“Da Sharaja a Roma, lungo la via delle spezie”, la mostra ospitata dalla Cura Iulia
Roma Capitale-La mostra “Da Sharjah a Roma lungo la via delle spezie”, ospitata all’interno della Curia Iulia, antica sede del Senato Romano, è il frutto della collaborazione tra il Parco archeologico del Colosseo e la Sharjah Archaeological Authority, promossa da Sua Altezza lo sceicco Dr. Sultan bin Al Qasimi, membro del Consiglio supremo e sovrano di Sharjah.
L’esposizione, a cura di Eisa Yousif e Francesca Boldrighini, illustra al pubblico, per la prima volta in Italia, gli straordinari ritrovamenti archeologici dell’Emirato di Sharjah: le città di Mleiha e Dibba, fiorite tra l’epoca ellenistica ed i primi secoli dell’Impero Romano, città sorte al centro delle antiche vie carovaniere che collegavano l’India e la Cina con il Mediterraneo e con Roma.
Da Sharaja a Roma lungo la via delle spezie la mostra ospitata dalla Cura Iulia
Testimonianza di questi stretti contatti culturali e commerciali tra Oriente ed Occidente sono gli splendidi oggetti esposti, rinvenuti nelle necropoli e negli abitati: anfore da vino da Rodi e dall’Italia, contenitori dalla Mesopotamia e dalla Persia; unguentari in alabastro dall’Arabia e in vetro dal Mediterraneo orientale; pettini di avorio e gioielli indiani e orecchini di fattura ellenistica; statuine di Afrodite e dediche alla divinità al-Lat; monete indo-greche e romane, originali e di imitazione locale. Tutto concorre a delineare un affresco di grande varietà e ricchezza, una società aperta a numerose e diverse influenze, che potremmo definire ante litteram “multiculturale”.
La mostra, arricchita da un catalogo breve e da un’evocativa videoproiezione, permette inoltre di sottolineare l’importanza dei commerci con l’Oriente per il mondo romano. Le spezie, prima fra tutte l’incenso, prodotto in Arabia erano tra i prodotti più importati e richiesti, e proprio per questo il commercio era regolato dall’autorità imperiale. Il legame con Roma si evidenzia nella presenza nel Foro Romano, a pochi metri dalla sede della mostra, degli Horrea Piperataria, i magazzini voluti da Domiziano per la conservazione del pepe e di altre spezie, che il PArCo ha recentemente restaurato e reso accessibili al pubblico.
Con questa nuova esposizione il Parco archeologico del Colosseo intende proseguire il percorso di divulgazione e ricerca scientifica ampliandolo alla dimensione mediterranea ed internazionale – commenta Alfonsina Russo, Direttore del Parco archeologico del Colosseo. I legami tra l’Arabia e l’area mediterranea sono antichi, e i commerci contribuirono ad ampliare le connessioni tra le due regioni, plasmando la storia del Mediterraneo e del Vicino Oriente per secoli.
Ci auguriamo che questa mostra offra ai visitatori l’opportunità di esplorare una storia globale condivisa: questi oggetti non sono semplici reliquie silenziose; sono storie vibranti che ci raccontano come civiltà e città come Roma e Sharjah abbiano stabilito legami che si estendevano lungo migliaia di chilometri – afferma Eisa Yousif, curatore della mostra e direttore della Sharjah Archaeological Authority.
SHARJAH
Sharjah è uno dei sette emirati che compongono la federazione degli Emirati Arabi Uniti. Si trova nella parte centrale della penisola dell’Oman, con accesso sia dal Golfo Arabico a ovest, sia dal mare dell’Oman a est. Rinvenimenti risalenti al periodo Paleolitico in diverse zone dell’emirato di Sharjah testimoniano l’insediamento umano nell’area, fino al Neolitico (9000-4000 a.C.), e all’età del Bronzo
(4000-1250 a.C.) e del Ferro (1250-300 a.C.). In questo periodo nell’area si attesta la domesticazione del cammello, così come la creazione di un sistema di irrigazione che permise un rapido sviluppo dell’agricoltura.
Il periodo di Mleiha (III secolo a.C. – III secolo d.C.) è il tema principale dell’attuale esposizione che narra la storia del misterioso mondo dell’antico Regno dell’Oman durante il periodo ellenistico e romano. Sebbene l’impero di Alessandro e gli stati ellenistici non siano giunti a mettere sotto il loro controllo queste terre, il Golfo ed il lato sud-est della penisola arabica si trovavano al crocevia dei commerci del continente eurasiatico. Mleiha, infatti, costituiva un importante punto di snodo lungo la Via della Seta marittima che collegava l’Occidente, con l’Egitto,
Roma e la Grecia, all’Oriente, con la Mesopotamia, l’India e l’Asia centrale, fino alla Cina, favorendo lo scambio non solo di merci e beni preziosi, ma anche di uomini e di idee che arricchirono la cultura, la religione e la visione del mondo della popolazione locale.
Tra i beni di lusso che giungevano a Roma attraverso la penisola di Oman c’erano le spezie e soprattutto l’incenso. Utilizzate per scopi alimentari, religiosi e medici, le spezie erano talmente richieste e apprezzate che la loro importazione era rigidamente regolamentata dallo Stato, tanto che gli imperatori Flavi fecero costruire nel Foro Romano un apposito magazzino: gli Horrea Piperataria, di recente resi pienamente fruibili alla visita a conclusione delle campagne di scavo archeologico.
Nel sito di Mleiha sono stati rinvenuti vasti cimiteri con tombe monumentali, appartenenti ai membri più importanti della comunità, circondate da tombe più modeste. Le tombe, risalenti al III- inizio del I secolo a.C., erano individuali e variavano in dimensione in base ai corredi funerari ospitati. La più importante tra le tombe monumentali, scoperta nel 2015, costruita con mattoni di gesso intonacato, presentava una pianta a forma di “H” con un lungo corridoio d’ingresso. Saccheggiata in antichità, la tomba fu riutilizzata e un muro di mattoni chiuse il passaggio tra le due camere. Tra i mattoni, uno recava un’iscrizione bilingue (sudarabica e aramaica) datata al 222/221 o 215/214 a.C., che attribuisce la tomba a un ispettore reale del regno dell’Oman. Questo è il primo riferimento storico al regno omanita, citato poi successivamente nel Periplus Maris Erythraei e nella Naturalis Historia di Plinio il Vecchio. I reperti rinvenuti, tra cui un’anfora da vino di Rodi, una ciotola in bronzo decorata con iconografie ellenistiche, africane e arabe, e un set da vino in bronzo, testimoniano non solo l’alto rango del defunto ma anche il prestigio culturale e la consolidata tradizione dell’importazione di vino dal Mediterraneo.
Da Sharaja a Roma lungo la via delle spezie la mostra ospitata dalla Cura Iulia
SHARJAH, ROMA E IL MEDITERRANEO
I legami tra l’Arabia e l’area mediterranea sono antichi e non toccano solo il Mediterraneo orientale, ma anche Roma e la Spagna. Con le conquiste di Alessandro Magno l’Egitto e la Mesopotamia divennero parte del mondo ellenistico. Il Mediterraneo orientale entrò poi a far parte dell’Impero Romano, che si estese più tardi, con Traiano, alla Mesopotamia e all’Arabia.
Nel 24 a.C. Elio Gallo, prefetto d’Egitto, fu inviato dall’imperatore Augusto in Arabia per aprire una via commerciale verso l’India. L’obiettivo era il controllo delle importazioni di merci, e soprattutto delle spezie: secondo Plinio il Vecchio, ogni anno arrivavano a Roma 3000 tonnellate di solo incenso. Ma si importavano anche avorio, seta, pietre preziose, perle, pepe e mirra. L’importanza di queste merci è testimoniata dalla costruzione nel Foro Romano degli Horrea Piperataria – per
immagazzinare pepe (in latino piper) e altre spezie – e della Porticus Margaritaria, dove venivano vendute perle (margaritae).
Le navi romane trasportavano a loro volta verso Oriente tessuti, corallo, gioielli, vetro e oggetti in metallo. Il vino proveniva da Rodi e dal Mediterraneo orientale, ma anche dalla Spagna. Oggetti in vetro, come gli unguentari, venivano spesso importati da Siria ed Egitto. L’influenza romana è attestata anche dai ritrovamenti di monete, sia originali sia imitazioni.
Franco Leggeri brani dal libro “Murales Castelnuovesi” :IL GIORNO DELLA MEMORIA-Tra Storia e Contro-storia-
Franco Leggeri brani dal libro “Murales Castelnuovesi” –Castelnuovo di Farfa-Il mattino a Castelnuovo, al risveglio, certe volte, mi piace prendere tempo per poi decidere se scriverò qualcosa. Ogni risveglio lo devo immaginare come il ritorno a Castelnuovo per la prima volta, cercando di pensarlo circondato da una terra sconosciuta :la Valle del Farfa. Poi prende il sopravvento il profumo del caffè e così inizio un nuovo giorno con il foglio bianco e una carovana di pensieri da trascrivere. Una collezione di immagini che pian piano si andranno, possibilmente, a sistemarsi nello spazio delle pagine non scritte. Poi uscire dalla staticità e, al terzo caffè, iniziare un viaggio negli scaffali dei libri che forse non leggerò .Muovo i libri come pedine nella scacchiera della mente , quasi sempre,poi, il desiderio di scrivere mi riporta alla scrivania. Sì, così esco dalla notte ,dai pensieri e dai disegni bui . Segni poggiati nel nulla e nel nero ma poi , pian piano, la planimetria e il progetto della pagina diventa chiaro e ben definito. E’ questo un Gennaio diverso, freddo ma con un silenzio che ricorda il momento triste della pandemia. Oggi è il GIORNO DELLA MEMORIA, e allora ecco di cosa scrivere su questo foglio bianco. Il 27 gennaio, qui a Castelnuovo, sono tutti eruditi e acculturati “storici “ .Peccato che i cosiddetti “storici” alla “castelnuovese” non ricordino perché e come iniziò l’orribile olocausto. Ma voi che vi riempite la bocca di “MEMORIA”, sì dico a voi che, con le vostre bocche piene delle parole “cultura e memoria”, gridate e vi stracciate le vostre giacchette “firmate” e continuate tutte le volte a dire e a scrivere :”Affinché non accada mai più! “. E anche oggi continuate a dirlo!E allora vi chiedo se veramente ricordate com’è iniziato l’orribile olocausto.Non certo con i campi di sterminio, non certo con i lager, non certo con le deportazioni di massa.Iniziò con l’eliminazione del dissenso, con il controllo e la paura. Iniziò con l’eugenetica. Iniziò con la divisione del popolo in categorie. Iniziò con il sospetto e la sfiducia del vicino. Voi che riempite le vostre bocche della parola “MEMORIA”, poi isolate le persone solo perché di intralcio alla vostra narrazione tesa a coprire le vostre politiche. Voi che predicate la Democrazia, siete stati i creatori del “LISTONE UNICO” , di triste memoria, oggi al “potere”. Voi isolate e cancellate la VERA STORIA CASTELNUOVESE, manovrandola e incanalandola nella direzione , a beneficio, del vostro “potere” . Credo che “la clessidra” e “il vostro tempo” si stia esaurendo, ma continuerete a cercare ogni scappatoia per galleggiare ancora per un po’. Credo che ognuno di voi avrà presto una casella che si è costruita nei “Gironi” del Nostro Castelnuovo. Concludo questa mia nota con i versi del Sommo Poeta:” E quindi uscimmo a riveder le stelle (Inferno XXXIV, 139)”.
