“Fa che il dio che dimora in te sia la guida di un vero uomo, maturo e rispettabile, di un cittadino, di un Romano, di un magistrato, fermo al suo posto, pronto a lasciare la vita come chi non aspetta che il segnale della ritirata, senza giuramento né testimoni, sereno nell’intimo e tale da non aver bisogno né d’aiuto esterno né della tranquillità che possono procurare gli altri.” ‒ Marco Aurelio, Pensieri III 5,2
Nel film “Il silenzio degli innocenti” il cannibale Hannibal Lecter, impersonato da uno strepitoso Anthony Hopkins, così si rivolge alla sua interlocutrice Sterling (Jodie Foster): “Leggi Marco Aurelio! Di ogni singola cosa chiedi cos’è in sé, qual è la sua natura!”.
L’imperatore filosofo indossa il “sagum” da viaggio e, pur vestendo abiti civili, pare nell’atto di celebrare una vittoria.
Dignitoso e regale, cavalca sul suo cavallo mentre col braccio destro teso trasmette grande serenità e consapevolezza del fatto suo. La calma serafica e la spiritualità del volto testimoniano che vanagloria ed alterigia furono sempre estranee alla sua persona.
La statua di Marco Aurelio, che nel 1538 Michelangelo decise di collocare nel bel mezzo della piazza del Campidoglio, a Roma, nel Medioevo era conosciuta come “Caballus Costantini”, perché a torto la si riteneva una raffigurazione del primo imperatore cristiano.
Soltanto grazie a questo provvidenziale scambio d’identità, il bronzo si salvò dalla fusione che invece fece altre vittime illustri fra le statue della classicità, tramandandoci così un capolavoro artistico d’ineguagliabile bellezza e grande valore storico che ora fa bella mostra di sé presso i Musei Capitolini.
Nato a Roma nel 121 e rimasto subito orfano di padre, Marco Aurelio fu cresciuto dal nonno paterno e dalla mamma, da cui ereditò il culto per la “pietas” religiosa, oltreché i modi frugali che avrebbero caratterizzato tutta la sua vita anche quando, diventato l’uomo più potente di quei tempi, ascoltava seduto come un normale discepolo le lezioni del sofista Aristide di Smirne, applaudendolo e chinando per rispetto il capo davanti a lui.
Fu il grande Adriano ad imporre al suo erede Antonino Pio di adottarlo come figlio, quando il ragazzo aveva diciassette anni. Questa scelta velocizzò la sua ascesa sociale e il conseguente “cursus honorum”, che in rapida successione gli guadagnò le cariche di “tribunus monetalis” e poi di “tribunus militum”.
Dopo la scomparsa di Adriano, Antonino Pio volle ulteriormente rinsaldare i vincoli parentali con lui dandogli in sposa sua figlia Faustina, dalla quale Marco Aurelio avrebbe avuto ben 13 figli, oltreché nominandolo console.
Diventato a sua volta imperatore nel 161, seppure in un primo tempo a fianco del fratello Lucio Vero, Marco Aurelio portò a compimento quella che fu definita “l’Età dell’oro” del II secolo,che vide l’Impero Romano toccare il suo apogeo non solo in termini di estensione territoriale, ma anche come centro di potenza, ricchezza e irradiazione culturale.
Certamente il suo principato non fu immune da guerre, carestie e rivolte ma, da monarca illuminato quale fu, Marco Aurelio si dimostrò in ogni circostanza rispettoso delle prerogative del Senato, che coinvolse in tutte le decisioni importanti.
Istituì l’anagrafe, riformò il processo penale ripulendolo da abusi e condanne non basate su prove certe, regolarizzò le vendite pubbliche punendo severamente malversazioni e ruberie, colpì l’usura e preferì spendere il denaro in opere di pubblica utilità, piuttosto che in feste e giochi gladiatori.
Il suo più grande lascito alla posterità è tuttavia costituito dai dodici libri di ricordi e meditazioni intime scritte in greco, in forma aforistica, e intitolate “Tà eis eautòn” (cioè: “A se stesso”), un’opera non destinata alla pubblicazione, ma all’uso personale, tutta improntata allo stoicismo classico di Epitetto e all’ammirazione per il pensiero di Seneca.
Ciò nonostante, i suoi “Pensieri” col passare dei secoli sono diventati un best seller amato da milioni di persone, lettura prediletta di presidenti e generali, fra i quali Napoleone che ne conservò sempre una copia sul suo comodino.
Il lettore, anche se nei panni di un curioso che va a ficcare il naso nel diario intimo di un’altra persona, afferra l’importanza attribuita da Marco Aurelio alla provvidenza divina, vista come forza ordinatrice dell’Universo.
E’ infatti con queste frasi che egli si rivolge al Cosmo: “Da te ogni cosa, in te ogni cosa, verso di te ogni cosa”, ma anche “Pensa continuamente che il Cosmo è come un unico essere vivente che racchiude in sé una sostanza e una sola anima”.
Dopo la morte, Marco Aurelio ammette dunque la possibilità che l’anima si ricongiunga con la ragione cosmica, concetto non poi così distante dal Dio dei Cristiani, da lui però perseguitati in ossequio alla fedeltà per la religione tradizionale dell’Impero.
Forse anche per questo motivo il pensiero di Marco Aurelio per tanti secoli cadde in un limbo fatto di oblio e ignoranza, dal quale sarebbe uscito nel 1559 con la prima edizione a stampa della sua opera, poi affermatasi in tutta la sua validità come metodo di ricerca interiore particolarmente adatta alla psiche dell’uomo contemporaneo.
Quando morì il 17 marzo del 180, certo non poteva immaginare che quei suoi pensieri tanto intimi e personali, a distanza di quasi due millenni dalla sua scomparsa, ancora tanta saggezza e consolazione avrebbero arrecato all’uomo contemporaneo.
Accompagna questo scritto la “Statua equestre di Marco Aurelio”, autore sconosciuto, 176 d.C., Musei Capitolini, Roma.
Enzo Traverso Dialettica dell’irrazionalismo – La Città Futura
Enzo Traverso: Dialettica dell’irrazionalismo. Lukács tra nazismo e stalinismo.
Editore-Ombre corte- Verona
Recensione di Renato CAPUTO
Il saggio di Traverso è la versione italiana dell’introduzione alla pubblicazione a Londra e New York, da parte della casa editrice Verso, de La distruzione della ragione di Lukács. L’obiettivo del saggio è di ricomprendere l’opera nel contesto storico in cui è nata e di interrogarne l’attualità alla luce del fatto che l’irrazionalismo da ideologia di estrema destra ha oggi successo anche a “sinistra”, in ideologie antiumaniste e antiuniversaliste. Traverso propone una rilettura critica di un grande autore marxista troppo spesso dimenticato. A conclusione del volume è posta la traduzione del saggio di Lukács: Grand Hotel “Abisso”, considerato un utile complemento a La distruzione della ragione.
, con l’importanza di studiare anche le opere di autori nazisti o ultrareazionari. L’intento dell’autore è di portare avanti una critica impietosa, in primo luogo, del socialismo reale. Per Traverso “rileggere La distruzione della ragione è quindi parte di una necessaria storicizzazione critica dello stalinismo” [1]. Al punto che Traverso definisce l’opera di Lukács “un’esplicita apologia filosofica dello stalinismo” (22).
