[22] Le cerimonie carnevalesche, diffuse presso i popoli indoeuropei, mesopotamici, nonché di altre civiltà, hanno perciò anche una valenza purificatoria e dimostrano il “bisogno profondo di rigenerarsi periodicamente abolendo il tempo trascorso e riattualizzando la cosmogonia”.[23]
Eliade scrive che “l’orgia è anch’essa una regressione nell’oscuro, una restaurazione del caos primordiale; in quanto tale, precede ogni creazione, ogni manifestazione di forme organizzate”.[24] L’autore aggiunge poi che “sul livello cosmologico l’orgia corrisponde al Caos o alla pienezza finale; nella prospettiva temporale, l’orgia corrisponde al Grande Tempo, all’istante eterno, alla non – durata. La presenza dell’orgia nei cerimoniali che segnano divisioni periodiche del tempo tradisce una volontà di abolizione integrale del passato mediante l’abolizione della Creazione.
La confusione delle forme è illustrata dallo sconvolgimento delle condizioni sociali (nei Saturnali lo schiavo è promosso padrone, il padrone serve gli schiavi; in Mesopotamia si deponeva e si umiliava il re, ecc.), dalla sospensione di tutte le norme, ecc. Lo scatenarsi della licenza, la violazione di tutti i divieti, la coincidenza di tutti i contrari, ad altro non mirano che alla dissoluzione del mondo – la comunità è l’immagine del mondo – e alla restaurazione dell’illud tempus primordiale (“quel tempo”, il Grande Tempo mitico e a – storico delle origini; N.d.A.), che è evidentemente il momento mitico del principio (caos) e della fine (diluvio universale o ekpyrosis, apocalisse). Il significato cosmologico dell’orgia carnascialesca di fine d’anno è confermato dal fatto che al Caos segue sempre una nuova creazione del Cosmo“[25].
Il carnevale si inquadra quindi in un ciclico dinamismo di significato mitico: è la circolazione degli spiriti tra cielo, terra e inferi. Il Carnevale riconduce a una dimensionemetafisica che riguarda l’uomo e il suo destino. In primavera, quando la terra comincia a manifestare la propria energia, il Carnevale segna un passaggio aperto tra gli inferi e la terra abitata dai vivi (anche Arlecchino ha una chiara origine infera). Le anime, per non diventare pericolose, devono essere onorate e per questo si prestano loro dei corpi provvisori: essi sono le maschere che hanno quindi spesso un significatoapotropaico, in quanto chi le indossa assume le caratteristiche dell’essere “soprannaturale” rappresentato.
Oinochoe raffigurante la sfilata di un gufo armato durante la celebrazione delle Antesterie (410–390 a.C.).
Queste forze soprannaturali creano un nuovo regno della fecondità della Terra e giungono a fraternizzare allegramente tra i viventi. “Le maschere che incarnano gli antenati, le anime dei morti che visitano cerimonialmente i vivi (Giappone, mondo germanico, ecc.), sono anche il segno che le frontiere sono state annientate e sostituite in seguito alla confusione di tutte le modalità. In questo intervallo paradossale fra due tempi (= fra due Cosmi), diventa possibile la comunicazione tra vivi e morti, cioè fra forme realizzate e il preformale, il larvale”.[26] Il carattere infernale e diabolico delle maschere è riconoscibile in particolare in certe maschere come il già citato Arlecchino (maschera policroma e fiammante vestito a losanghe policrome), Pulcinella (volto metà bianco e metà nero e camice bianco), Zanni (tunica e calzoni bicolori). Tra le maschere regionali italiane che maggiormente testimoniano l’origine infero-demoniaca ci sono i mamuthones e gli issohadores in Sardegna.