POESIA CURDA in ricordo di Asia Ramazan Antar, eroina curda morta a 20 anni per difendere la Siria dall’Isis.
Pubblichiamo questa Poesia per onorare una giovane guerrigliera curda ,di 20anni, morta in combattimento. Questa è la poesia che Asia Ramazan Antar ha inviato, come testamento e lettera di addio alla madre . La poesia si conclude con queste parole :” Se non torno, la mia anima sarà parola …per tutti i poeti.” Noi, Poeti della Sabina, vogliamo testimoniare la memoria della giovane guerrigliera e onorare il messaggio che ha inviato a tutti i Poeti del mondo. La Poesia e gli Eroi non hanno confini.Giovane Asia Ramazan Antar riposa serena nel paradiso degli Eroi e canta le tue poesie alle stelle e alla luna quando si accendono la sera .
POESIA CURDA in ricordo di Asia Ramazan Antar, eroina curda morta a 20 anni per difendere la Siria dall’Isis.
DESCRIZIONE del libro di Ann Mark-Vita di Vivian Maier-Nella periferia di Los Angeles, il 17 luglio 1955, apriva per la prima volta i suoi cancelli Disneyland. Quasi trentamila persone si riversarono nei viali mai calpestati prima, un fiume in piena di bambini pronti a lasciarsi meravigliare. Lì, tra famiglie, figuranti e pupazzi, c’era Vivian Maier, una tata di origine francese da poco trasferitasi sulla West Coast in cerca di un nuovo incarico. La donna girovagava da sola tra la folla con una macchina fotografica in mano: dopo anni di scatti in bianco e nero, aveva deciso di passare al colore per immortalare gli attori travestiti da nativi americani e i castelli di cartapesta, per rendere giustizia a quell’atmosfera sognante e un po’ finta. Ma conclusa la gita, quelle foto non furono viste da nessuno, come le altre decine di migliaia di immagini che Vivian Maier scattò e tenne nascoste agli occhi del mondo per decenni. La storia del loro ritrovamento è già leggendaria: montagne di rullini chiusi in scatole di cartone fino al 2007, quando per un caso fortunato John Maloof, il figlio di un rigattiere di Chicago, acquistò in blocco il contenuto di un box espropriato. All’interno trovò un archivio brulicante di autenticità e umanità, il patrimonio di una fotografa sconosciuta che in pochi anni sarebbe stata celebrata in tutto il mondo. Ma mentre le sue opere diventavano sempre più popolari, la sua biografia restava un segreto impenetrabile, perché Vivian aveva sepolto il suo talento con la stessa cura e riserbo con cui aveva protetto la sua vita. Adesso, grazie alla meticolosa ricerca investigativa di Ann Marks, che ha avuto accesso a documenti personali e fonti di primissima mano, quelle vicende personali finora oscure vengono sottratte all’oblio, al mistero e alla leggenda. “Vita di Vivian Maier” rivela in tutta la sua complessità la storia di una donna fuggita da una famiglia disfunzionale, fra illegittimità, abuso di sostanze, violenza e malattia mentale, per poter finalmente vivere alle sue condizioni. Nessuno, neanche le famiglie presso cui prestava servizio, aveva idea che quella bambinaia di provincia nascondesse uno dei maggiori talenti fotografici del periodo, in grado di ritrarre le disparità e le ingiustizie degli Stati Uniti del boom economico, le persone comuni, i bambini, la semplice vita urbana. In questo, che trabocca di foto (anche inedite), l’opera e la vita finalmente si intrecciano in un’unica storia: il ritratto che emerge è quello di una sopravvissuta, fiduciosa nel suo talento nonostante le sfide della malattia mentale, una donna socialmente consapevole, straordinariamente complessa e soprattutto libera.
Ann Marks spent thirty years as a senior executive in large corporations and served as chief marketing officer of Dow Jones/The Wall Street Journal.After retirement, she put her research and analysis skills to use as an amateur genealogist and became inspired to unlock the mysterious life of photographer Vivian Maier. She has dedicated years to studying Maier’s archive of 140,000 images and is an internationally renowned resource on Vivian Maier’s life and work. Her research has been featured in major media outlets, including the Chicago Tribune, The New York Times, and the Associated Press. Marks lives in Manhattan with her husband and three children.