Castelnuovo di Farfa-Disegno di Tatiana Concas
Castelnuovo di Farfa :” La SMEMORIZZAZIONE” dei Giovani castelnuovesi e gli avvinazzati “AMARCOD da CANTINA” .
Castelnuovo di Farfa-A Castelnuovo è in atto una operazione di “SMEMORIZZAZIONE” . Operazione di pura barbarie porta avanti da individui “APPECORONATI” e “ACCAPEZZATI” che conducono, da sempre, una vita da servi e ascari dei vari capibastone. Questi personaggi, ahimè, sono addetti alla demolizione di Castelnuovo. Questi barbari ne distruggono la storia , le tradizioni ed esiliano, culturalmente, i nativi non graditi ai capibastone. Evidentemente questi ascari ,ed i vari sotto panza, non comprendendo che senza memoria storica le società , in particolare le piccole comunità, sono candidate all’autodistruzione se non a quella fisica: certamente a quella morale e culturale. Gli appecoronati castelnuovesi non comprendono che la storia serve certamente a conoscere il passato: ma in funzione del presente e nella prospettiva del futuro. E’ questo, a mio avviso, che sta avvenendo a Castelnuovo. La maggior parte dei giovani castelnuovesi è cresciuta in una sorta di presente permanente, nel quale è mancato ogni tipo di rapporto organico con il passato storico del tempo in cui essi vivono e non hanno radici che si nutrono dell’Orgoglio Castelnuovese. E dunque, se non è una scempiaggine, è per lo meno un’ingenuità ritenere che il passato sia passato del tutto o stia sepolto o fermo nella “teca del tempo”. Al passato, anche il più gravoso, – certo se ne abbiamo la forza e la capacità –, può essere restituita energia, fino a farne sprizzare fuori qualcosa di utile non solo per il presente ma anche per il futuro. Se tutto questo discorso vale per la storia in generale credo che sia ancor più valido per la storia locale. Voglio ricordare ai giovani castelnuovesi che la prima identità si forma nei luoghi dove nasciamo. L’identità è ,in gran parte, un abito dismesso da chi ci ha preceduto, noi lo ritroviamo, lo rattoppiamo e se il rammendo sarà eseguito bene allora l’abito diventa anche più bello di quello che abbiamo trovato. Ma se di quell’abito dismesso,-memoria-, ci vergogniamo e lo buttiamo allora indossiamo altri abiti e questo, ahimè, nel tentativo di travestirci da quello che non siamo e , quindi, noi crediamo di esistere solo se rassomigliamo a qualcuno visto in qualche altra parte ma sicuramente non a Castelnuovo allora , sicuramente, non saremo mai veri castelnuovesi.
La FONTANELLA della PIAZZETTA-Disegno di Tatiana CONCAS
CASTELNUOVO DI FARFA La FONTANELLA della PIAZZETTA
Castelnuovo di Farfa (Rieti)
nei disegni di Francesca Vanoncini-
La Fontanella della Piazzetta
Franco Leggeri –Castelnuovese
Franco Leggeri-POESIA Castelnuovo noi che siamo andati via-Biblioteca DEA SABINA
dall’introduzione Murales Castelnuvesi :“-………..E’ innegabile che la maggior parte dei morti tace. Non dice più niente. Ha – letteralmente – già detto tutto. Ho cercato di raccogliere, scrivere, un flusso tempestoso o calmo di pensieri: Emozioni che ho cercato di trasformare in poesia. Ho cercato di attraversare il confine verso la prateria della poesia, dove riposano i Castelnuovesi………..”.
Castelnuovo noi che siamo andati via.
Noi castelnuovesi che abbiamo viaggiato dietro la polvere
alzata dagli zoccoli dei cavalli del padrone.
Noi che abbiamo bevuto l’acqua del nostro fiume Farfa
e mangiato il pesce pescato in quelle Gole
maestre del nostro nuoto .
Castelnuovo , siamo andati via
seguendo la luna del mattino
tra gli sguardi nascosti dietro le finestre.
Siamo andati via cercando il sole,
il suo nascondiglio dietro Fara.
Siamo andati via , non ricordo, o non voglio ricordare la stagione
dei silenzi, madre dei nostri mille perché.
Siamo andati via noi che conoscevamo
il suono della cedra solo dal racconto dei vecchi castelnuovesi
guerrieri reduci di assurde e folli guerre in terre lontane.
Siamo andati via , noi poveri tra i poveri,
accolti da Pasolini e da Mamma Roma.
Siamo stati neorealismo e protagonisti
di pellicole in bianco e nero.
Castelnuovo, noi torniamo con le nostre cicatrici e i nostri racconti.
Noi castelnuovesi abbiamo nostalgia
dei vecchi sorrisi , di volti amici,
siamo tornati con lo zaino ancora pieno di perché.
Siamo tornati alla ricerca dei suoni e voci antiche,
quelle conservate in angoli chiusi e bui.
Siamo tornati per rileggere lapidi a noi care.
Castelnuovo, siamo tornati ora
tra sguardi estranei alle nostre cicatrici.
Eppure, Castelnuovo
noi non siamo mai andati via
perché abbiamo nelle nostre vene il tuo sangue.
Torniamo a prenderci e testimoniare quel che nessuno
potrà mai riscrivere o certificare: la nostra Storia.
La Storia quella che abbiamo lasciato
chiusa dietro le nostre vecchie porte.
Castelnuovo, si quelle porte dove aspettavamo
di uscire dietro i passi certi da seguire.
Castelnuovo, siamo tornati forti con il coraggio di terminare
l’inverno e l’amara stagione dei rancori e dell’odio.
Roma Capitale – Domenica 2 febbraio 2025 Musei e siti archeologici gratis-
ROMA-Campidoglio-Marco Aurelio
Roma Capitale-Ingresso gratuito per tutti domenica 2 febbraio,2025 prima domenica del mese, nei siti del Sistema Musei di Roma Capitale e in alcune aree archeologiche della città. Saranno aperti a ingresso libero il Parco Archeologico del Celio (ore 7-17.30), con il Museo della Forma Urbis (10:00 – 16:00 con ultimo ingresso alle ore 15:00, iIngressi viale del Parco del Celio 20/22 – Clivo di Scauro 4); l’Area Sacra di Largo Argentina (via di San Nicola De’ Cesarini di fronte al civico 10, 9:30 – 16:00, ultimo ingresso ore 15), l’area archeologica del Circo Massimo (ore 9:30 – 16:00, ultimo ingresso ore 15), Villa di Massenzio (via Appia Antica 153, dalle 10 alle 16, ultimo ingresso un’ora prima della chiusura) e i Fori Imperiali (ingresso dalla Colonna Traiana ore 9:00 – 16:30, ultimo ingresso un’ora prima della chiusura).
Questi i musei civici aperti a ingresso gratuito per l’occasione: Musei Capitolini; Mercati di Traiano – Museo dei Fori Imperiali; Museo dell’Ara Pacis; Centrale Montemartini; Museo di Roma; Museo di Roma in Trastevere; Galleria d’Arte Moderna; Musei di Villa Torlonia (Casina delle Civette, Casino Nobile, Serra Moresca); Museo Civico di Zoologia.
L’iniziativa è promossa da Roma Capitale, Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali. Ingresso libero compatibilmente con la capienza dei siti. Prenotazione obbligatoria solo per i gruppi al contact center di Roma Capitale 060608 (ore 9-19).
A ingresso gratuito sia le collezioni permanenti che le esposizioni temporanee, a partire dai Musei Capitolini (piazza del Campidoglio 1) dove si potrà ammirare, nelle sale terrene del Palazzo dei Conservatori, Tiziano, Lotto, Crivelli e Guercino. Capolavori della Pinacoteca di Ancona, una selezione di grandi opere provenienti dalla Pinacoteca Civica ‘Francesco Podesti’ di Ancona. Sei prestigiose tele protagoniste di un percorso espositivo che racconta l’importanza della collezione della Pinacoteca. Nella Sala degli Arazzi del Palazzo dei Conservatori, Agrippa Iulius Caesar, l’erede ripudiato. Un nuovo ritratto di Agrippa Postumo, figlio adottivo di Augusto, tre ritratti di Agrippa Postumo, uno appartenente alle collezioni dei Musei Capitolini, un altro proveniente dagli Uffizi e il terzo della Fondazione Sorgente Group, in cui, solo di recente, si è riconosciuto lo sfortunato erede di Augusto.
Nelle sale di Palazzo Clementino l’ingresso gratuito comprende la visita a I Colori dell’Antico. Marmi Santarelli ai Musei Capitolini, un’ampia panoramica sull’uso dei marmi colorati, dalle origini fino al XX secolo, attraverso una raffinata selezione di pezzi provenienti dalla Fondazione Santarelli.
La prima domenica del mese può essere infine l’occasione per ammirare, nel giardino di Villa Caffarelli, l’imponente ricostruzione in dimensioni reali del Colosso di Costantino, una statua alta circa 13 metri realizzata attraverso tecniche innovative, partendo dai pezzi originali del IV secolo d.C. conservati nei Musei Capitolini. (www.museicapitolini.org).
Al Museo di Roma in Trastevere (piazza S. Egidio 1/b) sarà possibile visitare la nuova mostra L’albero del poeta. La quercia del Tasso al Gianicolo. Attraverso documenti, fotografie, grafiche, dipinti e testimonianze, molte delle quali esposte per la prima volta, il visitatore potrà riscoprire l’importanza di questo luogo caro a Torquato Tasso, e il suo legame indissolubile con la città di Roma.
Al piano terra l’esposizione Roma ChilometroZero, un lavoro fotografico di ricerca in cui 15 fotografi romani documentano la complessità, i cambiamenti e le particolarità della città. Infine, nella sala del pianoforte al primo piano, prosegue Testimoni di una guerra – Memoria grafica della Rivoluzione Messicana, 40 fotografie provenienti dal prestigioso Archivio Casasola, che percorrono le tappe fondamentali della Rivoluzione Messicana, periodo in cui sono sorte figure che hanno segnato la storia messicana. (www.museodiromaintrastevere.it).
Ai Musei di Villa Torlonia (via Nomentana 70) nelle sale del Casino dei Principi Titina Maselli nel centenario della nascita, un’ampia visione retrospettiva dell’opera di un’artista che ha attraversato con grande autonomia e libertà visiva molte correnti pittoriche, senza mai aderire a una in particolare.