[27] Alla fine il tempo e l’ordine del cosmo, sconvolti nella tradizione carnevalesca, vengono ricostituiti (nuova Creazione) con un rituale di carattere purificatorio[28] comprendente un “processo“, una “condanna“, la lettura di un “testamento” e un “funerale” del carnevale[29] il quale spesso comporta il bruciamento del “Re carnevale” rappresentato da un fantoccio (altre volte l’immagine – simbolo del carnevale è annegata o decapitata). Tale cerimonia avviene in molte località italiane, europee ed extraeuropee (sulla morte rituale del carnevale si veda anche Il ramo d’oro di James George Frazer[30]). Il processo e la messa a morte del Carnevale, sul quale si addossano tutti i mali della comunità, è la parodia di un vero e proprio processo con imputato, avvocato difensore, pubblico ministero ed altri personaggi. Il Carnevale fa testamento, ma altre volte il testamento viene fatto da un suo equivalente.[31]
“La ripetizione simbolica della cosmogonia, che segue all’annientamento simbolico del mondo vecchio, rigenera il tempo nella sua totalità”[32].[33]
Più prosaica l’analisi dell’antropologo sociale James C. Scott, che individua nel carnevale una parentesi volta a ribadire chi detiene in fondo il potere nel resto dell’anno, a guisa di panem et circenses.[34]
Nel XV e XVI secolo, a Firenze i Medici organizzavano grandi mascherate su carri chiamate “trionfi” e accompagnate da canti carnascialeschi, cioè canzoni a ballo di cui anche Lorenzo il Magnifico fu autore. Celebre è Il trionfo di Bacco e Arianna scritto proprio dal Magnifico. Nella Roma del regno pontificio si svolgevano invece la corsa dei barberi (cavalli da corsa) e la “gara dei moccoletti” accesi che i partecipanti cercavano di spegnersi reciprocamente.[35]
L’antica tradizione del carnevale si è mantenuto anche dopo l’avvento del Cristianesimo: anche a Roma stessa, capitale del Cristianesimo, la maggiore festa pubblica tradizionale è stata il Carnevale Romano fino alla sua soppressione negli anni successivi all’Unità d’Italia. In alcune aree centro-europee è maggiormente legato ad aree di tradizione cattolica rispetto a quelle protestanti, come nel caso della regione storica tedesca del Baden, divenuta parte del Land del Baden-Württemberg fin dopo l’avvento della Repubblica di Weimar.
Data
L’inizio del periodo carnevalesco è tradizionalmente fissato il giorno successivo alla domenica del Battesimo del Signore[senza fonte]. Finisce il martedì precedente il mercoledì delle ceneri che segna l’inizio della quaresima, con l’eccezione del carnevale ambrosiano (che termina nel giorno di sabato, in quanto la Quaresima comincia dalla prima domenica) e della tradizione della Tabernella nell’arcidiocesi di Lucca (prima domenica di Quaresima). Il momento culminante si ha dal giovedì grasso fino al martedì, ultimo giorno di carnevale (Martedì grasso). Questo periodo, essendo collegato con la Pasqua (festa mobile), non ha ricorrenza annuale fissa ma variabile. In realtà la Pasqua cattolica può cadere dal 22 marzo al 25 aprile (calcolo della Pasqua) e intercorrono 46 giorni tra il Mercoledì delle ceneri e Pasqua. Ne deriva che in anni non bisestili martedì grasso cade dal 3 febbraio al 9 marzo. Per questo motivo i principali eventi si concentrano in genere tra i mesi di febbraio e marzo.
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ingarbuiate d’erba sgrendenà,
se quacia el campo di concentramento: tuto a torno na mura de cemento
e na corona rùsena de spine:
davanti, sul portòn de piombo e fero na gran parola impiturà de nero LAGER
E drento, su do file, blochi sgionfi
de slorda de fetori e de pioci.
In meso a le do file un largo spiasso,
in fondo de traverso, longo, basso, schissà par tera, el bloco dele cele
e, drio, la tore dele sentinele
pronte col mitra par spassar el campo.” Egidio Meneghetti, matr. 10568
EPITAFFIO PER UNA GIOVANE EBREA
Ela no l’è che du gran oci in sogno e quatro pori osseti
sconti da pele fiapa.
Ebreeta, cos’èlo che te speti
e ci vedeli mai quei oci grandi? forsi to mama? Forsi ti moroso? opura i buteleti
che mai te g’avarè?
Ebreeta, te vo’ morir de fame
e nela fame t’è desmentegado
quela note e sto mondo strangossado da tormenti e bisogni.