Traverso mostra in seguito (cfr. pp. 27-31) che l’opera di Lukács conclude una interpretazione critica del nazismo come irrazionalismo, che si era sviluppata fra diversi dei principali intellettuali tedeschi nel mondo occidentale. Traverso ne conclude: “le discrepanze fra Lukács e Adorno, Arendt e Strauss, erano certamente molto significative, ma tutti si erano ritrovati nello stesso campo durante lo spartiacque storico della Seconda guerra mondiale, in un conflitto ideologico che, ben oltre due alleanze militari e politiche, opponeva due visioni del mondo: le forze dell’Illuminismo contro quelle dell’irrazionalismo, l’alleanza provvisoria fra il comunismo e la democrazia liberale contro il fascismo” (31). Anzi Traverso giunge alla conclusione che “il manicheismo de La distruzione della ragione rispecchia quello dei vincitori della seconda Guerra dei trent’anni” (37). Questa contestualizzazione delle tesi dell’opera di Lukács è decisamente in contraddizione con la sua precedente sostanziale liquidazione come “esplicita apologia filosofica dello stalinismo”.
Finalmente l’autore prova alla pagina 38 a dare conto dei suoi giudizi tranchant, almeno altrettanto manichei dell’opera che intende criticare. La tesi di Lukács parte dalla critica della cultura della Restaurazione, quale culla dell’irrazionalismo. Tale parabola si sviluppa con la reazione ideologica alla Comune di Parigi che porta all’aperto irrazionalismo di Nietzsche. I passaggi successivi sarebbero stati il vitalismo e l’esistenzialismo heideggeriano. Le critiche di Traverso sono rivolte alle forzature delle tesi di Lukács che, sostanzialmente metterebbe in evidenza esclusivamente gli aspetti negativi degli autori che intende criticare. Inoltre l’autore si dimostrerebbe dogmatico nella sua condanna della decadenza della cultura borghese, non includendo in tale critica la sua stessa opera giovanile premarxista. Si tratta di critiche finalmente determinate e sensate. D’altra parte, è evidente che se si vuole mostrare come la filosofia borghese da rivoluzionaria fino ai tempi di Hegel, diventi progressivamente controrivoluzionaria dopo la conquista del potere, è naturale che si dia conto dell’andamento complessivo del fenomeno, senza dare conto di tutte le secondarie controtendenze. Allo stesso modo, considerate le difficoltà incontrare da Lukács nel furore della guerra fredda all’interno delle suo stesso campo, per le sue posizioni critiche e antidogmatiche, diviene anche comprensibile la sua necessità di mostrarsi fedele alla linea condannando in blocco la filosofia borghese dell’epoca dell’imperialismo e cercasse, al contempo, di occultare le sue stesse colpe giovanili, per non essere alla mercé dei suoi dogmatici critici. D’altra parte la critica di dogmatismo potrebbe essere facilmente rigirata a Traverso che si dimostra inflessibile nel criticare Lukács – in quanto si sarebbe dimostrato servile nei confronti dello stalinismo, pur avendo rischiato la vita per le sue posizioni non allineate – e naturalmente non dice nulla del suo continuo autocensurarsi e del suo insistito accanimento, del tutto adialettico, contro il socialismo reale, dal momento che altrimenti non potrebbe certo continuare a insegnare nell’università della potenza imperialista più aggressiva del mondo.
Certo, sicuramente, Traverso ha ragione nel sostenere che la deriva ideologica che ha portato al nazismo è stata meno lineare di come è stata descritta da Lukács. Ancora più ragionevole è la constatazione che “nonostante i suoi limiti il libro di Lukács possiede tuttavia una forza critica incontestabile” (53).
L’accusa più significativa che Traverso rivolge a Lukács, sviluppando alcune critiche di Adorno, è di aver ridotto la “dialettica a teleologia e la storia intellettuale a una forma di causalità deterministica” (55). Inoltre Traverso sottolinea che “molti pensatori critici – compresi quelli marxisti – furono capaci di pensare con e attraverso i materiali altamente infiammabili forniti dalle critiche di Nietzsche, Heidegger e Schmitt alla modernità, all’universalismo, all’umanesimo, alla democrazia, alla razionalità” (57). Resta però una questione determinante, che Traverso non prende nemmeno in considerazione, cioè ha ragione o torto Lukács nel mostrare come evidentemente il pensiero filosofico borghese è mutato radicalmente nel momento in cui questa classe, da essere la classe universale nella rivoluzione contro il feudalesimo, ha conquistato una parte del potere scendendo a patti con l’aristocrazia. Così un pensiero ancora rivoluzionario nella dialettica hegeliana è divenuto già con il secondo Schelling e poi con Schopenhauer fino a Nietzsche e Heidegger una ideologia in larga parte conservatrice e reazionaria. Certo questa tesi generale, come tutte le generalizzazioni potrebbe essere criticata sostenendo che la realtà è sempre più complessa di ogni universalizzazione. In tal modo, però, si finirebbe per sostenere la tesi reazionaria postmoderna per cui bisognerebbe contrastare ogni universalizzazione.
Un’altra critica significativa, fra tante davvero poco generose, è che “è l’irrazionalismo nazista a rivelare la sua genealogia, la quale si spiega attraverso alcuni snodi storici decisivi – in primo luogo quello della Grande guerra – e non può essere dedotta teleologicamente dai suoi «precursori»” (62). Altro rilievo critico significativo lo si trova quando Traverso osserva: “l’irrazionalismo nazista andava al di là di una deviazione filosofica: era una sintesi di gestione e genocidio, di razionalità produttiva e realizzazioni socialmente irrazionali, di razionalità dei mezzi (l’amministrazione, il management e le procedure scientifiche) e irrazionalità degli obiettivi (il dominio della razza)” (65).
D’altra parte assolutamente inaccettabile e del tutto infondata è la conclusione che ne trae l’autore per cui “sia l’ontologia esistenziale di Heidegger che la teoria della razionalità strumentale di Weber potrebbero servire a svelare il retroterra dell’irrazionalismo nazista, più di quanto non faccia Lukács nel suo libro” (ibidem). Qui si arriva al paradosso di dare la propria preferenza persino a un autore che non ha mai rinnegato la sua adesione al nazismo, pur di dimostrarsi intransigenti nella critica del socialismo reale di cui, in qualche modo, Lukács sarebbe il più significativo rappresentante filosofico. Naturalmente, anche in tal caso, dimostrando di portare avanti lo stesso tipo di dogmatismo rimproverato a Lukács – che sarebbe colpevole di non essersi fatto uccidere per denunciare, quando era al potere, lo stalinismo – mentre nel caso di Traverso non si dice una parola sulle affinità fra l’imperialismo nazista e quello del paese per il quale lavora. Se dovessimo usare lo stesso metodo di adialettica intransigenza che rivolge nei suoi pesantissimi attacchi a Lukács e alla sua grandissima opera – un’opera che Travaglio mai sarà in grado, nemmeno lontanamente, di realizzare – dovremmo accusare questo saggio di essere, per usare la sua stessa terminologia, “una esplicita apologia filosofica” dell’imperialismo occidentale in generale e statunitense in particolare, in quanto per non rischiare di perdere il posto non lo mette mai in discussione.