Alla Casina delle Civette è possibile ammirare l’esposizione Niki Berlinguer. La signora degli arazzi, una panoramica completa della produzione di arazzi realizzati dall’eminente tessitrice e artista, pioniera nel tradurre la pittura in narrazioni tessili (www.museivillatorlonia.it).
Negli spazi della Galleria d’Arte Moderna (via Francesco Crispi 24), la mostra Estetica della deformazione. Protagonisti dell’Espressionismo Italiano, una selezione delle opere della collezione Iannaccone di Milano relative alla linea espressionista dell’arte italiana tra gli anni Trenta e Cinquanta – dalla Scuola Romana al gruppo Corrente.
Domenica 2 febbraio sarà anche l’ultima occasione per ammirare À jour. Laura VdB Facchini, un progetto site-specific in dialogo con il complesso monumentale tardo-cinquecentesco che oggi ospita il museo, ispirato dal ricamo à jour, come omaggio alle monache che per secoli hanno abitato questo luogo. Nelle sale al secondo piano prosegue il successo della mostra “La poesia ti guarda”. Omaggio al Gruppo 70 (1963-2023), una selezione di opere di uno dei sodalizi artistici più interessanti sorti nel contesto delle neoavanguardie e delle ricerche verbovisuali italiane. Sarà inoltre ancora possibile ammirare L’allieva di danza di Venanzo Crocetti. Il ritorno, una delle prime sculture di grande formato dedicate al tema della danza di Crocetti, tornata in tutta la sua magnificenza dopo un restauro da parte dei tecnici dell’ICR. (www.galleriaartemodernaroma.it).
Aperti regolarmente al pubblico anche i musei abitualmente ad ingresso libero: Museo di Scultura Antica Giovanni Barracco; Museo Carlo Bilotti – Aranciera di Villa Borghese; Museo Pietro Canonica a Villa Borghese; Museo Napoleonico; Museo della Repubblica Romana e della memoria garibaldina; Museo di Casal de’ Pazzi; Museo delle Mura; Villa di Massenzio.
Al Museo Carlo Bilotti, Aranciera di Villa Borghese (via Fiorello La Guardia 6 – viale dell’Aranciera 4) la mostra Sandro Visca – Fracturae, un’occasione unica per esplorare la produzione dell’artista abruzzese con particolare attenzione al suo continuo dialogo tra la materia e la sua messa in forma. (www.museocarlobilotti.it )
Al Museo Napoleonico (Piazza di Ponte Umberto I 1) si potrà ammirare Carolina e Ferdinando. E non sempre seguendo il dopo al prima, sculture, incisioni, installazioni multimediali di Gianluca Esposito che esplorano artisticamente le relazioni fra Maria Carolina d’Asburgo Lorena, il marito Ferdinando IV di Borbone e il Regno di Napoli. (www.museonapoleonico.it )
DEA SABINA-Olio Extravergine di Oliva “Sabina Dop” è “il migliore del mondo”
Claudio Galeno (129 d.C-216 d.C.), padre della moderna Farmacopea:“L’olio della Sabina il migliore del mondo”.Nei territori della Sabina, tra Roma e Rieti, si produce l’olio Sabina Dop, antichissimo olio extravergine di oliva ottenuto dalle varieta’ di olive Carboncella, Leccino, Raja, Frantoio, Olivastrone, Moraiolo, Olivago, Salviana e Rosciola. L‘olio Sabina Dop ha un colore giallo oro dai riflessi verdi, il suo sapore e’ aromatico e l’acidità massima è pari allo 0,60%.
Olio Extravergine di Oliva Sabina DopClaudio Galeno (Κλαύδιος Γαληνός)
Claudio Galeno (Κλαύδιος Γαληνός) – è considerato, dopo Ippocrate, il medico più illustre dell’antichità.Nato a Pergamo nel 129 d. C., figlio dell’architetto Nicone che diresse i suoi studî, frequentò le scuole dei filosofi greci e s’approfondì ben presto nello studio della filosofia aristotelica. Studiò medicina nella sua città natale, poi a Smirne ove si dedicò particolarmente a ricerche anatomiche, si recò quindi in Alessandria, e nel 157 tornò a Pergamo dove divenne medico della scuola dei gladiatori acquistando una vasta conoscenza nel campo della chirurgia. Nel 162 si portò a Roma ove presto ebbe grande rinomanza; nel 166, essendo scoppiata una grave epidemia, abbandonò l’Italia e tornò a Pergamo, ma fu ben presto richiamato a Roma da Marco Aurelio (169). Medico dell’imperatore ne ebbe la piena fiducia, lo curò ripetutamente e nel 176 lo guarì da una malattia erroneamente dignosticata dagli altri medici. La sua attività scientifica fu particolarmente intensa negli anni fra il 169 e il 180, cioè fino alla morte di Marco Aurelio. Sotto gl’imperatori che succedettero G. continuò a essere il medico di fiducia di corte; morì nel 201, non è noto se a Roma o a Pergamo.
. L’attività scientifica di G. fu così vasta, profonda e molteplice, che egli ebbe a giusta ragione la fama d’essere stato, dopo Ippocrate, il più insigne medico dell’antichità classica. Non tutti i suoi scritti ci sono conservati; molti di essi bruciarono nell’incendio del tempio della Pace. Non meno di quattrocento sono gli scritti a lui attribuiti. L’autore stesso divide le sue opere in sette gruppi: anatomia, patologia, terapia, diagnostica e prognostica, commentarî degli scritti ippocratici, filosofia e grammatica. Centotto sono gli scritti medici che sono giunti fino a noi, alcuni di questi però soltanto attraverso la traduzione araba, altri in frammenti. Settantadue libri appartengono al gruppo dei commentari, non meno di 175 erano gli scritti filosofici.
Le opere sono tutte scritte in greco. Fra quelle che furono più studiate e citate e generalmente considerate come le più importanti vanno nominate in prima linea la Θεραπευτικὴ μέϑοδος (Methodus medendi), testo classico di terapia, noto sotto il nome di Megatechne, e la Τέχνη ἰατρική (Ars medica), generalmente indicato col nome di Microtechne, che contiene un riassunto di tutto il sistema galenico e costituì per molti secoli il testo fondamentale dell’insegnamento medico.
I libri anatomici di G. dimostrano come egli si sia occupato dell’anatomia degli animali, particolarmente del maiale e della capra, e abbia conosciuto la letteratura anatomica degli Alessandrini. Sembra di potersi rilevare che egli abbia avuto una tecnica esatta nelle preparazioni anatomiche; ripetutamente afferma d’aver esaminato e studiato le ossa delle scimmie, i visceri di varî animali, e da questi studî egli trasse direttamente e immediatamente conclusioni per l’anatomia umana. Questa anatomia di G., ricca di alcune preziose osservazioni, specialmente nel campo dell’osteologia, della miologia, e dell’anatomia del sistema nervoso (G. fu il primo a descrivere i nervi cerebrali e a distinguere i nervi motori dai sensorî), contiene anche grandi errori, fra i quali primissimo quello di aver affermato l’esistenza di una comunicazione fra il cuore destro e il cuore sinistro attraverso i fori del setto cardiaco.
Il motivo principale sul quale si fonda la fama di G. è da ricercarsi nella sua geniale intuizione dell’orientamento sperimentale e analitico della medicina, nelle sue doti eccellenti di osservatore e di critico e infine nell’aver egli saputo seguire l’ideologia monoteistica che s’andava formando. Galeno volle raccogliere sistematicamente tutto ciò che sino a lui si sapeva in fatto di medicina, riaffermando la necessità dell’analisi e l’opportunità di derivare la terapia dalla conoscenza della malattia e delle sue cause. Ippocratico nel seguire le massime fondamentali della scuola di Coo, egli si allontanò dall’antico maestro nella concezione della malattia, che egli non considerò più come una discrasia, cioè come un perturbamento nell’armonia, ma come un fatto locale, come un’alterazione dei singoli organi. Egli cercò di dimostrare col suo sistema che la struttura degli organi è conforme allo scopo preesistente al quale essi sono destinati, che ogni organismo è costruito secondo un piano logico prescritto da un Ente supremo. G. si stacca da Ippocrate in quanto non riconosce più in linea assoluta l’azione sanatrice della natura e non considera funzione del medico il lasciarsi guidare da essa, ma il combattere i sintomi.
Secondo la dottrina galenica, il pneuma che è l’essenza della vita è di tre qualità: il pneuma psychicón (spirito animale) ha sede nel cervello, centro delle sensazioni e dei movimenti; il pneuma zooticón (spirito vitale) risiede nel cuore, si manifesta nel polso; il pneuma physicón (spirito naturale) ha il suo centro nel fegato e nelle vene. La vita psichica, l’animale e la vegetativa hanno differenti funzioni e sono dirette da forze che hanno una propria sfera d’azione. Il corpo non è che uno strumento dell’anima. Il sistema galenico ebbe ben presto l’appoggio dei Padri della Chiesa, ciò che spiega come la dottrina galenica rimanga immutabile e inattaccabile fino al Rinascimento e G. assuma nel campo della medicina il medesimo posto che Aristotele tenne nel campo della filosofia.
Anatomico, fisiologo dotato d’uno spirito d’osservazione così acuto e d’una così profonda passione per l’esperimento da poter essere considerato come il creatore della fisiologia sperimentale, medico di grande esperienza, G. fu senza dubbio il fondatore della medicina sistematica. I suoi scritti furono studiati dai medici dei tempi posteriori come testi classici, ma l’autorità a lui conferita dagli studiosi in un’epoca di grave decadenza dello spirito scientifico, fece del sistema galenico un “noli me tangere” e diede a tutte le sue affermazioni il valore di altrettanti dogmi. Così il tesoro di esperienze e di idee feconde che si trova nelle opere di G. si cristallizzò e divenne sterile. Oltre ai libri citati, sono fra i più importanti degli scritti galenici i seguenti: 1. Scritti di commenti ad Ippocrate: Il Glossario di Ippocrate con 15 commentarî; 2. Anatomici e fisiologici: Dell’uso delle parti del corpo umano, l. XVII; Dei dogmi di Ippocrate e di Platone, l. IX; Delle amministrazioni anatomiche, l. XV. 3. Scritti di igiene: Della conservazione della salute, l. VI. 4. Scritti di dietetica: Della dieta dimagrante, Dei buoni e cattivi succhi degli alimenti; 5. Scritti di terapia: Dei temperamenti e delle facoltà dei medicamenti semplici, l. XII; Degli antidoti, l. II; Del metodo di curare, l. XIV. Molti altri scritti trattano di etiologia, di patologia e di diagnostica.