“Torre della Residenza Aurelia”-Conosciuta anche come Torre della Dea DEMETRA
Franco Leggeri-Fotoreportage–Roma Municipio XIII dalla raccolta:“Fotografie per raccontare Roma e la sua Campagna Romana”–La TorreAurelia oTorre della Dea DEMETRAè sita all’interno del Consorzio Residenza Aurelia , zona residenziale del Comune di Roma nel XIII Municipio. Si raggiunge dalla vecchia via Aurelia, ora via di Castel di Guido . La Torre sorge nel punto più alto della Valle Galeria e si trova di fronte alla Torre della Bottaccia e al sito archeologico Casale della Bottaccia.La Torre per un periodo è stata sede del Circolo LA Torre della Dea DEMETRA.
La Campagna Romana o Agro Romano, in senso storico o tradizionale, non coincide con nessuna delle odierne suddivisioni amministrative e neppure con l’area che potrebbe definirsi come banlieue di Roma. Essa comprende il comune di Roma (1507,6 km2) eccetto l’area occupata dalla città coi quartieri e suburbî (222 km2) cioè 1285,6 km2 cui sono peraltro da aggiungere il comune di Aprilia (177,6 km2) costituito nel 1937, e parte dei comuni di Anzio, Nettuno, Pomezia e Marino; in quest’ultimo comune si trova l’aeroporto di Ciampino coi nuclei abitati dipendenti, compresa la così detta Città giardino Appia (v. ciampino, in questa App.). Il fatto più notevole che caratterizza l’ultimo ventennio è il progressivo rapido ripopolamento della Campagna. Limitandoci al territorio pertinente al Comune di Roma, i 62.500 ab. (residenti) del 1936, sono divenuti 120.781 nel 1981 e 161.886 nel 1956. L’incremento è dovuto non tanto al moltiplicarsi delle case sparse, quanto al costituirsi di nuclei che sono spesso antichi casali trasformati, dotati di chiesa, scuola, stazione sanitaria, ovvero di nuove unità rurali, o infine di veri e proprî centri. Di questi il più recente censimento ne annovera 42, dei quali uno, il Lido di Ostia è ormai una cittadina di circa 20.000 ab., altri due o tre hanno popolazione superiore a 5000 ab. (oltre a Ciampino) e sette o otto popolazione superiore a 1000 ab. Il richiamo della popolazione verso il mare è evidente. Dopo il Lido, il centro più popoloso è Fiumicino, che acquisterà nuovo incremento con l’apertura al traffico (1961) del grande aeroporto intercontinentale; a nord di Fiumicino è Fregene; a sud del Tevere Tor Vaianica, a prescindere dalle altre recenti “marine” che si succedono fino ad Anzio. Altra ben visibile trasformazione della Campagna, del resto connessa con la precedente, è la riduzione delle aree pascolive a vantaggio delle coltivazioni. Tra queste predomina ancora il grano, ma nelle zone periferiche compare la vite (anche per frutto), altri alberi fruttiferi, prati da foraggio e, in plaghe più ricche di acqua, colture orticole. La Campagna comprende due grandi bonifiche effettuate secondo piani predisposti, la bonifica di Maccarese e quella di Porto-Isola Sacra, oltre ad altre minori; comprende anche taluni grossi centri di allevamento, come Torrimpietra. L’allevamento bovino si sviluppa, quello ovino declina a causa della accennata riduzione del pascolo naturale. Manifesta è anche la trasformazione o integrazione della rete stradale. Le antiche vie consolari irraggianti dalla città che ancora costituiscono lo schema fondamentale, sono collegate da vie trasversali (a cominciare dal “grande raccordo anulare” corrente a 11-15 km dal centro di Roma), da collegamenti secondarî, da strade vicinali e di bonifica.
La parte della Campagna più vicina alle aree suburbane viene a poco a poco assorbita dalla espansione del Suburbio stesso sia verso il mare (dove i quartieri dell’EUR sono, secondo il reparto del 1951, ancora fuori del Suburbio), sia verso est (via Tiburtina), sia verso sud-est (vie Prenestina e Casilina), sia anche verso nord (via Cassia).
Fonte-Istituto della Enciclopedia Italiana
La dea Demetra e la sacralità della natura
(perché per gli antichi l’ambiente era la loro casa)
Erisittone aveva abbattuto senza alcun rispetto gli alberi di un bosco sacro a Demetra: la reazione della dea e il senso degli antichi per la natura.Fu così che Erisittone, bulimico, più mangiava più aveva fame, divorava tutto quello che gli capitava davanti agli occhi e un giorno mangiò anche il gatto di casa. E continuò sino a mandare la sua casa in rovina.