Te si scapà nel mondo dei to sogni: la fame ghe volea,
piccola ebrea,
per darte un poca de felicità. Ormai fora da l’onda
dei dolori,
lontàn te miri,
piàn piànin te mori
e caressa legera
de soriso
te consola la boca moribonda. Po’ te chini la facia
verso tera
sempre più,
sempre
più.
Stanote s’è smorsada l’ebreeta come ‘na candeleta
de seriola
consumà.
Stanote Missa e Oto ià butà
nela cassa
du grandi oci in sogno e quatro pori osseti sconti da pele fiapa.
E adesso nela cassa
ciodi i pianta
a colpi de martèl
e de bastiema
(drento ale cele tuti i cori trema
e i ciodi va a piantarse nel servèl).
Traduzione
Non è che due grandi occhi sognanti e quattro poveri ossicini nascosti da pelle floscia. Piccola ebrea, cos’è che aspetti? cosa vedono mai quegli occhi grandi? forse la mamma? forse il moroso? oppure i bimbi che non avrai? Piccola ebrea, vuoi morir di fame e nella fame hai scordato quella notte e questo mondo angosciato da tormenti e bisogni. Sei fuggita nel mondo dei tuoi sogni: ci voleva la fame, piccola ebrea, per darti un poco di felicità.
Ormai fuori dall’onda dei dolori, guardi da lontano, muori impercettibilmente e una carezza leggera di sorriso ti consola la bocca moribonda. Poi chini il viso verso terra, sempre più, sempre più. Stanotte s’è spenta la piccola ebrea, come una candelina di cera consumata. Stanotte Misha e Otto hanno gettato nella cassa due grandi occhi sognanti e quattro poveri ossicini nascosti da pelle floscia.
E adesso nella cassa piantano chiodi a colpi di martello e di bestemmia (dentro le celle ogni cuore trema e i chiodi si piantano nel cervello.
Professor Egidio Meneghetti
PER LA PICCOLA EBREA
Quel giorno che l’è entrada nela cela l’era morbida, bela
e parl’ amòr matura.
Ma nela facia, piena
de paura,
sbate du oci carghi de’n dolor
che’l se sprofonda in sècoli de pena.
I l’à butada
sora l’ tavolasso
i l’à lassada ‘
Sola, qualche giorno,
fin tanto che ‘na sera
Missa e Oto
i s’à inciavado nela cela nera
e i gh’e restà par una note intiera.
Te dala cela vièn par ore e ore
straco un lamento de butìn che more. Da quela note no l’à più parlà,
da quela note no l’à più magnà.
L’è la, cuciada in tera, muta, chiete, nel scuro dela cela
che la speta
de morir.
Traduzione
Quel giorno che entrò in cella era morbida, bella e per l’amore matura. Ma nel viso, pieno di paura, sbatte due occhi carichi di un dolore che si sprofonda in secoli di pena. L’hanno gettata sopra il tavolaccio, l’hanno lasciata sola, qualche giorno, finché una sera Misha e Otto si sono chiusi a chiave nella cella nera e ci sono rimasti una notte intera. E dalla cella viene per ore e ore un lamento stanco di bimbo morente. Da quella notte non ha più parlato, da quella notte non ha più mangiato. È là, accucciata in terra, muta, quieta, nel buio della cella che aspetta di morire.
Professor Egidio Meneghetti
Biografia di Egidio Meneghetti (Verona,14 novembre 1892 – Padova, 4 marzo 1961). Farmacologo di fama, antifascista, di tendenza socialista, fece parte dei gruppi clandestini di Giustizia e Libertà nel Veneto. Fondatore del CLN regionale col comunista Concetto Marchesi, membro di spicco dell’esecutivo militare regionale. Nel gennaio ’45 fu arrestato dalla banda Carità, pesantemente interrogato, ma non parlò. Quindi fu consegnato alle SS che lo portarono a Bolzano per poi avviarlo ai Lager della Germania. L’interruzione della linea del Brennero impedì il compimento di questo disegno. Meneghetti fu liberato al momento della liquidazione del campo, tra la fine di aprile e i primi di maggio del 1945. Medaglia d’argento al valor militare.