Ediz.: Delle antiche edizioni greche di G. la più importante è quella in cinque volumi, pubblicata da Aldo Manuzio a Venezia nel 1525. L’edizione latina più antica è quella pubblicata a Venezia da Filippo Pinzio De Caneto il 27 agosto 1490 in due volumi. Delle edizioni moderne e complete, una delle migliori è l’ed. greca edita dal Kühn, Lipsia 1821-33, in 22 volumi con la traduzione latina a fronte. L’edizione pubblicata dal Daremberg (Parigi 1854-1856) contiene un’eccellente traduzione francese degli scritti anatomici e fisiologici. Una nuova ed. critica delle opere di G. è in corso di pubblicazione nel Corpus medicorum graecorum, per cura dell’Accademia prussiana delle scienze.
Bibl.: Fra i saggi completi di bibliografia galenica va citato in prima linea quello di L. Choulant, in Handbuch der Bücherkunde für die ältere Medizin, Lipsia 1841, rist. Monaco 1926. Intorno alla vita e alle opere di G. esiste una letteratura vastissima; infiniti sono i commentarî ai suoi scritti, dato che fra il 1400 e il 1700 quasi tutti gli autori di opere mediche usavano presentare i loro lavori sotto la veste di commentarî di uno o dell’altro dei libri di Ippocrate o di Galeno. Fra le più importanti opere moderne: J. G. Ackermann (Prefazione all’edizione del Kühn), Lipsia 1821; J. Mayer-Steineg, Ein Tag im Leben des Galen, Lipsia 1913; M. Meyerhof, Über echte und unechte Schriften Galens nach arabischen Quellen, in Ber. der Pr. Akad. der Wissenschaften, XXVIII, 1928; G. Bilancioni, G., Milano 1930. Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani
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Roma-Parco Archeologico del Colosseo, apre al pubblico la Schola degli araldi del Circo Massimo, sul Palatino-
Roma-Il Parco Archeologico del Colosseo apre al pubblico la Schola degli araldi del Circo Massimo alle pendici meridionali del Palatino, portando quindi a compimento il primo dei dieci progetti del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza Caput Mundi nell’ambito della Missione 1 Digitalizzazione, Innovazione, Competitività, Cultura e Turismo. Un intervento articolato che ha coinvolto tutti gli aspetti della ricerca interdisciplinare, dalle indagini preliminari tramite prospezioni, ai rilievi fotogrammetrici 3d (ante e post operam), fino agli scavi archeologici, ai restauri conservativi delle superfici, alla valorizzazione illuminotecnica con la sponsorizzazione di iGuzzini e la predisposizione di una nuova rampa e vetrata per la migliore visione del mosaico e delle pitture che hanno dato il nome al contesto.
La Schola Praeconum si trova sulla terrazza più bassa del versante meridionale del Palatino, in una posizione che suggerisce un possibile collegamento in antico con il vicino Paedagogium. Pur appartenendo a epoche diverse (il Paedagogium è d’impianto domizianeo ma rimase a lungo in uso anche successivamente, mentre la Schola risale all’età severiana), entrambi gli edifici avevano funzioni legate ai servizi imperiali: il Paedagogium, come indica il nome, era una sorta di collegio per l’istruzione degli schiavi imperiali ed è oggi visibile lungo il percorso meridionale del Palatino, con i suoi pavimenti musivi originari restaurati. La Schola Praeconum, invece, era la sede della corporazione degli araldi, i praecones, incaricati di annunciare le pompae circensi.
Colosseo apre al pubblico la Schola degli araldi del Circo Massimo sul Palatino
Costruita nel III secolo d.C. su edifici preesistenti, la Schola si inserisce nel progetto di ristrutturazione generale del versante meridionale del Palatino promosso dalla dinastiadei Severi. Il suo orientamento rispetta quello dell’asse del Circo Massimo. Dal punto di vista architettonico, la struttura era caratterizzata da una corte rettangolare circondata da un portico sorretto da pilastri (oggi non più visibili se non per lo spazio calpestabile), con un sistema tripartito di ambienti voltati. L’edificio rimase in uso fino al V secolo d.C., come testimoniato dalla sequenza degli apparati decorativi verticali e orizzontali.
Il primo intervento decorativo, risalente al 200-240 d.C., consisteva in pitture murali raffiguranti figure maschili in piedi, vestite con abiti servili e collocate all’interno di architetture ad edicole. Questi personaggi, che portano bastoni, mappe, serti o cassette, sono stati interpretati come tricliniarii. Successivamente, le pareti furono rivestite di lastre di cipollino, mentre sul pavimento venne posato un grande mosaico bianco e nero che ha dato il nome all’edificio. Questo mosaico, unico nel suo genere, raffigura otto figure maschili in corte tuniche, disposte in due gruppi di quattro, con in mano un caduceo, uno stendardo, un bastone. Si ritiene che il mosaico risalga agli inizi del IV secolo d.C., forse durante gli interventi di ristrutturazione avviati dall’imperatore Massenzio.
L’interpretazione delle figure rappresentate nel mosaico ha sollevato diversi interrogativi. Sono state viste come araldi (praecones), impiegati pubblici a servizio dello Stato (apparitores) o aurighi. Tuttavia, appare certo che l’edificio e coloro che vi ’abitavano’ svolgevano funzioni strettamente connesse con il Circo e le relative manifestazioni. Alcune ipotesi suggeriscono che la struttura potesse avere un secondo piano, utilizzato come tribuna imperiale per assistere agli spettacoli circensi.
Un’immagine, una fotografia, alcune parole ci aprono a ricordi che pensavamo di aver dimenticato… Antonio Vivaldi –Qui è una lapide appesa ad una chiesa (si chiama della Pietà ed è ben visibile dalla Riva degli Schiavoni a due passi da Piazza San Marco) a ricordarmi chi in questo luogo passò gran parte della sua vita a suonare il violino e a dirigere i concerti che lui stesso componeva. Di lui oggi si sa quasi tutto anche se un oblio prolungato durato 200 anni ne aveva fatto scomparire la memoria. Forse avrete già intuito a chi alludo: lui è Antonio Vivaldi, uno dei più grandi compositori del suo tempo… (Venezia 1678-Vienna 1741).
Antonio VIVALDI
Ma non starò certo a raccontarvi la sua storia che, pur interessante, immagino già conoscerete, anche se certe parti della sua vita, forse, sono rimaste ancora nell’ombra. Quello che cercherò di fare sarà un breve viaggio nella Venezia della sua decadenza, alla ricerca del suo stile, tra quello spazio che va dalla fine del 1600 ai primi decenni del 1700, tempo in cui Vivaldi visse e dove seppe esprimere tutto il suo genio.
Sembrerà curioso sapere che, nonostante la città non fosse più la stessa dei secoli precedenti (in quanto a ricchezza e potenza bellica) e faccia fatica a fronteggiare le calamità verificatesi più volte (la più gravosa fu l’epidemia di peste che il secolo prima aveva decimato la sua popolazione) si aprono nuovi teatri, dove la gente si precipita: per divertirsi, o per dimenticare. Emergono figure di scrittori divenuti poi in seguito famosi: Carlo Goldoni, i fratelli Gozzi, Giacinto Gallina…
Ma quanto accade in città non è ancora, per Vivaldi, motivo di interesse. Iniziò qui la sua storia quando, uscito dal seminario, ha già 25 anni, ma soprattutto è un sacerdote. Sembra però che la vita ecclesiastica non sia stata quella adatta a lui. Il pretesto, o la causa, che lo allontana dai suoi obblighi sacerdotali è una malattia di cui soffriva fin da ragazzino e diagnosticata allora come « strettezza de petto » (un’asma bronchiale). Per il giovane Antonio la dispensa dal dire messa fu una vera fortuna che gli consentì di dedicarsi esclusivamente alla musica, unica ragione della sua vita. Ma al periodo passato in seminario Vivaldi sarà sempre grato: gli consentì di studiare e approfondire la conoscenza della musica, imparando a suonare il violino e a perfezionare una tecnica virtuosistica, da molti definita insuperabile.Ma, in cuor suo, Vivaldi si sente attratto dalla composizione. Scrive musica, anzitutto quella strumentale, che sottopone al padre (suona il violino nella Cappella Marciana, l’unica istituzione musicale della città), ma non trova estimatori. Il suo sogno di dirigere un giorno la Cappella Marciana si infrange quasi subito. Gli unici che si accorgono di lui sono i membri del direttivo dell’Oratorio della Pietà, luogo di carità istituito già nel lontano 1300. Lì verrà accolto nell’organico degli insegnanti come « maestro de violin » e compensato con 40 ducati annui, aumentati poi a 100 per l’incarico aggiuntivo di maestro concertatore.
Antonio VIVALDI
Questa assunzione presso l’oratorio sarà la sua fortuna. Tra l’impenetrabile silenzio delle sue mura, lavorerà per decenni portando avanti la sua non dichiarata “rivoluzione musicale”, dando vita a tutto il suo estro creativo, mettendo la sua musica su un piano che allora, ma anche oggi, sorprese tutti per le evidenti novità che introdusse. Dagli studi fatti al seminario Vivaldi si era accorto di come tutto ciò che aveva appreso appartenesse ad un’epoca ormai spenta. Le dinamiche espressive dei concerti che ascoltava risentivano della lentezza con cui venivano eseguiti. Certi strumenti, come il clavicembalo, non potevano esprimere più nessuna nuova potenza sonora, ragione che lo spinse, progressivamente, ad escluderlo dagli strumenti della sua orchestra a favore degli archi e dei fiati di cui intravvedeva nuovi e più importanti sviluppi. Nelle sue partiture emergono nuovi simboli dove si riconoscono ben tredici graduazioni che stabiliscono le intensità dei “piani” e dei “forti”. Nel solo tempo “allegro”, 18 sono le variazioni sonore a riprova che tutto era stato da lui vagliato e migliorato.
Dentro all’Oratorio spetta a lui scegliere tra le allieve le più meritevoli (non sorprenda questo fatto ma l’istituto raccoglieva solo ragazze, abbandonate in tenera età). Per disciplina interna sono tenute al rispetto e all’obbedienza e lui non chiede di più: l’impostazione musicale ottenuta porterà nel giro di qualche anno le sue allieve al massimo grado di perfezione, superando, per capacità, l’orchestra ed il coro della stessa Cappella Marciana. A Vivaldi molti guarderanno con rinnovato interesse. Dall’estero gli giungeranno richieste per poter partecipare alle sue lezioni, domande che non sempre furono concesse.
Antonio VIVALDI-Venezia-Calle della Pietà-Lapide Vivaldi-Foto-Giovanni Dall’Orto
Dal libro di Walter Kolneder Vivaldi (edit. Rusconi), a proposito della sua musica, leggo : «… le prime opere di questo genere dovettero apparire al pubblico come rivelazioni di una nuova umanità, l’ampiezza degli sviluppi dovette produrre un effetto tale da mozzare il respiro».