Ecologia è un calco costruito sul greco e (come anche economia) contiene la parola oikia, la casa, l’ambiente in cui viviamo e che dobbiamo proteggere.Ambiente ed ecologia sono parole moderne, ambiente viene dal verbo latino ambire, che vuol dire andare intorno, ed è un nome che indica lo spazio che ci circonda e nel quale ci muoviamo e viviamo assieme agli altri.
Curioso che ambiente e ambizione derivino dallo stesso verbo latino ambire che nel senso più positivo del termine è un desiderio legittimo di migliorarsi.
E uno dei nostri desideri più forti, sin da giovani, è la casa, il nostro posto in cui stare bene nel mondo, un posto da proteggere, l’ambiente nel quale cresciamo ogni giorno e facciamo crescere i nostri figli.
In fondo scriviamo ambiente, ma leggiamo casa.Nota di Cristina Dell’Acqua (pubblicato su corriere.it del 3 dicembre 2021)
Il commento di Carlo Crovella Il mio professore di liceo mi assicurava che la cultura classica aveva già spolverato l’intero palinsesto dell’esistenza. Nei miti greci e latini c’era già “tutto” quello che riguarda la vita umana, caratteri, vizi, difetti, i pochi pregi. E c’era già l’intero universo. All’inizio ero perplesso: come potevano sapere, secoli e secoli fa, cosa sarebbe accaduto “dopo”, con la tecnologia, l’evoluzione, il progresso? Semplice: il lupo perde il pelo, ma non il vizio. La specie umana era già così. Il “dopo” ha solo amplificato gli effetti negativi dei suoi difetti per la combinazione fra progresso tecnologico e crescita esponenziale degli individui. Altro che un bosco, ci divoriamo oggi! Intere colline di silice sono state completamente spianate per utilizzare quel componente da inserire nei telefonini e pc.: saremo anche noi condannati alla stessa pena eterna di Erisittone? Peggio, siamo destinati all’estinzione: non riusciremo letteralmente più a sfamarci perché avremo consumato tutte le risorse del pianeta. Un’altra considerazione si lega al mito classico. Come ho già raccontato, purtroppo io non ho il dono di una profonda fede religiosa. Non sono proprio ateo, sono piuttosto un “laico”, credo in principi etici a-religiosi (correttezza, rigore, senso del dovere, ecc.). Tuttavia percepisco un che di sacro nell’essenza stessa nell’ambiente, è imperniato di qualcosa di “divino”. La nostra bulimia di risorse, oltre a distruggere noi stessi, ha un carattere addirittura blasfemo: uccidiamo Dio.
Wanda Osiris | Dal registro alla Storia-Archivio di Stato-
Wanda Osiris – all’anagrafe Anna Menzio – nacque a Roma il 3 giugno 1905, da Giuseppe, palafreniere del re, e Adele Pandolfi.
Il suo precoce interesse per lo spettacolo la portò al debutto nel 1923, come soubrette presso il cinemateatro Eden di Milano, dove diede inizio alla sua scalata verso il successo. Divenne presto una figura iconica, con la sua pelle artificiosamente ocra, il trucco marcato, i capelli ossigenati, piume, paillettes, tacchi e fiumi di profumo Arpège, sempre rivestita di sfarzo e sensualità.
Il primo vero trionfo fu agli inizi degli anni Trenta, all’Excelsior di Milano, accanto a Totò ne Il piccolo cafè. Con l’avvento della notorietà vennero coniati anche i suoi soprannomi, la Wandissima e la Divina, che solo il fascismo tenterà di contenere, italianizzando il suo nome d’arte in “Vanda Osiri”.
Lavorò a fianco di grandi personaggi del tempo, come Carlo Dapporto, Macario, Nino Taranto, Walter Chiari, Renato Rascel e molti altri. Ma soprattutto le sue riviste divennero famose per le eccentriche scenografie e le enormi scalinate che scendeva con grazia e disinvoltura, sempre attorniata da un ampio corpo di ballo che sceglieva lei stessa.
Fra i suoi maggiori successi si ricordano: Tutte donne (1939), Che succede a Copacabana? (1943), Grand Hotel (1948), Made in Italy (1953) e Festival (1954), a cui si affiancano canzoni di grande risonanza, come Sentimental (1949) e Ti parlerò d’amor (1944).