Nel 1932, infine divenne direttore dell’istituto di farmacologia all’Università di Padova, dove rimase fino alla morte.
Il 16 dicembre 1943 perse la moglie e la figlia (Maria e Lina), morte nel bombardamento aereo della città di Padova. Entrambe si erano rifiutate di sfollare, nonostante il pericolo, per continuare ad aiutare Egidio nel lavoro segreto che aveva intrapreso. Fra le altre cose, proprio la sera precedente avevano distribuito manifesti clandestini a Padova nel quartiere Arcella. A loro dedicò il libro Scritti clandestini.
Fu rettore dell’Università di Padova nel periodo 1945 – 1947. Autore di oltre 100 pubblicazioni scientifiche, diede contributi fondamentali nel settore dei chemioterapici. A lui è dedicata la biblioteca di medicina presso gli Istituti Biologici dell’Università di Verona.
Il 7 gennaio 1945 fu arrestato[1] assieme a Attilio Casilli, Giovanni Ponti, Angiolo Tursi, Luigi Martignoni e a don Giovanni Apolloni dai fascisti della Banda Carità, torturato e consegnato alla SS che lo portarono prigioniero dapprima a Verona presso il loro quartier generale e sede della Gestapo, in Corso Porta Nuova (presso l’ex Palazzo di I.N.A. Assicurazioni) e successivamente a Bolzano per l’invio ai lager di eliminazione in Germania.
Contemporaneamente erano presenti nelle celle di Verona altri partigiani fra cui il Prof. Ferruccio Parri, la signora Lidia Martini, il maggiore inglese Mc Donald e un giovane friulano studente di medicina presso l’Università di Bologna Ettore Savonitto, che diventò suo compagno di cella, fino alla loro liberazione avvenuta il 30 aprile 1945 presso il Campo di concentramento di Bolzano dove erano entrambi stati trasferiti. A causa dell’interruzione delle linee ferroviarie, pesantemente e frequentemente bombardate nel 1945, fu loro fortunosamente risparmiato il trasferimento verso i campi di sterminio tedeschi e polacchi.
A Ettore Savonitto ed altri due compagni di cella (il tipografo Mario e il fornaio Massimo) è dedicato il libro Lager-Bortolo e l’ebreeta, che descrive in dialetto veronese le brutalità del campo e del suo aguzzino Michael Seifert detto Misha e soprannominato “il boia di Bolzano”, successivamente arrestato dopo moltissimi anni di latitanza in Canada, da dove fu estradato nel 2008 per morire in detenzione al termine del 2010.
ANTONELLO CAPORALE-il Libro “Acqua da tutte le parti”
Viaggio in 102 paesi e città dell’Italia che fiorisce o sparisce-L’Italia è lunga e stretta. Se sei sull’Aurelia e scendi verso sud, il mare ti accompagna a destra; se invece guidi lungo l’Adriatico, l’acqua occhieggia da sinistra. Ma per guardare l’Italia bisogna dare quasi sempre le spalle al mare e rivolgersi verso l’interno. Per tre anni, ogni giorno ho riversato nel taccuino le tracce di ogni viaggio, dettagli anche minuscoli. Il bottino che stipavo era tutto ciò che non aveva possibilità di comparire sul mio giornale, una montagna di informazioni minute, secondarie, accessorie, o di storie che lasciavo ai margini delle inchieste nell’attesa che, dopo tanta semina, un giorno potessero germogliare e insieme costituire l’anima di un altro racconto, di un nuovo viaggio.
Così è nato questo resoconto sull’eternità di certi luoghi e certi paesaggi italiani dove il passato non finisce mai e il futuro stenta ad arrivare. Ci sono paesi che si raggiungono solo a piedi, come Topolò al confine con la Slovenia, e paesi senza tempo dove si fabbricano orologi, come Uscio in Liguria; paesi dove la terra finisce, come Depressa nel Salento, e paesi abitati da capre, come Craco in Lucania. Soprattutto, ci siamo noi italiani in questo libro: una sequenza di carità e di imbrogli, di anime morte e di anime belle, di volti sorridenti e di predoni da strada. Una volta messi in fila non si sa se abbracciarli tutti oppure darsi alla fuga il più rapidamente possibile.
