Irena Sendler: Eroina della Resistenza ai nazisti in Europa
Irena Sendler, nata nel 1910 e morta nel 2008, è stata una delle più grandi eroine della Resistenza ai nazisti in Europa. Donna libera, socialista, ha salvato più di 2.500 bambini ebrei durante l’occupazione tedesca della Polonia.
“La ragazza dei fiori di vetro” è la sua biografia di Tilar J. Mazzeo (Piemme) che racconta la sua straordinaria vita. Il libro è ricco di dettagli anche sulla Polonia in quegli anni. Sendler è il cognome assunto col matrimonio. Lei si chiamava Krzyzanowska, nata a Otwock , cittadina polacca abitata da moltissimi ebrei. Suo padre, medico, morì di tifo, e le locali comunità ebraiche che consideravano il dottore un loro benefattore, le offrirono le spese dell’Università.
Irena nel periodo tra le due guerre mondiali combattè l’antisemitismo che regnava nelle università polacche. Si innamorò di due uomini: il primo Mieczyslaw Sendler che sposò, il secondo Adam Celniker che amò, sposò successivamente e che venne rinchiuso nel ghetto di Varsavia perché ebreo.
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Come assistente sociale riuscì a lavorare nel ghetto relazionando ai tedeschi che temevano l’epidemia di tifo e le insurrezioni. Quando diventò palese che nel 1942 i nazisti volevano deportare l’intera popolazione del ghetto nel campo di sterminio di Treblinka, Irena decise di far uscire dal campo almeno i bambini nascondendoli in sacchi di iuta, nelle cassette di attrezzi… Non era sola in questa operazione. Oltre all’organizzazione Zegota, guidata dal socialista Jan Grobelny, personaggi di destra, cattolici, persone che con “scopo salvifico” pensavano di salvare i bambini, battezzarli, e sottrarli al “perfido giudaismo”. Fu grazie a Sendler, che annotò scrupolosamente i nomi dei piccoli che alla fine della guerra vennero restituiti alla loro identità.
Dopo la guerra divorziò dal marito e sposò Adam tornato dalla prigionia. Morto Adam nel 1961, risposò il suo primo marito Mieczyslaw. Il che è anche una risposta a chi si chiede se è possibile amare due uomini contemporaneamente e durante il corso della propria vita se si riesca a tenerli legati a sé.
Nel 1965 le fu conferita dagli israeliani la medaglia di Giusta tra le nazioni.
Irena Sendler nel 2005Irena_Sendlerowa_2005.Warschau, Bettelnde KinderIrena Sendler Scultura nella scuola di Amburgo-Germania
-Mario Vegetti: L’etica degli antichi e Guida alla lettura della Repubblica di Platone–
-Recensioni di Renato Caputo-
Dall’etica degli antichi alla Repubblica
Recensioni di classe a due grandi opere del grande storico della filosofia antica Mario Vegetti: L’etica degli antichi e Guida alla lettura della Repubblica di Platone.RECENZIONI di Renato Caputo
A differenza che in Platone, l’etica per Aristotele non è qualcosa di artificiale – che va instillato dall’esterno nella mente dei cittadini, attraverso la formazione pubblica e le legge – non è un dover essere, ma è qualcosa che già è, ossia è presente nella natura stessa dell’uomo come animale sociale e politico e nella società greca, rappresentando l’ethos collettivo. Allo stesso modo le passioni non sono più considerate qualcosa di essenzialmente irrazionale, che la ragione deve combattere e sottomettere, ma divengono qualcosa di naturale e anzi il fondamentale movente delle azioni umane. Resta il fatto che anche per Aristotele è essenziale fare un buon uso delle passioni, sottoponendole al vaglio della ragione.
Inoltre è apparentemente poco comprensibile, dopo che Aristotele ha tanto insistito sull’autonomia della filosofia pratica rispetto a quella teoretica, l’asserita superiorità – alla fine dell’Etica nicomachea – della vita dianoetica, dedicata alla ricerca e al pensiero, rispetto alla vita etica. Tale problematica conclusione serve ad Aristotele per difendere il ruolo centrale del filosofo e della sua capacità di raccordare le diverse scienze particolari. Tale tendenza verrà presto abbandonata dai discepoli di Aristotele che finiranno ognuno per dedicarsi a una scienza particolare.
L’etica di Aristotele avrà grande successo per alcuni dei suoi aspetti paradossalmente più deboli, ovvero il suo anacronismo e la sua astoricità. L’etica di Aristotele, con al suo centro l’individuo libero all’interno della polis, è indubbiamente anacronistica dal momento che si sviluppa nell’epoca in cui il dominio macedone metteva decisamente in discussione libertà e diritto di cittadinanza. D’altra parte tanto nei greci e poi nei romani resterà la nostalgia per la dimensione della polis e per la libertà di un cittadino non ancora ridotto a suddito.
Vegetti passa, dunque, nel capitolo VII a occuparsi delle concezioni dell’etica in età ellenistica. In tale epoca le libertà conquistate dai cittadini nell’epoca d’oro delle poleis tendono a divenire sempre più “difficili”, sempre più limitate e a rischio con l’affermarsi di monarchie assolutistiche. In tale contesto la libertà dell’individuo, essenziale per Aristotele, viene sempre più messa in discussione dall’esterno dal ruolo sempre più preponderante del destino, che diverrà provvidenza, e dall’interno dal ruolo sempre più importante che assumono le passioni.
D’altra parte per gli stoici l’anima torna a essere unitaria e razionale, di contro alla sua scomposizione in Platone e Aristotele che coglievano al suo interno anche momenti irrazionali, non di rado persino preponderanti. In tal modo, però, era messa in discussione ancora di più la libertà interiore degli individui, difendere la quale è essenziale per gli stoici data la perdita della libertà del cittadino, divenuto suddito. Ecco, dunque, che le stesse passioni non siano più considerate degli elementi estranei, ma dipendono dalla ragione stessa, o meglio da un suo uso improprio, da errati giudizi e dal dare il proprio decisivo assenso a qualcosa di negativo o meglio di non vero. In quanto è sempre la ragione che deve dare il proprio attivo assenso al dato ancora passivo della rappresentazione, ma tale assenso non è sempre accordato in modo assennato.
D’altra parte le passioni, in quanto prodotte da un uso sostanzialmente depravato della ragione, non possono che essere per gli stoici negative, anzi sono intese come delle vere e proprie malattie dell’anima. Non c’è più spazio per quelle passioni che tanto in Platone, quanto in Aristotele potevano divenire anche positive e anzi svolgevano un ruolo essenziale per la stessa affermazione dell’eticità e della morale. Per gli stoici, al contrario, proprio perché il futuro è dominato dal destino ed è quindi immutabile, ogni preoccupazione e, dunque, passione, nei suoi riguardi assume una connotazione decisamente negativa. Così in età ellenistica, non solo per gli stoici, la filosofia assume un deciso e decisivo significato terapeutico, volto – dal punto di vista radicale degli stoici – a estirpare radicalmente il “morbo” passionale.
D’altra parte la necessità imprescindibile per gli stoici di affermare la libertà interiore, dinanzi alla generale perdita delle libertà esteriore, li porta a considerare in modo del tutto negativo il ruolo della sorte, della fortuna, in quanto rischia di mettere in questione anche la per loro necessaria e imprescindibile autodifesa della libertà interiore. Tuttavia, proprio per la perdita dei diritti di cittadinanza, tale difesa della libertà interiore diventa sempre più difficile, tanto da portare gli stoici all’atto di fede per cui, in realtà, il caso non esisterebbe, l’universo sarebbe sottoposto a un principio razionale; perciò la concezione del destino si svilupperà sempre più nel senso della provvidenza, non a caso poi centrale nel cristianesimo.
Il capitolo ottavo dell’Etica degli antichi è dedicato al mito del saggio. Il venir meno delle libertà garantite dalle polis porta la filosofia ellenistica a superare anche il profondo classismo proprio dell’eticità tradizionale greca. Dal momento che tutti hanno perso la libertà, non vi sono più differenze sostanziali fra ceti sociali e, anzi, si afferma così per la prima volta una concezione universale di eticità e morale. Ciò che conta è la saggezza a cui ognuno può e deve tendere.
Nel nono capitolo Veggetti affronta, in conclusione, la fine delle virtù e l’esodo dell’anima, quali tratti caratteristici dell’autunno del mondo antico. Nel secondo secolo dopo Cristo, le scuole filosofiche sono ormai tutte prese dall’attitudine da professori di filosofia, di disputare sulle posizioni prese dai grandi dei secoli passati. Così, la riflessione sull’etica sembra essersi fermata al terzo secolo avanti Cristo, con la sola eccezione degli stoici latini che, però, non sono filosofi di professione e hanno quindi scarsa influenza sulle scuole di filosofia che – anche dal punto di vista etico – tendono al sincretismo, in primo luogo fra tradizione platonica e aristotelica.
D’altra parte con l’allargarsi dell’impero la capacità di egemonia greco-romana tendeva, anche per la sua incapacità di rinnovarsi, a non rispondere alle esigenze dei cittadini provinciali dell’impero, che cominciarono a rivolgersi sempre più in massa al cristianesimo. In tale situazione di crisi, l’unica scuola di filosofia che mostrò capacità di rinnovamento fu quella platonica, con Plotino che – sintetizzando le diverse prospettiva dell’etica antica – le superò.
Le virtù tradizionali divengono solo strumentali alla liberazione dalla materia, ma non consentono di raggiungere il ritorno all’Uno-tutto, in quanto permangono nel dualismo. L’etica finirà per esser posta sempre più al servizio di ontologia e metafisica, per divenire infine un mero strumento della fede.
Questo Esodo dell’anima dalle virtù e, quindi, dalla dimensione etico-politica trova proprio nel platonismo l’unica significativa opposizione. In quanto proprio nelle correnti più radicali del platonismo permaneva viva la tensione al necessario ritorno del filosofo nel mondo della caverna per liberare tutti coloro che ne rimanevano, altrimenti, prigionieri.
Nel sua ottima Guida alla lettura della Repubblica di Platone Mario Vegetti affronta l’annoso problema della datazione dell’opera, spiegando che la data tradizionale (375) non è fondata, perché le opere antiche non venivano pubblicate e ci è noto che Platone lavorò alla revisione del suo capolavoro fino alla morte. Peraltro una versione dell’opera doveva essere nota prima del Timeo, delle Leggi e del Crizia, in quanto contengono un riassunto di quest’opera. Inoltre Vegetti ritiene che la sua composizione debba essere posteriore alle commedie di Aristofane Come le donne al parlamento, di cui Platone nel suo dialogo temerebbe gli strali. Da questo punto di vista è certamente più credibile la retrodatazione operata da Canfora, che vede più plausibilmente nell’opera del comico una satira delle tesi più radicali della Repubblica.
Più chiaro è l’ambito in cui si svolge il dialogo, che assume inizialmente la forma di una caduta di Socrate-Platone, che rappresenta la ripresa nel I libro da parte dell’allievo delle posizioni del maestro. A essa segue una risalita che porta alle rivoluzionarie proposte platoniche. I personaggi del dialogo sono tanto gli antagonisti con cui deve confrontarsi dialetticamente Socrate-Platone, quanto gli spettatori cui si rivolge l’autore, ossia quei giovani che avrebbero dovuto seguire le sue direttive per superare i limiti strutturali sia del modello oligarchico che del modello democratico. Di entrambi si mostrano i limiti, da cui sorge la necessità di un loro superamento rivoluzionario.
Il dialogo si sviluppa dall’esperienza storica del fallimento delle due forme tradizionali di governo dell’antica Grecia: oligarchia e democrazia. La prima era fallita al tempo dei trenta tiranni, dimostrando che era ormai impossibile pretendere di governare senza egemonia. La seconda era fallita con la condanna a morte di Socrate, che ne indagava limiti e contraddizioni, ritenendo i suoi dirigenti degli opportunisti che invece di educare le masse incolte, mirava a egemonizzarle in modo populistico. Nasce da qui la necessaria elaborazione di un modello radicalmente alternativo e degli strumenti atti a realizzarlo. A questo proposito bisogna partire dai limiti dei tentativi precedenti a cominciare da quello di Socrate che aveva dimostrato come da soli sfidare la città era un’attitudine avventurista volta alla sicura sconfitta. D’altra parte Platone mostra anche i limiti delle sue stesse concezioni, elaborate sulle orme di Socrate, nei dialoghi immediatamente precedenti: Gorgia e Fedone. In essi si partiva dal dato di fatto che il filosofo da solo non poteva che essere vinto dalla città, che criticava nei suoi lati irrazionali. Da qui l’idea di una via di fuga attraverso l’estraniarsi da questo mondo, sulla base di un radicale dualismo fra anima ideale e corpo materiale. Tale via era stata però falsificata dalle precedenti esperienze per cui, nonostante la non interferenza e l’impoliticità, il filosofo, come Socrate, era stato condannato a morte tanto dal governo oligarchico quanto dal democratico. Non restava dunque che assoggettare l’ambito politico della polis al superiore ambito della filosofia, l’ambito dei rapporti di forza, all’ambito razionale e perciò morale. A tale scopo Platone aveva bisogno di una organizzazione rivoluzionaria, cui mira attraverso l’Accademia, con cui elaborare progetti di trasformazione radicale dell’ordine e del pensiero dominante. A tale scopo c’era bisogno di preparare il terreno sul piano della battaglia delle idee cui è dedicata proprio La Repubblica.
Platone, d’altra parte, era ben consapevole che la battaglia delle idee andava dialettizzata con il tentativo della sua realizzazione sul piano della prassi e così si impegnò, come del resto fecero la più parte dei membri dell’accademia, nella politica attiva ogni volta che si apriva una reale possibilità di incidere.
La grande opera platonica si pone come una poderosa sintesi, che implica un superamento dialettico dei principali aspetti del pensiero filosofico e politico elaborato dal mondo greco, che era stato a sua volta una sintesi originale e innovativa di alcuni dei principali aspetti elaborati dalle precedenti civiltà del vicino e medio oriente. In essa sono presenti due aspetti, uno legato al problema essenziale della sua epoca storica, ossia salvare la civiltà greca dalla sua incipiente rovina, l’altro in grado di aprire alla dimensione utopistica di una società tendenzialmente comunista, in grado fino ai giorni nostri di occupare un significativo posto nel dibattito politico.
FONTE-Associazione La Città Futura – Direttore Responsabile Adriana Bernardeschi-Via dei Lucani 11, Roma
Cavalleria rusticana è un’opera in un unico atto di Pietro Mascagni-
Cavalleria rusticana Andò in scena per la prima volta il 17 maggio 1890 al Teatro Costanzi di Roma, con Gemma Bellincioni e Roberto Stagno.Viene spesso rappresentata insieme a un’altra opera breve, Pagliacci (1892) di Ruggero Leoncavallo, con la quale è considerata una delle più rappresentative opere veriste.[1] Questo singolare abbinamento venne proposto fin dall’anno seguente il debutto di Pagliacci, al Metropolitan Opera House di New York il 22 dicembre 1893,[1] e venne legittimato dallo stesso Mascagni, che nel 1926, al Teatro alla Scala di Milano, diresse, nella stessa soirée, entrambe le opere. Cavalleria rusticana veniva talvolta eseguita insieme a Zanetto, dello stesso compositore.
Cavalleria rusticana
Cavalleria rusticana fu la prima opera composta da Mascagni ed è certamente la più nota fra le sedici composte dal compositore livornese (oltre a Cavalleria rusticana, solo Iris e L’amico Fritz sono rimaste nel repertorio stabile dei principali enti lirici). Il suo successo fu enorme già dalla prima volta in cui venne rappresentata al Teatro Costanzi di Roma, il 17 maggio 1890 e tale è rimasto nel ventunesimo secolo.
Nel 1888 l’editore milanese Edoardo Sonzogno annunciò un concorso aperto a tutti i giovani compositori italiani che non avevano ancora fatto rappresentare una loro opera. I partecipanti dovevano scrivere un’opera in un unico atto, e le tre migliori produzioni (selezionate da una giuria composta da cinque importanti musicisti e critici italiani) sarebbero state rappresentate a Roma a spese dello stesso Sonzogno.
Mascagni, che all’epoca risiedeva a Cerignola, dove dirigeva la locale banda musicale, venne a conoscenza di questo concorso solo due mesi prima della chiusura delle iscrizioni e chiese al suo amico Targioni-Tozzetti, poeta e professore di letteratura all’Accademia Navale di Livorno, di scrivere un libretto. Targioni-Tozzetti scelse Cavalleria rusticana, di Verga come base per l’opera. Egli e il suo collega Guido Menasci lavoravano per corrispondenza con Mascagni, mandandogli i versi su delle cartoline. L’opera fu completata l’ultimo giorno valido per l’iscrizione al concorso. In tutto, furono esaminate settantatré opere e il 5 marzo 1890 la giuria selezionò le tre opere da rappresentare a Roma: Labilia di Nicola Spinelli, Rudello di Vincenzo Ferroni, e Cavalleria rusticana di Pietro Mascagni.[2]
Cavalleria rusticana
Trama
La vicenda si svolge a Vizzini, un paesino della Sicilia. All’alba di una domenica di Pasqua, nel paese s’ode una serenata dedicata a Lola, moglie di compare Alfio, un carrettiere. Pian piano il paese si sveglia e tutti si preparano per il giorno di festa; Lucia, madre di Turiddu e proprietaria di un’osteria, prepara il vino per i festeggiamenti che avranno luogo dopo la messa. Da lei si reca Santuzza, fidanzata di suo figlio; all’invito della donna a entrare in casa, la ragazza rifiuta, rivelandole un’amara verità: Turiddu la tradisce. Prima di partire per il servizio militare, il ragazzo si era promesso a Lola; tuttavia il periodo di leva si era protratto e la donna, stanca di aspettare, dopo un anno si era sposata con Alfio. Al suo ritorno, per ripicca, Turiddu si era allora fidanzato con Santuzza, ma successivamente aveva preso ad approfittare delle assenze di Alfio per riprendere una relazione clandestina con Lola.
Lucia non crede alle parole di Santuzza, ma il loro discorso è interrotto dalla processione iniziale della messa. Poco dopo arriva lo stesso Turiddu, che saluta la sua fidanzata; questa, ormai esasperata, gli rinfaccia i continui tradimenti, ma lui dapprima nega e in seguito cerca di troncare con rabbia il discorso. La lite è interrotta dall’arrivo della stessa Lola, che provoca Santuzza cantando una canzone dedicata al suo amato; i due si recano insieme in chiesa, mentre Santuzza, al colmo della disperazione, scaglia una maledizione su Turiddu.