Non pago dei suoi attacchi a qualsiasi vestigia di socialismo reale, Traverso giunge a sostenere “che Lukács guardava a Stalin nello stesso modo in cui Carl Schmitt guardava a Hitler” (70). Abbiamo un ennesimo parallelismo fra comunismo e nazismo, il quale è invece sempre contrapposto alle “democrazie liberali”. Non pago della sua professione di fedeltà ai più biechi luoghi comuni della propaganda ideologica statunitense fra i due speculari totalitarismi, Traverso arriva a sostenere: “modernizzare la Russia era un’ambizione razionale, ma realizzare questo obiettivo attraverso il ritorno allo schiavismo e al lavoro forzato fu una scelta intellettualmente irrazionale ed economicamente catastrofica. La «razionalità irrazionale» sovietica rovescia esattamente la «contro-razionalità» o, per dirla con Horkheimer e Marcuse, la «irrazionalità razionale» nazista” (71). Paradossalmente Traverso finisce per riprodurre, su scala decisamente allargata, le semplificazioni adialettiche che rimprovera a “La distruzione della ragione” di Lukács, improvvisando una sua versione de “La distruzione della ragione”, evidentemente necessaria a far carriera nel paese imperialista più aggressivo di sempre, ponendo di fatto sullo stesso piano stalinismo e nazismo, per occultare che il nazismo è in realtà una forma di imperialismo. Si arriva così a sostenere, con l’ennesima cattiva generalizzazione adialettica, che “il nazionalsocialismo e lo stalinismo erano due forme antinomiche di irrazionalismo, ma entrambi partecipavano alla stessa dialettica dell’Illuminismo, allo stesso processo di «autodistruzione della ragione»” (72). Naturalmente dopo aver rimproverato a Lukács di non tenere nel giusto conto le prese di posizione antifasciste di Croce e Jaspers, contrappone come modello positivo al filosofo ungherese pensatori come Adorno e Horkeimer, di cui non si mostrano mai i lati negativi, le contraddizioni, i compromessi con l’irrazionalismo e l’imperialismo.
È davvero imbarazzante che l’autore non colga l’attualità della critica di Lukács all’irrazionalismo, nella necessaria critica al postmodernismo quale ideologia dominante, almeno al di fuori dei paesi anglosassoni in cui prevale il neopositivismo. Quindi dal momento che l’ideologia dominante non può che essere l’ideologia della classe dominante, il postmodernismo è oggi espressione dell’imperialismo europeo. Traverso, naturalmente, non coglie affatto il profondo irrazionalismo dell’ala “sinistra” dell’imperialismo, che scambia per la “nuova sinistra”. Anzi auspica, credendo sostanzialmente superato Marx a causa della questione ambientale, il richiamarsi della sinistra a tematiche irrazionaliste, non comprendo minimamente gli aspetti reazionari di certo ambientalismo. Non comprende nemmeno i pericoli dovuti al fatto che larga parte della sedicente intellettualità di sinistra ha introiettato tanti aspetti dell’irrazionalismo. Del resto, abbandonando il marxismo, non si può che essere egemonizzati dall’ideologia dominante, alla quale lo stesso autore del libro per molti aspetti è decisamente subalterno.
In conclusione possiamo osservare che in lingua inglese almeno è uscita una riedizione de La distruzione della ragione a settanta anni dalla sua prima edizione. Il prezzo da pagare all’ideologia dominante è stato di farla precedere da una introduzione volta a scoraggiare la lettura dell’opera, presentandola come un relitto dello stalinismo, con il quale le democrazie occidentali si sarebbero dovute alleare per battere il nazismo, ma ormai del tutto superato. D’altra parte, ancora più catastrofica è la situazione italiana, in cui si pubblica soltanto l’introduzione volta a scoraggiare la lettura dell’opera – necessaria, però, alla sua ripubblicazione nei paesi anglosassoni – mentre nel nostro paese ci si è guardati bene dal ripubblicarla. Al suo posto, per spacciare come un libro la traduzione italiana di un introduzione scritta in inglese da un italiano, si pubblica un breve saggio di Lukács, intitolato Grand hotel “abisso”. Il suo senso è completamente travisato in senso rovescista dall’autore dell’introduzione che lo spaccia come una critica ai comunisti, complici dell’avvento al potere del fascismo, per aver sviluppato la concezione del social-fascismo. Al contrario l’opera è stata scritta contro quei pensatori borghesi “di sinistra” che, come Adorno e l’autore dell’introduzione – un epigono del francofortese – dinanzi ai pericoli per la stessa sopravvivenza del genere umano provocati dall’imperialismo, invece di contrastare quest’ultimo, si ingegnano a fare le pulci a grandi filosofi del passato che si sono battuti contro l’imperialismo del loro tempo.
Naturalmente queste critiche impietose a uno dei più importanti filosofi marxisti e comunisti, accompagnata a una altrettanto liquidatoria e postmoderna disamina del socialismo reale, sono proprie di intellettuali che, esattamente come gli intellettuali borghesi della Repubblica di Weimar, non fanno assolutamente nulla nemmeno per denunciare i rischi posti per la sopravvivenza del genere umano da parte della più aggressiva potenza imperialista del mondo, per la quale lavorano pur non essendo statunitensi. Più o meno è come leggere un autore italiano andato a lavorare in una università della Germania hitleriana che, non solo non denuncia il più pericoloso imperialismo del tempo, ma passa il tempo a gettare fango sulle forze politiche e intellettuali che lo sconfiggeranno, sebbene siano le uniche in grado di farlo.
Note:
[1] Traverso, Enzo, Dialettica dell’irrazionalismo. Lukács tra nazismo e stalinismo, Ombre corte, Verona 2022. D’ora in avanti citeremo questo libro direttamente nel testo indicando fra parentesi tonde il numero di pagina di questa edizione.
FONTE-Ass. La Città Futura – Via dei Lucani 11, Roma | Direttore Resp. Adriana Bernardeschi
Liliana Picciotto:”L’ALBA CI COLSE COME UN TRADIMENTO”.