Acqua da tutte le parti. Viaggio in 102 paesi e città dell’Italia che fiorisce o sparisce
Ponte alle Grazie – 2016
Collana: Saggi
ANTONELLO CAPORALE
Chi è ANTONELLO CAPORALE
È un paese di quasi quattromila abitanti, in provincia di Salerno. Si chiama Palomonte. Sono nato lì nel 1961, quasi al confine tra la Campania e la Basilicata, nell’area più povera (Manlio Rossi Doria la definiva l’osso, contrapponendola a quella ricca, la polpa) del Sud. Avevo diciannove anni quando ho assistito e vissuto una delle più grandi tragedie nazionali: il terremoto del 23 novembre 1980 che sconvolse campagne e villaggi della Campania e della Basilicata. Quell’esperienza, la distruzione e la morte, poi la ricostruzione e lo spreco che ne seguì (agli italiani la vicenda è nota come Irpiniagate), hanno segnato i miei primi passi da adulto. A Repubblica ho messo infatti piedi la prima volta, era il 1985, come cittadino denunciante!
Mi sono laureato in Giurisprudenza a Salerno nel 1985 (tesi sui limiti e le incongruenze della legislazione d’emergenza per le aree terremotate), poi a Roma ho conseguito il master Luiss in giornalismo e comunicazioni di massa. Stage a Repubblica nel settembre del 1988 e assunzione a giugno del 1989.
Dal primo giorno mi hanno sistemato nella redazione politica. Col tempo mi è venuta voglia di raccontare la politica attraverso i dettagli, le minutaglie del Palazzo. Penso che a volte il dettaglio illumini meglio la scena principale. Mi piace osservare la scena di lato; mi intriga conoscere le seconde e le terze file; mi incuriosisce la vita di queste persone: vite disperate, a volte (troppe volte) di gran fetentoni.
Da questo mio desiderio sono nate, sempre su Repubblica le interviste senza rete (raccolte in un volume dal titolo: La Ciurma, Incontri straordinari sul barcone della politica). Il breviario, pillole quotidiane di vita politica, è il titolo della rubrica che firmo sul giornale. Ma il Palazzo stanca. Raccontare il nostro Paese significa per me, innamorato dei dettagli, andare e scoprire un po’ la larga e lunga provincia italiana.
Anche per saziare questa incalzante passione nel settembre del 2012 sono approdato al Fatto Quotidiano dove racconto, in un continuo saliscendi tra il bello (poco) e il brutto (troppo), come gli italiani amano, custodiscono o sfasciano l’Italia.
DEA SABINA- COSA E’ IL CARNEVALE ?Sull’origine del nome ci sono varie ipotesi: alcuni sostengono che derivi da “carni levamen” ( sollievo alla carne), ossia libertà di mangiare liberamente la carne; altri ritengono che derivi da “carnes levare” (togliere le carni) o da “carni vale!” (carne addio), che ricordano le orge gastronomiche effettuate prima dell’arrivo della primavera. Pertanto il Carnevale è sinonimo di sregolatezza, soprattutto alimentare, ed è vissuto come “valvola di sfogo” degli istinti repressi per il resto dell’anno, che altrimenti potrebbero causare danni seri sia all’individuo che alla collettività se rimanessero senza sfogo. Per questo motivo gli antichi romani coniarono il famoso detto “semel in anno licet insanire “ ( è lecito impazzire una volta l’anno).Secondo questa interpretazione, altri ritengono che il Carnevale sia una valvola di sfogo politico e di controllo sociale, che consente di incanalare le rivendicazioni sociali, soprattutto attraverso i riti della “inversione sociale”, nella quale i servi per un giorno diventano i padroni.