Poi compare Alfio, che chiede a Santuzza dove sia sua moglie; lei, incautamente, gli dice che ella è andata a messa con Turiddu e gli svela tutta la tresca, pentendosene immediatamente dopo. Alfio giura vendetta e fugge via. Poco dopo termina la messa e tutti si recano all’osteria di Nunzia, dove intonano gioiosi brindisi alle gioie della vita. Torna Alfio, al quale Turiddu offre un bicchiere di vino; questi rifiuta sdegnosamente, e tutti comprendono che lui voglia sfidare il rivale a duello all’arma bianca. Le donne portano via Lola e Santuzza, mentre Turiddu, con la scusa di abbracciare Alfio, gli morde l’orecchio: con questo gesto accetta la sfida. Turiddu sa di essere nel torto e si lascerebbe uccidere per espiare la propria colpa, ma non può lasciare sola Santuzza, disonorata dal suo tradimento, dunque combatterà con tutte le sue forze. Alfio gli dà appuntamento a un orto poco distante per duellare.
Turiddu si prepara al duello: prima di recarvisi saluta Lucia, raccomandando di fare da madre a Santuzza se lui non dovesse tornare, poi corre via. Lucia comprende solo allora quanto fossero vere le parole di Santuzza; mentre le due donne si abbracciano, si ode un mormorio venire da lontano e poco dopo una popolana urla che Turiddu è stato ammazzato, gettando tutti nella disperazione.
Cavalleria rusticana
Sinossi di Cavalleria rusticana
Preludio
Siciliana O Lola ch’ai di latti la cammisa (Turiddu)
Atto unico
Coro d’introduzione Gli aranci olezzano (Coro)
Scena e sortita Dite, mamma Lucia… Il cavallo scalpita (Santuzza, Lucia, Alfio, Coro)
Scena e preghiera Beato voi, compar Alfio… Inneggiamo il Signor non è morto (Santuzza, Lucia, Alfio, Coro)
Romanza e scena Voi lo sapete, o mamma… Andate, o mamma, ad implorare Iddio (Santuzza, Lucia)
Duetto Tu qui, Santuzza (Santuzza, Turiddu)
Stornello Fior di giaggiolo (Lola)
Duetto Il Signore vi manda, compar Alfio (Santuzza, Alfio)
Intermezzo sinfonico
Scena e brindisi A casa, a casa, amici… Viva il vino spumeggiante (Turiddu, Lola, Coro)
Finale A voi tutti salute… Mamma, quel vino è generoso (Santuzza, Turiddu, Lucia, Alfio, Lola, Coro)
Brani celebri
Preludio, dove Turiddu canta La siciliana
O Lola, c’hai di latti la cammisa, canzone siciliana di Turiddu
L’aria introduttiva O Lola, c’hai di latti la cammisa, detta anche Siciliana, è uno dei due brani in lingua dialettale presenti all’interno del repertorio lirico italiano. L’altro brano è la celebre aria Io de’ sospiri dalla Tosca di Puccini, scritta in dialetto romanesco.
Adriano Ossicini- Un’isola sul Tevere. Il fascismo al di là del ponte- Editori Riuniti Roma-
Descrizione del libro di Adriano Ossicini-1937-1947, dieci anni fondamentali della nostra storia riproposti insieme alla straordinaria esperienza di un giovane antifascista, studente di medicina, nell’ospedale Fatebenefratelli, in un’isola sul Tevere che diviene, via via, un’isola emblematica di libertà e di antifascismo. L’affermazione e la crisi del regime, i rapporti fra la Chiesa e lo Stato fascista, la «campagna razziale», il carcere, la guerra, la Resistenza, il ritorno alla democrazia e insieme iniziative e ricerche di avanguardia nel campo clinico, assistenziale e sociale sono rivissuti attraverso storie autobiografiche e nei colloqui con personaggi determinanti per la nostra storia come i fratelli Amendola, Bonaiuti, Murri, papa Pacelli, De Gasperi, Miglioli, Spataro, Togliatti, Parri; i cardinali Montini, Tardini e Ottaviani, don Giuseppe De Luca, padre Bozzetti uomini di scienza e di cultura come Gentile, Calogero, Musatti, Cerletti, Perrotti… L’autore, diventato uno dei piú autorevoli protagonisti nel nostro paese in campo scientifico e politico, riporta, infine, alla luce documenti inediti di grande interesse.
INDICE
17 – Una rischiosa polemica su Tucidide e il fascismo
p. 27 – Un’isola “della salute” sul Tevere
p. 35 – Il fiume sotto il letto. L’inizio di una lunga “avventura” in uno “straordinario ospedale”
p. 47 – Il medico di fronte alla “condizione umana”
p. 53 – Una lezione di vita da un operaio trockista
p. 63 – La sofferta ribellione di un parlamentare clerico-fascista
p. 78 – La vita nell’ospedale di fronte all’esperienza della guerra e all’inizio della campagna razziale
p. 93 – Il mio primo incontro con De Gasperi
p. 105 – I difficili incontri con Giovanni Gentile e Agostino Gemelli e un angoscioso “congedo”
p. 123 – Un ospedale singolare crocevia di pazienti politici, di speranze e di esperienze drammatiche
p. 134 – Davanti al sacrificio della Polonia e alla caduta di Parigi. L’Italia in guerra!
p. 145 – Studio, ospedale e politica, un equilibrio difficile. L’incontro con Franco Rodano e i primi arresti
p. 161 – “La svolta del 1942”. La guerra cambia e il cerchio si stringe
p. 175 – L’esperienza del carcere
p. 202 – La caduta del fascismo
p. 219 – La Resistenza a Roma
p. 255 – La liberazione di Roma: ricomincia la vita “legale”
p. 272 – Una difficile esperienza politica e una felice esperienza clinica
p. 302 – Polemica fine di una coraggiosa testimonianza. La sinistra cristiana si scioglie
p. 332 – Una lettera del papa, uno scontro con Togliatti e un incontro con De Gasperi. Addio all’Isola
p. 361 – Indice dei nomi-
Breve Biografia di Adriano Ossiciniemerito di psicologia generale presso l’università La Sapienza di Roma è primario emerito del Centro medico psicopedagogico per la prevenzione e cura dei disturbi psichici da lui fondato nel 1947 insieme a Giovanni Bollea. Porta il suo nome la legge che riconosce la professione di psicologo. Membro per sette legislature del gruppo della Sinistra indipendente al Senato, di cui è stato vicepresidente per due legislature, ministro della Famiglia e della Solidarietà sociale. E’ autore di numerose pubblicazioni scientifiche.
Adriano Ossicini
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Adriano Ossicini
Adriano Ossicini-Psichiatra, partigiano e uomo politico italiano (Roma 1920 – ivi 2019). Volontario al Fatebenefratelli di Roma, dove si è adoperato per salvare decine di ebrei rifugiatisi nell’ospedale per sfuggire ai rastrellamenti nel Ghetto, impegnato fin da giovane nell’ambito del cattolicesimo sociale, è stato cofondatore del Movimento dei cattolici comunisti e al comando di formazioni partigiane della Sinistra Cristiana. Militante nella Resistenza romana, per il notevole contributo dato alla guerra di Liberazione è stato decorato al valor militare. Consigliere provinciale a Roma, eletto in Senato come indipendente nelle liste del PCI e aderente al gruppo della Sinistra Indipendente, confermato ininterrottamente dal 1968 al 1992, dal 1995 al 1996 ha ricoperto la carica di ministro per la Famiglia e la solidarietà sociale del governo Dini; rieletto in Senato nel 1996 nelle fila di Rinnovamento Italiano, è poi confluito in Democrazia è libertà-La Margherita (2002-2007) e successivamente nel Partito Democratico (2007-19). Psichiatra, O. ha promosso la legge per l’istituzione dell’Ordine degli psicologi, approvata nel 1989, e il primo corso di laurea in psicologia alla Sapienza, dove ha insegnato per oltre trent’anni, fondando inoltre a Roma nel 1947 il primo Centro medico psicopedagogico italiano. Presidente del Comitato nazionale di bioetica dal 1992 al 1994, nel 2009 è stato insignito del titolo di Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana.
Adriano Ossicini –scheda ANPI-Associazione Nazionale Partigiani d’Italia
Nato a Roma il 20 giugno 1920, medico chirurgo e psichiatra, Medaglia d’argento al valor militare, parlamentare.Giovanissimo militante di gruppi antifascisti cattolici, nel 1937 era stato tra i fondatori del Movimento della Sinistra Cristiana, del quale fu segretario. Nello stesso anno Ossicini era stato arrestato e deferito al Tribunale speciale, che lo assolse in istruttoria. Dopo l’armistizio ecco che il giovane, al comando di formazioni partigiane della Sinistra Cristiana, entra nella Resistenza romana. Per il contributo dato alla guerra di Liberazione, è decorato al valor militare e, nel dopoguerra milita nelle file del movimento democratico della Capitale. Come indipendente di sinistra è consigliere provinciale a Roma e tra i più attivi dirigenti del movimento guidato da Ferruccio Parri. Eletto per la prima volta senatore nel 1968, ha ricoperto l’incarico a Palazzo Madama sino al 1992. Parlamentare per sette Legislature, tra il 1970 e il 1989 il professor Ossicini ha promosso la legge per l’Istituzione dell’Ordine degli psicologi, approvata nel 1989, ed ha presieduto alla Camera dei deputati la Commissione Igiene e Sanità. Presidente del Comitato nazionale di bioetica dal 1992 al 1994, Adriano Ossicini è stato ministro per la famiglia e la solidarietà sociale nel Governo Dini e, nel 2001, è stato tra i fondatori del “Laboratorio per la Polis”, una rete di cultura e formazione all’impegno civile. Nel 2007 ha sostenuto, con Francesco Rutelli, la candidatura di Walter Veltroni a leader del Partito Democratico. Particolarmente impegnato in difesa degli handicappati, Adriano Ossicini è autore di numerose pubblicazioni scientifiche.
Fra gli interpreti della prima il baritono Giuseppe De Luca nella parte di Gianni Schicchi, il tenore Giulio Crimi in quella di Rinuccio, il soprano Florence Easton nella parte di Lauretta ed il tenore Angelo Badà come Gherardo. Fino al 2009 ha avuto 138 recite al Metropolitan.
Gianni Schicchi opera comica di Giacomo Puccini
Giacomo Puccini
Gianni Schicchi opera comica di Giacomo Puccini
Del Trittico, Gianni Schicchi fu l’opera che godette subito del successo maggiore[1] ed iniziò quindi ben presto ad avere vita autonoma, nonostante l’esplicita volontà di Puccini che le tre opere andassero sempre in scena assieme e mai in abbinamento con altri titoli.
In tempi recenti si sta consolidando la prassi d’abbinare Gianni Schicchi a Una tragedia fiorentina di Alexander von Zemlinsky[1] o ad Alfred, Alfred di Franco Donatoni. Le due opere sono difatti accostabili non solo per la comune ambientazione fiorentina medievale, ma anche per la scenografia (interno d’abitazione per entrambe) e per la complementarità dei soggetti: una tragedia notturna ed una solare commedia brillante. C’è infine un legame storico: Puccini stesso, nel 1912, aveva pensato di musicare A Florentine Tragedy di Oscar Wilde, uno scritto incompiuto dal quale Zemlinsky trasse pochi anni dopo ispirazione per la sua opera.
Gianni Schicchi opera comica di Giacomo Puccini
Trama
1299: Gianni Schicchi, famoso in tutta Firenze per il suo spirito acuto e perspicace, viene chiamato in gran fretta dai parenti di Buoso Donati, un ricco mercante appena spirato, perché escogiti un mezzo ingegnoso per salvarli da un’incresciosa situazione: il loro congiunto ha infatti lasciato in eredità i propri beni al vicino convento di frati, senza disporre nulla in favore dei suoi parenti.
Inizialmente Schicchi rifiuta di aiutarli a causa dell’atteggiamento sprezzante che la famiglia Donati, dell’aristocrazia fiorentina, mostra verso di lui, uomo della «gente nova». Ma le preghiere della figlia Lauretta (romanza «O mio babbino caro»), innamorata di Rinuccio, il giovane nipote di Buoso Donati, lo spingono a tornare sui suoi passi e a escogitare un piano, che si tramuterà successivamente in beffa. Dato che nessuno è ancora a conoscenza della dipartita, ordina che il cadavere di Buoso venga trasportato nella stanza attigua in modo da potersi lui stesso infilare sotto le coltri, e dal letto del defunto, contraffacendone la voce, dettare al notaio le ultime volontà.
Così infatti avviene, non senza che Schicchi abbia preventivamente assicurato i parenti circa l’intenzione di rispettare i desideri di ciascuno, tenendo comunque a ricordare il rigore della legge, che condanna all’esilio e al taglio della mano non solo chi si sostituisce ad altri in testamenti e lasciti, ma anche i suoi complici («Addio Firenze, addio cielo divino»).
Schicchi declina dinanzi al notaio le ultime volontà e quando dichiara di lasciare i beni più preziosi – la «migliore mula di Toscana», l’ambita casa di Firenze e i mulini di Signa – al suo «caro, devoto, affezionato amico Gianni Schicchi», i parenti esplodono in urla furibonde. Ma il finto Buoso li mette a tacere canterellando il motivo dell’esilio e infine li caccia dalla casa, divenuta di sua esclusiva proprietà.
Fuori, sul balcone, Lauretta e Rinuccio si abbracciano teneramente; mentre Gianni Schicchi sorridendo contempla la loro felicità, compiaciuto della propria astuzia.
Fiamignano sorge nel territorio in cui è stata ipotizzata l’esistenza della Città romana di Vesbula di cui parla Dionigi. La rocca di Poggio Poponesco, di cui oggi sono visibili i ruderi, ebbe origine nel IX secolo raccogliendo intorno a se gli abitanti del nucleo originario. Dopo la distruzione del castello la popolazione si trasferì più in basso dando così origine ad un secondo insediamento con il nuovo nome di Fiamignano. Nella chiesa parrocchiale intitolata ai Santi Fabiano e Sabastiano ,si conservano, inoltre, una Croce processionale opera dell’Arte abruzzese del XIII secolo e un ciborio ligneo del XVIII secolo opera di Fra Simone di Petrella Salto,. Si può ammirare una pregevole tela di Scuola Romana che raffigura la Immacolata Concezione. Non lontano dal centro abitato sono ancora visibili i resti del convento dei frati Cappuccini che fu costruito nel 1568 con materiale di una antica costruzione di epoca romana. Si possono raggiungere i ruderi del Castello e della struttura fortificata del IX secolo è ancora visibile il Mastio e parte delle a cinta muraria medievale. Una Cappella sita all’interno del Castello Poponesco, databile sec. XI-XII, si conserva in una nicchia un affresco votivo del 1580 raffigurante una Madonna con Bambino e i Santi in preghiera.
FIAMIGNANO (Rieti)
Il Comune di Fiamignano comprende anche le frazioni: Arapetriani di Fiamignano, Brusciano di Fiamignano, Collegiudeo di Fiamignano, Collemazzolino di Fiamignano, Fagge di Fiamignano, Gamagna di Fiamignano, Marmosedio di Fiamignano, Perdesco di Fiamignano, , Mercato, Peschietta, San Pietro di Fiamignano, San Salvatore di Fiamignano, Sant’Agapito di Fiamignano, Santa Lucia di Fiamignano, Santa Maria del Sambuco, Sant’Ippolito di Fiamignano, Santo Stefano di Fiamignano.
Cicolano terra di Santa Chelidonia da Fiamignano.
FIAMIGNANO (Rieti)-Santa Chelidonia da Fiamignano
Verso l’anno 1077 in Poggio Poponesco, piccolo castello del Cicolano, oggi completamente diruto e le cui vestigia si osservano non molto lungi da Fiamignano,nacque la Vergine S. Chelidonia dai coniugi Dauferio ed Abbasia. Fin dai suoi più teneri anni diede Ella le prime luminose prove della sua santità, perché con le sue pratiche virtuose, richiamava a se l’attenzione non solo dei genitori, ma di quanti avevano la fortuna di avvicinarla. Appena giovinetta consacrò a Dio la sua verginità e si pose in esercizi continui di preghiere e altre virtù cristiane. Giunta all’età di prendere marito, i genitori, che avevano questa unica figlia, la sollecitavano ad unirsi in matrimonio con un giovane di pari condizione che avevala richiesta; ma quando tutto sembrava conchiuso, Ella di nascosto abbandonò la casa paterna ed andò a fermarsi sugli alpestri monti Simbruini che circondano Subiaco; iviri coverossi in un angusto speco e si diede ad attendere con sommo fervore alle cose divine. Di là passo, poco dopo, a Roma per visitarvi i luoghi santificati dal sangue dei Martiri cristiani. Ritornò poi nella sua grotta e da Cunone cardinale di Palestrina prese il sacro velo della verginità nella festa e nella chiesa di S. Scolastica, di cui si diede a seguir la Regola e le virtù.L’anno della sua monacazione può ritenersi quasi con certezza che fosse il 1109, perché nella Cronaca Sublacense si riferisce che Cunone vescovo di Palestrina in quell’anno appunto consacrasse la Cappella della Rocca di Subiaco, ed in seguito non vi si fa più menzione di esservi tornato altre volte. Stretta costei da questo nuovo vincolo, si diede con maggior impegno alle pratiche di religione e si pose a travagliare il corpo con un nuovo genere di vita più aspro: camminava a piedi nudi; indossava una sola e lacera veste, che stringeva ai lombi con una fune; sedeva e dormiva sulla nuda terra; macerava il corpo con veglie,discipline e digiuni; povero e scarso era il suo cibo ed alle volte si asteneva dal prenderlo fino a sette ed anche dieci giorni. Trascorsa la sua vita in tali e tanti esercizi di cristiane virtù per circa cinquantanove anni, piena di meriti, compì il suo corso mortale ai 13 Ottobre del 1152.Il suo corpo, per espresso volere di Lei, fu sepolto nella grotta dove era dimorata vivente; fu poi, per ordine del pontefice Gregorio XIII, trasferito nella Basilica di S. Scolastica in Subiaco ai 3 di Luglio del 1578, ed ivi tuttora è religiosamente venerato.
Fiamignano (Rieti)Lago di Rascino sull’omonimo altopiano .
FIAMIGNANO (Rieti)Lago di Rascino sull’omonimo altopiano
La magia della neve sui Monti del Cicolano. Davanti a noi uno splendido scorcio del lago di Rascino, un bacino carsico montano nel comune di Fiamignano.
RIETI -Litografia-Il Vescovato-Opera dell’Artista Nicoletta Alvisini di Fagge Comune di Fiamignano
FIAMIGNANO (Rieti)-Artista Nicoletta Alvisini di Fagge
Breve Biografia di Nicoletta Alvisini, nasce a Fagge, un piccolissimo paese nel Comune di Fiamignano in provincia di Rieti il 24 Luglio 1946. La carta ed i colori realizzavano i suoi sogni di bambina. Nel 1968 ha iniziato timidamente a fare le sue prime personali, riportando un gran successo di critica e di pubblico.
In quegli anni ormai lontani, i temi ricorrenti nelle opere dell’artista erano paesaggi danteschi nonché figure, fiori e nature morte. Questo suo voler affondare il pennello in qualche passo della “Divina Commedia” non era certamente un vuoto esercizio formale della mente ma un bisogno interiore di trasportare sulla tela le visioni del poeta che, grazie ad una felicissima operazione pittorica, si trasmutavano in apparizioni fantastiche tagliate in uno spazio quasi magico.