Che cosa aveva di così travolgente la musica di Vivaldi su chi l’ascoltava? Anzitutto quella gran massa di suoni eseguiti a ritmi elevati per quei tempi (ma ci sorprendono anche oggi!), poi le variazioni tonali, l’uso degli archi così sorprendente, frutto di una tecnica eccelsa in possesso delle sue allieve, e le novità messe in atto dallo stesso Vivaldi che aggiungeva difficoltà crescenti allo svolgimento dei suoi concerti. Sorpresero tutti le “martellate”, così definite allora, quelle specie di frustate buttate addosso alle corde degli archi, con gesti eseguiti soprattutto dalle violiniste, che le impegnarono anche fisicamente, in una fatica nuova ma esaltante. Tutto, alla fine, produceva un effetto estraniante, che stordiva piacevolmente chi ascoltava.
Antonio VIVALDI
Nel corso degli anni successivi, Vivaldi comincerà a comporre anche per le corti europee più importanti. La sua musica aveva raggiunto le vette più alte guadagnata in anni di silenzioso lavoro. Il re di Francia Luigi XV per il compleanno del figlio Delfino chiese a Vivaldi una cantata. “La Senna festeggiante”, così si chiama, fu composta ed eseguita nel 1726, tra la compiaciuta contentezza dei convenuti.
Ma ad impreziosire i suoi rapporti di quegli anni va ricordata l’amicizia e stima di J. S. Bach il quale intuì, e fu forse l’unico, l’enorme portata del rinnovamento messo in campo dal “prete rosso”; lo apprezzò così tanto che trascrisse alcune sue sonate portandole alla sola voce del clavicembalo (Bach era innamorato di questo strumento scrivendo per lui decine e decine di pezzi). Si sa della loro corrispondenza e di come Bach studiasse gli spartiti di Vivaldi. Tracce dell’influenza vivaldiana si possono trovare nei Concerti Brandeburghesi.
Di Vivaldi esiste un unico disegno fatto da Pier Leone Ghezzi nel 1723 quando giunse a Roma. Aveva allora 45 anni. Dal profilo si nota la grande massa dei suoi capelli (erano rossi e arricciati), gli cadono sulle spalle. L’ampia fronte fa scendere lo sguardo sul naso aquilino, poi sulle labbra, forse sottili. Più volte ho cercato di immaginarlo Vivaldi. Alto circa un metro e settanta, dentro al suo lungo abito nero, col breviario stretto sotto al braccio, la mente che inseguiva le sue musiche, il suo passo veloce per tornare all’Oratorio e metterle nel foglio pentagrammato. Di lui Charles De Brosse disse che era più veloce a scrivere un concerto di quanto non facesse un copista a ricopiarlo…
Tralascio ciò che fece Vivaldi nei decenni successivi dove si dedicò quasi esclusivamente alla musica profana, scrivendo più di 90 fra opere e cantate. Potrà sorprendere questo cambio di indirizzo, ma Vivaldi aveva capito che le nuove tendenze che circolavano in città volevano altro. La musica sacra, che gli aveva dato la notorietà, non era più richiesta come prima. In questa sua nuova veste Vivaldi si dedicherà anima e corpo in un lavoro che sembrava non aver mai fine. La grande produzione del “prete rosso” ammonta a più di 750 composizioni, ma ciò non deve sorprendere perché ogni compositore dell’epoca aveva come requisito necessario, quello di saper scrivere musica con continuità. Allora, nelle chiese e nelle sale da concerto, non era previsto che una stessa musica fosse suonata due volte.
Vivaldi avverte che il suo tempo sta per scadere. A Venezia altri sono i compositori le cui musiche trovano maggiori consensi. Si fanno largo Benedetto Marcello, Tommaso Albinoni e per Vivaldi gli spazi si vanno restringendo. Molti non approvano che un prete, come continuava ad essere lui, dovesse vestire anche i panni dell’impresario e uomo d’affari. (Per gli accordi presi con il Teatro di S. Angelo e per garantire i contratti con le maestranze con cui era venuto a collaborare, Vivaldi si prese cura di tutta la gestione). Ma erano troppe le voci contrarie per poter respingere i pregiudizi più velenosi.
Vivaldi lasciò per sempre Venezia accogliendo l’invito di Carlo VI d’Asburgo che lo volle alla sua corte a Vienna. Era il 1728. Nella capitale asburgica rimase fino al 1741, anno della sua morte, un anno dopo la morte del sovrano Carlo VI che lasciò il nostro Vivaldi in condizioni economiche precarie. Fu sepolto nel cimitero dell’ospedale in una fossa comune. Le note del suo funerale , trascritte nel registro parrocchiale così dicono: «Si è constatata la morte del molto reverendo Sig. Antonio Vivaldi prete secolare età 60 anni, avvenuta per infiammazione interna, nella casa Satler presso la porta di Carinzia.» Si concluse così la vita di uno dei più grandi musicisti del 700.
Ed il suo stile? Vi chiederete. Già… Sta tutto nei fogli pentagrammati, negli ascolti ripetuti che ce lo rivelano puntualmente. Se confrontati con altre composizioni dell’epoca, si potrà intuire quasi subito nei duetti fra l’assolo del violino e l’orchestra, fra soprano e contralto, fra flauto dolce e orchestra.
Per quanti volessero farsi un’idea più precisa della musica di Vivaldi potrei suggerire l’ascolto di alcuni brani che, a mio avviso, sono tra i più significativi della sua arte.
Tra le Quattro Stagioni scelgo L’Estate (LINK). Poi passo ai Concerti di Dresda, allo Stabat Mater (Philippe Jaroussky LINK), al Concerto Grosso in fa minore, il Concerto per flauto dolce e orchestra RV 443, la Cantata Juditha Triumphans. Aggiungo, e lo consiglio vivamente, il bellissimo documentario girato dalla BBC che ha per titolo Gloria at Pietà. All’ascolto del celeberrimo brano, si aggiungono le immagini, e la ricostruzione fedele delle atmosfere dei concerti vivaldiani all’interno della chiesa della Pietà.
Massimo Rosini
Massimo Rosin nato a Venezia nel 1957. Appassionato di cinema, musica, letteratura, cucina, sport (nuoto in particolare). Vive e lavora nella Serenissima.
Franco Leggeri Fotoreportage-Murales Ospedale Spallanzani di Roma-
9) Carlo Forlanini-Medico- Inventore del pneumotorace artificiale –
Premessa-Franco Leggeri Fotoreportage- Murales Ospedale Spallanzani di Roma- 9) Carlo Forlanini- Medico ha inventato lo pneumotorace artificiale che ha guarito tanti tubercolotici–Roma -Portuense-Vigna Pia e Dintorni–Questo reportage, come quelli a seguire, vuole essere un viaggio che documenta e racconta la storia di un quartiere di Roma: Portuense-Vigna Pia e i suoi Dintorni con scatti fotografici che puntano a fermare il tempo in una città in continuo movimento. Non è facile scrivere, con le immagini di una fotocamera, la storia di un quartiere per scoprire chi lascia tracce e messaggi. Ci sono :Graffiti, Murales, Saracinesche dipinte, Vetrine eleganti che sanno generare la curiosità dei passanti ,il Mercatino dell’usato, il Mercato coperto, le Scuole, la Parrocchia, il Museo, la Tintoria storica della Signora Pina, La scuola di Cinema, la scuola di Musica, Palestre , il Bistrò oltre i Bar , Ristoranti e Pizzerie e ancora Parrucchieri e specialisti per la cura della persona , Artigiani e per finire, ma non ultimo, il Fotografo “Rinaldino” . Il mio intento è di presentare un “racconto fotografico” che ognuno può interpretare e declinare con i suoi ”Amarcord” come ad esempio il rivivere “le bevute alla fontanella”, sita all’incrocio di Vigna Pia-Via Paladini, dopo una partita di calcio tra bambini oppure ricordando i “gavettoni di fine anno scolastico; oppure vedendo il tronco della palma tagliato ma ancora al suo posto, poter ricordare, con non poca tristezza, la bellezza “antica” di Viale di Vigna Pia.
Roma lungo via Folchi ,dall’inizio di via Portuense, si trovano i Murales che raffigurano gli scienziati che hanno combattuto e vinto le battaglie contro le malattie infettive. Eroi veri ma dimenticati su questo muro di cinta – I Murales ora rischiano il degrado e la “polverizzazione” dell’intonaco. Il muro di cinta costeggia l’Ospedale “Lazzaro Spallanzani” e fa da “sostegno” e “tela” è un muro di cinta di 270 metri, lungo il quale, dal mese di aprile del 2018 sono immortalati 13 volti di scienziati che hanno scritto la storia della ricerca sulle malattie infettive. Un progetto dei Murales è finalizzato a celebrare gli 80 anni della struttura ospedaliera, iniziato a febbraio – e inaugurato il 3 maggio – grazie alla collaborazione fra la Direzione dello Spallanzani e l’Associazione Graffiti Zero, associazione che promuove l’integrazione fra la Street Art e i luoghi che la ospitano. Unica pecca, peccato grave, non vi è immortalata nessuna donna.
Franco Leggeri Fotoreportage-Murales Ospedale Spallanzani di Roma – Carlo Forlanini
Verranno pubblicati le foto dei Murales di tutti i 13 scienziati , uno alla volta, questo al fine di poter evidenziare la biografia e la loro Opera in maniera più completa possibile. Le biografie pubblicate a corredo delle foto sono prese da
Carlo Forlanini, l’uomo che curò la tubercolosi
Franco Leggeri Fotoreportage- Ospedale Carlo Forlanini di Roma
A Roma il Forlanini è un grande complesso ospedaliero che tutti conoscono ed usano come punto di riferimento, come il Colosseo, o il McDonald’s di Piazza di Spagna: se cerchi una via tra Piazzale della Radio e la Portuense, ti diranno di costeggiare il Forlanini tre romani su tre. Ma chi era Forlanini, Carlo Forlanini? La cosa è meno nota. Carlo Forlanini, medico milanese vissuto a cavallo tra otto e novecento, è colui che grazie ad una invenzione, lo pneumotorace artificiale, ha contribuito alla cura della tubercolosi. Una invenzione. Si immagina che gli inventori siano gente stravagante, chiusa in laboratori improvvisati, almeno così l’iconografia del fumetto e del cinema ci ha abituato a ritrarli, ma è una immagine che va rivista, almeno in questo caso. Tutta la famiglia Forlanini era dotata di talento inventivo, non solo Carlo. Il fratello Enrico, che fu pioniere dell’aviazione, per esempio fu anche il primo a concepire l’aliscafo. E non solo, ebbe idee necessarie per l’ideazione dell’elicottero, dotando un velivolo con elica sul tetto di un motore a vapore, e poi sperimentò i primi dirigibili. Carlo non era da meno. Da ragazzo, al liceo, si guadagnò un premio per uno studio sui palloni aerostatici. Poi si iscrisse alla facoltà di medicina di Pavia e trovò in seguito impiego all’ospedale Maggiore di Milano. I talenti inventivi, almeno nel 1876, facevano agilmente carriera e Carlo Forlanini divenne primario del Comparto delle malattie cutanee. Ebbe così l’occasione di concentrarsi sull’ambito che più lo attraeva: lo studio della tubercolosi polmonare. Ma bisogna aspettare la cattedra di Propedeutica e Patologia Speciale Medica all’università di Torino nel 1884 per vedere i primi risultati della sua ricerca. La pneumoterapia (una pratica terapica fatta con apparecchi pneumatici per il bagno d’aria compressa) era usata già con successo nell’asma, nell’enfisema, nelle bronchiti, nelle laringiti e anche nella tisi al primo e secondo stadio. Forlanini fece di più: inventò nuovi apparecchi pneumatici che potevano essere trasportati e dunque anche meglio applicati. A fine ottocento tornò a Pavia. E’ stato un grande insegnante, prova ne fu la passione con la quale i suoi studenti seguivano le lezioni, e prova ne fu anche l’ostinazione che ebbe nel continuare ad insegnare anche in precarie condizioni di salute. Il suo nome rimarrà sempre legato allo pneumotorace artificiale, la cui applicazione fu universalmente promossa attraverso la fondazione dell’Associazione internazionale dello pneumotorace (Londra,1913). Tuttavia la scienza va avanti, e sia la sicurezza che l’efficacia della terapia sono state fortemente discusse e poi superate. Ma per sempre, se passate in zona portuense a Roma, la pietra miliare da seguire sarà Carlo Forlanini: costeggiatelo.