Tuttavia, l’avvento della televisione contribuì pian piano a sfumare il mito di Wanda, complice anche la diffusione di un nuovo prototipo di bellezza e di fare varietà. Eppure, ancora oggi Wanda Osiris incarna l’emblema della soubrette italiana della prima metà del Novecento e per questo riconosciuta dal grande pubblico come la prima vera diva nazionale.
Morì a Milano nel 1994, all’età di 89 anni.
Puoi consultare l’atto di nascita sul Portale Antenati: Archivio di Stato di Roma > Stato civile italiano > Roma > 1905
È stata la prima Diva dello spettacolo leggero italiano. I suoi spettacoli erano caratterizzati dallo sfarzo; amava discendere scale hollywoodiane attorniata da giovani ballerini che sceglieva lei stessa. Per lei vennero coniati gli appellativi di Wandissima e di Divina. Le interpretazioni canore molto personali, il trucco tipicamente ocra, i capelli ossigenati, le piume, i tacchi, le paillettes, i fiumi di profumo Arpège, le rose e i ricchi costumi (ideati e realizzati da Folco Lazzeroni Brunelleschi), divennero caratteristici. Registrata allo stato civile come Anna Menzio, nacque a Roma il 3 giugno 1905 nella casa di Via Quirinale 16, figlia di Adele Pandolfi e del marito Giuseppe Menzio, palafreniere del Re presente a Monza nel momento dell’assassinio di Umberto I.
Lasciata la famiglia e abbandonati gli studi di violino per seguire la passione teatrale, arrivò a Milano dove debuttò nel 1923 al cinema Eden.
Durante il fascismo, in ottemperanza alle direttive emanate da Achille Starace per conto del governo, le fu imposto di italianizzare il nome d’arte, che divenne Vanda Osiri. Nel 1937 fu scritturata da Macario per mettere in scena la rivista Piroscafo giallo. Nel 1938 è in Aria di festa, dove appare in una gabbia d’oro. A Milano nel 1940 uscì da un astuccio di profumo in Tutte donne; a Roma nel 1944 recitò per la prima volta con Carlo Dapporto, in Che succede a Copacabana, nel 1945 in L’isola delle sirene e La donna e il diavolo.
Dopo la fine della guerra, tornò a Milano e sempre con Dapporto divenne la regina del gran varietà. Nel 1946 entrò a far parte della compagnia teatrale di Garinei e Giovannini.
Nel 1948, Al Grand Hotel, sorprese il pubblico in un’opera teatrale al massimo sfarzo e lusso. Conobbe Gianni Agus con il quale ebbe una lunga relazione professionale. Sul finire degli anni quaranta, la Osiris diventò la regina incontrastata dei salotti e al Teatro Lirico le sue apparizioni erano degne dei botteghini della Scala. Nel 1951 lavorò in Gran baraonda con il Quartetto Cetra, Turco, Dorian Gray e Alberto Sordi.
Nel 1954 ritornò con Macario in Made in Italy, mentre nel 1955 in Festival, diretto da Luchino Visconti, non ottenne il successo sperato. L’anno dopo, nella rivista La granduchessa e i camerieri (tra gli attori compariva anche Gino Bramieri) inciampò nell’abito di crinoline: si temette la fine della sua carriera, ma dopo cinque giorni la Divina calcò di nuovo la scena. Ugualmente, il successo si spense rapidamente con il tramonto del varietà, progressivamente soppiantato dalla nascente commedia musicale, e l’affermarsi impetuoso di un modello di soubrette del tutto nuovo (impersonato da figure come Delia Scala, Lauretta Masiero, Marisa del Frate) e al radicale rinnovamento di stile portato avanti dalla “ditta” Garinei e Giovannini in accordo con l’evoluzione dei gusti del pubblico.[2]
Nel 1963 in una riedizione di Buonanotte Bettina, interpretò la parte della suocera a fianco di Walter Chiari e Alida Chelli, poi con la concorrenza della televisione e la decadenza del varietà, il suo percorso teatrale si interruppe. Recitò in prosa negli anni settanta: la sua parte più celebre fu in Nerone è morto? di Hubay nel 1974, con la regia di Aldo Trionfo.
Accudita dalla figlia Ludovica Rivolta in Locatelli, detta Cicci (1928-2013), e dalla nipote Fiorenza, Wanda Osiris morì a Milano nel 1994, all’età di 89 anni, a causa di un edema polmonare. È tumulata al Cimitero monumentale di Milano, non lontano dalla tomba di Gino Bramieri.[3]
Vita privata
Nel 1928, dalla relazione con Osvaldo Rivolta, nasce la figlia Ludovica, detta Cicci.