Nicoletta riesce a contenere in tutte le sue opere una pressante concitazione di idee, di sentimenti ed emozioni che trovano sfogo in una fremente e luminosa atmosfera. Il colore da ai dipinti un clima surreale, ne esalta la luce e tira fuori dai vari soggetti delle sue opere ciò che essi ci vogliono trasmettere. Negli anni troviamo in tutti i suoi lavori la stessa volontà di coerenza e di fedeltà al suo cromatismo ed alla sua tecnica ma l’artista non disdegna rapportarsi con altre esperienze, tanto che nel 1995 decide di frequentare un corso di iconografia a Firenze.
FIAMIGNANO- Località Brusciano :” l’Albero degli impiccati”.
FIAMIGNANO (Rieti)
Lago del Salto visto da Poggio Poponesco (Fiamignano)
FIAMIGNANO (Rieti
IL MANIERO DI POGGIO POPONESCO
FIAMIGNANO (Rieti)-CASTELLO DI POGGIO POPONESCO Loc.FAGGE – FRAZIONE di FIAMMIGNANO (RIETI) SANTUARIO DELLA MADONNA DEL CARMINE DEL XVI SECOLOFIAMIGNANO (Rieti)
Fiamignano è un paese dall’interessante centro storico con le vecchie case in pietra e una magnifica vista sulla valle del Salto che appare tra un vicolo e l’altro, ideale per chi vuole trascorrere periodi di riposo ristoratore nella quiete più assoluta a contatto con una natura suggestiva e incontaminata .
In una delle due piazze del paese si trova la Chiesa dei Santi Damiano e Sebastiano, i Patroni, mentre percorrendo un piccolo sentiero si possono raggiungere i resti del Castello di Poggio Poponesco e il Convento cinquecentesco dei Cappuccini.
Lungo il percorso si trova anche la Chiesa di Santa Maria del Poggio situata sotto le rovine del Castello che conserva un affresco votivo del 1580 raffigurante la Madonna in Trono con il bambino e i Santi.Fiamignano è un paese dall’interessante centro storico con le vecchie case in pietra e una magnifica vista sulla valle del Salto che appare tra un vicolo e l’altro, ideale per chi vuole trascorrere periodi di riposo ristoratore nella quiete più assoluta a contatto con una natura suggestiva e incontaminata .
In una delle due piazze del paese si trova la Chiesa dei Santi Damiano e Sebastiano, i Patroni, mentre percorrendo un piccolo sentiero si possono raggiungere i resti del Castello di Poggio Poponesco e il Convento cinquecentesco dei Cappuccini.
Lungo il percorso si trova anche la Chiesa di Santa Maria del Poggio situata sotto le rovine del Castello che conserva un affresco votivo del 1580 raffigurante la Madonna in Trono con il bambino e i Santi.
Proprio 150 metri più avanti della Chiesetta è raggiungibile la Big Bench n. 382, la Panchina Gigante di Fiamignano inaugurata a settembre 2024. Posizionata a 1060 m.s.l.m. su uno sperone di roccia alle pendici del monte Serra, con splendida visuale sulla Valle del Salto e l’omonimo lago, la Panchina Gigante offre ai visitatori uno straordinario panorama completamente immerso nella natura. La Big Bench di Fiamignano fa parte della rete delle Panchine Giganti del Lazio. Dal piccolo paese sale infine una stradina segnalata di circa 12 km che conduce al bellissimo Altopianodi Rascino dove viene coltivata la rinomata lenticchia locale. Il luogo è selvaggio, tra i più belli e interessanti di tutto il Cicolano, dominato unicamente da sole, acqua e vento.
Al centro un piccolo lago che si estende e si ritrae a seconda del periodo dell’anno offrendo, in primavera e in estate, lo spettacolo straordinario della fioritura delle lenticchie, insieme al dilagare delle greggi di pecore e delle mandrie di cavalli.
Altro prodotto tipico della zona è la pregiata Castagna Rossa del Cicolano, mentre per quanto riguarda la cucina tradizionale, questa è costituita da piatti poveri e legati ai prodotti della terra come i funghi e il tartufo.
Nelle trattorie locali si trovano sempre la pasta fatta in casa condita con squisiti sughi, carne alla brace e dolci casarecci.
Da non perdere la Mostra ovina ai Piani di Rascino e la Sagra della Lenticchia di Rascino in programma entrambe ogni anno ad agosto.
Ricordo di Elena Gianini Belotti- scrittrice e pedagogista-
Elena Gianini Belotti – Pedagogista e scrittrice italiana (Roma 1929 – ivi 2022). Cofondatrice e direttrice (1960-80) del Centro Nascita Montessori di Roma, in cui ha formato le gestanti all’accudimento e allo sviluppo relazionale del neonato, ha fornito imprescindibili contributi alle teorie delle diseguaglianze di genere, denunciando i condizionamenti di ruolo su base sessuale impliciti nei paradigmi educativi tradizionali. Autrice del saggio Dalla parte delle bambine (1973), pietra miliare negli studi di genere, qui ha denunciato la natura culturale delle diversità caratteriali tra maschio e femmina, riconducendole all’imposizione di modelli coercitivi in grado di ridurre l’identità individuale ai modelli socialmente condivisi, limitando aspirazioni e prospettive del sesso femminile. Cofondatrice con D. Maraini nel 1992 del gruppo di scrittrici Controparola, tra le sue pubblicazioni occorre citare i saggi Che razza di ragazza (1979), Prima le donne e i bambini (1980), Non di sola madre (1983), Amore e pregiudizio. Il tabù dell’età nei rapporti sentimentali (1988); i romanzi Il fiore dell’ibisco (1985), Pimpì Oselì (1995), Apri le porte all’alba (1999), Pane amaro (2006) e Onda lunga (2013); il testo biografico Prima della quiete. Storia di Italia Donati (2003). Grande Ufficiale Ordine al Merito della Repubblica Italiana (2010). Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani –
Elena Gianini Belotti
Biografia di Elena Gianini Belotti (Roma, 2 dicembre 1929 – Roma, 24 dicembre 2022) è stata una scrittrice, pedagogista e insegnante italiana.
Di origine bergamasca, lavorò a lungo nel campo dell’assistenza all’infanzia. Fu chiamata, nel 1960, a dirigere il primo Centro Nascita Montessori a Roma, che diresse fino al 1980. Nel 1973 pubblicò per Feltrinelli il saggio Dalla parte delle bambine. Il libro, dedicato al condizionamento precoce della donna, ebbe uno straordinario e durevole successo.
Nel 1980 pubblicò, per Rizzoli, Prima le donne e i bambini, sempre sul tema dei condizionamenti sociali di genere.
In Pimpì oselì, edito da Feltrinelli nel 1995, tratteggiò magistralmente la vita quotidiana dei bambini delle valli bergamasche e delle borgate romane durante il periodo fascista, vista con gli occhi di una bambina, ponendo l’accento sulla durezza della povertà e sulla separazione di genere.
Nel 2003 scrisse il romanzo Prima della quiete, in cui raccontò la triste storia di Italia Donati.
Nel 2007 Loredana Lipperini pubblicò sempre per Feltrinelli Ancora dalla parte delle bambine, aggiornamento dei temi trattati 35 anni prima da Elena Gianini Belotti, che pur proseguendo negli anni l’attività di saggista si dedicò con successo alla scrittura per l’infanzia. Con Il fiore dell’ibisco vinse il Premio Napoli; con Prima della quiete il Premio Grinzane Cavour.Fonte Wikipedia
Elena Gianini Belotti
Ricordo di Elena Gianini Belotti– scrittrice e pedagogista- è morta a Roma il 24 dicembre 2022-
Roma- 25 dicembre 2022-È morta ieri. 24 dicembre, a 93 anni la scrittrice e pedagogista italiana Elena Gianini Belotti, nota soprattutto per i suoi saggi sui condizionamenti di genere nella società e nell’educazione, come Dalla parte delle bambine, del 1973, e Prima le donne e i bambini, del 1980. Entrambi negli anni sono stati molto citati da chi si è occupato di questi temi, che Gianini Belotti fu tra le prime ad affrontare. Scrisse anche alcuni romanzi, tra i quali uno dei più noti è Prima della quiete, sulla storia dell’insegnante Italia Donati, morta suicida dopo una storia di diffamazione che la coinvolse. Nel 1960 Gianini Belotti contribuì a fondare il Centro Nascita Montessori di Roma, un’associazione di volontariato che si occupa ancora oggi di fare ricerca e sviluppo in ambito educativo, sociale e sanitario sui neonati. Ne fu direttrice per vent’anni. (da Il Post)
Nel libro “Dalla parte delle bambine” scrisse della tradizionale differenza di carattere tra maschio e femmina, non dovuta a fattori “innati”, bensì ai “condizionamenti culturali” che l’individuo subisce nel corso del suo sviluppo. Questa la tesi appoggiata da Elena Gianini Belotti e confermata dalla sua lunga esperienza educativa con genitori e bambini in età prescolare. Ma perché solo “dalla parte delle bambine”? Perché questa situazione è quasi tutta “a sfavore del sesso femminile”. La cultura alla quale apparteniamo come ogni altra cultura si serve di tutti i mezzi a sua disposizione per ottenere dagli individui dei due sessi il comportamento più adeguato ai valori che le preme conservare e trasmettere: fra questi anche il “mito” della “naturale” superiorità maschile contrapposta alla “naturale” inferiorità femminile. In realtà non esistono qualità “maschili” e qualità “femminili”, ma solo “qualità umane”. L’operazione da compiere dunque “non è di formare le bambine a immagine e somiglianza dei maschi, ma di restituire a ogni individuo che nasce la possibilità di svilupparsi nel modo che gli è più congeniale, indipendentemente dal sesso cui appartiene”.
Biografia di Elena Gianini Belotti (Roma, 2 dicembre 1929 – Roma, 24 dicembre 2022) è stata una scrittrice, pedagogista e insegnante italiana.
Di origine bergamasca, lavorò a lungo nel campo dell’assistenza all’infanzia. Fu chiamata, nel 1960, a dirigere il primo Centro Nascita Montessori a Roma, che diresse fino al 1980. Nel 1973 pubblicò per Feltrinelli il saggio Dalla parte delle bambine. Il libro, dedicato al condizionamento precoce della donna, ebbe uno straordinario e durevole successo.
Nel 1980 pubblicò, per Rizzoli, Prima le donne e i bambini, sempre sul tema dei condizionamenti sociali di genere.
In Pimpì oselì, edito da Feltrinelli nel 1995, tratteggiò magistralmente la vita quotidiana dei bambini delle valli bergamasche e delle borgate romane durante il periodo fascista, vista con gli occhi di una bambina, ponendo l’accento sulla durezza della povertà e sulla separazione di genere.
Nel 2003 scrisse il romanzo Prima della quiete, in cui raccontò la triste storia di Italia Donati.
Nel 2007 Loredana Lipperini pubblicò sempre per Feltrinelli Ancora dalla parte delle bambine, aggiornamento dei temi trattati 35 anni prima da Elena Gianini Belotti, che pur proseguendo negli anni l’attività di saggista si dedicò con successo alla scrittura per l’infanzia. Con Il fiore dell’ibisco vinse il Premio Napoli; con Prima della quiete il Premio Grinzane Cavour.
Fonte Wikipedia
Elena Gianini Belotti
chi raccoglierà l’eredità di Elena Gianini Belotti?
Alessandra Fraissinet e Laura Onofri discutono l’eredità lasciata dalla pedagogista romana Elena Gianini Belotti, fra le prime a occuparsi di condizionamenti di genere : chi sta oggi ‘dalla parte delle bambine’?
La direzione del Centro Nascita Montessori di Roma e i saggi Dalla parte delle bambine e Prima le donne e i bambini
Elena Gianini Belotti è morta lo scorso 24 dicembre. Pedagogista, scrittrice, insegnante, era nata a Roma nel 1929, da genitori bergamaschi. Nel 1960 aveva contribuito a fondare il Centro Nascita Montessori di Roma, guidato da lei per vent’anni, supportando molte donne nella preparazione al parto e nella crescita di neonate e neonati. Un’educazione alla cura, al di là dei condizionamenti di genere che limitano il libero sviluppo della persona, come aveva raccontato nei due saggi per cui è più nota: Dalla parte delle bambine, del 1973, e Prima le donne e i bambini, del 1980.
Laura Onofri, presidentessa del comitato torinese dell’associazione Se non ora, quando?: Gianini Belottiha portato consapovolezza sui condizionamenti di genere
«Gianini Belotti ha avuto un ruolo determinante. Quando è uscito Dalla parte delle bambine c’era ancora poca letteratura che parlasse di condizionamenti di genere», spiega Laura Onofri, presidentessa del comitato torinese dell’associazione Se non ora, quando? e componente del Coordinamento nazionale dei comitati. «I modelli culturali che venivano proposti alle bambine, dalla pubblicità ai libri scolastici, dalla scuola alla televisione, erano stereotipati. Le bambine dovevano essere prima di tutto belle, le donne mamme accudenti e contente di occuparsi della casa e della cucina. Modelli considerati come normali, nessuno li metteva in dubbio. Non c’era l’idea che una donna potesse fare qualsiasi lavoro, che non fosse solo angelo del focolare o adatta a svolgere lavori come la maestra, la cuoca, la sarta».
Bambine belle e donne madri e casalinghe: stereotipi che nessuno metteva in discussione
Gianini Belotti ha avuto il merito di evidenziare quanto questi modelli fossero frutto di convenzioni, dimostrando come non esistano, per citarla, qualità maschili o femminili, solo qualità umane. Il suo messaggio è chiaro, ed è il prodotto di una lunga esperienza educativa e degli studi portati avanti in ambito pedagogico: non esistono caratteri femminili o maschili predeterminati. Ruoli e preferenze di genere sono il frutto di costruzioni sociali.
«Ha squarciato il velo. Dal suo libro sono fioriti nuovi studi, ricerche, idee», prosegue Onofri. Nonostante sia scritto da una pedagogista, Dalla parte delle bambine è riuscito a diventare un classico, anche al di là del movimento femminista.
Dal 1973 ad oggi, Dalla parte delle bambine resta un libro rivoluzionario
Un saggio di pedagogia ancora estremamente attuale anche se figlio della propria epoca. «Il libro è scritto con un linguaggio binario, che oggi si sta cercando di superare. Ma la cosa sconvolgente è che per tanti aspetti potrebbe essere stato pubblicato ieri», interviene Alessandra Fraissinet, ideatrice con Annalisa Sirignano del podcast ‘Ti leggiamo una femminista’.
Alessandra Fraissinet, co-ideatrice del podcast Ti leggiamo una femminista
Tra i pregi del libro, quello di mostrare come molti condizionamenti lavorino in noi a livello inconscio. «Un esempio è quello dell’allattamento, descritto bene nel saggio, che analizza la differenza di atteggiamento delle mamme, disposte ad allattare più a lungo i maschi, considerati per natura più voraci. Alle bambine è invece dedicato meno tempo, in loro l’avidità di cibo è mal tollerata», spiega Fraissinet. Grande attenzione va anche prestata a quei modi di dire cui non facciamo caso, ma che in realtà celano un intento discriminatorio. «’Auguri e figli maschi’ è un esempio citato anche da Gianini Belotti. Le parole sono importanti, sono strumenti in grado di modellare il nostro pensiero e la nostra realtà».
Laura Onofri e la società che non abbandona gli stereotipi: «Dispiace ci sia ancora così tanta strada da fare»
Sono passati cinquant’anni dalla pubblicazione di Dalla parte delle bambine. Com’è cambiata la nostra società? «Le cose non sono cambiate molto, purtroppo. Se guardiamo ai giochi, troviamo ancora grandi differenze: bambole e passeggini pensati per le bambine, giochi di azione e sport pensati per i bambini. Anche nei libri di testo adottati nelle scuole permangono modelli stereotipati. Ce ne siamo resi conto facendo un’analisi sulle immagini dei testi adottati per la scuola primaria a Torino nel 2017», interviene Onofri.
Elena Gianini Belotti
La differenziazione nei giochi per maschi e femmine e la letteratura per l’infanzia
Alla scelta dei giochi e alla letteratura per l’infanzia Gianini Belotti dedica un capitolo del libro. Scrive la pedagogista nel 1973: «La differenziazione nei giochi imposta ai maschi e alle femmine è tale che gusti ‘particolari’ in fatto di giochi dopo l’età di quattro-cinque anni cominciano veramente a significare che il bambino o la bambina non hanno accettato i loro ruoli e che quindi qualcosa non ha funzionato». Modelli di genere rigidi e convenzionali continuano a essere trasmessi anche oggi. «Lo vediamo tutti i giorni con la pubblicità. Pur essendo attivo un Istituto dell’Autodisciplina Pubblicitaria, siamo indietro. Ci vorrebbe una legge affinché certe pubblicità sessiste e piene di stereotipi non vengano neanche mandate in onda o stampate sui cartelloni», commenta Onofri. «Dispiace che dopo tutti questi anni ci sia ancora così tanta strada da fare come società per raggiungere l’equità. Occorre sottolinearlo: la permanenza di stereotipi incide a vari livelli, crea una cultura in cui le donne possono più facilmente subire molestie sessuali e violenze», chiarisce Onofri.
Verso il superamento del sessismo nella lingua italiana: Giornaliste Libere Unite Autonome (GiULiA) e la guida Donne, grammatica e media
Qualche passo avanti è stato fatto. La consapevolezza sull’identità di genere è aumentata, così come anche l’attenzione verso il linguaggio. «Il linguaggio è l’ambito nel quale si è lavorato di più. Qualcosa è cambiato nei media, sui quotidiani, in tv. Un merito lo hanno avuto le giornaliste, specialmente quelle facenti capo a GiULiA Giornaliste Libere Unite Autonome, che nel 2014 presentarono Donne, grammatica e media. Una guida ad uso delle redazioni con indicazioni pratiche e suggerimenti sull’uso dell’italiano», prosegue Onofri.
Alma Sabatini e le Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana del 1986
La consapevolezza sull’uso del linguaggio comincia ad affermarsi in Italia nel corso degli anni Ottanta. Nel 1986 vengono diffuse le Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana a cura di Alma Sabatini. «Sabatini è stata la prima importante saggista, linguista e femminista a porre in evidenza la connessione tra permanenza degli stereotipi che ostacolano la piena realizzazione delle donne e una lingua italiana maschilista. Tredici anni dopo l’uscita di Dalla parte delle bambine con queste raccomandazioni si puntò il dito su un altro tipo di condizionamento, su quanto il linguaggio fosse importante, su quanto potesse rivelare di quello che siamo. Ancora oggi permangono resistenze sulla declinazione al femminile di alcune cariche, ruoli e professioni, un tempo prettamente maschili. Anche tra le donne, che percepiscono come una deminutio il fatto di farsi chiamare, ad esempio, avvocata», spiega Onofri.