Franco Leggeri Fotoreportage- Ospedale Carlo Forlanini di Roma
Biografia di Carlo Forlanini a cura di M.U. Dianzani
Carlo Forlanini nacque a Milano nel 1847 da famiglia agiata, imparentata con Paolo Mantegazza. La madre di questi, patriota e organizzatrice nel settore della beneficenza, era infatti nonna di Carlo Forlanini. Il suo nome (Laura Solera) è rimasto nella storia milanese. Fratello di Forlanini fu il famoso Enrico, ingegnere aeronautico di grandi vedute. Un altro fratello, Luigi, fu medico, Presidente, a Milano, della Croce Rossa. Il giovane Carlo studiò a Pavia, ove frequentò il Laboratorio di Patologia Sperimentale, diretto prima da Bizzozero, e poi, dopo la chiamata di questi a Torino, da Camillo Golgi. Si formò scientificamente in questo ambiente, ma preferì poi passare alla Clinica. Interessato soprattutto alle malattie polmonari, fu il primo a intuire che l’unico modo per chiudere le caverne tubercolari del polmone era quello di farne collabire le pareti. Ci riuscì costruendo un apparecchio che serviva a introdurre aria nel cavo pleurico, in modo da creare uno pneumotorace. Il parenchima polmonare si ritraeva all’ilo, e le pareti delle caverne collabivano e potevano chiudersi. La scoperta del pneumotorace come mezzo di cura (1882) gli attirò grande rinomanza.
Carlo Forlanini-Medico- Inventore del pneumotorace artificiale
Si presentò nel 1883 al concorso per un posto di professore straordinario di Clinica Medica Propedeutica, posto vacante per il passaggio di Camillo Bozzolo alla Clinica Medica. Fecero parte della Commissione Domenico Tibone, Giulio Bizzozero, Camillo Bozzolo, Lorenzo Bruno e Angelo Mosso, e Carlo Forlanini fu vincitore. La sua grande passione per le tecnologie nuove distinse la sua attività torinese. Fu sotto la sua direzione che il suo Aiuto, Scipione Riva Rocci, costruì lo sfigmomanometro per la misurazione della pressione arteriosa, usato ancora oggi. La presenza a Torino di Forlanini accrebbe certamente la rinomanza della Facoltà Medica torinese, che diveniva antesignana anche nella terapia della tubercolosi. Disgraziatamente, dopo un primo periodo di collaborazione, si creò un forte contrasto in Facoltà fra lui e Bozzolo. Forlanini, infatti, aveva chiesto di diventare titolare di una seconda Clinica Medica, ma Bozzolo non aveva gradito. Il problema era acuito dal fatto che il Ministro aveva abolito la cattedra di Clinica Medica Propedeutica.
Difeso dalla Facoltà, Forlanini rimase peraltro al suo posto per vari anni. Il problema fu risolto con l’apertura di un concorso per professore ordinario di Patologia Speciale Medica a Torino, contestualmente all’apertura di un altro concorso, identico, a Pavia. Il vincitore di Torino fu Forlanini, quello di Pavia fu Bernardino Silva, un allievo di Bozzolo.
Il Ministero accettò che Silva fosse comandato a Torino, e Forlanini a Pavia. Col 1899, si ebbero infine i decreti di trasferimento. Silva restò a Torino, praticamente subalterno a Bozzolo, fino al 1905, quando morì in un incidente di montagna. Forlanini ebbe via libera a Pavia, dove insegnò e operò scientificamente sino all’anno della sua morte, avvenuta nel 1918.
A cura di M.U. Dianzani
Carlo Forlanini, apparatus Credit: Wellcome Library, London. Wellcome Images images@wellcome.ac.uk http://wellcomeimages.org Forlanini’s apparatus for artificial pneumothorax. ‘Die Indikationem und die Technik des kunstlichen Pneumothorax bei der Behandlung der Lungenschwindsucht’ Die Therapie der Gegenwart Carlo Forlanini Published: 1908 Copyrighted work available under Creative Commons Attribution only licence CC BY 4.0 http://creativecommons.org/licenses/by/4.0/
Biografia di Carlo Forlanini
Carlo Forlanini-Medico- Inventore del pneumotorace artificiale
Franco Leggeri Fotoreportage-Murales Ospedale Spallanzani di Roma – Carlo Forlanini
Ultimato il liceo, si iscrisse alla facoltà di medicina dell’Università di Pavia (nell’Almo Collegio Borromeo è presente una lapide commemorativa in suo onore) e, dopo la campagna garibaldina, si laureò nel 1870 con la tesi “Teoria della piogenesi-fachite”. La Ca’ Granda lo attirava e il 23 agosto 1870 presentò domanda all’Ospedale Maggiore di Milano che fu accolta e lì iniziò la sua pratica ospedaliera occupandosi di chirurgia nella sala di San Paolo sotto la guida del Dott. Monti, continuando le ricerche nel campo dell’oculistica. Rimase per due anni all’ambulanza oculistica di Santa Corona. Nel gennaio 1876 fu nominato primario del Comparto delle malattie cutanee dove rimase sei anni, continuando gli studi che più lo attiravano: quelli sulla tubercolosi polmonare, malattia che nell’infanzia gli aveva portato via la madre.
Franco Leggeri Fotoreportage- Ospedale Spallanzani di Roma
Nel 1884 la Facoltà Medica dell’Università di Torino lo propose per la cattedra di Propedeutica e Patologia Speciale Medica che Forlanini accettò con entusiasmo. A Torino numerosi erano gli studenti che frequentavano le sue lezioni di semeiotica e di clinica: le più ascoltate furono quelle che riguardavano i metodi clinici per la diagnosi delle pleuriti e della tisi polmonare. La pneumoterapia (terapia con apparecchi pneumatici per praticare il bagno d’aria compressa) era usata con successo nell’asma, nell’enfisema, nelle bronchiti, nelle laringiti e anche nella tisi al primo e secondo stadio. Inventò nuovi apparecchi pneumatici trasportabili per renderli più facilmente applicabili e, per rendere più precisa la semeiotica della patologia polmonare, modificò il plessimetro di Seitz: il miglior plessimetro era in avorio, di cinque centimetri di diametro e due millimetri di spessore, da percuotere con le dita per ottenere un suono che rifletteva la natura della zona sottostante.
Franco Leggeri Fotoreportage-Murales Ospedale Spallanzani di Roma – Carlo Forlanini
Ritornò nel 1899 all’Università di Pavia, titolare della cattedra di Patologia Speciale Medica e dal 3 febbraio 1900 di quella di Clinica Medica Generale, al posto del Prof. Orsi, in un Ateneo che vantava una tradizione gloriosa, dove Bizzozero aveva compiuto geniali scoperte sulla fisiologia del sangue, dove Golgi aveva svelato il segreto della fine struttura del sistema nervoso, dove Mantegazza aveva segnalato l’importanza delle ghiandole a secrezione interna, dove Bassini aveva creato il metodo di cura dell’ernia inguinale.
Franco Leggeri Fotoreportage-Murales Ospedale Spallanzani di Roma – Carlo Forlanini
La sua opera di insegnante, che era tanto ammirata, fu negli ultimi anni limitata dalle condizioni di salute. Per l’incrollabile fede nell’efficacia di una cura che, esclusivamente per merito del suo studio, entrò nella pratica quotidiana, gli è dovuto l’appellativo di “inventore dello pneumotorace”, che gli è riconosciuto dagli studiosi di tutto il mondo[senza fonte].
Carlo Forlanini-Medico- Inventore del pneumotorace artificiale
Senatore dal 1913, fu anche membro del consiglio superiore dell’istruzione, dedicandosi anche a ricerche sull’uremia, sull’ipertensione arteriosa essenziale e su diverse patologie polmonari. Al suo nome è intitolato l’Ospedale Carlo Forlanini, sanatorio di Roma, sede della Clinica universitaria della tubercolosi e delle affezioni respiratorie.
I risultati di questi lavori portarono Forlanini a ricevere più volte la candidatura al Premio Nobel per la Medicina, almeno una ventina, tra il 1912 e il 1919[4].
Nel 1877 fondò l’Istituto medico pneumatico, dove iniziò gli studi sulla cura della TBC polmonare, arrivando nel 1882 ad ideare lo pneumotorace artificiale.[6][7][8] Applicò la tecnica con pieno successo nel 1888, ma essa solo nel 1912 ebbe piena accettazione dalla comunità medica.[9]
Appassionato di apparecchi pneumatici e stimolato dal fratello Enrico, collaborò con lui discutendo su problemi di idraulica, aerodinamica e fisica, cercando di trarre il massimo beneficio dall’associazione tra scienza medica e meccanica. Il problema di poter applicare l’aria compressa nella cura della tisi lo entusiasmava e i disegni degli apparecchi di aeroterapia, di spirometria e per la cura della tisi erano tutti di mano sua e fatti con tale cura da poter servire al costruttore. Fa brevettare due modelli di aeroterapia per la cura della pleurite con inspirazioni di aria compressa per far dilatare il polmone e per la cura dell’enfisema con espirazioni in aria rarefatta. Disegna apparecchi per le inalazioni medicamentose di cui intuisce l’avvenire. I suoi lavori sull’enfisema polmonare e quelli sulla cura dei versamenti pleurici sono pietre miliari nella storia della medicina. La toracentesi con introduzione di aria filtrata (estrazione di quanto più liquido è possibile e introduzione di aria al posto del liquido estratto) è uno dei lavori fondamentali della medicina pratica. Si deve alla sua scuola l’invenzione dello sfigmomanometro di Scipione Riva Rocci, ancora oggi usato in tutto il mondo, che permise la misurazione della pressione arteriosa con un metodo incruento.