Licenza Poëtica di Peter Ciaccio-La legge di Lidia Poët
Articolo di Peter Ciacco-La legge di Lidia Poët-La speranza è che nonostante tutto questa serie televisiva contribuisca a far conoscere questa donna straordinaria, italiana e valdese, montanara e intellettuale
In tempo per il XVII Febbraio è uscita per Netflix una serie tv che oscilla tra il legal e il crime, con protagonista una delle personalità più importanti della storia valdese, una donna che lottato per i diritti di tutti e tutte. La legge di Lidia Poët [pronunciato Pòet, sic] pare prendere, però, solo pochi elementi dalla storia: qualche nome, l’ambientazione torinese e due eventi biografici, cioè la cancellazione di Poët dall’albo l’11 novembre 1883, appena tre mesi dalla storica iscrizione quale prima avvocata, e il rigetto del ricorso da parte della Cassazione il 18 aprile 1884. Tutto, ma proprio tutto, il resto è frutto di invenzione. Pertanto non si può parlare di un’opera biografica. La scelta degli autori di omettere due informazioni importanti e potenzialmente gustose per il pubblico, quali il suo essere valdese e montanara, è di difficile comprensione. Di solito, i personaggi più caratterizzati sono quelli in cui è più facile identificarsi: quanti maschietti di città si sono commossi di fronte ai sentimenti della piccola Heidi?
La sensazione è che al personaggio Lidia sia stata strappata l’anima. È soltanto una donna di fine Ottocento che rivendica il diritto di esercitare l’avvocatura. Non è poco, certo, ma non è neppure abbastanza per renderla credibile agli occhi del pubblico e suscitare empatia. Altri aspetti della serie, poi, non tornano. Tralasciando alcune incongruenze narrative e il fatto che Torino sembri appena scartata dal cellophane per quanto è pulita, colpisce un linguaggio non consono all’ambientazione: i personaggi sono alquanto sboccati e si danno quasi tutti del tu. Come spiegare queste e altre scelte? Non sembra possibile che in una serie così raffinata nelle scenografie e nei costumi, con bravi interpreti che reggono da soli la credibilità della narrazione, con una bella colonna sonora rock (particolarmente azzeccata in chiusura la canzone King di “Florence+the Machine), gli autori abbiano scelto deliberatamente di non raccontare né la vera Lidia Poët né la vera ambientazione storico-sociale.
Una risposta possibile è che la serie parli in realtà dei nostri giorni. Lidia e le questioni intorno a lei potrebbero non essere altro che “idee” (in senso platonico) del nostro mondo, anzi della nostra Italia. Così si spiegherebbero il linguaggio informale vicino all’italiano contemporaneo, l’indifferentismo religioso, il libertinismo sessuale, una gioventù mai stimata dalle generazioni più mature, l’uso regolare di stupefacenti per sopravvivere a un mondo alienante, drogato di ansia da prestazione.
Soprattutto, così si spiegherebbe l’elemento più paradossale della serie. Lidia non appare, infatti, particolarmente intelligente. Arriva a scoprire la verità non attraverso il ragionamento, ma grazie al sentimento delle viscere. Una circostanza peraltro non molto utile alla causa dell’emancipazione femminile. Allo stesso tempo il maschilismo dei suoi interlocutori è becero e triviale, ridotto a macchietta. Insomma, ne emerge un dibattito su femminismo e patriarcato banalizzato come su certi post di Facebook.
In conclusione, la speranza è che nonostante tutto questa serie contribuisca a far conoscere questa donna straordinaria, italiana e valdese, montanara e intellettuale, e che susciti interesse intorno alle sue battaglie. Sarebbe importante in un’Italia che ha difficoltà a fare i conti con il passato e che spesso si dimentica di onorare la memoria dei suoi figli e delle sue figlie migliori.
Fonte–Riforma.it–Il quotidiano on-line delle chiese evangeliche battiste, metodiste e valdesi in Italia.