Per una società equa, paritaria e libera da stereotipi
L’obiettivo da raggiungere è chiaro secondo la rappresentante di Se non ora, quando?: «Una società più equa e paritaria, libera da stereotipi, è una società migliore per tutte le persone, indipendentemente dal genere. Questo processo di liberazione va anche a favore di bambini, ragazzi e uomini. Un bambino che viene redarguito perché esprime le proprie emozioni piangendo non è un bambino felice: è represso. Un bambino che vorrebbe iscriversi a un corso di danza ma non gli è consentito perché non confacente al suo sesso biologico non è un bambino felice: è represso nella sua spontaneità». Come scrive Gianini Belotti: «L’operazione da compiere non è quella di tentare di formare le bambine a immagine e somiglianza dei maschi, ma di restituire a ogni individuo che nasce la possibilità di svilupparsi nel modo che gli è più congeniale, indipendentemente dal sesso cui appartiene».
Elena Gianini Belotti
Puntare su famiglie, scuole e nuove leggi contro la discriminazione
Su quali elementi lavorare per consentire alla nostra società di evolvere verso una maggiore equità? Onofri ritiene si debba intervenire su due fronti. Il primo fronte è sociale e culturale. «Le associazioni possono fare molto nell’opera di sensibilizzazione, a partire da docenti e genitori, per diffondere una cultura del rispetto e della parità, in assenza di stereotipi. Credo nel fare rete, nel lavorare insieme: abbiamo bisogno di essere più coese». Il secondo fronte è politico. «Occorre incidere con leggi che rimuovano gli stereotipi. Fare pressione sui decisori politici per inserire norme antidiscriminazione». Una sensibilizzazione che parta dal nucleo famigliare e dalla scuola è indispensabile anche secondo Fraissinet. «La parità si insegna a casa. La famiglia è una società in miniatura, la prima esperienza sociale che vive una persona appena nata. Fondamentale che i genitori possano essere un modello di gestione paritaria dei ruoli. Necessario lavorare anche sull’educazione sessuale nelle scuole, a partire dai primi gradi di istruzione. Diffondere un’educazione che spieghi cos’è il genere e perché i ruoli di genere sono qualcosa che non serve e che, anzi, ci limita».
La lotta femminista deve tradursi in tutele reali
Sebbene mai come ora il dibattito sui diritti delle donne e della comunità LGBTQIA+ sia presente nel nostro quotidiano e a tutte le latitudini si alzino voci di protesta, spesso questo boato non si traduce in tutele reali. Le piazze si riempiono ma il diritto all’aborto, per fare un esempio, nei fatti non è ancora garantito e anzi è sempre messo in discussione. Commenta Onofri: «Anche in Italia abbiamo una buona legge 194 sulla interruzione volontaria della gravidanza che spesso però non viene applicata o non viene applicata in modo corretto. C’è il rischio reale di tornare indietro, basta poco. In Piemonte si sono diffusi movimenti antiabortisti che difendono un modello di famiglia tradizionale». Si parla tanto, ma si incide poco sulla realtà o almeno non ovunque allo stesso modo. «Quello che succede in tanti Paesi conservatori, può accadere anche a noi. Nessun diritto può essere dato come acquisito per sempre. Occorre stare all’erta. Ci sono leggi che vengono approvate e che in modo sottile da un giorno all’altro fanno sì che le persone si ritrovino private di un diritto».
L’esempio del diritto all’aborto: l’abolizione della sentenza Roe v. Wade negli Stai Uniti
Pensiamo all’America e all’Europa: nel giugno dello scorso anno la Corte Suprema statunitense ha abolito la sentenza Roe v. Wade del 1973 sul diritto all’aborto, dando facoltà ai singoli Stati di applicare le proprie leggi. In Argentina nel 2020 il Congresso ha riconosciuto il diritto all’interruzione volontaria della gravidanza durante le prime 14 settimane di gestazione. Il Governo spagnolo lo scorso anno ha approvato un disegno di legge su salute riproduttiva, sessuale e diritto all’aborto che prevede anche il congedo mestruale, l’obbligatorietà dell’educazione sessuale fin dalle scuole dell’infanzia, un permesso pre-parto per le donne incinte. Due passi avanti e uno indietro, sembrerebbe dunque. È per questo che le bambine hanno ancora bisogno di essere difese.
Laura Onofri
Presidente del comitato torinese dell’associazione ‘Se non ora, quando?’, movimento apartitico per i diritti delle donne nato nel 2010. Componente del coordinamento nazionale dei comitati ‘Se non ora, quando?’.
Alessandra Fraissinet
ideatrice con Annalisa Sirignano di Ti leggiamo una femminista, podcast nato nell’ottobre 2020, che ogni primo lunedì del mese mette al centro un libro femminista.
Femminismo, è morta Elena Gianini Belotti: è stata la prima a parlare di sessismo nell’educazione
Autrice del libro ‘Dalla parte delle bambine’, la scrittrice aveva 93 anni: il suo saggio del 1973, una rivoluzione nella pedagogia, è stato un manifesto per generazioni
di LETIZIA CINI-25 dicembre 2022
ddio a Elena Gianini Belotti, aveva 93 anni. Grande protagonista del femminismo italiano: pedagogista, saggista e scrittrice, la prima a parlare del sessismo nell’educazione con il suo famoso libro Dalla parte delle bambine, è morta a Roma nella notte di Natale all’età di 93 anni. Insegnante per molti anni alla Scuola Assistenti Infanzia Montessori, Gianini Belotti nel 1960 partecipò alla fondazione del Centro Nascita Montessori di Roma, assumendone la direzione che conservò fino al 1980: fu il primo in Italia ad occuparsi della preparazione delle future madri al parto e alla cura del bambino nei primi mesi di vita. Nel Centro le gestanti venivano preparate psicologicamente e praticamente al compito di madri rispettose dell’individualità del bambino. Dal lavoro negli asili nidi con i bambini al di sotto dei 3 anni e dall’osservazione dei loro comportamenti precoci, diversificati secondo il genere, è nato il suo primo libro Dalla parte delle bambine, pubblicato da Feltrinelli nel 1973, che, come la stessa autrice sottolinea, analizza “l’influenza dei condizionamenti sociali nella formazione del ruolo femminile nei primi anni di vita”, ovvero “come la società vuole che diventiamo donne, fin dalla nascita, o meglio, fin da quando siamo nel grembo materno. Questo testo, che individuava ed analizzava in maniera pionieristica i condizionamenti sociali, culturali cui vengono sottoposti maschi e femmine, ha avuto 57 edizioni per oltre 600.000 copie e traduzioni in 15 lingue, tanto da diventare un testo ‘rivoluzionario’ per l’epoca: nè l’autrice nè l’editore si immaginavano un successo così straordinario. “Rispetto al modello di madre idealizzata, forse le donne stanno diventando pessime madri – scriveva – . Ma per la prima volta nella storia stanno diventando autentiche e reali, perché prima di essere madri vogliono essere persone“. E ancora: “Il maschio spacca tutto è accettato, la femmina no. La sua aggressività, la sua curiosità, la sua vitalità spaventano e così vengono messe in atto tutte le tecniche possibili per indurla a modificare il suo comportamento”.
Elena Gianini Belotti
I suoi libri
Sull’onda del successo di “Dalla parte delle bambine, Elena Gianini Belotti iniziò a collaborare con diversi giornali e riviste, tra cui “Paese sera” e “Noi Donne” e si dedicò alla scrittura di numerose opere, tra saggi e romanzi, ed approfondendo lo studio sulla maternità nella letteratura contemporanea. Tra i suoi libri Che razza di ragazza (Savelli, 1979), Prima le donne e i bambini (Rizzoli, 1980), Non di sola madre (Rizzoli, 1983); Educazione dalla nascita (con Grazia Honegger Fresco, Emme Edizioni, 1983). Il fiore dell’ibisco(Rizzoli, 1985, Premio Napoli) ) è il suo primo romanzo in cui afferma che “i talenti delle donne vanno smarriti nella fatica quotidiana di pensare, organizzare”. Seguono Amore e pregiudizio. Il tabù dell’età nei rapporti sentimentali (Mondadori, 1988); Adagio un poco mosso (Feltrinelli, 1993), una raccolta di sette racconti su “vecchie signore solitarie”; Pimpì oselì (Feltrinelli, 1995), in cui racconta uno scorcio dell’Italia degli anni Trenta, nel periodo fascista, visto con gli occhi di una bambina; Apri le porte all’alba (Feltrinelli, 1999); Voli (Feltrinelli, 2001; Premio speciale della giuria del Premio Rapallo); Prima della quiete. Storia di Italia Donati (Rizzoli, 2003, Premio Grinzane Cavour, Premio Viadana, Premio Maiori), che racconta la storia di una maestra toscana che si suicida a causa delle persecuzioni verbali degli abitanti del luogo in cui vive; Pane amaro. Un immigrato italiano in America (Rizzoli, 2006), romanzo sul diario di suo padre che nel 1913 emigrò in America in cerca di lavoro; Cortocircuito (Rizzoli, 2008); L’ultimo Natale”(Nottetempo, 2012); “Onda lunga” (Nottetempo, 2013).
Ha inoltre scritto la prefazione a Ancora dalla parte delle bambine di Loredana Lipperini (Feltrinelli, 2007), aggiornamento dei temi trattati 35 anni prima da Elena Gianini Belotti. Nata il 2 dicembre 1929 a Roma da genitori di origine bergamasca, Gianini Belotti trascorse l’infanzia e l’adolescenza in parte a Roma e in parte nella provincia di Bergamo, dove la madre era insegnante di scuola elementare. Ha vissuto poi tra Roma e Trequanda, nella campagna senese. – Dattilografa in un magazzino di articoli industriali, a sedici anni, cominciò a scrivere racconti che vennero pubblicati sulle riviste femminili del tempo. Più tardi, l’interesse per i meccanismi dello sviluppo infantile la spinse a diplomarsi alla Scuola Assistenti Infanzia Montessori, allora privata, dove rimane ad insegnare per molti anni la pratica montessoriana dell’osservazione e degli interventi educativi con i bambini. Nel 1960 la svolta della sua vita con la fondazione del Centro Nascita Montessori. L’idea di partenza era di trasformare in azioni concrete le indicazioni teoriche montessoriane sulla precocissima vita psichica del neonato, allora considerato un essere inerte, insensibile, cieco e sordo agli stimoli affettivi e ambientali. Era indispensabile rivedere le modalità del parto e della nascita, intrusive e violente e noncuranti delle necessità della madre e del bambino, e rielaborare, con attenzione e delicatezza, le cure e gli interventi più adeguati, scaturiti dall’osservazione empirica del comportamento neonatale nei primi mesi di vita.
Dai metodi contraccettivi ai corsi di preparazione al parto
A questo scopo con la direzione di Elena Gianini Belotti venne curata la preparazione specifica di assistenti specializzate, iniziarono per le gestanti i corsi di preparazione al parto con il training autogeno e quelli alla cura del neonato, nei quali vennero coinvolti anche i padri, ammessi in sala parto. Vennero organizzati i primi incontri sui metodi contraccettivi e sull’educazione sessuale, consulenze a domicilio sui problemi infantili nei primi tre anni di vita. Più tardi, il Centro Nascita ha assunto la gestione di alcuni asili nido aziendali. Per Elena Gianini Belotti è stato un lavoro appassionante, molto utile per la sua formazione e anche per la sua successiva attività letteraria. La sua passione le consentì peraltro di avviare per il Centro Nascita la raccolta sistematica di testi, saggi, letteratura attorno all’infanzia, nucleo dell’attuale biblioteca che si avvale di oltre 3.000 volumi.
Da ‘Prima le donne e i bambini’ di Elena Gianini Belotti
Ancora dalla parte delle bambine
“Quello che ci siamo sentiti dire da bambini: stai fermo, muoviti, fai piano, sbrigati, non toccare, stai attento, hai fatto la cacca, mangia tutto, lavati i denti, non ti sporcare, ti sei sporcato, stai zitto, parla t’ho detto, chiedi scusa, saluta, vieni qui, non starmi sempre intorno, vai a giocare, non disturbare, non correre, non sudare, attento che cadi, te l’avevo detto che cadevi, peggio per te, non stai mai attento, non sei capace, sei troppo piccolo, ormai sei grande, vai a letto, alzati, farai tardi, copriti, non stare al sole, stai al sole, non si parla con la bocca piena.Quello che avremmo voluto sentirci dire da bambini: ti amo, sono felice di averti, parliamo un po’ di te, troviamo un po’ di tempo per noi, come ti senti, sei triste, hai paura, perché non ne hai voglia, sei dolce, sei morbido e soffice, sei tenero, raccontami, che cosa hai provato, sei felice, mi piace quando ridi, puoi piangere se vuoi, sei scontento, cosa ti fa soffrire, che cosa ti ha fatto arrabbiare, ho fiducia in te, mi piaci, io ti piaccio, quando non ti piaccio, ti ascolto, sei innamorato, cosa ne pensi, mi piace stare con te, ho voglia di parlarti, ho voglia di ascoltarti, mi piaci come sei, è bello stare insieme”.
Dicono di lei
“Donne come Elena Gianini Belotti non scompaiono alla loro morte, il loro lascito è molto più di una eredità, è genealogia, è il tessuto connettivo del nostro pensiero e del nostro agire – scrive la psicologa e psicoterapeuta italo inglese, è esperta di linguaggi e comunicazione di genere Judith Pinnock – . L’abbiamo letta e amata soprattutto con Dalla parte delle bambine, ma ogni suo scritto è una pietra miliare per imparare a smascherare i tranelli del patriarcato e per improntare le relazioni a una pedagogia basata sul rispetto e il riconoscimento reciproco, come nel brano scelto per onorarla che vi invito a tenere come guida per come rivolgerci ai bambini e agli adulti”.
ROMA -La “BIANCONA” della via Aurelia- Chiesa di Nostra Signora di Guadalupe-
La chiesa nazionale messicana costruita con le offerte dei Cattolici messicani e per volontà e zelo dei PP. Legionari di Cristo.
Franco Leggeri Fotoreportage-ROMA La consuetudine della Chiese nazionali in Roma ha dato al Centro del cattolicesimo molti gioielli di architettura sacra. Tra questi si può annoverare la Chiesa di Nostra Signora di Guadalupe della via Aurelia ,sita nel XIII Municipio (ex-XVIII), costruita con le offerte dei Cattolici messicani e per volontà e zelo dei PP. Legionari di Cristo.
ROMA la chiesa nazionale messicana-Foto Franco Leggeri
Il bellissimo tempio, moderno ed ispirato ad una propria classicità, opera dell’Architetto Giovanni Mazzocca. Nostra Signora di Guadalupe è sorta come omaggio della nobile Nazione cattolica del Messico alla Città Santa, e come un atto di fede e di devozione alla Sede Apostolica, per così offrire a tutti i Messicani in viaggio per L’Europa un’occasione di ritrovare a Roma la loro Patrona e Regina dovutamente onorata. La costruzione fu promossa da S.S. Pio XII all’inizio dell’anno 1955. L’undici aprile dello stesso anno, la prima pietra, prelevata dalla collina di Città del Messico dove sorge il celebre Santuario della “Reia de México y Emperatriz de las Américas”, prima di essere posta, fu personalmente benedetta dal Papa in una cerimonia privata in Vaticano. Numerose personalità erano presenti a questo avvenimento, e tra le più rappresentative gli Em.mi Cardinali Micara, Pizzardo, G. Cicognani, Canali, Piazza, Tedeschini e Cariaci. Dopo tre anni, il dodici ottobre del 1958 aveva luogo la solenne consacrazione, compiuta dal’Em.mo Card. Josè Garbi y Rivera, Arcivescovo di Guadalajara, e un giorno dopo l’inaugurazione, resa anch’essa particolarmente memorabile dalla partecipazione degli Em.mi Pizzardo, Tedeschini, Cicognani, Gonfalonieri e Carruba, con numerose altre personalità. La pianta della chiesa è quella tipica delle basiliche cristiane. La navata centrale, coperta con un tetto a capriate, nella parte superiore è fenestrata e la luce penetra all’interno, morbida e calda, attraverso lastre di onice messicano. Le due navate laterali sono più basse rispetto a quella centrale, e come tali si rivelano anche in facciata. La facciata è in travertino levigato e marmi policromi con sobri ma efficaci motivi geometrici. Nella parte superiore una finestra ottagona circoscrive un rosone, al centro del quale, come in un guscio di mandorla, è raffigurata in mosaico l’immagine di Nostra Signora di Guadalupe. La pilastratura è in travertino, e sui singoli pilastri poggiano travi di cemento armato, a vista, a sostegno delle pareti della navata centrale e copertura delle navate laterali. Le pareti interne ed esterne della chiesa sono rivestite in mattoni, mentre l’abside, nella parete di fondo, è rivestita di mosaici a motivi geometrici, che fanno da contorno al quadro della Vergine di Gadalupe, incastonata in una ricca ed originale cornice d’arte messicana. Il pavimento della chiesa è in marmi policromi, a disegni molto originali nel mezzo della navata centrale. L’abside è sopraelevato di alcuni gradini rispetto al piano della chiesa e ciò pone l’altare in ottima visibilità rispetto ai fedeli. Un fresco mosaico si sviluppa lungo le fasce laterali che sovrastano i pilastri della navata centrale. La sobria decorazione, conferisce all’interno della chiesa un aspetto di chiarezza e di semplicità quanto mai consono alla sensibilità del mondo contemporaneo. L’Osservatore Romano del 14 dicembre del 1958, così descriveva la chiesa:” La cosa che colpisce in questa chiesa e la distingue tra le tante opere contemporanee meno felici, è certo quella obiettività di valutazione che è rispetto, amore e anche misura delle cose, delle materie, delle forme e del retaggio di contenuto che è in ogni spetto della tecnica e della cultura umana. Quel senso d’amore, senza idolatria, per la pluralità e la ricchezza dei materiali e delle strutture antiche e nuove, che fa di essa una sintesi estetica che è strumento vivo e contemporaneo e convincente al messaggio religioso……” La chiesa fu visitata il 20 novembre del 1962 da Sua Santità Giovanni XXIII.
Articolo e Foto di Franco Leggeri per le Associazione -DEA SABINA e CORNELIA ANTIQUA
La Biancona della via Aurelia: la Chiesa nazionale messicana
La Vergine di Guadalupe, Madre della civiltà dell’amore
La storia legata alla Madonna di Guadalupe è estremamente affascinante. Conosciamo tutti il mistero della sua figura impressa sul mantello dell’indio convertito al cristianesimo Jaun Diego Cuauhtlatoatzin. Un’immagine che ad ogni perizia e indagine scientifica è risultata inspiegabile. È detta immagine acherotipa: non fatta da mano dell’uomo.
A tutti è noto il mistero delle sue pupille, dove sono impressi come su una pellicola i volti di coloro che furono i testimoni del miracolo o il fatto inspiegabile che due angeli dipinti successivamente si deteriorarono poco tempo dopo, mentre la figura di Maria resiste nel tempo intatta, nonostante l’acido citrico cadutole addosso o la bomba fatta esplodere ai suoi piedi.