Franco Leggeri Fotoreportage- Ospedale Spallanzani di Roma-Muro di cinta
Forlanini ebbe il merito di accorgersi che lo pneumotorace spontaneo che fortuitamente si aveva in ammalati di tubercolosi cavitaria (la tisi polmonare), imprimeva alla malattia un andamento più favorevole. Secondo le sue idee la malattia era dovuta alla particolare funzione del polmone, cioè al respiro che in ogni istante fa variare la tensione del parenchima polmonare attraverso la variazione della quantità e pressione del suo contenuto (aria polmonare). Il polmone diventa tisico perché si muove e la tensione statica e dinamica impedisce la riparazione delle lesioni polmonari: l’immobilizzazione assoluta arresta il processo distruttivo favorendo la cicatrizzazione delle lesioni cavitarie.
Per guarire un polmone dalla tisi è necessario pertanto sopprimere la sua funzione, cioè collassarlo per eliminare il costante trauma respiratorio. Il metodo si basa sulla tecnica della collassoterapia, elaborata dallo stesso Forlanini, e consiste nell’introdurre gas inerte nella cavità pleurica corrispondente al polmone leso, in modo che esso venga posto in stato di riposo funzionale, così da favorirne la cicatrizzazione.
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Tecnica del pneumotorace artificiale
Il metodo di cura del Forlanini è detto pneumotorace artificiale che in medicina significa presenza d’aria nel sacco pleurico. L’apparecchio di Forlanini era costituito da un manometro ad acqua in comunicazione con un rubinetto a tre vie: da una parte c’è un tubo di gomma portante l’ago d’introduzione, dall’altra un cilindro graduato di vetro contenente il gas sotto pressione in comunicazione con un altro contenitore di vetro. Il gas usato era l’aria atmosferica filtrata dal pulviscolo. L’ossigeno si evitava perché veniva assorbito troppo velocemente e l’azoto perché poteva provocare embolie.
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L’immobilizzazione del polmone veniva ottenuta introducendo nelle pareti toraciche a ridosso del polmone stesso, e cioè nel sacco pleurico una tal quantità d’aria la cui pressione doveva vincere quella espansiva dell’aria inspirata dal polmone: questo verrà in tal modo a trovarsi come sotto una campana d’aria in pressione, che gli impedirà di espandersi durante l’inspirazione e quindi di muoversi. L’introduzione dell’aria era effettuata con un ago che veniva inserito sulla linea ascellare media del torace, all’altezza del IV-VII spazio intercostale, fino a raggiungere la cavità pleurica, dove si registrava una pressione negativa. A quel punto si iniettava il gas fino a raggiungere una pressione intorno allo zero: il polmone collabiva e rimaneva così, con successivi rifornimenti di gas, per un periodo prolungato di almeno due, tre anni. Si procedeva quindi alla sua riespansione quando si era completamente cicatrizzato.
Franco Leggeri Fotoreportage- Ospedale Spallanzani di Roma
Al Congresso Internazionale di Roma del 1894 venne data dimostrazione pratica dell’utilità dello pneumotorace e al VI Congresso Nazionale della Medicina a Roma nel 1895 Forlanini espose i primi risultati ottenuti con il nuovo metodo di cura che fu accolto però con incomprensione dai contemporanei che consideravano probabilmente un’eresia l’aver studiato il problema della cura della tisi senza tentare qualcosa contro l’agente eziologico della malattia: il bacillo di Koch.
Franco Leggeri Fotoreportage- Ospedale Carlo Forlanini di RomaFranco Leggeri Fotoreportage- Ospedale Carlo Forlanini di Roma
Nonostante lo scetticismo sul suo metodo Forlanini continuò i suoi esperimenti. Se fino al 1894 erano svolti su malati nei quali l’estensione, la gravità e la bilateralità delle lesioni toglievano ogni ragionevole speranza di salvezza, dopo il 1895 la sua attività si rivolse ai malati con monolateralità delle lesioni e buone condizioni generali e così aumentò il numero dei successi. Nel 1907 si decise a rompere il silenzio che durava ormai da 13 anni e nel giugno si svolsero due conferenze all’Associazione Sanitaria Milanese, una teorica e la seconda nella quale furono presentati i casi di guarigione e il numeroso uditorio lo seguì con interesse e i giornali milanesi si fecero portavoce del successo ottenuto. Il pneumotorace artificiale fu riconosciuto ufficialmente dai tisiologi di tutto il mondo al Congresso Internazionale della tubercolosi tenutosi a Roma nel 1912. La applicazione fu universalmente promossa attraverso la fondazione dell’Associazione internazionale dello pneumotorace, avvenuta a Londra nel 1913.[10][11] Studi più recenti tuttavia hanno sollevato forti dubbi sia sulla sicurezza, sia sulla efficacia della terapia[senza fonte], comunque oggi abbandonata.
Principali lavori pubblicati
1875 Brevissimi cenni di aeroterapia e sullo Stabilimento Medico-pneumatica di Milano. Gazzetta Medica Italiana Lombardia. Serie VII: 6
1882 A contribuzione della terapia chirurgica nella tisi del polmone. Ablazione del polmone? Pneumotorace artificiale? Gazzetta degli Ospedali e delle Cliniche di Milano
1894 Primi tentativi di pneumotorace artificiale della tisi pulmonare. Gazzetta Medica di Torino. 45:381-4, 401-3
1894 Su un caso di stenosi dell’arteria polmonare con persistenza del dotto di Botallo e di tisi polmonare
1895 Primo caso di tisi pulmonare monolaterale avanzata curato felicemente col pneumotorace artificiale. Gazzetta Medica di Torino 46:857
1897 Contributo allo studio del polso venoso presistolico
1897 Contributo alla terapia dell’empiema
1906 Zur Behandlung der Lungenschwindsucht durch künstlich erzeugten Pneumothorax. Deutsche Medizinishe Wochenschrift 32:1401-5
1908 Apparati e tecnica operativa dello pneumotorace artificiale
1909 Cenni storici e critici sul pneumotorace artificiale nella tisi pulmonare. In: Cappelli, ed. Scritti di Forlanini. Bologna, 1928:1013
1912 Il pneumotorace artificiale nella cura della tisi pulmonare. Atti de VII Congresso Internazionale Contra la Tubercolosi. Vol 3 Rome, 182.
Franco Leggeri Fotoreportage-
Logo dell’Associazione Graffiti Zero, Associazione che promuove l’integrazione fra la Street Art e i luoghi che la ospitano-Foto Franco Leggeri
Franco Leggeri Fotoreportage-Murales Ospedale Spallanzani di Roma
-8) Edward Jenner –Medico -Creò il primo vaccino contro il vaiolo-
Franco Leggeri Fotoreportage-Murales Ospedale Spallanzani di Roma – Edward Jenner – Medico è il padre dell’immunizzazione-Creò il primo vaccino contro il vaiolo-
Franco Leggeri Fotoreportage- Murales Ospedale Spallanzani di Roma- 8) Edward Jenner – Medico è il padre dell’immunizzazione-Creò il primo vaccino contro il vaiolo-Roma -Portuense-Vigna Pia e Dintorni–
– Questo reportage, come quelli a seguire, vuole essere un viaggio che documenta e racconta la storia di un quartiere di Roma: Portuense-Vigna Pia e i suoi Dintorni con scatti fotografici che puntano a fermare il tempo in una città in continuo movimento. Non è facile scrivere, con le immagini di una fotocamera, la storia di un quartiere per scoprire chi lascia tracce e messaggi. Ci sono :Graffiti, Murales, Saracinesche dipinte, Vetrine eleganti che sanno generare la curiosità dei passanti ,il Mercatino dell’usato, il Mercato coperto, le Scuole, la Parrocchia, il Museo, la Tintoria storica della Signora Pina, la scuola di Cinema, la scuola di Musica, le Palestre , il Bistrò ,i Bar ,i Ristoranti, le Pizzerie e ancora i Parrucchieri e gli specialisti per la cura della persona e come non ricordare l’Ottica Vigna Pia .Non mancano gli Artigiani e per finire, ma non ultimo, il Fotografo “Rinaldino” . Il mio intento è di presentare un “racconto fotografico” che ognuno può interpretare e declinare con i suoi ”Amarcord” come ad esempio il rivivere “le bevute alla fontanella”, sita all’incrocio di Vigna Pia-Via Paladini, dopo una partita di calcio tra ragazzi ,oppure ricordando i “gavettoni di fine anno scolastico. Infine, vedendo il tronco della palma tagliato, ma ancora al suo posto, poter ricordare, con non poca tristezza, la bellezza “antica” di Viale di Vigna Pia.
Roma,lungo via Folchi ,con inizio dalla via Portuense, si trovano i Murales che raffigurano gli scienziati che hanno combattuto e vinto le battaglie contro le malattie infettive. Eroi veri, ma dimenticati su questo muro di cinta . I Murales ora rischiano il degrado e la “polverizzazione” dell’intonaco. Il muro di cinta dell’Ospedale “Lazzaro Spallanzani”, lato via Folchi, fa da “sostegno” e “tela” ai murales realizzati in questi 270 metri. L’Opera fu iniziata nel febbraio del 2018 e completata e inaugurata il 3 maggio dello stesso anno. Nei Murales sono immortalati i 13 volti di Scienziati che hanno scritto la storia della ricerca sulle malattie infettive. Il progetto dei Murales, finalizzato a celebrare gli 80 anni della struttura ospedaliera, è stato realizzato grazie alla collaborazione fra la Direzione dello Spallanzani e l’Associazione Graffiti Zero che promuove l’integrazione fra la Street Art e i luoghi che la ospitano. Unica grave pecca ,ahimè, non vi è immortalata nessuna donna
Verranno pubblicati le foto dei Murales di tutti i 13 scienziati , uno alla volta, questo al fine di poter evidenziare la biografia e la loro Opera in maniera più completa possibile. Le biografie pubblicate a corredo delle foto sono prese da siti Web – Enciclopedia Treccani.on line e Wikipedia
Franco Leggeri Fotoreportage-Murales Ospedale Spallanzani di Roma – Edward Jenner – Medico è il padre dell’immunizzazione-Creò il primo vaccino contro il vaiolo-
Edward Jenner e il vaccino contro il vaiolo
Edward Jenner – Medico è il padre dell’immunizzazione-Creò il primo vaccino contro il vaiolo-
Un racconto sulla nascita del primo vaccino contro il vaiolo quale strumento fondamentale per sconfiggere le malattie infettive.
L’umanità deve molto all’inglese Edward Jenner, medico di campagna che nel 1749 con il suo metodo sperimentale, salvò il mondo dal vaiolo ed aprì la strada agli studi immunologici.
Nel libro, La formidabile impresa. La medicina dopo la rivoluzione mRNA, Roberto Burioni racconta come fu inventato il primo vaccino contro il vaiolo e di come questa scoperta abbia sensibilmente contribuito al progresso scientifico.
Come è nato il vaccino del vaiolo?