-Indagini archeologiche Via Aurelia Antica-Località Malagrotta-(2011-2013)–
Malagrotta-Osteria a sinistra della Via Aurelia Antica, o strada di Civitavecchia, 8 miglia lungi da Roma , posta nel tenimento di Castel di Guido, poco prima del diverticolo di Maccarese. Essa è nella valle del Rio di Galeria, che si traversa sopra un ponte : ivi dappresso è un Casale , un granaio , la chiesa , ed un fontanile fornito di acqua da una sorgente condotta, i cui bottini veggasi a destra della strada. Il nome Malagrotta suol dirsi da una grotta che si vede sul colle a sinistra ; a me sembra però che sia un travolgimento del nome Mola Rupta, che almeno fin dal secolo X. questo fondo portava: dico fin dal secolo X, poiché non voglio fare uso della Carta di donazione di Santa Silvia per le ragioni che furono indicate nell’articolo su Maccarese. Or dunque negli annali de’ i Camaldolesi, ne’ quali si riporta quell’Atto di donazione , si trova pure riportata una Carta genuina pertinente all’anno 995, ( leggasi il tomo I.p.p.126) nella quale si ricorda la cessione e permuta fatta da Costanza nobilissima donna di una metà di un suo Casale denominato Casa Nobula, posto circa l’ottavo miglio fuori della porta San Pietro nella contrada che corrisponde appunto a Malagrotta. E questa contrada si ricorda ancora anche in altre Carte degli stessi annali, come in una dell’anno 1014 nella quale si pone fuori di porta San Pancrazio nella via Aurelia, e si nomina come Casale ,in un’altra carta del 1067 si nomina come affine al Rio Galeria, e nel secolo XIII. Col nome di Castrum Molarupta colle chiese di Santa Maria e di Santa Apollinare si designa nelle bolle di papa Innocenzo IV. Nel 1249 e di Papa Bonifacio VIII. Nel 1299, con le quali furono conferiti i beni di San Gregorio: come pure in due Atti pertinenti all’anno 1280 e 1296, documenti che sono inseriti nell’appendice del tomo V. degli Annali suddetti. Quindi il nome Molarupta rimaneva sul principio del secolo XIV. E quanto a questa denominazione così antica , che rimonta, come si vide , almeno al secolo X. facile è derivarne la etimologia da una mola ivi sul fiume Galeria esistente, la quale rottasi, ne derivò al fondo ed alla contrada il nome do Molarupta.
Roma: Malagrotta – via Aurelia-indagini archeologiche finalizzate all’individuazione ed all’apposizione del vincolo di un tratto della via Aurelia antica e della mansio di età imperiale ad essa afferente.Committente:Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Roma (dott.ssa Daniela Rossi)
Scavi a cura della Cooperativa Parsifal – Cooperativa di Archeologia.
Roma: Malagrotta – via Aurelia–indagini archeologiche finalizzate all’individuazione ed all’apposizione del vincolo di un tratto della via Aurelia antica e della mansio di età imperiale ad essa afferente.
Committente: Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Roma (dott.ssa Daniela Rossi)
Scavi a cura della Cooperativa Parsifal – Cooperativa di Archeologia.
8 settembre 1943.Da “Mario Rigoni Stern. Un ritratto”
Laterza Editori
da “Mario Rigoni Stern. Un ritratto”-“Eravamo numeri. Non più uomini. Il mio era 7943. Ero uno dei tanti. Mi avevano preso sulle montagne ai confini con l’Austria, mentre tentavo di arrivare a casa, dopo l’8 settembre del ’43. Ci portarono a piedi fino a Innsbruck e poi, dopo quattro o cinque giorni, ci caricarono sui treni e ci portarono in un territorio molto lontano, che a noi era sconosciuto, oltre la Polonia, vicino alla Lituania, nella Masuria, in un lager dove poco tempo prima erano morti migliaia di uomini; gli storici parlano di cinquanta-sessantamila russi. Erano prigionieri, morti di fame
e di tifo. Noi andammo ad occupare le baracche che avevano lasciato libere, nello Stammlager 1-B.
Dopo quattro o cinque giorni, ci proposero di arruolarci nella repubblica di Salo, ossia di aderire all’Italia di Mussolini. Eravamo un gruppo di amici che avevano fatto la guerra in Albania e in Russia. Eravamo rimasti in pochi. Ci siamo messi davanti allo schieramento, e quando hanno detto “Alpini, fate un passo avanti, tornate a combattere!”, abbiamo fatto un passo indietro. Gli altri ci hanno seguito.