Le apparizioni come colori e profumi di primavera nel livido inverno
All’alba del 9 dicembre 1531 una figura solenne, più grande del vero, apparve al giovane indio Juan Diego, sulla collina di Tepeyac, alla periferia di Città del Messico. La donna, splendida nella sua veste di sole e nella sua carnagione ambrata, da meticcia, si presentò al giovane con queste parole: «Io sono la perfetta sempre Vergine, madre del Verissimo Dio per il quale si vive» e subito espresse la ragione della sua apparizione, che fosse costruita «la sua piccola casa sacra». Così chiede al giovane di recarsi dal vescovo e riferire il suo messaggio. Il vescovo, Juan de Zummarràga, non gli crede. Alla quarta apparizione, il 12 dicembre, la Vergine chiede a Jaun di salire sulla collina e raccogliere fiori. È inverno, la zona è brulla, eppure il giovane la ritrova ricoperta di fiori umidi di rugiada. I fiori di Castiglia. È una costante questo contrappunto tra il silenzio di dicembre e il canto di uccelli mai visti, tra la collina spoglia e triste e il tripudio di colori e profumi. Maria è bella come la primavera. La Vergine aiuta a riempire il suo mantello con quei fiori e lui li porta al vescovo.
Virgen morenita
Il mantello, l’umile tilma fatta con due teli di ayate (fibra d’agave) cuciti insieme, viene infine dispiegato di fronte al vescovo. I fiori cadono e svelano l’immagine della Vergine, raffigurata in piedi, con le mani giunte, il volto leggermente piegato e gli occhi socchiusi. Un manto trapunto di stelle le copre i capelli scuri e scende fino a terra. La veste rosa è decorata da arpeggi e fiori leggeri. Una cinta scura le cinge il seno e ne rivela l’imminente maternità, secondo l’uso delle donne azteche. È come portata in volo da un angelo a braccia aperte e ali colorate. Ai piedi una falce scura di luna e dietro la circondano raggi luminosi di uno splendido sole, simile alla mandorla mistica dell’arte occidentale romanica.
Madre della civiltà dell’amore
Il libro madonna di Guadalupe. Madre della civiltà dell’amore, di Carl Anderson e Eduardo Chávez (LEV 2012), il primo cavaliere supremo dei Cavalieri di Colombo e il secondo uno dei più famosi esperti delle apparizioni di Guadalupe, oltre che postulatore per la Causa di canonizzazione di Juan Diego, è un vero e proprio viaggio dentro il mistero, dove viene spiegato il significato di ogni particolare dell’immagine e ogni significato dell’apparizione. La Madonna di Guadalupe è un catechismo di panno. Ogni dettaglio ha un significato preciso, intellegibile agli indi. È stata la portatrice di una nuova civiltà ˗ la civiltà dell’amore ˗ e si è mostrata nel modo più chiaro e trasparente. Dopo le apparizioni, tra gli indi le richieste di essere battezzati si moltiplicarono a dismisura, tanto da dover costringere i missionari francescani a grandi celebrazioni collettive.
Le apparizioni mariane sono la rappresentazione viva del mistero. Maria è il punto di contatto tra l’immenso divino e l’umano finito. Il gesto di Maria di riempire la tilma di fiori è mostrare la verità. Attraverso un segno incredibile far toccare la verità credibile.
Il santuario mariano più visitato al mondo
Il Santuario della Vergine di Guadalupe è il santuario mariano più visitato al mondo. Certamente come Anderson e Chávez affermano, la storia del Messico sarebbe incomprensibile se non si comprendesse la devozione del suo popolo alla Madonna di Guadalupe. Questa devozione è presto dilagata ovunque e oggi è patrona e regina di tutti i popoli di lingua spagnola e del continente americano in particolare, come scrive san Giovanni Paolo II, che la definisce «prima evangelizzatrice dell’America Latina» L’apparizione di Maria all’indio Juan Diego sulla collina di Tepeyac, nel 1531, ebbe una ripercussione decisiva per l’evangelizzazione. Questo influsso supera di molto i confini della nazione messicana, raggiungendo l’intero Continente. E l’America, che storicamente è stata ed è crogiolo di popoli, ha riconosciuto nel volto meticcio della Vergine di Tepeyac, «in Santa Maria di Guadalupe, un grande esempio di evangelizzazione perfettamente inculturata» (Ecclesia in America, 11).
Nostra Signora e Bambina
Papa Francesco rivolge ogni anno, durante la messa dedicata alla Vergine di Guadalupe, pensieri colmi di amore a Maria. Le apparizioni sono visitazioni, sono come il reiterarsi del suo andare da Elisabetta. Il Papa afferma: Diede luogo ad una nuova “visitazione”. Corse premurosa ad abbracciare anche i nuovi popoli americani, in una drammatica gestazione. Fu come un “grande segno apparso nel cielo… una donna vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi” (cfr Ap 12,1), che assume in sé la simbologia culturale e religiosa dei popoli originari, e annuncia e dona suo Figlio a tutti questi altri nuovi popoli di meticciato lacerato. Tanti saltarono di gioia e speranza davanti alla sua visita e davanti al dono di suo Figlio, e la perfetta discepola del Signore è diventata la “grande missionaria che portò il Vangelo alla nostra America” (Documento di Aparecida, 269). Il Figlio di Maria Santissima, Immacolata incinta, si rivela così dalle origini della storia dei nuovi popoli come “il verissimo Dio grazie al quale si vive”, buona novella della dignità filiale di tutti suoi abitanti. Ormai più nessuno è solamente servo, ma tutti siamo figli di uno stesso Padre, fratelli tra di noi e servi nel Servo (Omelia, 12 dicembre 2014).
ROMA la chiesa nazionale messicana-Foto Franco Leggeri
Nostra Signora di Guadalupe (in spagnoloNuestra Señora de Guadalupe), nota anche come la Vergine di Guadalupe (Virgen de Guadalupe), è l’appellativo con cui la Chiesa Cattolica venera Maria in seguito a un’apparizione che sarebbe avvenuta in Messico nel 1531.
Secondo la tradizione tra il 9 e il 12 dicembre 1531, sulla collina del Tepeyac a nord di Città del Messico (La Villa de Guadalupe), Maria apparve più volte a Juan Diego Cuauhtlatoatzin, uno dei primi aztechi convertiti al cristianesimo. Il nome Guadalupe venne dettato da Maria stessa a Juan Bernardino, lo zio di Juan Diego, essendogli apparsa per guarirlo da una grave malattia: alcuni hanno ipotizzato che sia la trascrizione in spagnolo dell’espressione azteca Coatlaxopeuh, “colei che schiaccia il serpente” (cfr. Genesi 3,14-15[1]), oltre che il riferimento al Real Monasterio de Nuestra Señora de Guadalupe fondato da re Alfonso XI di Castiglia nel comune spagnolo di Guadalupe nel 1340.
In memoria dell’apparizione, sul luogo fu subito eretta una cappella, sostituita dapprima nel 1557 da un’altra cappella più grande, e poi da un vero e proprio santuario consacrato nel 1622. Infine nel 1976 è stata inaugurata l’attuale Basilica di Nostra Signora di Guadalupe.
Nel santuario è conservato il mantello (tilmàtli) di Juan Diego, sul quale è raffigurata l’immagine di Maria, ritratta come una giovane nativa americana: per la sua pelle scura ella è chiamata dai fedeli Virgen morenita[2]. Nel 1921 Luciano Pèrez, un attentatore inviato dal governo, nascose una bomba in un mazzo di fiori posti ai piedi dell’altare; l’esplosione danneggiò la basilica, ma il mantello e il vetro che lo proteggeva rimasero intatti[3][4].
Si ritiene che l’apparizione di Guadalupe, pur non essendo stata riconosciuta con un decreto ufficiale, abbia ottenuto dalla Chiesa cattolica un riconoscimento di fatto: il vescovo di allora fece costruire una cappella là dove aveva chiesto la Vergine e il veggente Juan Diego è stato proclamato santo da Papa Giovanni Paolo II il 31 luglio 2002[5]. Secondo la dottrina cattolica queste apparizioni appartengono alla categoria delle rivelazioni private.[6]
La Madonna di Guadalupe è venerata dai cattolici come patrona e regina di tutti i popoli di lingua spagnola e del continente americano in particolare, ridando vigore al culto di Nostra Signora del comune spagnolo di Guadalupe del XIV secolo. La sua festa si celebra il 12 dicembre, giorno dell’ultima apparizione. In Messico il 12 dicembre è festa di precetto.
La Basilica omonima è uno dei luoghi di culto più visitati dell’America[7].
Il racconto delle apparizioni
Secondo il racconto tradizionale, espresso in náhuatl nel testo conosciuto come Nican Mopohua, Juan Diego avrebbe visto per la prima volta la Madonna la mattina del 9 dicembre 1531, sulla collina del Tepeyac vicino a Città del Messico. Ella gli avrebbe chiesto di far erigere un tempio in suo onore ai piedi del colle: Juan Diego corse a riferire il fatto al vescovo Juan de Zumárraga, ma questi non gli credette. La sera, ripassando sul colle, Juan Diego avrebbe visto per la seconda volta Maria, che gli avrebbe ordinato di tornare dal vescovo l’indomani. Il vescovo lo ascoltò di nuovo e gli chiese un segno che provasse la veridicità del suo racconto.
Juan Diego tornò quindi sul Tepeyac dove avrebbe visto per la terza volta la Vergine, la quale gli avrebbe promesso un segno per l’indomani. Il giorno dopo, però, Juan Diego non poté recarsi sul luogo delle apparizioni in quanto dovette assistere un suo zio, gravemente malato. La mattina dopo, 12 dicembre, lo zio appariva moribondo e Juan Diego uscì in cerca di un sacerdote che lo confessasse. Maria gli sarebbe apparsa ugualmente, per la quarta e ultima volta, lungo la strada: gli avrebbe detto che suo zio era già guarito e lo avrebbe invitato a salire di nuovo sul colle a cogliere dei fiori. Qui Juan Diego trovò il segno promesso: dei bellissimi fiori di Castiglia (rose tipiche della regione spagnola[8]), sbocciati fuori stagione in una desolata pietraia. Egli ne raccolse un mazzo nel proprio mantello e andò a portarli al vescovo.
Di fronte al vescovo e ad altre sette persone presenti, Juan Diego aprì il mantello per mostrare i fiori: all’istante sulla tilma si sarebbe impressa e resa manifesta alla vista di tutti l’immagine della Vergine Maria. Di fronte a tale presunto prodigio, il vescovo cadde in ginocchio, e con lui tutti i presenti. La mattina dopo, Juan Diego accompagnò il presule al Tepeyac per indicargli il luogo in cui la Madonna avrebbe chiesto le fosse innalzato un tempio e l’immagine venne subito collocata nella cattedrale.
A causa della sua origine miracolosa, l’immagine della Madonna di Guadalupe è oggetto di devozione paragonabile a quella rivolta alla Sindone. La sua fama si sparse rapidamente anche al di fuori del Messico: nel 1571 l’ammiraglio genovese Gianandrea Doria ne possedeva una copia, dono del re Filippo II di Spagna, che portò con sé sulla propria nave nella battaglia di Lepanto. Negli anni venti del XX secolo, i Cristeros, cattolici messicani che si erano ribellati al governo anticlericale, portavano in battaglia l’immagine della Virgen morenita sulle proprie bandiere.
Il mantello è del tipo chiamato tilma: si tratta di due teli di ayate (fibra d’agave) cuciti insieme. L’immagine di Maria è di grandezza lievemente inferiore al naturale, alta 143 cm. Le sue fattezze sono quelle di una giovane meticcia: la carnagione è scura. Maria è circondata dai raggi del sole e ha la luna sotto i piedi; porta sull’addome un nastro di colore viola annodato sul davanti che, tra gli aztechi, indicava lo stato di gravidanza; sotto la luna vi è un angelo dalle ali colorate di bianco, rosso e verde (i colori dell’attuale bandiera messicana), che sorregge la Vergine[9].
La figura ha caratteristiche particolari che la ricollegano alle divinità della religione azteca. Il mantello verde e blu che indossa la Madonna era anche un simbolo della divinità chiamata Ometeotl. La Luna è un simbolo ricorrente nelle raffigurazioni mariane e pagane, quasi sempre associato alle divinità femminili.[10] Elemento non trascurabile è il luogo dell’apparizione, ovvero la collina di Tepeyac, sulla quale sorgeva un tempio dedicato alla dea locale Tonantzin, la cui pianta sacra era proprio l’agave associata all’apparizione mariana.[11]
Alcuni autori, che hanno eseguito degli studi scientifici sul mantello, sostengono che effettivamente l’immagine non sarebbe dipinta, ma acheropita (non realizzata da mano umana); essa presenterebbe inoltre caratteristiche particolari difficili da spiegare naturalmente. Altri autori sostengono il contrario.
Principali proprietà della tilma e dell’immagine presente su di essa
Il telo (in fibra di agave) è di immagine grossolana: gli spazi vuoti presenti tra l’ordito e la trama sono così numerosi che ci si può guardare attraverso.
Nonostante in Messico il clima (caratterizzato da un’atmosfera ricca di salnitro) causi il rapido deterioramento dei tessuti (specialmente di quelli in fibra vegetale), la tilma invece si è conservata pressoché intatta per circa cinquecento anni[12].
L’immagine non ha alcun tipo di fondo, tanto che si può guardare da parte a parte del telo (questo è un elemento a sostegno dell’ipotesi che si tratti di un’immagine acheropita). Già nel 1666 la tilma fu esaminata da un gruppo di pittori e di medici per osservarne la composizione: essi asserirono che era impossibile che l’immagine, così nitida, fosse stata dipinta sulla tela senza alcuna preparazione di fondo, e inoltre che nei 135 anni trascorsi dall’apparizione, nell’ambiente caldo e umido in cui era conservata, essa avrebbe dovuto distruggersi. Nel 1788, per provare sperimentalmente questo fatto, venne eseguita una copia sullo stesso tipo di tessuto: esposta sull’altare del santuario, già dopo soli otto anni era rovinata. Al contrario l’immagine originale, a distanza di quasi 500 anni, è ancora sostanzialmente intatta.
La tecnica usata per realizzare l’immagine è un mistero: alcune parti sono affrescate, altre sembrano a guazzo altre ancora (certe zone del cielo) sembrano fatte a olio (elemento a sostegno dell’ipotesi che si tratti di un’immagine acheropita). Disegno che mostra una delle prime analisi di guadalupanos in cui si studia come sia stato possibile modellare la vergine quando ayate viene tagliato a metà e unito con un filo.
Gli Aztechi dipingevano i volti in modo elementare usando la prospettiva frontale o quella di profilo. La figura presente sulla tilma è, invece, rappresentata con la prospettiva di un volto leggermente piegato in avanti e visto di tre quarti. La realizzazione dell’immagine (se fosse stata realizzata da mano umana) richiede capacità superiori a quelle esistenti all’epoca in Messico; parimenti, nessun artista occidentale era attivo nella regione in quegli anni (elemento a sostegno dell’ipotesi dell’origine acheropita dell’immagine).
I caratteri somatici della donna raffigurata sono quelli tipici di una persona di sangue misto, meticcia. L’immagine risale a pochi anni dopo la conquista del Messico, quando il tipo meticcio era assolutamente minoritario. La Madonna di Guadalupe prefigura un tipo di popolazione che diverrà maggioritario solo dopo alcune generazioni. Rimane un mistero come il presunto autore abbia raffigurato in forma così perfetta un soggetto allora così poco diffuso (elemento a sostegno dell’ipotesi dell’origine acheropita dell’immagine).
La disposizione delle stelle sul manto azzurro che copre la Vergine non sembra casuale ma rispecchierebbe l’area del cielo che era possibile vedere da Città del Messico durante il solstizio d’inverno[13]. Se ne accorsero per primi gli astronomi messicani dell’epoca.
Particolarità singolari presenti e riscontrate sugli occhi dell’immagine sono assolutamente inspiegabili se si ritiene che l’immagine sia stata realizzata da mano umana (vedi infra)[14].
Alcuni dati portati a sostegno dell’ipotesi miracolosa
Nel 1791 si rovesciò accidentalmente acido muriatico sul lato superiore destro della tela. In un lasso di 30 giorni, senza nessun trattamento, si sarebbe ricostituito miracolosamente il tessuto danneggiato.
Nel 1936 il chimico Richard Kuhn esaminò due fibre di colore diverso prelevate dal mantello: analizzate, non mostrarono la presenza di alcun pigmento.
Nel 1979 Philip Serna Callahan scattò una serie di fotografie all’infrarosso. L’esame di queste foto rivelò che, mentre alcune parti dell’immagine erano dipinte (potrebbero essere state aggiunte in un secondo momento), la figura di Maria era impressa direttamente sulle fibre del tessuto; solo le dita delle mani apparivano ritoccate per ridurne la lunghezza.
Nel 1951 il fotografo José Carlos Salinas Chávez dichiarò che in entrambe le pupille di Maria, fortemente ingrandite, si vedeva riflessa la testa di Juan Diego. Nel 1977 l’ingegnere peruviano José Aste Tonsmann analizzò al computer le fotografie ingrandite 2500 volte e affermò che si vedono ben cinque figure: Juan Diego nell’atto di aprire il proprio mantello, il vescovo Juan de Zumárraga, due altri uomini (uno dei quali sarebbe quello originariamente identificato come Juan Diego) e una donna. Al centro delle pupille si vedrebbe inoltre un’altra scena, più piccola, anche questa con diversi personaggi. Nella puntata di Voyager del 12 ottobre 2009, viene detto che i personaggi fino a quel momento trovati sono 13.
La tilma mantiene sempre una temperatura costante di 36,6 °C, corrispondente alla temperatura media del corpo umano.[15]
Dati portati a sostegno dell’ipotesi contraria[16]
Elaborazioni fotografiche ottenute con tecnica di ripresa ai raggi infrarossi evidenziano alcuni ritocchi successivi e rendono lecita l’ipotesi che l’autore abbia realizzato il contorno della figura a mo’ di schizzo, per poi colorarla.
Nel 1556, nel corso di un esame del mantello, fu affermato[16] che l’effigie fosse stata dipinta dal “pittore indiano Marcos” (che alcuni studi riconducono a Marcos Cipac d’Aquino, un artista azteco dell’epoca) l’anno prima.
Nel 1982 José Sol Rosales esaminò il tessuto al microscopio e affermò che la colorazione dell’immagine è dovuta ad alcuni pigmenti già disponibili e utilizzati nel XVI secolo.
Le caratteristiche dell’immagine rispecchiano gli schemi dell’arte figurativa spagnola del XVI secolo, avente come oggetto le rappresentazioni mariane; la tradizione su Juan Diego invece, secondo alcuni studi, risalirebbe al secolo successivo.
L’esistenza stessa di Juan Diego è stata decisamente messa in dubbio, anche da importanti esponenti cattolici, nel periodo del processo di canonizzazione di Juan Diego, come ad esempio da Guillermo Schulemburg Prado, membro della Pontificia Accademia Mariana e primo amministratore (per trent’anni) della basilica di Guadalupe; dall’ex nunzio apostolico messicano, Girolamo Prigione; dall’arcivescovo polacco Edward Nowak, segretario della Congregazione per le Cause dei Santi (“sull’esistenza di questo Santo si sono sempre avuti forti dubbi. Non abbiamo documenti probatori ma solo indizi. […] Nessuna prova presa singolarmente dimostra che Juan Diego sia esistito”, in un’intervista al quotidiano Il Tempo).