Gli Ebrei nel Campo di Fossoli
Campo di Fossoli
–Fossoli, frazione di Carpi in provincia di Modena, fu lo scenario “inconsapevole” fu una delle pagine più cupe della nostra storia: qui fu attivo, tra il dicembre 1943 e i primi giorni dell’agosto 1944, un campo di concentramento in cui vennero reclusi 2844 ebrei arrestati in tutta l’Italia centro-settentrionale sotto l’occupazione nazista. In quel periodo nel nostro Paese giunse al culmine l’offensiva fascista contro gli ebrei che, iniziata con le leggi razziali del 1938, conobbe una brutale accelerazione con la Repubblica sociale di Mussolini. I governati italiani scelsero infatti di adeguare la propria politica antiebraica a quella dell’alleato-occupante, che aveva già messo in atto autonomamente una serie di retate in diverse città nell’autunno del 1943. Il 30 novembre emanarono dunque un provvedimento che prescriveva l’arresto degli ebrei, cui sarebbe stato confiscato ogni bene, e il loro trasferimento in un unico luogo, individuato nel complesso di Fossoli, in precedenza utilizzato come campo per prigionieri di guerra e destinato anche ad altri internati, come detenuti politici. Le autorità di Salò e quelle del Terzo Reich definirono una sorta di divisione dei compiti; gli italiani si occuparono dell’arresto e dell’internamento degli ebrei; i tedeschi, che dal marzo 1944 assunsero anche formalmente il comando del campo di concentramento, ne organizzarono la progressiva deportazione verso i lager in Germania e Polonia, attuata con modalità disumane. Liliana Picciotto, studiosa della persecuzione antiebraica, avvalendosi di un ricco apparato di documenti, in parte inediti, fa rivivere questa terribile vicenda attraverso le voci delle vittime, dei carnefici e degli “spettatori”. Alle testimonianza angosciate dei prigionieri fanno da contrappunto l’impassibilità burocratica dei funzionari italiani e l’indifferenza interessata dei fornitori di autobus e vettovagliamento, che non si fanno scrupoli nel concludere affari persino in occasione di quello che per la maggior parte dei deportati sarà il viaggio senza ritorno verso le camere a gas. L’alba ci colse come un tradimento, oltre a rendere un omaggio ai deportati di Fossoli, di cui si ricordano tutti i nomi e la sorte, mette in risalto una tragica verità: nella persecuzione degli ebrei italiani le autorità della Liliana Picciotto:”L’ALBA CI COLSE COME UN TRADIMENTO”.non ebbero il ruolo di riluttanti comprimari, ma quello di consapevoli e zelanti protagonisti.
La drammatica vicenda dei due immigrati e anarchici italiani Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti – assassinati sulla sedia elettrica nell’agosto del 1927 a Charlestown – ricostruita da Lorenzo Tibaldo con l’ausilio di fonti inedite che, anche alla luce delle ricerche recenti, contribuiscono a delineare il quadro storico dell’America di quegli anni, il processo-farsa, la personalità dei due amici e il significato della loro tragedia nella memoria collettiva.
La presente è la seconda edizione ampliata.
Lorenzo Tibaldo affronta la tragica storia dei due anarchici italiani Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti ripercorrendone gli aspetti chiave: la vita in Italia, l’approdo negli Stati Uniti, la formazione politica, l’adesione al movimento anarchico, l’impatto con l’America violenta dei primi decenni del Novecento, la macchinazione giudiziaria, la carcerazione, la mobilitazione internazionale, la posizione di Mussolini, il drammatico epilogo e il significato della loro vicenda nella memoria collettiva. Una ricostruzione – basata essenzialmente sulle lettere e gli scritti di Nick e Bart nonché su fonti di archivio – per un affresco storico, politico, giudiziario ed emotivo del dramma di due uomini determinati a difendere fino in fondo la propria innocenza e le proprie idee.
Indice testuale
Nicola e Bartolomeo di Giuliano Montaldo Nota per il lettore
Ringraziamenti
Premessa
Un plumbeo mattino d’autunno
2. Il paese di bengodi
3. Il lessico della libertà
4. Una scelta militante
5. America violenta
6. Il pericolo rosso
7. Una serata di maggio
8. Carissimo padre
9. Il processo di Dedham
10. Il mio Natale
11. Quei famosi proiettili
12. Sono un ribelle
13. La confessione di Madeiros
14. Sotto un cielo stellato
15. Viva l’anarchia!
16. La storia e la memoria
Bibliografia
Indice dei nomi
Indice dei luoghi
Biografia dell’autore
Lorenzo Tibaldo,
professore di lettere, filosofia e storia, e studioso del Novecento. Tra le sue pubblicazioni ricordiamo: La religione non è una fiaba (Kosmos, 1995), Leggere, scrivere e far di conto (Alzani, 1999), Una società giusta (Alzani, 2002), Democrazia e solidarietà (Centro Studi Piemontesi, 2003), Gli italiani (non) son tutti fatti così. Le speranze deluse nella storia d’Italia (Petite Plaisance, 2017), e per i tipi Claudiana: Il viandante della libertà. Jacopo lombardini (1892-1945) (2011), La Rosa Bianca. Giovani contro Hitler (2014), Willy Jervis (1901-1944). Una vita per la libertà (2015) e (con Philip V. Cannistraro) Mussolini e il caso Sacco-Vanzetti (2017).
Vittorio Emanuele II-Rosa Vercellana, la bella Rosina.
Vittorio Emanuele II- Una vita da Galantuomo per la sua Rosina
Articolo dell’Ing. Andrea Natile
Subito dopo essere subentrato a suo padre Carlo Alberto, nel cingere la corona dei Savoia a seguito della disfatta di Novara e della fuga del genitore a Nizza e poi in Portogallo con falsi documenti, Vittorio Emanuele, dovette compiere il suo primo atto da Re.
Dopo la catastrofica sconfitta, la sera del 23 marzo 1849 Carlo Alberto ricevette l’elenco delle dure condizioni poste da Radetzky per un accordo di pace. Data la ruggine personale col maresciallo e ritenendo che l’austriaco avrebbe ridotto le richieste trattando col figlio Vittorio Emanuele II, nella notte abdicò in suo favore e lasciò il campo.
Dalla mattina al pomeriggio del 24 marzo 1949, a Vignale, si contrattarono le condizioni di resa; l’accordo venne siglato il 26 a Borgomanero. La prima guerra di indipendenza Italiana era finita in gran disastro.
Negli incontri con il maresciallo, Vittorio Emanuele prometteva di sciogliere i corpi volontari dell’esercito e cedeva agli austriaci la fortezza di Alessandria e il controllo dei territori compresi tra il Po, la Sesia e il Ticino, oltre a rifondere i danni di guerra con l’astronomica cifra di 75 milioni di franchi francesi.
Gli accordi dell’armistizio che, in ossequio all’articolo 5 dello Statuto Albertino, dovevano essere ratificati dalla Camera, per l’Atto di Pace, non furono approvati.
Un bell’inizio da Re, no c’è che dire.
Vittorio Emanuele II-
Ma Vittorio Emanuele non sospese il Parlamento, non abrogò lo Statuto Albertino e fece indire nuove elezioni.
Era stato l’unico dei Re d’Europa dopo la restaurazione seguita ai moti del ’48, soffocati nel sangue, a mantenere uno Statuto liberale; per questo molti lo chiamarono il Re Galantuomo, altri lo pensarono solo opportunista e continuarono a chiamarlo galante uomo.
Di fisico possente, diverso da quello degli altri Savoia, era nato nel 1820, Raccontano che fosse stato scambiato col vero figlio di Carlo Alberto, morto nella culla a seguito di un incendio del palazzo dove la coppia reale viveva a Firenze. Le male lingue dicono che fosse figlio d’un macellaio, guarda caso, diventato ricco poco dopo.
Fatto sta, che pareva venire dalla strada, per le attitudini, più incline a tirar di sciabola che a intingere la penna. Nonostante il fior fiore di precettori che il padre gli aveva imposto e gli orari da caserma dedicati alla sua educazione, non imparò mai a scrivere una lettera senza lasciarci dentro qualche errorino di sintassi.