Carnevale
A livello temporale, il Carnevale inizia nel periodo dei Saturnali ( le feste pagane in onore di Saturno, il mitico Dio dell’Età dell’Oro in cui gli uomini vivevano in pace, senza guerre né conflitti sociali, e nell’abbondanza), che si tenevano anticamente nel mese di dicembre e che la Chiesa spostò lentamente in avanti, per non farli coincidere con il Natale. Comunque, ancora oggi, i festeggiamenti per la notte di S. Silvestro ricordano i Saturnali
In alcune Regioni, il Carnevale inizia subito dopo il Natale, come recita un proverbio bergamasco e bresciano “Dopo Natale è subito Carnevale”. In altre Regioni, inizia dopo l’Epifania o dopo la Candelora, che ricorre il 2 febbraio. La data che prevale è il 17 gennaio, festa di S. Antonio.
La durata del Carnevale dipende dalla Pasqua: termina infatti con l’inizio della Quaresima ( il periodo di 40 giorni che precede la Pasqua) con il giorno di “martedì grasso” (cosiddetto perché è l’ultimo giorno di sregolatezze alimentari), che questo anno ricorre il 16 febbraio ( il giorno dipende dal ciclo lunare).
Il Carnevale ricorre quindi nel periodo precedente la Primavera, che nel calendario dell’antica Roma (prima della riforma del Re Numa Pompilio che portò i mesi dell’anno da 10 a 12), segnava l’inizio del nuovo anno civile e liturgico e precisamente con la “luna nuova” del mese di marzo.
Appunto nell’antica Roma si svolgevano tra la fine di febbraio e l’inizio di marzo alcune feste di tipo carnascialesco, come l’Equiria, la corsa di cavalli con i cocchi, in onore del dio Marte, protettore di Roma , in quanto padre di Romolo e Remo, al quale era dedicato il primo mese dell’anno, Martius (marzo). Le corse dei cavalli si tenevano in origine nel Circo di Alessandro, nel Campo di Marte (detto anche, ancora oggi, Campo Marzio) o sul Celio ( in un luogo detto Campus Martialis) e continuarono fino in epoca barocca, senza più i cocchi, e si tenevano prima sul Campidoglio, poi al Testaccio e infine nella Via Lata (l’attuale Via del Corso, il cui nome ricorda appunto questa corsa), da Piazza del Popolo a Piazza Venezia. Con il passare del tempo, la corsa dei cavalli senza cavaliere (detti barberi), divenne il momento culminante del Carnevale.
Carnevale
Secondo altri studiosi, il termine Carnevale deriva da “car naval” (carro navale),cioè la simbolica nave con le ruote sulla quale il Dio Luna o il Dio Sole percorreva la strada della grande festa che nell’antica Babilonia si teneva per celebrare l’inizio del nuovo anno, all’Equinozio di Primavera. Anche questa festa, come i Saturnali romani, si svolgeva in una libertà sfrenata, una specie di “capovolgimento dell’ordine sociale e morale”, nel quale non comandano più né le autorità politiche né quelle religiose. Infatti, un’antica iscrizione babilonese afferma che “lo schiavo diventa padrone”. Così, nei giorni della festa primaverile regnava uno speciale Governatore, simile a quello che a Roma si chiamava Re dei Saturnali e che nel medioevo diventa il Re Carnevale. Nell’antica Roma era permesso durante i Saturnali il gioco di azzardo, in particolare con i dadi, altrimenti punito.
Carnevale
La presenza delle maschere deriva dalla credenza che durante il periodo del Carnevale i morti rinascano e si confondano con i vivi, con i quali si comportano da buffoni e da folli, prendendoli in giro, aggredendoli, spaventandoli.
I carri allegorici, oggi collegati all’attualità politico-sociale, derivano dall’antica usanza di gettare tra la folla, da un carro, degli alimenti, soprattutto dolci, a simboleggiare che in quel periodo nessuno doveva soffrire la fame e tutti dovevano godere di un certo benessere alimentare.
Il Carnevale finisce in genere con il rogo del fantoccio che rappresenta, secondo le tradizioni locali, il Re Carnevale o il diavolo e segna la fine del periodo delle feste carnascialesche ed il ritorno al rispetto delle usanze e delle regole quotidiane, imposte dalle autorità civili e religiose.
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