L’immagine che si vede nelle pupille ha una risoluzione troppo bassa per poter affermare con certezza che vi si vedano i personaggi che alcuni affermano di riconoscere. Gli scettici liquidano questa affermazione come un caso di pareidolia, la tipica tendenza umana a ricondurre a forme note degli oggetti o dei profili dalla forma casuale.
Approvazioni pontificie
Papa Benedetto XIV – nella bolla papaleNon est Equidem del 25 maggio 1754 dichiarò Nostra Signora di Guadalupe patrona di quella che allora si chiamava “Nuova Spagna”, un’area corrispondente all’America centrale e settentrionale spagnola. Inoltre, promulgò in suo onore testi liturgici da integrarsi nella Messa cattolica e nel Breviario romano.
Papa Leone XIII – l’8 febbraio 1887 concesse un decreto per l’incoronazione della reliquia originale messicana. I riti di incoronazione furono eseguiti il 12 ottobre 1895. Per tramite della Sacra Congregazione dei Riti, il 6 marzo 1894 firmò una lettera di approvazione.
Papa Pio X – con il decreto Gratia Quae del 16 giugno 1910, firmato e autenticato dal cardinale Rafael Merry del Val, la dichiarò patrona della Repubblica del Messico.[17]
il 10 agosto 1924 concesse un decreto di incoronazione canonica per un’immagine omonima custodita a Santa Fe, in Argentina. Il decreto fu eseguito dall’arcivescovo Filippo Cortesi il 22 aprile 1928.
in occasione del “Secondo Congresso Nazionale Mariano” del 12 dicembre 1928, sottoscrisse un decreto di conferma del patrocinio di Nostra Signora di Guadalupe per la diocesi di Coro.
il 12 settembre 1942 annullò i precedenti decreti del luglio 1935 in sostituzione degli Impositi Nobis[19] e il 16 luglio 1958, nel Quidquid ad Dilatandum, ribadì[20] che Nostra Signora di Guadalupe era un titolo patronale da preferirsi a quello dell'”Immacolata Concezione” per le isole Filippine.
menzionò la venerata immagine in un discorso radiofonico pubblico, tenuto il 12 ottobre 1945 in occasione del cinquantesimo anniversario della sua incoronazione.[21]
il 4 marzo 1949 concedette un decreto pontificio per l’incoronazione per un’immagine omonima prodotta dallo Studio Mosaico Vaticano, immagine che fu incoronata il 26 aprile 1949 dall’Arcivescovo di Parigi, il cardinale Emmanuel Célestin Suhard.
il 20 marzo 1966 donò all’immagine una Rosa d’oro, opera dello scultore romano Giuseppe Pirrone. Come da tradizione, benedisse la rosa, la Domenica Laetare del 20 marzo 1966 e la consegnò al cardinale Carlo Confalonieri come suo legato, il quale la presentò in Basilica il 31 maggio 1966.[22]
l’8 ottobre 1992 controfirmò un decreto di incoronazione di un’immagine omonima della statua a Coro, in Venezuela. L’incoronazione ebbe luogo il 12 dicembre 1992.
il 15 settembre 1994 concesse il decreto di incoronazione dell’immagine venerata a Manzanillo, in Messico.
il 9 maggio 2006 sottoscrisse un decreto di incoronazione canonica per l’immagine omonima di Cebu, nelle Filippine, che fu successivamente eseguito il 16 luglio dello stesso anno. Ciò fu il suo secondo decreto di incoronazione.
il 6 dicembre 2008 promulgò un decreto che elevava il santuario di Guadalupe a Coro, in Venezuela, al rango di basilica minore.
nel corso della visita apostolica alla Basilica il 13 febbraio 2016, donò una nuova corona d’argento placcata in oro con una preghiera di accompagnamento. Questa seconda corona è conservata all’interno della cancelleria e non è riposta sull’immagine custodita sull’altare e pubblicamente visibile.
Altri prelati
Il cardinale Raymond Leo Burke ha composto una preghiera per una novena straordinaria di 9 mesi, dal 12 marzo al 12 dicembre 2024, festa di Nostra Signora di Guadalupe, cui è devoto.[25]
ROMA la chiesa nazionale messicana-Foto Franco LeggeriROMA la chiesa nazionale messicana-Foto Franco LeggeriROMA la chiesa nazionale messicana-Foto Franco LeggeriROMA la chiesa nazionale messicana-Foto Franco LeggeriROMA la chiesa nazionale messicana-Foto Franco LeggeriROMA la chiesa nazionale messicana-Foto Franco LeggeriROMA la chiesa nazionale messicana-Foto Franco LeggeriROMA la chiesa nazionale messicana-Foto Franco LeggeriROMA la chiesa nazionale messicana-Foto Franco LeggeriROMA la chiesa nazionale messicana-Foto Franco LeggeriROMA la chiesa nazionale messicana-Foto Franco LeggeriROMA la chiesa nazionale messicana-Foto Franco LeggeriROMA la chiesa nazionale messicana-Foto Franco LeggeriROMA la chiesa nazionale messicana-Foto Franco LeggeriROMA la chiesa nazionale messicana-Foto Franco LeggeriROMA la chiesa nazionale messicana-Foto Franco Leggeri ROMA-Municipio XIII- Via Aurelia- la chiesa nazionale messicana-
Salvo Palazzolo- L’amore in questa città- Rizzoli – Mondadori Libri-
Descrizione del libro di Salvo Pazzolo.L’Amore in questa città-Palermo, 1935:il corpo di una studentessa, Cetti Zerilli, viene ritrovato nel palazzo dell’Università crivellato da tre colpi di pistola. Accanto a lei il cadavere di un milite fascista, in camicia nera e stivaloni. Un caso di omicidio-suicidio sentenzia la polizia del regime, che lo archivia con un’urgenza sospetta, imponendo alla stampa il silenzio. Ma è una verità viziata dalla censura, non ci sono dubbi per Felice, il padre della ragazza, che si rifiuta di accettare per quella figlia piena di vita e così amata la versione ufficiale della tragedia. E in una Palermo buia e anestetizzata dalla violenza fascista trova un complice della sua privata ricerca di giustizia in Nino Marino, coraggioso cronista del “Giornale di Sicilia” tormentato da un amore che non è mai riuscito a dimenticare. La storia di Cetti tocca Nino nel profondo, ma non potendo raccontarla sulla pagina il giornalista dovrà indagare in segreto sulla vicenda, con l’appoggio delle sue fonti – oppositori del regime come lui – e delle tracce lasciate dietro di sé da Cetti: una ragazza appassionata, innamorata dei libri e della sua libertà, e animata da una testardaggine controcorrente. A novant’anni dai fatti, Salvo Palazzolo ricostrui- sce in questo vibrante romanzo inchiesta un cold case che mette a nudo le storture di un regime liberticida, disposto a tutto pur di mantenere il potere. La storia vera di un femminicidio di Stato in queste pagine si fa memoria collettiva, e restituisce finalmente la voce a chi è stata troppo a lungo negata..
Salvo Palazzolo.(Palermo, 1970), giornalista del quotidiano “la Repubblica”, vive e lavora a Palermo, dove da anni si occupa di mafia. È autore di diversi libri su Cosa nostra.
Dopo la laurea in Giurisprudenza ha iniziato l’attività giornalistica nel 1992, al quotidiano L’Ora di Palermo. Ha poi collaborato con l’emittente TeleScirocco, i quotidiani il manifesto, La Sicilia e Il Mediterraneo, occupandosi di cronaca giudiziaria. In collaborazione con Video On Line ha realizzato il primo sito internet italiano su un processo penale, quello che ha visto imputato l’ex 007 del Sisde Bruno Contrada1999 lavora al quotidiano la Repubblica. Nel 2019 è stato nominato inviato speciale. Negli ultimi trent’anni, ha raccontato le trasformazioni del fenomeno mafioso in Sicilia dopo le stragi Falcone e Borsellino. Per le sue inchieste sulla riorganizzazione di Cosa nostra è stato oggetto di minacce. I mafiosi del clan Inzerillo, tornati dagli Stati Uniti a Palermo, sono stati intercettati dalla squadra mobile nel dicembre 2018 mentre discutevano di dargli “due colpi di mazzuolo”Palermo, minacce all’inviato Salvo Palazzolo. Insulti dopo il post del fratello del boss. Decine di messaggi di solidarietà, su la Repubblica, 8 aprile 2020. URL consultato il 12 marzo 2022."}}” data-ve-attributes=”{"typeof":"mw:Extension/ref"}”>[4][5]: non aveva gradito l’articolo che svelava la sua distribuzione di generi alimentari agli abitanti della periferia palermitana durante il lockdownSalvo Pazzolo.L’Amore in questa città-Palermo,
Un capitolo importante delle inchieste giornalistiche di Palazzolo riguarda il rapporto fra Chiesa e mafia. Nel 2004 ha intervistato il boss Pietro AglieriGiovanni Falcone e Paolo Borsellino avrebbe dovuto portare alla dissociazione di alcuni mafiosi da Cosa nostraIl capo della confraternita che accoglieva il cardinale è un boss di Cosa nostra, su la Repubblica, 1º maggio 2014. URL consultato il 12 marzo 2022."}}” data-ve-attributes=”{"typeof":"mw:Extension/ref"}”>[16][17]. Due mesi dopo, ha documentato “l’inchino” durante una delle più importanti processioni della città davanti all’agenzia di pompe funebri del boss Alessandro D’AmbrogioSalvatore Riina, a Corleone: per questo episodio, il componente di una confraternita religiosa è stato condannato a 6 mesi per il reato di “turbamento delle funzioni religiose”Vito Ievolella. Dopo aver filmato di nascosto alcuni passaggi dell’omelia, ha chiesto al padre carmelitano: “Come ha potuto celebrare messa per un mafioso, dunque per uno scomunicato dalla Chiesa?”. Il sacerdote gli ha risposto con tono minaccioso: “Stia attento a come parla, perché altrimenti lei la paga. Perché il Signore fa pagare queste cose”Corrado Lorefice, che ha richiamato don Frittitta (“C’è inconciliabilità fra l’appartenenza alle organizzazioni mafiose e il Vangelo”)SE MUOIO SOPRAVVIVIMI di Alessio Cordaro e Salvo Palazzolo. –, su vittimemafia.it, 29 settembre 2012. URL consultato il 13 marzo 2022."}}” data-ve-attributes=”{"typeof":"mw:Extension/ref"}”>[22], scritto con Alessio Cordaro, ha fatto riaprire le indagini sull’omicidio di Lia Pipitone, la giovane uccisa nel 1983, a Palermo: il nuovo processo ha portato alla condanna a 30 anni per i boss Nino Madonia e Vincenzo GalatoloPaolo Borsellino, nel libro “Ti racconterò tutte le storie che potrò”Tre donne contro i boss dei pascoli, su Archivio – la Repubblica.it. URL consultato il 13 marzo 2022."}}” data-ve-attributes=”{"typeof":"mw:Extension/ref"}”>[26][27]. Su questa vicenda, Massimo Giletti ha condotto una lunga campagna nella sua trasmissione “Non è l’arena”, in cui Palazzolo è stato ospiteSalvo Palazzolo racconta ‘I fratelli Graviano’. URL consultato il 13 marzo 2022."}}” data-ve-attributes=”{"typeof":"mw:Extension/ref"}”>[30], dedicato ai fratelli Graviano, i mafiosi delle stragi, parte dall’esperienza con don Pino Puglisi, il parroco di Brancaccio ucciso dalla mafia nel 1993: all’epoca, il sacerdote era anche assistente spirituale del gruppo Fuci, la federazione degli universitari cattolici, di cui Palazzolo era responsabile. Nel 1998, ha testimoniato al processo contro i fratelli Graviano raccontando l’impegno del sacerdote, nominato dalla Chiesa beato per il suo impegno contro le cosche.
Salvo Pazzolo.L’Amore in questa città-Palermo,
Televisione
Come coautore di programmi televisivi di inchiesta su Cosa nostra, ha collaborato con la società di produzione Magnolia e con la Rai. È fra gli sceneggiatori delle docu-fiction del regista Claudio Canepari, andate in onda su Rai 3: Scacco al re, la cattura di Provenzano; Doppio gioco, le talpe dell’antimafia; Le mani su Palermo. Quest’ultimo programma nel 2009 ha ricevuto il premio della critica alla XV edizione del premio giornalistico televisivo “Ilaria Alpi”Teatro
Enrico Bellavia e Salvo Palazzolo, Falcone Borsellino. Mistero di Stato, 2002, Edizioni della Battaglia
Enrico Bellavia e Salvo Palazzolo, Voglia di mafia. La metamorfosi di Cosa Nostra da Capaci ad oggi, 2005, Carocci editore
Ernesto Oliva e Salvo Palazzolo, 2006, Bernando Provenzano. Il ragioniere di Cosa Nostra, Rubbettino editore
Salvo Palazzolo e Michele Prestipino, Il codice Provenzano, 2007, Editori Laterza
Claudio Canepari, Piergiorgio Di Cara, Salvo Palazzolo, Scacco al re. La cattura di Provenzano, 2008, Einaudi editore
Salvo Palazzolo, I pezzi mancanti. Viaggio nei misteri della mafia, 2010, Editori Laterza
Alessio Cordaro e Salvo Palazzolo, Se muoio, sopravvivimi. La storia di mia madre che non voleva essere più la figlia di un mafioso, 2012, Melampo Editore
Agnese Borsellino con Salvo Palazzolo, Ti racconterò tutte le storie che potrò, 2013, Feltrinelli Editore
Nino Di Matteo e Salvo Palazzolo, Collusi. Perché politici, uomini delle istituzioni e manager continuano a trattare con la mafia, 2015, Bur Rizzoli
Salvo Palazzolo, I fratelli Graviano. Stragi di mafia, segreti, complicità, 2022, Editori Laterza
Maurizio de Lucia e Salvo Palazzolo, La cattura – I misteri di Matteo Messina Denaro e la mafia che cambia, 2023, Feltrinelli Editore
Gregory Corso, il poeta ribelle della Beat Generation –
Gregory Corso (1930-2001) was a founding member of the Beat Generation, and for over fifty years one of America’s most popular and beloved poets. He was the author of over a dozen books of poetry and one novel, in addition to posthumously published collections of plays, interviews and correspondence. His book, The Golden Dot: Last Poems, 1997-2000, edited by Raymond Foye and George Scrivani, will be published in Spring 2022 by Lithic Press.
Gregory Corso
Born in New York City’s Greenwich Village. He was placed in numerous foster homes, and as a teenager served time in detention centers and prisons in New York and Vermont. His lifelong friendship with Allen Ginsberg began in 1951 with their meeting in a Greenwich Village bar, shortly after Corso’s release from Clinton Correctional Facility. In 1954-55, Corso was based in Cambridge, Massachusetts, staying with friends from Harvard and Radcliffe colleges, and befriending Frank O’Hara and Bunny Lang at the Poet’s Theater. His first book The Vestal Lady on Brattle and Other Poems was published there in 1955. As an original member of the Beat Generation along with Ginsberg, Herbert Huncke, William S. Burroughs and Jack Kerouac, Corso was a public figure and a poet of great popularity who published and read widely. In 1965 he was invited to teach at SUNY Buffalo but was dismissed upon arrival when he refused to sign a loyalty oath to the US Government. He lived a peripatetic life, dividing his time between New York, San Francisco, Paris, Rome, and Athens. A faculty member in poetics at the Naropa Institute in Boulder in the 1980s and 1990s, Corso died of prostate cancer in January 2001.
La poesia di Gregory Corso ‘Bomb’ pubblicata nel 1958 è stata, secondo Catharine Seigel, una delle prime poesie ad affrontare l’esistenza della bomba nucleare. Fu pubblicata come un foglio volante (broadside) con il testo disposto a formare la forma di un fungo atomico. I primi 30 versi creavano la forma della cima del fungo, mentre i versi 30-190 formavano il pilastro di detriti e distruzione che si innalzavano dal suolo. Corso si rifaceva alla tradizione della poesia visiva ma fece la scelta irriverente di creare la forma della nuvola che risulta dalla detonazione di una bomba nucleare. Usi precedenti di questa tecnica davano alla poesia la forma di ali d’angelo e altari, per cui la scelta di Corso risulta secondo Siegel “ironicamente appropriata”. La poesia apparve nel volume “The Happy Birthday of Death” che conteneva una fotografia in bianco e nero dell’esplosione nucleare sopra Hiroshima.