Amava il biliardo e l’arte della caccia, e non solo quella al fagiano; prediligeva le donne semplici, sui prati e nei fienili, ma non disdegnava di esser galante sui divani di broccato. Finchè si innamorò sinceramente di una figlia del popolo, Rosa Vercellana, la bella Rosina.
Le scappatelle certo non gli mancarono. Si dice che in giro per il regno avesse seminato un numero imprecisato di figlioli, ma era da lei che correva a rifugiarsi quando non ne poteva più di lavoro, di corte e d’etichetta.
Le aveva fatto costruire a due passi dalla Venaria Reale, nella tenuta della Mandria gli Appartamenti Reali di Borgo Castello, che usava ufficialmente per la caccia e per poterle fare visita. Li le regalò il titolo di Contessa di Mirafiori e Fontanafredda ed è lì che ebbero Vittoria ed Emanuele.
Dopo aver assolto i suoi doveri di sovrano sposando come di dovere una Signora di stirpe reale, Maria Adelaide D’Austria, da cui ebbe quattro figli, alla morte di lei non volle più riaccasarsi, nonostante il chiacchiericcio sulla sua condotta sentimentale, ormai la sua Rosa la mostrava a tutti, alla luce del giorno.
A niente valsero i consigli del gran segretario di stato, il Camillo Benso, che lo spronavano ad accettare.
La bella Rosina invece, la sposò per ben due volte, nel 1869 la prima.
Nel 1865 Firenze era divenuta capitale del regno sabaudo, e lei lo aveva seguito, stabilendosi nella villa Medicea La Petraia.
A causa di una brutta polmonite, mentre si trovava nella tenuta di caccia a San Rossore, il Re stava per morire e lei non l’abbandonò un solo istante. Si sposarono con contratto morganatico, ovvero lei rinunciava al diritto di successione e all’eredità.
Il secondo matrimonio fu a Roma, con rito civile, il 7 ottobre 1877.
Il 20 settembre 1870 il generale Cadorna aveva aperto una breccia a Porta Pia, e Vittorio Emanuele si era trasferito al Quirinale che non era più il palazzo dei Papi ma del Re dell’Italia tutta. A Roma per la sua Rosina aveva ribattezzato la splendida villa Ludovisi villa Mirafiori.
La sera del 5 gennaio 1878 gennaio, una forte febbre, sembra malarica, forse contratta nelle lunghe ore passate a caccia nelle paludi laziali, lo costrinse a letto.
Prima di morire, chiese di restare solo con i principi Umberto e Margherita, ma all’ultimo fece introdurre anche Emanuele, il figlio avuto dalla Bela Rosin, che per la prima volta si trovò di fronte al fratellastro Umberto, che non aveva mai voluto incontrarlo.
Assistito dai figli, ma non dall’unico amore vero della sua vita, a cui era stato impedito di recarsi al capezzale, moriva il Re Galantuomo.
La sua esistenza finiva a soli 58 anni, dopo quasi 29 anni di regno.
Articolo di Roberto Cenati – Presidente Anpi Provinciale di Milano
Nella notte tra il 9 e il 10 novembre 1938 i nazisti scatenarono violenti pogrom antisemiti in tutta la Germania, nell’annessa Austria e nella regione dei Sudeti della Cecoslovacchia, da poco occupata dalle truppe tedesche. I membri delle SA e della Gioventù hitleriana distrussero 267 sinagoghe e ne devastarono numerosissime. Molte sinagoghe bruciarono tutta la notte sotto lo sguardo della gente e dei vigili del fuoco, che avevano ricevuto disposizioni di intervenire solo per evitare che gli incendi si estendessero ai palazzi vicini. I membri delle SA e della Gioventù hitleriana frantumarono le vetrine di circa 7500 negozi che appartenevano a ebrei e ne saccheggiarono i magazzini. In molte regioni, i cimiteri ebraici furono presi di mira e profanati. I pogrom furono particolarmente feroci a Berlino e a Vienna, sedi delle due maggiori comunità ebraiche del Reich. Squadre di uomini delle SA vagavano per le strade, attaccando gli ebrei nelle loro case, obbligando quelli che incontravano a umiliarsi pubblicamente. Tra il 9 e 10 novembre, la Notte dei Cristalli (deve il suo nome alle schegge dei vetri frantumati che tappezzavano le strade tedesche all’indomani del pogrom e che provenivano dalle finestre delle sinagoghe, dalle case e dalle vetrine dei negozi saccheggiati e distrutti) costò la vita a centinaia di ebrei. I documenti dell’epoca indicano un elevato numero di stupri e di suicidi a seguito delle violenze.
Mentre dilagava il pogrom, le unità delle SS e della Gestapo arrestarono 30.000 ebrei e ne trasferirono la maggior parte dalle prigioni locali nei lager nazisti di Dachau, Buchenwald, Sachsenhausen. Nelle settimane successive il governo tedesco promulgò dozzine di leggi volte a privare gli ebrei delle loro proprietà e dei mezzi di sostentamento. Molte di queste leggi imponevano la cessione di imprese e proprietà di ebrei a proprietari “ariani”, normalmente per una frazione del loro valore reale. Successivi provvedimenti esclusero gli ebrei, che già non erano ammessi nel settore pubblico, dalla pratica di molte professioni in campo privato. La legislazione fece un passo ulteriore allontanando gli ebrei dalla vita pubblica. I provveditori agli studi espulsero i bambini ebrei che ancora frequentavano le scuole. Gli ebrei tedeschi persero il diritto di avere la patente o di possedere un’automobile. La legge limitò l’uso dei mezzi pubblici. Gli ebrei non potevano più entrare nei teatri, nei cinema o nelle sale da concerto “tedesche”.
Foto 10 novembre 1938 Berlino
Articolo di Roberto Cenati – Presidente Anpi Provinciale di Milano
L’inizio di questa canzone appartiene alla memoria collettiva di questo paese.
Il brano fu scritto e composto nel 1962 da Fabrizio De André, con l’arrangiamento musicale di Gian Piero Reverberi. La storia di Marinella fu pubblicata la prima volta all’interno del disco Valzer per un amore / La canzone di Marinella nel 1964.
L’inizio della canzone ha sempre interessato le persone che si avvicinavano alla musica di Fabrizio, poiché l’inserimento delle parole «è la storia vera» lascia aperta la possibilità che i fatti scritti e cantati possano essere realmente accaduti.
«La Canzone di Marinella non è nata per caso, semplicemente perché volevo raccontare una favola d’amore. E’ tutto il contrario», le parole di Fabrizio si riferiscono ad un’intervista rilasciata a Luciano Lanza nel marzo del 1993.
Lo stesso De André ritornò sulla canzone di Marinella in un’altra intervista, rilasciata a Vincenzo Mollica nel 1997: «Il brano è nato da una specie di romanzo familiare applicato ad una ragazza che a 16 anni si era trovata a fare la prostituta ed era stata scaraventata nel Tanaro o nella Bormida da un delinquente. Un fatto di cronaca nera che avevo letto a quindici anni su un giornale di provincia. La storia di quella ragazza mi aveva talmente emozionato che ho cercato di reinventarle una vita e di addolcirle la morte.»