E fummo coperti d’insulti, di improperi. Avevamo visto cos’eravamo noi in guerra, in Francia prima, poi in Albania e in Russia. Avevamo capito di essere dalla parte del torto. Dopo qello che avevamo visto, non potevamo più essere alleati con i tedeschi. Perciò da allora fummo dei traditori. Fummo della gente che non voleva più combattere. E ci trattarono come tali. Nell’ordine dei lager venivamo subito dopo gli ebrei e gli slavi; noi che non eravamo nemmeno riconosciuti dalla Croce rossa internazionale. Ci chiamavano internati militari, ma eravamo prigionieri dentro i reticolati, con le mitragliatrici piazzate nelle torrette che ci seguivano ogni volta che ci spostavamo. Abbiamo resistito. Tanti di noi non sono tornati. Più di quarantamila nostri compagni sono morti in quei lager, durante la prigionia. Io ritornai nella primavera del 1945, a piedi, dall’Austria, dove ero fuggito dal mio ultimo campo di concentramento.
Arrivai a casa che pesavo poco più di cinquanta chili, pieno di fame e di febbre. E feci molta fatica a riprendere la vita normale. Non riuscivo nemmeno a sedermi a tavola con i miei, o a dormire nel mio letto. Ci vollero molti mesi per riavere la mia vita.
Avevamo dietro le spalle la Storia, che ci aveva aperto gli occhi su quello che eravamo noi e su quel che erano coloro i quali ci venivano indicati come nostri nemici. Quello che ci avevano insegnato nella nostra giovinezza era tutto sbagliato. Non bisognava credere, obbedire, combattere. E l’obbedienza non doveva essere cieca, pronta e assoluta. Avevamo imparato a dire no sui campi della guerra. E molto più difficile dire no che si.
Ripeto spesso ai ragazzi che incontro: imparate a dire no alle lusinghe che avete intorno. Imparate a dire no a chi vuol farvi credere che la vita sia facile. Imparate a dire no a chiunque vuole proporvi cose che sono contro la vostra coscienza. E’ molto più difficile dire no che si.”
da “Mario Rigoni Stern. Un ritratto”, Laterza, 2021.
“Santi e culti dell’anno Mille. Storia e leggende tra cultura dotta e religiosità popolare”
Ugo Mursia Editore
«Quella dei santi era una contestazione silenziosa, ma che non sfuggiva però a chi aveva tutt’altra condotta di vita e ai potenti. Cercavano di ucciderli o di rapirli.»
Di fronte alla crisi della Chiesa feudale, con il papato in balia delle nobili famiglie romane e un clero sempre più secolarizzato, intorno al Mille si ebbe una forte reazione spirituale, con figure ascetiche che si affermarono come santi, introducendo diversi e radicali modi di vivere il rapporto col sacro. Attraverso una nuova lettura di questi personaggi e dei loro rapporti, Paolo Golinelli ricostruisce, con un linguaggio vivace e accattivante, un mondo aperto al soprannaturale e al meraviglioso, dove ogni piccolo avvenimento induceva a pensare al miracolo, soprattutto per chi aveva bisogno di protezione. Il discorso si allarga quindi alla religione popolare, in narrazioni che, seppur spiegate razionalmente, possono ancora affascinare i lettori di oggi.
Paolo Golinelli, docente di Storia Medievale nell’Università degli Studi di Verona, si occupa principalmente del rapporto tra religione e società nel Medioevo, percorso attraverso le fonti agiografiche e alcuni tra i personaggi più emblematici del tempo. Tra i suoi ultimi libri, L’ancella di san Pietro. Matilde di Canossa e la Chiesa (2015), e pubblicati con Mursia: Celestino V. Il papa contadino (2007), Matilde e i Canossa (2007), Il Medioevo degli increduli (2009), Medioevo Romantico (2011), Terremoti in Val Padana (2012), Un millennio fa (2015), Breve storia di Matilde di Canossa (2015).
“Santi e culti dell’anno Mille. Storia e leggende tra cultura dotta e religiosità popolare” (Ugo Mursia Editore)
Rino Della Negra: Emigrante-Calciatore e Partigiano
Articolo di Fabio Casalini
Rino Della Negra nacque nel 1923 a Vimy, nel dipartimento di Pas-de-Calais, da genitori italiani: il padre, muratore, era originario di Udine.
Nel 1926 la famiglia si stabilì ad Argenteuil nel quartiere Mazagran, ribattezzato Mazzagrande a causa della numerosa presenza di italiani.
Rino, giovane e pieno di speranze, iniziò la sua carriera calcistica come attaccante nella squadra della cittadina alla periferia di Parigi, ovvero l’Argenteuillais FC.