Gregory Corso
Budger of history Brake of time You Bomb
Toy of universe Grandest of all snatched sky I cannot hate you
Do I hate the mischievous thunderbolt the jawbone of an ass
The bumpy club of One Million B.C. the mace the flail the axe
Catapult Da Vinci tomahawk Cochise flintlock Kidd dagger Rathbone
Ah and the sad desparate gun of Verlaine Pushkin Dillinger Bogart
And hath not St. Michael a burning sword St. George a lance David a sling
Bomb you are as cruel as man makes you and you’re no crueller than cancer
All Man hates you they’d rather die by car-crash lightning drowning
Falling off a roof electric-chair heart-attack old age old age O Bomb
They’d rather die by anything but you Death’s finger is free-lance
Not up to man whether you boom or not Death has long since distributed its
categorical blue I sing thee Bomb Death’s extravagance Death’s jubilee
Gem of Death’s supremest blue The flyer will crash his death will differ
with the climbor who’ll fall to die by cobra is not to die by bad pork
Some die by swamp some by sea and some by the bushy-haired man in the night
O there are deaths like witches of Arc Scarey deaths like Boris Karloff
No-feeling deaths like birth-death sadless deaths like old pain Bowery
Abandoned deaths like Capital Punishment stately deaths like senators
And unthinkable deaths like Harpo Marx girls on Vogue covers my own
I do not know just how horrible Bombdeath is I can only imagine
Yet no other death I know has so laughable a preview I scope
a city New York City streaming starkeyed subway shelter
Scores and scores A fumble of humanity High heels bend
Hats whelming away Youth forgetting their combs
Ladies not knowing what to do with their shopping bags
Unperturbed gum machines Yet dangerous 3rd rail
Ritz Brothers from the Bronx caught in the A train
The smiling Schenley poster will always smile
Impish death Satyr Bomb Bombdeath
Turtles exploding over Istanbul
The jaguar’s flying foot
soon to sink in arctic snow
Penguins plunged against the Sphinx
The top of the Empire state
arrowed in a broccoli field in Sicily
Eiffel shaped like a C in Magnolia Gardens
St. Sophia peeling over Sudan
O athletic Death Sportive Bomb
the temples of ancient times
their grand ruin ceased
Electrons Protons Neutrons
gathering Hersperean hair
walking the dolorous gulf of Arcady
joining marble helmsmen
entering the final ampitheater
with a hymnody feeling of all Troys
heralding cypressean torches
racing plumes and banners
and yet knowing Homer with a step of grace
Lo the visiting team of Present
the home team of Past
Lyre and tube together joined
Hark the hotdog soda olive grape
gala galaxy robed and uniformed
commissary O the happy stands
Ethereal root and cheer and boo
The billioned all-time attendance
The Zeusian pandemonium
Hermes racing Owens
The Spitball of Buddha
Christ striking out
Luther stealing third
Planeterium Death Hosannah Bomb
Gush the final rose O Spring Bomb
Come with thy gown of dynamite green
unmenace Nature’s inviolate eye
Before you the wimpled Past
behind you the hallooing Future O Bomb
Bound in the grassy clarion air
like the fox of the tally-ho
thy field the universe thy hedge the geo
Leap Bomb bound Bomb frolic zig and zag
The stars a swarm of bees in thy binging bag
Stick angels on your jubilee feet
wheels of rainlight on your bunky seat
You are due and behold you are due
and the heavens are with you
hosanna incalescent glorious liaison
BOMB O havoc antiphony molten cleft BOOM
Bomb mark infinity a sudden furnace
spread thy multitudinous encompassed Sweep
set forth awful agenda
Carrion stars charnel planets carcass elements
Corpse the universe tee-hee finger-in-the-mouth hop
over its long long dead Nor
From thy nimbled matted spastic eye
exhaust deluges of celestial ghouls
From thy appellational womb
spew birth-gusts of of great worms
Rip open your belly Bomb
from your belly outflock vulturic salutations
Battle forth your spangled hyena finger stumps
along the brink of Paradise
O Bomb O final Pied Piper
both sun and firefly behind your shock waltz
God abandoned mock-nude
beneath His thin false-talc’s apocalypse
He cannot hear thy flute’s
happy-the-day profanations
He is spilled deaf into the Silencer’s warty ear
His Kingdom an eternity of crude wax
Clogged clarions untrumpet Him
Sealed angels unsing Him
A thunderless God A dead God
O Bomb thy BOOM His tomb
That I lean forward on a desk of science
an astrologer dabbling in dragon prose
half-smart about wars bombs especially bombs
That I am unable to hate what is necessary to love
That I can’t exist in a world that consents
a child in a park a man dying in an electric-chair
That I am able to laugh at all things
all that I know and do not know thus to conceal my pain
That I say I am a poet and therefore love all man
knowing my words to be the acquainted prophecy of all men
and my unwords no less an acquaintanceship
That I am manifold
a man pursuing the big lies of gold
or a poet roaming in bright ashes
or that which I imagine myself to be
a shark-toothed sleep a man-eater of dreams
I need not then be all-smart about bombs
Happily so for if I felt bombs were caterpillars
I’d doubt not they’d become butterflies
There is a hell for bombs
They’re there I see them there
They sit in bits and sing songs
mostly German songs
And two very long American songs
and they wish there were more songs
especially Russian and Chinese songs
and some more very long American songs
Poor little Bomb that’ll never be
an Eskimo song I love thee
I want to put a lollipop
in thy furcal mouth
A wig of Goldilocks on thy baldy bean
and have you skip with me Hansel and Gretel
along the Hollywoodian screen
O Bomb in which all lovely things
moral and physical anxiously participate
O fairylike plucked from the
grandest universe tree
O piece of heaven which gives
both mountain and anthill a sun
I am standing before your fantastic lily door
I bring you Midgardian roses Arcadian musk
Reputed cosmetics from the girls of heaven
Welcome me fear not thy opened door
nor thy cold ghost’s grey memory
nor the pimps of indefinite weather
their cruel terrestial thaw
Oppenheimer is seated
in the dark pocket of Light
Fermi is dry in Death’s Mozambique
Einstein his mythmouth
a barnacled wreath on the moon-squid’s head
Let me in Bomb rise from that pregnant-rat corner
nor fear the raised-broom nations of the world
O Bomb I love you
I want to kiss your clank eat your boom
You are a paean an acme of scream
a lyric hat of Mister Thunder
O resound thy tanky knees
BOOM BOOM BOOM BOOM BOOM
BOOM ye skies and BOOM ye suns
BOOM BOOM ye moons ye stars BOOM
nights ye BOOM ye days ye BOOM
BOOM BOOM ye winds ye clouds ye rains
go BANG ye lakes ye oceans BING
Barracuda BOOM and cougar BOOM
Ubangi BOOM orangutang
BING BANG BONG BOOM bee bear baboon
ye BANG ye BONG ye BING
the tail the fin the wing
Yes Yes into our midst a bomb will fall
Flowers will leap in joy their roots aching
Fields will kneel proud beneath the halleluyahs of the wind
Pinkbombs will blossom Elkbombs will perk their ears
Ah many a bomb that day will awe the bird a gentle look
Yet not enough to say a bomb will fall
or even contend celestial fire goes out
Know that the earth will madonna the Bomb
that in the hearts of men to come more bombs will be born
magisterial bombs wrapped in ermine all beautiful
and they’ll sit plunk on earth’s grumpy empires
fierce with moustaches of gold
Incalzatrice della storia Freno del tempo Tu Bomba
Giocattolo dell’universo Massima rapinatrice di cieli Non posso odiarti
Forse che l’odio il fulmine scaltro la mascella di un asino
La mazza nodosa di Un Milione di A.C. la clava il flagello l’ascia
Catapulta Da Vinci tomahawk Cochise acciarino Kidd pugnale Rathbone
Ah e la triste disperata pistola Verlaine Puskin Dillinger Bogart
E non ha S. Michele una spada infuocata S. Giorgio una lancia Davide una fionda
Bomba sei crudele come l’uomo ti fa e non sei più crudele del cancro
Ogni uomo ti odia preferirebbe morire in un incidente d’auto per un fulmine annegato
Cadendo dal tetto sulla sedia elettrica di infarto di vecchiaia di vecchiaia O Bomba
Preferirebbe morire di qualsiasi cosa piuttosto che per te Il dito della morte è indipendente
Non sta all’uomo che tu bum o no La Morte ha distrutto da un pezzo
il suo azzurro inflessibile Io ti canto Bomba Prodigalità della Morte Giubileo della Morte
Gemma dell’azzurro supremo della Morte Chi vola si schianterà al suolo la sua morte sarà diversa
da quella dello scalatore che cadrà Morire per un cobra non è morire per del maiale guasto
Si può morire in una palude in mare e nella notte per l’uomo nero
Oh ci sono morti come le streghe d’Arco Agghiaccianti morti alla Boris Karloff
Morti insensibili come un aborto morti senza tristezza come vecchio dolore Bowery
Morti nell’abbandono come la Pena Capitale morti solenni come i senatori
E morti impensabili come Harpo Marx le ragazze sulla copertina di Vogue la mia
Proprio non so quanto sia terribile la MortePerBomba Posso solo immaginarlo
Eppure nessuna morte di cui io sappia ha un’anteprima così buffa Panoramo
una città la città New York che straripa a occhi desolati rifugio nel subway
Centinaia e centinaia Un precipitare di umanità Tacchi alti piegati
Capelli spinti indietro Giovani che dimenticano i pettini
Signore che non sanno cosa fare delle borse della spesa
Impassibili distributori automatici di gomma Ma 3° rotaia pericolosa lo stesso
Ritz Brothers del Bronx sorpresi sul treno A
La sorridente réclame del Schenley sorriderà sempre
Morte Folletto Bomba Satiro Bombamorte
Tartarughe che esplodono sopra Istanbul
La zampa del giaguaro che balza
per affondare presto nella neve artica
Pinguini piombati contro la Sfinge
La cima dell’Empire State
sfrecciata in un campo di broccoli in Sicilia
Eiffel a forma di C nei Magnolia Gardens
S. Sofia atletica Bomba sportiva
I templi dell’antichità
finite le loro grandiose rovine
Elettroni Protoni Neutroni
che raccolgono capelli Esperidi
che percorrono il dolente golf dell’Arcadia
che raggiungono timonieri di marmo
che entrano nell’anfiteatro finale
con un senso di imnodia di tutte le Ilio
annunciando torce di cipressi
correndo con pennacchi e stendardi
e tuttavia conoscendo Omero con passo aggraziato
Ecco la squadra del Presente in visita
la squadra del Passato in casa
Lira e tuba insieme congiunte
Odi e wurstel soda oliva uva
galassia di gala usciere togato
e in alta uniforme O felici posti a sedere
Applausi e grida e fischi eterei
La presenza bilione del più grande pubblico
Il pandemonio di Zeus
Hermes che corre con Owens
La Palla lanciata da Buddha
Cristo che picchia la palla
Lutero che corre alla terza base
Morte planetaria Osanna Bomba
Fa sbocciare la rosa finale O Bomba di Primavera
Vieni con la tua veste di verde dinamite
libera dalla macchina l’occhio inviolato della Natura
Davanti a te. li Passato raggrinzito
dietro dl te il Futuro che ci saluta O Bomba
Rimbalza nell’erbosa aria da tromba
come la volpe nell’ultima tana
tuo campo l’universo tua siepe la terra
Salta Bomba rimbalza Bomba scherza a zig zag
Le stelle uno sciame d’api nella tua borsa tintinnante
Angeli attaccati ai tuoi piedi giubileo
ruote di pioggialuce sul tuo scanno
Sei attesa e guarda sei attesa
e i cieli sono con te
osanna Incalescente gloriosa liaison
BOMBA O strage antifonia fusione spacco BUM
Bomba fa l’infinito una Improvvisa fornace
distendi il. tuo Spazzare che abbracci moltitudini
avviati orribile agenda
Stelle del Carro pIaneti carnaio elementi di carcassa
Fa’ cadere l’universo salta ciucciante coi dito in bocca
sui suo da tanto da tanto morto Neanche
Dal tuo minuscolo peloso occhio spastico
espelli diluvi dl celestiali vampiri
Dal tuo grembo invocante
vomita turbini di grandi vermi
Squarcia Il tuo ventre o Bomba
dal tuo ventre fa’ sciamare saluti di avvoltolo
incalza col tuoi moncherini stellati dl iena
lungo il margine del Paradiso
Bomba O finale Pied Piper
sole e lucciola valzeggiano dietro la tua sorpresa
Dio abbandonato zimbello
Sono la Sua rada falso-narrata apocalisse
Lui non può sentire le un-bel-giorno
profanazioni del tuo flauto
Lui è rovesciato sordo nell’orecchio pustoloso del Silenziatore
il Suo Regno un’eternità di cera vergine
Trombe tappate non Lo annunciano
Angeli sigillati non Lo cantano
Un Dio senza tuoni Un Dio morto
Bomba il tuo BUM la Sua tomba,
Che io mi chini su un tavolo di scienza
astrologo che guazza in prosa di draghi
quasi esperto dl guerre bombe soprattutto bombe
Che io sia incapace di odiare ciò che è necessario amare
Che io non possa esistere in un mondo che consente
un bimbo abbandonato in un parco un uomo morto sulla sedia elettrica
Che io sia capace di ridere di tutte le cose
dl tutte quelle che so e quelle che non so per nascondere il mio dolore
Che dica di essere un poeta e perciò amo ogni uomo
sapendo che le mie parole sono la riconosciuta profezia di ogni uomo
e le mie non parole un non minore riconoscimento,
che io sia multiforme
uomo che Insegue le grandi bugie dell’oro
poeta che vaga tra ceneri luminose
come mi immagino
un sonno con denti di squalo un mangia-uomini di sogni
Allora non ho bisogno di esser davvero esperto di bombe
Per fortuna perché se le bombe ml sembrassero larve
non dubiterei che diventerebbero farfalle
C’è un inferno per le bombe
Sono laggiù Le vedo laggiù
Stan li e cantano canti
soprattutto canti tedeschi
e due lunghissimi canti americani
e vorrebbero che ci fossero altri canti
specialmente canti russi e cinesi
e qualche altro lunghissimo canto americano
Povera piccola Bomba che non sarai mal
un canto eschimese io ti amo
voglio mettere una caramella
nella tua bocca forcuta
Una parrucca di Goldilocks sulla tua zucca pelata
e farti saltellare con me come Hansel e Gretel
sullo schermo di Hollywood
O Bomba in cui tutte le cose belle
Morali e fisiche rientrano ansiose
fiocco di fata colto dal
più grande albero dell’universo
lembo di paradiso che dà
un sole alla montagna e al formicaio
Sto In piedi davanti alla tua fantastica porta gigliale
Ti porto rose Midgardian muschio d’Arcadia
Rinomati cosmetici delle ragazze del paradiso
Dammi il benvenuto non temere, la tua porta aperta
né il grigio ricordo del tuo freddo fantasma
nè i ruffiani del tuo tempo incerto
il loro crudele sciogliersi terreno
Oppenheimer è seduto
nella buia tasca di Luce
Fermi è disseccato nei Mozambico della Morte
Einstein la sua boccamito
una ghirlanda di patelle sulla testa di calamari lunari
Fammi entrare Bomba sorgi da quell’angolo da topo gravido
non temere le nazioni del mondo con le scope alzate
O Bomba ti amo
Voglio baciare il tuo clank mangiare il tuo bum
Sei un peana un acmé dl urli
un cappello lirico del Signor Tuono
fai risuonare le tue ginocchia di metallo
BUM BUM BUM BUM BUM
BUM tu cieli e BUM tu soli
BUM BUM tu lune tu stelle BUM
notti tu BUM tu giorni tu BUM
BUM BUM tu venU tu nubi tu nembi
Fate BANG voi laghi voi Oceani BING
Barracuda BUM e coguari BUM
Ubanghi BANG orangutang
BING BANG BONG BUM ape orso scimmion
tu BANG tu BONG tu BING
la zanna la pinna la spanna
Si Si In mezzo a noi cadrà una bomba
Fiori balzeranno di gioia con le radici doloranti
Campi si inginocchieranno orgogliosi sotto gli halleluia del vento
Bombe-garofano sbocceranno Bombe-alce rizzeranno le orecchie
Ah molte bombe quel giorno intimidiranno gli uccelli in aspetto gentile
Eppure non basta dire che una bomba cadrà
sia pure sostenere che il fuoco celeste uscirà
Sappiate che la terra madonnerà in grembo la Bomba
che nel cuore degli uomini a venire altre bombe. nasceranno
bombe da magistratura avvolte in ermellino tutto bello
e si pianteranno sedute sui ringhiosi imperi della terra
feroci con baffi d’oro.
Gregory Corso
Gregory’s Last Lines
( previously published in Eliot’s book Love, War, Fire Wind)
He was a poet of silk and the shredding of silk.
No earthling nor deity remained immune from his probing questions.
When the academy turned its head for a pulitzer second
he slipped an enlightened humor worm into the gut of poetry
that hasn’t yet wriggled its way out.
With fountain pen tears he mourned the nationalism of the nation
even as he hosanna’d the home run.
He fooled death, coaxing it into the soup of life
every time but for one.
Writing in “Many Have Fallen” about American soldiers
marched by Army into radioactive bomb blasts
Gregory wrote: “All survived / …until two decades later
when the dead finally died”–
a last line of stunning poetry enough to make the top
of Emily D’s head pop off.
In 1983, Andy Clausen brought him to carouse
our New Brunswick bars.
We stopped at my kitchen table electric typewriter,
where Gregory pulled his pocket notebook
and tapped out a piece for Long Shot magazine.
The poem was called “Delacroix Mural at St. Suplice.”
Deep into typing, Gregory stopped & asked
what thought I of his last three pencil’d lines.
I eyed his notebook, said I liked ’em but not as much
as the rest of the poem.
I thought he might write three new lines on the spot–
but instead he stood up, waved his left hand suavely
& declared the poem done at what’d been
the fourth-to-last line:
“I know the ways of god / by god!”
He knew how to end / at the ending.
I had the chance to read him “Ode to the West Wind”
on his cancer bed:
“If Winter comes, can Spring be far behind?”
After approaching mortality’s last breath in summer,
he arose to see another new year.
Now, I hear his ashes will be buried in Rome’s cemetery,
a neighbor of Shelley & the one whose name is writ in water.
In “Getting to the Poem,” Gregory ended:
“I will live / and never know my death.”
Who can say whether he was aware of that golden moment
when the breath says “no”?–
but he damn sure got to the poems.
Death, Gregory knew your secret name,
he knew your habits, your weapons, your games–
now give his verse the life it deserves
& do what you will with his gilgamesh hair
–Eliot Katz, 2001
about Love, War, Fire, Wind: Looking Out from North America’s Skull from Amazon.com:
Selected by Poetry.About.com as one of its Best Books of 2009. Mixing humor and imagination, visions of a healthy future and the windstorm realities of today, this collection of poems by Eliot Katz and artwork by William T. Ayton deals with themes of love, war, politics, ecology, and daily life. “I love these poems, which are full of passion and thought. Eliot Katz is among a handful of contemporary American poets whose work speaks to me.”–Howard Zinn “Eliot is right up there carrying the torch for Whitman and Ginsberg, keeping their vision alive and well….A must-read for anyone who believes poetry can still celebrate life.”–Alicia Ostriker “William Ayton has mastered the art of drawing with ink and brush. Like the words of Eliot Katz, his brush marks the page with deliberate force. A broken eggshell, weapons and dreams, a stroke that cannot be taken back.” –Tim Slowinski
Gregory Corso
Gregory Corso
Per Omero
C’è ruggine sulle vecchie verità
– Banalità corazzate erodono
menzogne nuove non hanno il buon profumo
delle scarpe nuove
Ho anni di poesie da battere a macchina
40 anni di fumo da smettere
non percepisco uno stipendio
Non ho una casa
E poiché le mie mani sono autoctonie
non riesco mai a lavarle abbastanza
Mi sento scemo
Mi sento come un vecchio toro spelacchiato
che si getta contro lo straccio rosso
di un giorno alcolizzato
eppure tutto è così bello
non è vero?
Che perfezione il sistema delle cose
Il corpo umano
tutto in proporzione alla sua forma
Nulla di superfluo
Proprio come se un dio l’avesse programmato così
E il sole per il giorno la luna per la notte
E l’erba la mucca il latte
Il fatto che tutti alla fine moriamo
Si penserebbe che dovrebbe esserci il caos
data la futilità di tutto
Ma i bambini continuano a nascere
spesso immagini sputate di noi
E le disuguaglianze
milioni dati a uno
zero all’altro
entrambi nella stessa barca che fa acqua
Io non ho nessuna religione
e per me venererei Ermes
E non c’è domani
c’è solo qui e ora
tu e chiunque sia con te
vivo come sempre
ed eternamente ignorante di quella morte che non conoscerai mai
E tutto è bene quel che si fa
Una felicità ellenica pervade la pace
e il dono continua a venire…
un lavoro iniziato splendidamente terminato
Vedere persone sensibili e buone
tranquille e contente nello stupore
come i sogni dei ciechi
I cieli parlano attraverso le nostre labbra
Tutto ciò che non si poteva trovare è afferrato
Tutto ciò che era rimasto indietro è portato
There’s rust on the old truths
-Ironclad clichés erode
New lies don’t smell as nice
as new shoes
I’ve years of poems to type up
40 years of smoking to stop
I’ve no steady income
No home
And because my hands are autochthonic
I can never wash them enough
I feel dumb
I feel like an old mangy bull
crashing through the red rag
of an alcoholic day
Yet it’s all so beautiful
isn’t it?