Il mistero fu svelato dallo stesso cantautore.
La canzone si basava su fatti realmente accaduti.
Gli interrogativi si dissolsero completamente?
In tutti tranne nella testa di una persona, uno psicologo di Asti, che nel 2012 diede alle stampe un libro all’interno del quale svelava la vera storia di Marinella.
Il medico si chiama Roberto Argenta e il libro “La storia di Marinella, quella vera”.
Argenta conversando con una paziente, ricordando un’intervista televisiva in cui De André raccontava dell’essersi ispirato ad un episodio di cronaca locale mentre si trovava ad Asti, si pose nuovamente l’interrogativo su chi fosse quella Marinella che « era stata scaraventata nel Tanaro o nella Bormida da un delinquente.» La prima domanda che mi sono posto è questa: perché Fabrizio si trovava ad Asti? De André nacque nel quartiere genovese di Pegli il 18 febbraio del 1940, da genitori piemontesi che si erano trasferiti in Liguria dopo la nascita del primogenito Mauro. Il padre, pur provenendo da una famiglia modesta, riuscì a far fortuna sino a diventare vicesindaco di Genova, presidente della società Eridania e promotore della Fiera del Mare di Genova. La famiglia d’origine della madre era benestante, con affari nel campo della viticoltura.
Fabrizio visse da sfollato nella campagna astigiana, esattamente a Revignano d’Asti, dove il padre aveva acquistato la Cascina dell’orto dopo i bombardamenti del 1941 che colpirono Genova. Il padre visse a Genova ancora qualche anno, sino al 1944, per poi raggiungere la famiglia nella campagna piemontese poiché era ricercato per aver coperto i suoi alunni ebrei.
Nell’immediato dopoguerra la famiglia De André fece ritorno a Genova, dove il giovane Fabrizio svolse tutto il percorso di studi.
La terra astigiana diede rifugio alla famiglia del futuro cantautore nel periodo della seconda guerra mondiale.
L’evento, sui Fabrizio s’ispirò per comporre la canzone, sarebbe apparso sul quotidiano la Nuova Stampa del 30 gennaio 1953 e si riferiva ad una donna di nome Maria, uccisa e ritrovata nel fiume Olona tra Rho e Milano. Il corpo fu rinvenuto crivellato di colpi d’arma da fuoco.
La donna si chiamava Maria Boccuzzi, ballerina e prostituta. I l caso, che non fu mai risolto, appassionò gli italiani e i giornalisti, apparendo per diverse settimane nelle pagine di cronaca nera di molti quotidiani dell’epoca.
Maria nacque a Radicena, attualmente Taurianova, in Calabria il giorno 8 d’ottobre del 1920.
L’estrazione sociale di Maria era molto diversa da quella di Fabrizio, poiché nacque in una famiglia molto povera che si dedicava all’agricoltura. Intorno ai 9 anni emigrò, con tutta la famiglia, a Milano in cerca di fortuna. Nel 1934 iniziò a lavorare – perché un tempo a 14 anni si lavorava se non si nasceva in una famiglia benestante – e sul posto di lavoro conobbe un ragazzo, Mario, di cui s’innamorò follemente. Il rapporto tra i due ragazzi non era visto di buon occhio dai genitori di lei, motivo scatenante della fuga dai giovani. La mancanza di denaro e l’impossibilità di chiedere aiuto alle famiglie influì negativamente sul rapporto, tanto che un anno dopo la fuga d’amore i due ragazzi divisero le proprie strade. La ragazza decise di iniziare una nuova attività, quella della ballerina, assumendo il nome d’arte di Mary Pirimpò. La ragazza divenne l’amante di un uomo, tale Luigi Citi, ed in seguito di un protettore, Carlo Soresi conosciuto con il soprannome di Carlone, che l’avviò alla prostituzione.
Iniziò l’attività a San Salvario, quartiere centrale di Torino, per poi spostarsi a Firenze ed infine a Milano.
La notte del 28 gennaio 1953, data in cui Fabrizio aveva 13 anni, fu uccisa a colpi di pistola e spinta nel fiume ancora agonizzante. La trovarono, verso l’ora di pranzo, tra le acque del fiume Olona, un gruppo di ragazzini che passavano il tempo giocando a pallone sul prato che correva sul fianco del fiume. Giunsero le forze dell’ordine, piccole domande, qualche perlustrazione, il corpo adagiato sull’automobile in direzione dell’obitorio. Il corpo rimase senza nome sino a quando una collega effettuò il riconoscimento.
Siamo di fronte ad una piccola incongruenza, poiché Fabrizio parlava del fiume Bormida o del Tanaro mentre Roberto Argenta, nella sua mirabile opera d’investigazione, colloca il ritrovamento del cadavere nel fiume Olona presso Milano. De André all’epoca dei fatti aveva 13 anni e scrisse la canzone quasi 10 anni dopo, motivo che potrebbe farci pensare ad una piccola dimenticanza in riferimento ad una notizia apparsa in un trafiletto della cronaca nera di un quotidiano del tempo. Ritengo molto interessanti le parole di Argenta, rilasciate al quotidiano La Stampa di Torino, apparse in un articolo datato 31 dicembre 2012: «la ricerca della vera storia di Marinella è stata di per sé un’esperienza bella e avvincente. E anche se le vicende che ho ricostruito non hanno avuto come ambientazione l’Astigiano, a me rimane il piacere di pensare che in fondo la vera storia di Marinella e la carriera di De André abbiano avuto inizio sulle sponde del Tanaro». Non potremo mai avere certezza che lo psicologo di Asti abbia ragione. Non esiste la controprova. Quello di Argenta rimane un bellissimo esempio di ricerca da parte di un non professionista del settore. La canzone di Marinella ha lasciato un profondo segno nell’immaginario collettivo italiano, che possiamo comprendere leggendo le parole di Don Luigi Ciotti: «una storia senza tempo, che parlava di persone senza storia. Marinella era una prostituta, il cui corpo era stato trovato massacrato sul greto di un torrente. Sembra storia di oggi, ma è purtroppo storia di sempre. Una tragedia anonima, capace di rubare dieci righe a un giornale di provincia, letta alla luce della cronaca. Vista in controluce, invece, diventa un dramma intenso, oltre la storia, a tracciare il percorso della radicata vicinanza tra amore e morte. Di un amore che non conosce scale gerarchiche, di una morte che sublima in dignità estrema del povero.»
Fabio Casalini
BIBLIOGRAFIA
Carlo Francesco Conti – Ecco come ho scovato la vera storia della Marinella di Fabrizio De André – La Stampa, 31 dicembre 2012
Roberto Argenta – Storia di Marinella, quella vera – collana Le nostre storie, Torino, Neos, 2012
Olga Merli – Un guanto di donna tra l’erba. Il mistero della morte di Mary Pirimpò – cronaca-nera.it, 7 giugno 2012
Eccidio di Boves, la prima strage nazista in Italia
Articolo di Fabio Casalini
Una volta avvenuto lo sbarco degli Alleati in Sicilia, verificatosi nelle prime ore del 10 luglio 1943, Mussolini viene arrestato ed il governo è assegnato al generale Pietro Badoglio, il quale firma l’armistizio con gli angloamericani rendendolo noto l’8 settembre 1943, lasciando però le forze militari italiane senza alcuna istruzione sul come comportarsi con i tedeschi e con gli alleati.