Riuscì a ritagliarsi molto spazio ed a collezionare diversi successi, come la Coupe de la Seine del 1938 e la Coupe du Matin-FSGT del 1941.
Nel frattempo svolse l’attività di apprendista muratore, prima, e di operaio del settore metallurgico in seguito. Nel 1938 fu naturalizzato francese.
Nel 1942 fu notato dai dirigenti dell’importante squadra del Red Star Football Club, società fondata a Parigi che giocava nello stadio di proprietà situato nella periferia Nord della capitale francese, esattamente a Saint-Ouen-sur-Seine.
Come la storia ci ricorda, la Francia nel 1940 fu invasa dai nazisti. Questo evento colpì anche il giovane Rino tanto che nel 1942, a 19 anni, rifiutò la chiamata al Servizio di Lavoro obbligatorio (Service du travail obligatoire – STO) in Germania, decidendo di unirsi ai Francs-tireurs et partisans (FTP). Il Servizio di Lavoro obbligatorio era un periodo con il quale i francesi dovevano “partecipare” allo sforzo bellico tedesco fornendo lavoro gratuito.
Rino Della Negra si unì al distaccamento italiano dei Francs-tireurs et partisans / Main-d’oeuvre immigrée (FTP-MOI), con il nome di Jean-Claude Chatel (secondo altre fonti Dallat).
Prima di essere catturato partecipò a una quindicina di azioni, tutte nel 1943: tra le operazioni possiamo ricordare sabotaggi, distribuzione di materiale e armi ed attacchi ai convogli nazisti o fascisti.
Nel giugno del 1943 prese parte all’attacco alla sede parigina del Partito fascista italiano, in rue Sédillot.
Sempre nel giugno del 1943 partecipò all’esecuzione del generale Von Apt.
Nel frattempo Rino non abbandonò la famiglia e nemmeno la propria squadra di calcio.
Della Negra giocò solo otto partite nelle file del Red Star FC. Le giocò tutte quando si trovava già in clandestinità. Incurante del pericolo, giocò tutte, anzi le sole, le otto partite con il proprio nome e non con lo pseudonimo di Jean-Claude Chatel o Dallat.
Purtroppo il 12 novembre un’operazione contro i tedeschi non si concluse come le altre. Rino rimase ferito nell’attacco ai nazisti e fu trasportato all’ospedale della Pitié-Salpêtrière. All’interno delle stanze del nosocomio parigino fu arrestato, interrogato dalla polizia ed infine dalla Gestapo.
Rino Della Negra verrà giustiziato insieme ad altri 21 partigiani ad Ovest di Parigi, il 21 febbraio del 1944. Erano 23 in totale; l’ultima, Olga Bancic, verrà decapitata in Germania cinque mesi dopo.
Fu sepolto nel cimitero del Centro di Argenteuil.
Grazie all’estremo sacrificio Rino diventerà una figura emblematica del club Red Star tanto che la sua memoria è regolarmente onorata dai tifosi che hanno voluto installare una lapide commemorativa all’ingresso dello stadio.
Ma perché le i tifosi francesi vogliono bene a questo emigrato italiano?
Rino Della Negra incarna, ancora oggi, i valori in cui si riconoscono i tifosi del club e delle periferie parigine: l’antirazzismo, l’antifascismo e la difesa degli immigrati.
Dimitri Manessis et Jean Vigreux, Rino Della Negra, footballeur et partisan : vie, mort et mémoire d’un jeune footballeur du « groupe Manouchian », Libertalia, 2022
Viaggio intorno ai personaggi nelle opere di Verdi, Donizetti, Puccini, Giordano e Leoncavallo
ZECCHINI Editore-Varese
Descrizione del libro Dalla Storia alla Musica-Le troppe finestre su regge e dimore consentono occhiate su segreti della grande Storia e altrettanto avviene pei modesti spiragli su stanzette e mansarde, pur sempre storia questa, al pari di quella, di un’umanità effettivamente vissuta: che sia stato presso le Corti di Spagna, di Francia o d’Inghilterra, o da uno Chénier poeta di sociali appelli o, non ultimi, da bohémien e guitti dell’umana commedia. È questo che abbiamo inteso fare narrando di un ulteriore gruppo di Reinventati dal Vero, questa volta in chiave anche maschile, condividendo col lettore tanti grandi e piccoli amori, onori e disonori, sollievi e cadute che Verdi, Donizetti, Puccini, Giordano e Leoncavallo hanno eternato per il tramite dell’amata Musica.
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