How perfect the entire system of things
The human body
all in proportion to its form
Nothing useless
Truly as though a god had indeed warranted it so
And the sun for day the moon for night
And the grass the cow the milk
That we all in time die
You’d think there would be chaos
the futility of it all
But children are born
oft times the spitting images of us
And the inequities
millions doled one
nilch for another
both in the same leaky lifeboat
I’ve no religion
and I’d as soon worship Hermes
And there is no tomorrow
there’s only right here and now
you and whoemever you’re with
alive as always
and ever ignorant of that death you’ll never know
And all’s well that is done
A Hellene happiness pervades the peace
and the gift keeps on coming…
a work begun splendidly done
To see people aware & kind
at ease and contain’d of wonder
like the dreams of the blind
The heavens speak through our lips
All’s caught what could not be found
All’s brought what was left behin
In a life of wide and restless travels, Gregory Corso produced six collections of poetry, together with a handful of plays and a novel, but left trailing in the wake of his urgent journeys an unknown number of lost poems. In interviews, Corso has recounted the sad loss of a suitcase full of his early poems in a Greyhound Bus terminal in Florida during the mid 1950s.1 He has also lamented the theft of two suitcases of poems – four years work – left in the care of the poet Isabella Gardner at the Hotel Chelsea in the mid 1970s.2 And he has regretted the sale to university libraries of his personal notebooks filled with unpublished poems: “When I needed money for dope, you see, I would never recopy the poems. I’d just sell the book. So a lot of my poems, you know, are in the universities and have never been published.”3 Other of Corso’s poems would seem simply to have been scattered behind him, mislaid and left unremembered in the rush of further poetic inspiration and precipitous departures to somewhere else. I believe that this latter explanation is likely the case as regards the three poems that I have excavated, so to speak, from a recording of a public reading of his poems given by Gregory Corso at the Poetry Center at San Francisco State College in October of 1956.4
Corso begins the 36-minute reading with nine poems selected from his collection, The Vestal Lady on Brattle (1955), then reads eight poems from a manuscript notebook titled “Poems Written in San Francisco, 1956.” Of these poems, four would later be gathered in Gasoline (1958), and one would be printed in The Happy Birthday of Death (1960.) The three fugitive poems embedded in the audio tape are “In the Madness of my Cellar,” “Creepy Flower Peddler,” and “Buddha.”5
Presented here below are my transcribed versions of these three hitherto unpublished poems. I cannot, of course, vouch either for punctuation, lineation or stanzaic patterns in the poems as I have rendered them here. Moreover, in the poem “Buddha,” despite repeated listening to Corso’s recitation on the audio tape, I am not fully confident as to my correct understanding of certain individual words. These include “peril,” “assayed,” “infant,” and “barium.” (Alternative suggestions concerning these words would be very welcome.) And let me take the opportunity here to express my gratitude to Raymond Foye for his gracious and invaluable help in correcting my transcriptions of the poems.
IN THE MADNESS OF MY CELLAR
I lost my God in the madness of my cellar.
I watched the janitor scorch a sacramental rat,
beat it against the pipe, rub hot pepper in its eyes.
No loves, no loves, in the madness of my cellar.
My baby brother leans against the hot furnace.
My father hangs red peppers to dry.
And my mad, mad mother giggles to the tarantella.
CREEPY FLOWER PEDDLER
He sells flowers and is a creep.
He sells flowers and wonders why he cannot sleep.
Unlike most peddlers, he grows his own,
and cuts them before they’re fully grown.
And here’s his nowhere song:
Little flowers without a stem.
Little flowers without a stem.
Three for a nickel, who wants them?
BUDDHA
A Harmonic Motion For Jack Kerouac, Buddha-Fish
Buddha is dead.
Dead in the empty lot, in the fish box.
Dead without peril or theory.
Dead rehabilitated to dumb heroism.
A dead Buddha cannot view the pint wine bottle.
What does Buddha know of pushcarts?
With Buddha died his children, speechless, enamored by kind demons.
Sweet Buddha, where is he now?
Whose cowhorn is he sucking?
Buddha immortal mute suffering with mortal memories
has gone to the mountains below the mountains.
Strong solemn law inhabits Peril.
Peril is the demon.
He steals the angels of Buddha, puts salt on their wings,
handcuffs their brains to masculine limbs.
Who will talk to the demon?
Who will admire his new secondhand hearse?
Who will kiss his gnaw of eucharistic feet?
Lay their abundant blonde verse upon his gridiron?
Pluck wolfbane from his gargoyle-eyed, regnant skull?
Shoot a silver bullet into his dropping mouth?
Drive a maple stake into his reasonable heart?
Steal the soil of his native Transylvanian acreage?
Who will do this?
You will, children of Buddha.
You mad children of sodacaps.
You’ll stick nails in the tires of his hearse.
Sip gasoline from the tank of his hearse.
Put rocks in the watertank of his hearse.
O Buddha, marled and gnawed, aimless in America,
in secondhand hearse parked on Pine Street,
watching children of love play, and on their knees pray
God the Father of ice cream.
O Buddha, ghouled and gargoyled,
bugged and assayed in the pale arms of Mother Death Columbia.
Get thee beneath that pushcart and see it all.
See the broken glass and the bits of rope
that burst in on the radio wire.
Feel it, see it all Buddha!
Buddha is dead.
In death Buddha’s skin is wet yet shaky
like penguin does ice water, the beads of life,
owing everything to flash light, nothing to sunlight.
I know you, Buddha.
When you were born, really born,
you was Brooklyn 33, New York,
a Jewish section where everything was secret,
like shopping bags.
Your home was a street with ground windows and wide gray stoops,
with desiccant flowerpots and dry yellow curtains
– all this would obscure your infant mother’s twisted fate.
Bosatsu, now in motion.
Brother Bosatsu who teaches Buddha,
yet is engaged entirely in his own salvation.
Spit on Bosatsu!
Bosatsu who testifies the wisdom of Buddha and himself.
Spit on Bosatsu!
Bosatsu who strives to introduce and establish the ideal land.
Bosatsu who dares set down into the realm of agony.
Spit on Bosatsu!
Now, Buddha, now that you’re dead, what have you got to say?
The back legs of a goat.
The empty matchbox.
The sweet spray smell of insecticide
or the old barium in a cow’s hoof.
That’s what I’ve got to say.
”In the Madness of my Cellar” depicts the traumatic encounter of the poet-speaker with the cruelty and horror of the world, an experience that serves to undermine his religious faith and causes him to lament life in a realm without love. Appropriately, the events of the poem take place in a cellar, a hot, Hadean underworld, a realm of evil and pain. In addition to the poet-speaker who narrates the grim incidents recounted in the poem, the hellish cellar is inhabited by a sadistic janitor, an apparently indifferent father, an innocent, neglected, suffering “baby brother,” and a mother driven to madness (presumably by the cruel and loveless world to which, like the narrator, she is also a horrified, helpless witness.) “Cellar” and “tarantella” make an unusual and inventive rhymed pair lending a subtle lyrical unity to this vivid, potent poem. “In the Madness of my Cellar” resonates with motifs expressed in several poems in The Vestal Lady on Brattle in which terror and violence perpetrated upon innocent victims are prominent.
A similar theme informs “The Creepy Flower Peddler,” where the peddler in question cuts short the lives of young flowers, doing so for selfish commercial reasons. Already in the title of this poem, Corso affects a reversal of reader expectations. Traditionally, the trope of the flower seller is associated with innocence, as Eliza in G.B. Shaw’s Pygmalion and the figure of the blind flower girl in Charlie Chaplin’s classic film, City Lights.6 In Corso’s poem, however, the flower peddler is seen as a man callously restricting the full development of natural life, and the poet views him as malevolent and despicable, another embodiment of the brutish and unfeeling life-thwarting forces of the world, another destroyer of innocence. On the audio tape of the Poetry Center reading, after having read “The Creepy Flower Peddler,” Corso remarks “I believe flowers should be left to grow, let them grow and let them die where they are, we have no right to take these things away from the earth.” In this poem, the parallel constructions, repetitions, insistent metre, and emphatic rhymes seem to suggest the narrow limits of the flower peddler’s outlook.
In contrast to the taut structure of “The Creepy Flower Seller,” the poem titled “Buddha” capitalizes on the deep resources offered by free verse in combination with epiphanic leaps of imagination. In this elegy – both brash and reverent – the poet contrasts the demonic, destructive forces of the world with those agencies that resist such forces and whose aims are, instead, redemptive and liberating. Poverty, squalor, sterility and death clash in the poem with the teachings of “sweet Buddha,” and are defied by the sly, joyous sabotage undertaken by the “children of Buddha,” the “children of love.” Buddha’s insights are betrayed in this fallen world by hypocritical figures such as Brother Bosatsu (clearly undeserving of his misleading name) who seeks not the benefit and awakening of all sentient beings –as taught by Gautama Buddha – but only his own salvation. Yet, though “marled and gnawed … ghouled and gargoyled,” the spirit of Buddha somehow endures, reborn into the desiccated, spiritually claustrophobic contemporary world, and even in death remaining poetically eloquent, communicating through koan-like utterances. In Corso’s use of parallelism and refrain in the Brother Bosatsu stanza a faint echo may be detected of sections I and II of Allen Ginsberg’s poem, “Howl.”
Readers of Gregory Corso’s Gasoline will recall that in the “Introduction” to that volume Allen Ginsberg quotes with approval a line from an unpublished poem by Corso: “mad children of soda caps.”7 At last, we know the source of that line: the phrase occurs in “Buddha.” Similarly, readers of Jack Kerouac’s Desolation Angels may remember that in that novel the poet Raphael Urso (the author’s pseudonym for Gregory Corso) recites to the narrator via telephone his latest poem which includes the line: “Spit on Bosatsu! Spit on Bosatsu!”8 Again, the source is to be found in the same unpublished poem, “Buddha.”
I think it probable that the three lost poems printed above – together with others written during the same period – were not discarded by Corso but were intended to appear in a collection to be titled Early Poems which was to be published in 1960 by the Totem Press. In a letter written from Paris in November of 1958 to Allen Ginsberg, Corso mentions that LeRoi Jones (of Totem Press) wants to publish a book of his early poems and specifically names “Creepy Flower Peddler” as being among the poems to be gathered in that volume. A collection titled Early Poems is listed as forthcoming from Totem Press in the bibliography for Gregory Corso included in The New American Poetry 1945-1960 and is also mentioned in the bibliography for “Five Poets in their Skins,” an article by Paul Carroll in Big Table. For unknown reasons (most likely economic in nature) the book never appeared. We can only speculate as to what may have become of the manuscript of this intriguing collection.
The recovery of the three lost poems from 1956 transcribed above serves to extend and deepen our understanding of Gregory Corso’s work during the period between the publication of The Vestal Lady on Brattle in 1955 and Gasoline in 1958, and to remind us that further examples of Corso’s rich, visionary, quirky early poems may yet be retrieved from manuscript notebooks and other sources.
1 ”They were lost in a suit case at Hollywood, Florida … in the Greyhound Bus Terminal. And, Hope, my girlfriend – she went to all the Greyhound presidents to get the things back.” Gregory Corso interviewed in 1974 by Robert King, “I’m Poor Simple Human Bones,” in The Whole Shot: Collected Interviews with Gregory Corso, ed. by Rick Shober (2015) p. 108. See also letter from Gregory Corso “To Mr. and Mrs. Randall Jarrell” November 14, 1956, in An Accidental Autobiography: The Selected Letters of Gregory Corso (2002), p. 16.
2 “So there was a big gap – 1970-1974 – four years work gone.” Gregory Corso interviewed by Gavin Saleri in The Riverside Interviews: Gregory Corso, (1982) p. 32. See also “The Enigmatic Relationship of Poets Isabella Gardner and Gregory Corso” by Marian Janssen, The Journal of Beat Studies, Vol. 3, January 1, 2014, pp. 93-118.
3 “When I needed money for dope …” Gregory Corso interviewed in 1974 by Robert King, op.cit p. 102.
5 From The Vestal Lady on Brattle: “Dementia in an African Apartment House,” “Greenwich Village Suicide,” “Coney Island,” “In the Morgue,” “Sea Chanty,” “Vision Epizooic,” “In the Early Morning,” and “Requiem for Bird Parker, Musician.” From Gasoline: “Mad Yak,” “On my 26th Year” (aka “I am 25”), “Italian Extravaganza,” “The Table was Hard Possible Music like Steel” (aka “This Was my Meal.) And from The Happy Birthday of Death: an early version of “Power.”
6City Lights, film written and directed by and starring Charlie Chaplin, 1931. Pygmalion, play by George Bernard Shaw, 1913.
7 “Introduction” by Allen Ginsberg in Gasoline by Gregory Corso (San Francisco: City Lights, 1958) p. 7.
8Desolation Angels by Jack Kerouac (New York: Coward-McCann, 1965) p. 128.
9An Accidental Autobiography: The Selected Letters of Gregory Corso edited by Bill Morgan (New York: New Directions, 2003) p. 184.
10The New American Poetry 1945-1960 edited by Donald M. Allen (New York: Grove Press, 1960) p. 447. “Five Poets in their Skins” by Paul Carroll, Big Table Vol. 1, No. 4, Spring 1960, p. 140.
The life of Gregory Corso reads like a cheap and trashy tragic made-for-TV movie. It was one of heartbreak and irony…
Corso was born Nunzio Corso on March 26th 1930, to a sixteen-year-old mother. Michelina Corso had just married Sam Corso before giving birth to Nunzio, and a year later she abandoned him into the care of Catholic charities, his father quickly remarrying and feeding him stories about his mother.
Corso selected the name ‘Gregory’ as his confirmation name, and while known to his Italian American community as Nunzio, he dealt with everyone else as ‘Gregory.’
He spent eleven years in five different fosters homes, coming to appreciate the Catholic church’s efforts in helping orphaned and abandoned children through the depression, despite his own depressing isolation.
To avoid being drafted for WWII, Corso’s largely absent and uncaring father brought his son home in 1941. Nevertheless, Sam Corso was drafted and Gregory Corso became homeless, now without any family, foster or otherwise.
He tried fruitlessly to find his mother over the years, despite the stories his father told him: that she was a disgraced prostitute, cared little for Corso, and had returned to Italy in shame.
Alone, Corso took to the streets, sleeping in the subway and on the roofs, running errands for food from street vendors. He became a street child of Little Italy, continuing his education while denying his homelessness to the authorities.
When only thirteen years old, Corso stole a toaster, sold it, and used the money to buy a tie and see a movie. The movie was The Song of Bernadette, about the appearance of the Virgin Mary. Corso claimed he thought seeing the movie would bring about a miracle wherein he would be reunited with his mother. But upon leaving the theatre, he was arrested for theft and sent to New York’s infamous prison, the Tombs. With no one to pay his $50 bail, Corso was incarcerated with criminally insane murderers for several months.
In 1944, during a blizzard, Corso broke into his tutor’s office and spent the night in the relative warmth. When he woke he was immediately arrested and sent back to the Tombs. He became so traumatised by the brutality of the other inmates that he was sent to Bellevue Hospital’s psychiatric ward. (He was not the only Beat writer locked up in a mental hospital.)
At seventeen, Corso was sent to Clinton prison, a maximum security facility near the Canadian border, for stealing a suit, and without being given legal representation to defend himself. This was the prison where most electric chair death sentences were carried out.
Clinton was kinder to Corso than the Tombs had been. Here, the youngest inmate in the facility was protected by the Mafia and sent to the cell occupied by Charles ‘Lucky’ Luciano, who had donated his library to the prison and had his own reading light by his bed. Corso spent his nights reading the classics, and upon leaving Clinton, his Mafia friends got him a job in the city.
After three years, ending 1950, Corso was back in New York City, writing and reading poetry, and becoming friends with Allen Ginsberg. They met in a lesbian bar, The Pony Stable, and Ginsberg became attracted to Corso and his poetry. Corso showed Ginsberg a poem he’d written about a woman he’d watched lie naked on her windowsill, and it turned out she was a friend of Ginsberg. Ginsberg set the two up, but Corso got scared and literally ran away.
Through Ginsberg Corso met Burroughs, Kerouac, and many of New York’s writers and artists. Corso and Kerouac met in 1950, but didn’t become close friends until 1953. In The Subterraneans, Kerouac recalls an incident in which Corso stole a pushcart and caused a fallout between Kerouac and Ginsberg. Corso came to resent his depiction in the book as he believed Kerouac had no right to speak so harshly of him in the early days of their relationship, which had not yet come to be considered even friendship.
When Ginsberg, Orlovsky and Burroughs were in Tangiers, Corso came and visited them, and then persuaded them to come live in Paris, and introduced them to a place later to be known as the Beat Hotel. Here, Corso and Ginsberg helped Burroughs edit together The Naked Lunch, and the two poets produced some of the finest work.
In 1957, Corso returned to New York. He was the youngest member of the ‘inner circle’ of Beats – that small social group that is the only one that can be accurately and honestly considered the Beat Generation. Yet, despite being the youngster of the group, Corso was the first published Beat, having his collection of poetry, The Vestal Lady on Brattle, published in 1952.
It was for the publication of Gasoline that he returned, and this coincided with the publication of On the Road and the explosion of the Beat Generation as a cultural phenomenon. Kerouac, Ginsberg and Corso stuck around, posed for photos, answered questions for reporters, and took a constant and ignorant barrage of abuse. Corso played the bad boy of the group, talking up his prison time and unkempt appearance.
He began to tour the poetry circuit with Ginsberg, and despite the Beat movement for the most part being considered a fad for dumb kids, playing on the rebellious streak of a few over-popular criminals, Corso began to draw a lot of positive attention for his poetry. Namely, the attention came for Marriage, his long musing on the peculiarities of the institution.
Marriage evokes the music and rhythm within Corso, instead of adhering to the structures and conventions of traditional poetry. His idol was Shelley, English Romanticist, yet in Paris Corso hit upon the notion of simply letting sound come from the mean – what he naturally felt inclined to say. The result was a long and witty poem poking fun at conformity, digging the Beat spirit of rejecting tradition that gripped the group and would become satirised itself in years to come.
Later in his life, Corso, like so many associated with the Beat Generation, came to resent his label and public perception as a Beatnik, and shunned the limelight they’d all at one stage or another occupied.
However, he allowed Gustave Reininger to film Corso – The Last Beat, which showed Corso in Italy lamenting never having known his mother. Reininger secretly launched a search for Michellina Corso, and amazingly found her living in Trenton, New Jersey, and not in Italy, as Corso had always been told by his father.
Corso and his mother were reunited on camera, and the truth came out that she had been beaten almost to death by Sam Corso, and had no choice but to leave him and hand her child over to the church. When she’d later been in a position to support a child, she was unable to find Corso.
Despite feeling ‘healed’ by finding his mother, Corso was soon diagnosed with prostate cancer and died in January, 2001. He was buried next to Percy Bysshe Shelley in the Protestant Cemetery, Rome.
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