I soldati italiani sono allo sbando, ed i tedeschi ne approfittano per prendere possesso di tutti i territori italiani non ancora in mano agli alleati.
Nel paese di Boves, situato in provincia di Cuneo, si costituisce una delle prime formazioni partigiane italiane: un reparto di militari italiani, comandati dall’ufficiale Ignazio Vian, si rifugia sulle montagne e inizia un’azione di resistenza contro le truppe tedesche. La domenica 19 settembre un gruppo di partigiani, sceso in paese a far provviste, si imbatte in un’auto con a bordo due soldati tedeschi.
I resistenti catturano i militari conducendoli in montagna. I due facevano parte della divisione SS Leibstandarte “Adolf Hitler”.
Le SS, giunte da Cuneo, occupano Boves convocando il parroco e il commissario della prefettura. Non trovando quest’ultimo, il suo posto viene preso dal bovesano Antonio Vassallo. Ai due viene intimato di organizzare un’ambasceria presso i partigiani, chiedendo la restituzione degli ostaggi, pena la rappresaglia su Boves.
Il parroco chiede al comandante tedesco di scrivere su un pezzo di carta che avrebbe risparmiato il paese se l’ambasceria fosse andata a buon fine. Ma il comandante risponde che la parola di un tedesco valeva più di cento firme di italiani. Con un’auto e una bandiera bianca don Bernardi e Vassallo risalgono la valle fino a raggiungere il luogo divenuto base dei partigiani. Dopo una lunga trattativa i partigiani riconsegnano gli ostaggi con tutta l’attrezzatura e anche la loro auto. Al ritorno in paese del parroco e del commissario con i due ostaggi, le SS danno inizio all’eccidio.
A Boves è rimasto chi non era in grado di fuggire: anziani, invalidi, donne e bambini. Le SS incendiano il paese, circa 350 case, e uccidono 25 persone compresi il parroco don Bernardi e Vassallo i quali vengono bruciati vivi. Anche il vice-parroco, don Mario Ghibaudo di appena 23 anni, verrà ucciso mentre aiuta vecchi e bambini a fuggire.
Era il 19 settembre del 1943.
Non scordatelo mai.
Quello di Boves è stato uno dei primissimi episodi del sistema repressivo tedesco che prevedeva azioni contro la popolazione civile in risposta alle azioni partigiane e dei militari italiani.
Tra il 1943 ed il 1944 la città subì una seconda ondata di violenze quando l’esercito tedesco attuò dei rastrellamenti nella zona montana di Boves. Il paese, nelle proprie frazioni montane, viene di nuovo dato alle fiamme; i morti sono 59, tra civili e partigiani.
Le operazioni delle SS erano guidate da Joachim Peiper. Comandante che, una volta finita la guerra, due avvocati cercheranno di portare a processo, a Stoccarda, senza tuttavia riuscirci.
L’ufficiale, però, fu condannato a morte per crimini di guerra avendo giustiziato 80 prigionieri americani a Malmedy, in Belgio, durante l’offensiva delle Ardenne di fine 1944.
La sentenza, purtroppo, fu commutata in carcere a vita. Nel 1956, con l’amnistia, Peiper fu rilasciato. Si trasferì in Francia, nella cittadina di Traves, sotto il falso nome di Rainer Buschmann. Fu comunque riconosciuto e denunciato dai media finché il 13 luglio del 1976 la sua casa venne incendiata con bombe molotov, causando la morte di Peiper. I colpevoli non vennero mai identificati.
-trama di un film, forse, possibile -Trama -Cannavaccio-INDIANA JONES all’italiana.Autore Franco Leggeri
L’ Abbazia di Farfa è stata per secoli, nello stesso momento, luogo di santità e di potere, di preghiera e di comando e quindi era molto ricca , per avere un ordine di grandezza dell’oro che , presumo , avesse accumulato ed accumulava in continuazione bisogna partire dai primi documenti che si hanno a disposizione e cioè dalla fine del 700 d.C. nell’alto medioevo. L’Abbazia incassava qualcosa come 10 MANCOSO D’ORO (MANCOSO o Mancuso. – Il Monneret, dimostrata insussistente la derivazione di questa voce da signo manus cusus, identifica il soldo d’oro mancuso col dinar islamitico; in arabo la voce manqūsh significa “inciso, coniato”. Il soldo d’oro mancuso è ricordato nei documenti italiani dal sec. VII all’XI; era uguale al soldo bizantino e valeva 30 denari d’argento.)-
Comunque, stabilito in modo incontrovertibile che l’Abbazia era ricchissima, bisogna ora concentrarsi nel periodo dell’anno 916 d.C., prima del fatidico anno 1000. I Saraceni avevano invaso tutta la Sabina con un preciso obiettivo :”L’ORO DI FARFA”. Come nelle migliori storie di avventura per salvare il TESORO FARFENSE dai Saraceni fu caricato dai monaci farfensi su dei carri ed usci dall’Abbazia, sin qui le notizie certe, ma dopo il buio e la leggenda.
Mentre Archipando da Rieti combatteva sotto le mura di Trebula, odierna MONTELEONE SABINO, e , dopo aspra battaglia, sconfisse i Saraceni, bisogna anche ricordare le varie scaramucce avvenute in varie località della Sabina che ancor oggi hanno Topònomi risalenti all’epoca delle lotte contro i Saraceni come ad esempio nel Borgo di Santa Lucia di Fiamignano si trova il Muro Saraceno, oppure il Castello di Cane Morto, Orvinio, che deriva da KAM condottiero Saraceno che fu sconfitto da Carlo Magno ecc. esempio la località Comune di Saracinesco, oppure Forno Saraceno ecc. Ma ora cerchiamo di immaginare e ricostruire il tragitto possibile dei carri che trasportavano l’oro. Una delle ipotesi, molto affascinante , è quella che i carri, trainati dai muli, che trasportavano il tesoro abbiano percorso il fiume Riana diretti a Fossacesia Abbazia sita nelle Marche di proprietà di Farfa, ma per le enormi difficolta il Priore sembrerebbe che decise di nascondere il tesoro nei pressi delle Grotte Saracene di Poggio Nativo. Altra ipotesi interessante è che la carovana con il tesoro in realtà non trasportasse nulla, ma solo poche cose al fine di depistare i predatori saraceni. Una delle ipotesi più fantastiche è quella che vuole il tesoro, ricordiamolo molto consistente, nascosto sul monte Acuziano in una caverna il cui ingresso fu ostruito da massi e dalla vegetazione. Ancora oggi il Monte Acuziano viene descritto: come :” uno scrigno di tesori nascosti in bella vista”. Come nelle migliori storie di pirati voi crederete che qualcuno abbia disegnato una mappa e poi un frate lo abbia ucciso? No, ma una delle ipotesi più intriganti sembrerebbe quella che l’ingresso della caverna si possa stabilire con il punto di convergenza degli occhi dei leoni, statue, che sono installate sulla facciata dell’Abbazia. Bellissima come idea, ma a mio avviso è il classico scherzo da prete. Pero ci fu chi ha ritenuto valida questa ipotesi e quindi furono messi due fari sopra i leoni, la notte , i fasci di luce si incrocino sul Monte Acuziano “ scrigno di tesori nascosti “ma non fu trovatol ‘ingresso della caverna che custodisce il tesoro di Farfa. A Montelibretti i vecchi raccontavano che una parte di tale tesoro detto di Farfa , fosse stato nascosto e mai piu’ trovato presso un castrum locale detto Santa Maria Spiga , tra l’altro sembrerebbe che il tesoro composto da :”un gallo una gallina e tanti pulcini d’oro . . “ Alcuni raccontavano che il tesoro fu invece trovato dai briganti Geremia e Fontana .
Ma anche altre e affascinanti ipotesi sono parte della leggenda del Tesoro dell’Abbazia di Farfa. Per gli INDIANA JONES la Caccia al Tesoro dell’Abbazia è ufficialmente aperta.
Autore Franco Leggeri
P.S.- nota-I vecchi raccontavano che una parte di tale tesoro detto di Farfa , fosse stato nascosto e mai piu’ trovato presso un castrum locale detto Santa Maria Spiga , tra l’altro era composto da un gallo una gallina e tanti pulcini d’oro . . Alcuni raccontavano che il tesoro fu invece trovato dai briganti Geremia e Fontana .
ABBAZIA DI FARFAINDIANA JONESIL TESORO DELL’ABBAZIA DI FARFAIL TESORO DELL’ABBAZIA DI FARFA
La nave romana “LIBURNA”: Un capolavoro da salvare
Associazione CORNELIA ANTIQUA– Siete appassionati della Storia poco raccontata, quella da riscoprire e vi piace l’ Avventura ,oppure siete affascinati dalla bellezza della Campagna Romana ? Allora unisciti a noi. Ecco cosa facciamo: Produciamo Documentari e Fotoreportage, organizziamo viaggi ,escursioni domenicali e tantissime altre iniziative culturali. Tutti sono benvenuti nella nostra Associazione, non ha importanza l’età, noi vi aspettiamo !Per informazioni – e.mail.: cornelia.antiqua257@gmail.com– Cell-3930705272–
Articolo e foto di Tatiana CONCAS
FIUMICINO (Roma)- ISOLA SACRA–27 ottobre 2022-Oggi,noi dell’associazione Cornelia Antiqua, ci siamo recati nel quartiere Isola Sacra di Fiumicino per visitare il cantiere navale dove è in costruzione la “Liburna” e, finalmente, conoscere i Maestri d’ascia impegnati in questa Opera navale , unica al mondo.
La Liburna rappresenta una ricostruzione fedele, a grandezza naturale, di una veloce nave romana da guerra del primo secolo dopo Cristo, di cui attualmente non esistono resti archeologici rinvenuti (ad eccezione di alcuni rostri, armamenti, anfore, ecc.), in quanto solitamente, tali imbarcazioni affondano nel mare.
L’Opera è stata realizzata, esclusivamente, grazie alla passione e all’abilità della famiglia Carmosini (l’ultima famiglia di Maestri d’ascia del Lazio e della Toscana), assieme ai fedeli amici ed aiutanti, Mino Cuccuru e Giuseppe Barucca.
L’impresa ebbe inizio circa 24 anni fa, grazie al progetto del defunto maestro Francesco Carmosini (padre di Oscar), che sognava di realizzare questa grande ricostruzione della nave romana sin dalla sua giovane età.
I lavori, inizialmente intrapresi senza alcun aiuto economico, furono sovvenzionati alcuni anni fa, grazie ad un piccolo finanziamento dalla Provincia di Roma, ma, ahimè, purtroppo questo contributo non fu sufficiente per acquistare il materiale necessario per completare l’Opera.
La Liburna ,infatti, misura ben 35 metri di lunghezza, 9 di altezza e 12 di larghezza.
La Liburna è stata costruita studiando ed applicando, il più fedelmente possibile, la tecnica e i materiali che venivano utilizzati all’epoca (come i sistemi di incastro e l’ossatura dell’impalcatura) e, quindi, sarebbe perfettamente in grado anche di navigare.
La Liburna è un capolavoro studiato ed apprezzato da molti ricercatori ed Università italiane e straniere, essa costituisce un’importante testimonianza storica dell’antico sistema navale ,portuale – logistico della Roma imperiale.
Nonostante ciò, per mancanza di fondi, la Liburna è ancora incompleta ma, non essendo munita di un’apposita copertura, risulta esposta alle intemperie, che stanno, impietosamente, provocando il degrado del materiale impiegato il quale, per la maggior parte , è legno pregiato.
Proprio per tale motivo il Comitato Promotore SAIFO (Sistema Archeo-ambientale Integrato Fiumicino Ostia), insieme al suo portavoce, il consigliere Raffaele Megna, si stanno prodigando al fine di reperire le risorse necessarie per completare, tutelare e rendere fruibile quest’Opera a tutta la collettività.
A breve, infatti, prenderà il via un vasto crowdfunding (una grande raccolta fondi internazionale), che avrà come obiettivo, oltre alla conclusione dei lavori, anche la musealizzazione dell’Opera.
La Liburna , ad Opera ultimata, era destinata al “Museo delle Navi”, nei pressi dell’Aeroporto Internazionale “Leonardo da Vinci” di Fiumicino, ma ,per questioni logistiche ed economiche, è stato sviluppato un nuovo progetto di esposizione e valorizzazione della nave romana.
A breve sarà firmata la concessione dell’area e del giardino pubblico limitrofo (ora in stato di abbandono) che verrà lasciata in gestione a SAIFO (Sistema Archeo-ambientale Integrato Fiumicino Ostia) da parte della Regione Lazio.
Questo nuovo progetto prevede di lasciare la Liburna, posizionandola meglio, all’interno dell’area “cantiere” in cui attualmente si trova e proteggendola con una copertura idonea .
Con questa Idea-Progetto sarà possibile creare un Museo proprio a ridosso delle case popolari e la presenza della Liburna costituirà un importante “Polo Culturale” per il Quartiere Isola Sacra di Fiumicino.
Articolo e foto di Tatiana CONCAS-Associazione CORNELIA ANTIQUA
Tatiana CONCAS-Associazione CORNELIA ANTIQUAnave romana “LIBURNA”nave romana “LIBURNA”nave romana “LIBURNA”nave romana “LIBURNA”nave romana “LIBURNA”nave romana “LIBURNA”Associazione CORNELIA ANTIQUA- Siete appassionati della Storia poco raccontata, quella da riscoprire e vi piace l’ Avventura ,oppure siete affascinati dalla bellezza della Campagna Romana ? Allora unisciti a noi. Ecco cosa facciamo: Produciamo Documentari e Fotoreportage, organizziamo viaggi ,escursioni domenicali e tantissime altre iniziative culturali. Tutti sono benvenuti nella nostra Associazione, non ha importanza l’età, noi vi aspettiamo ! Per informazioni – e.mail.: cornelia.antiqua257@gmail.com- Cell-3930705272-nave romana “LIBURNA”nave romana “LIBURNA”
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