Edward Jenner – Medico è il padre dell’immunizzazione-Creò il primo vaccino contro il vaiolo-
Il vaccino si chiama così grazie alle vacche. Nella seconda metà del Settecento, il medico inglese Edward Jenner aveva notato che di solito le ragazze di campagna avevano una pella meravigliosa, senza traccia dei butteri del vaiolo, una terribile malattia che uccideva il 20-30% dei contagiati e lasciava cicatrici deturpanti sulla pelle dei guariti.
Un giorno, mentre infuriava un’epidemia di vaiolo, Jenner si recò in visita presso la famiglia di un agricoltore e quando trovò la figlia intenta a mungere una mucca le chiese, per attaccare bottone, se avesse paura di contrarre il vaiolo. «No» rispose la ragazza, «io ho già preso il vaiolo delle mucche, e non prenderò quindi il vaiolo degli uomini. Guardi la mia mano: questo è il segno del vaiolo delle mucche e io sono immune.» Che le persone occupate nell’accudire e mungere il bestiame fossero in qualche modo protette dal vaiolo era risaputo tra gli agricoltori, e a Jenner l’idea di immunizzare le persone utilizzando il vaiolo delle mucche ronzava da tempo nella testa, quindi decise di metterla in pratica.
L’occasione si presentò quando, nel 1796, una mungitrice – si chiamava Sarah Nelmes – arrivò nel suo studio per farsi curare il vaiolo bovino. Una delle mucche della sua fattoria si era ammalata, lei l’aveva ugualmente munta, nonostante avesse le mani screpolate, e alla fine si era ritrovata infettata, riportandone brutte lesioni.
Presso il dottore lavorava un uomo poverissimo, senza casa, che sbarcava il lunario facendo il giardiniere e aveva un figlio di 8 anni, James Phipps. Jenner mandò immediatamente a chiamare il ragazzino, prese del fluido dalle lesioni della mungitrice e glielo inoculò in un braccio. James non ebbe gravi problemi, a parte il fatto che dopo una decina di giorni cominciò a sentire dolore nel sito della puntura e un certo malessere generale. Presto però tutto passò e James tornò in perfetta salute, con una cicatrice nel punto in cui era avvenuta l’inoculazione. Jenner allora pensò che fosse arrivato il momento di capire se la puntura che aveva praticato fosse veramente in grado di proteggere il suo piccolo paziente.
Per farla breve, contagiò con il vaiolo il povero James (un medico che oggi si comportasse nello stesso modo sarebbe giustamente considerato un criminale), che sopravvisse. In segno di riconoscenza, Jenner gli regalò una piccola tenuta di campagna. James Phipps visse felice fino a 70 anni (un’età venerabile per i tempi) con moglie e due figli.
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Dal vaccino vaiolo al vaccino anti-Covid e oltre
Il primo vaccino era stato inventato, e il nome «vaccino» ha origine proprio nel fatto che per immunizzare e proteggere i pazienti si utilizzava il vaiolo vaccino, cioè dei bovini. L’aggettivo – lo stesso che usiamo parlando del latte vaccino per distinguerlo per esempio da quello caprino – aveva conseguito un risultato tanto importante da diventare anche un sostantivo.
Biografia di Edward Jenner-Biografia scritta da Francesco Centorrino
Edward Jenner, noto medico e naturalista britannico, è conosciuto per aver introdotto il vaccino contro il vaiolo e per questo è considerato il padre dell’immunizzazione.
Edward Jenner è nato a Berkeley, cittadina del Gloucestershire (Inghilterra), il 17 maggio 1748, grazie ai suoi genitori condusse un’educazione classica, infatti il latino diventò parte del suo linguaggio quotidiano. Dal 1756 al 1761 studiò grammatica presso la Grammar School di Cirencester.
Il giovane Jenner, all’età di 13 anni, dovette scegliere un impiego e scelse di diventare medico. Dopo essere stato rifiutato ad Oxford, a causa delle sue precedenti condizioni di salute, in quanto da piccolo si ammalò di vaiolo, venne affidato a Mr. Ludlow. Con il chirurgo Ludlow rimase per sette anni ed imparò tutto quello che gli serviva per la professione di medico di campagna.
Edward Jenner – Medico è il padre dell’immunizzazione-Creò il primo vaccino contro il vaiolo-
A 21 anni si trasferì a Londra per incrementare la sua esperienza nella pratica ospedaliera. A Londra fu assistente di John Hunter, ex chirurgo dell’esercito, presso il St. George’s Hospital. Nel maggio 1772 termina il suo apprendistato con Hunter e si dedica alla pratica della fisica, della chimica, alla materia medica e all’ostetricia. Hunter con il suo metodo stimolò così tanto il giovane Jenner che anche al termine dell’apprendistato i due continuarono a scambiarsi lettere.
Jenner nel 1773 decise però di ritornare a Berkeley e dedicarsi alla sua professione, solo dopo pochi mesi gli affari andavano alla grande. Tornato a Berkeley Jenner si dedicò anche a diversi studi come quelli riguardanti il tartaro emetico o il cuculo.
Anni dopo, nel 1788 sposò Catherine Kingscote che si ammalò successivamente di tubercolosi e morì nel 1815.
Fu agli inizi del 1800 che Jenner iniziò i suoi studi per combattere il vaiolo giungendo alla scoperta di un vaccino.
Gli ultimi anni della sua vita sono segnati da numerosi lutti ed il 26 gennaio 1823 Jenner si spense a causa delle conseguenze di un improvviso colpo apoplettico.
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Focus: la scoperta del vaccino contro il vaiolo
In Europa tra la fine del 1700 e l’inizio del 1800 una delle malattie più diffuse era il vaiolo: infezione contagiosa che si manifestava con pustole e lesioni cutanee.
I casi di vaiolo crescevano sempre più rapidamente, una persona malata su sei moriva e a Londra in un solo anno morivano circa 3000 persone. Chi riusciva a sopravvivere diventava immune alla malattia.
Per contrastare il vaiolo si ricorreva alla variolizzazione, ossia inoculare nel soggetto da immunizzare materiale prelevato da lesioni di pazienti meno gravi, infatti a Londra nel 1746 si aprì un ospedale in cui i malati di vaiolo venivano sottoposti a questa pratica. Successivamente si iniziò a riconoscere la pericolosità e l’inefficienza del metodo.
Edward Jenner nello svolgere la sua professione, si recava presso le fattorie, così venne a conoscenza dell’esistenza di una forma di vaiolo meno intensa rispetto al vaiolo umano, che guariva rapidamente e rendeva l’uomo immune da un secondo contagio. Si trattava del vaiolo vaccino che colpiva vacche e buoi e che poteva essere contratto anche dall’uomo.
Jenner iniziò così gli studi sul vaiolo e capì che l’uomo poteva essere immunizzato usando secrezioni di animali o uomini affetti da vaiolo vaccino.
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Prima vaccinazione
Jenner nel mettere a punto una cura contro il vaiolo impiegò 20 anni e nel 1796 ci fu la prima vaccinazione: inoculò ad un bambino di otto anni, James Phipps, pus contenuto nelle pustole della mano di una donna affetta da vaiolo vaccino. Il giovane Phipps si ammalò di vaiolo vaccino e guarì in poche settimane. In seguitò Jenner gli somministrò il vaiolo umano ed il bambino non mostrò alcun sintomo, era stato immunizzato.
La pratica che da quel momento in poi è utilizzata per combattere il vaiolo non era più la variolizzazione, ma l’inoculazione jenneriana, successivamente venne coniato il termine vaccinazione. E’ grazie a questa scoperta che Jenner è considerato il padre dell’immunologia.
L’anno successivo alla prima vaccinazione, Jenner ha scritto un resoconto della sua sperimentazione sul piccolo Phipps, ma non venne accettata dalla Royal Society in quanto la sua intuizione era considerata troppo rivoluzionaria. Così nel 1798 Edward Jenner pubblicò a sue spese “An inquiry into causes and effects of the variolae vaccinae”, relazione delle sue esperienze riguardanti la vaccinazione in cui venne utilizzato per la prima volta il termine virus.
Grazie alla scoperta di Jenner i casi di vaiolo hanno iniziato a ridursi, lo stesso Napoleone ha reso obbligatoria la vaccinazione per il suo esercito. Nel 1800 a Berlino è stata fondata la Royal Vaccine Institution. Solo nel 1980 l’Organizzazione Mondiale della Sanità dichiarerà debellato il vaiolo a livello globale.
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Contributo scientifico di Edward Jenner
Edward Jenner oltre alla sua professione di medico e chirurgo si dedicò a diversi studi, testimoniando il suo interesse non solo per la medicina, ma anche per la natura.
Uno degli studi più importanti che condusse fu quello sul comportamento del cuculo. Egli descrisse dapprima il canto dell’uccello ed in seguito le tecniche di accoppiamento. Jenner notò che il cuculo deposita le uova nel nido di altri uccelli (come la passera scopaiola) che non le distinguono dalle proprie. Il pulcino di cuculo spinge fuori le altre uova e pulcini dal nido in cui si trova in modo da essere l’unico a ricevere il cibo dai genitori adottivi. Grazie a questo studio, nel 1789, Jenner venne nominato membro della Royal Society.
Tra il 1776 e il 1778, invece, si dedicò allo studio degli istrici facendo particolare attenzione al loro letargo durante i mesi invernali ed iniziò anche uno studio sui delfini. Inoltre, grazie alla sua corrispondenza con Hunter, capì che quest’ultimo presentava i sintomi tipici dell’angina pectoris e condusse degli studi a riguardo. Intuì che il problema era dovuto, presumibilmente, alla formazione di uno strato di cartilagine a livello delle arterie coronarie e ciò ostruiva il flusso sanguigno.
Jenner effettuò anche studi sull’aerostato costruendone uno proprio alimentato ad idrogeno e, tra il 1783 e 1784, scrisse un opuscolo sul tartaro emetico, “Cursory observations on emetic tartar wherein is pointed out an improved method of preparing essence of antimony by a solution of emetic tartar in wine“, auspicando ad un maggiore utilizzo delle medicine in campo medico.
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Riconoscimenti al Edward Jenner
Il dottor Jenner ottenne numerosi riconoscimenti come chirurgo, difatti veniva chiamato per svolgere operazioni complesse e anche pochi anni prima della morte, nel 1816, effettuò una brillante tracheotomia, testimoniando così la sua bravura.
E’ grazie alla scoperta del vaccino contro il vaiolo che Jenner, nonostante i numerosi oppositori, conquistò una grande fama, infatti ricevette inviti da importanti personalità quali il re Giorgio III, la regina Carlotta ed il principe di Galles. Nel febbraio del 1800 ricevette la medaglia della marina per servizi medici, la prima di una lunga serie.
Il valore della vaccinazione fu talmente compreso in Inghilterra che il Parlamento inglese donò a Jenner 30.000 sterline per incoraggiare ulteriormente le sue ricerche.
Oggi siamo ancora qui a celebrare il dottor Jenner senza il quale l’umanità non avrebbe sconfitto un problema così grave come quello del vaiolo.
Franco Leggeri Fotoreportage- Ospedale Spallanzani di Roma
Fonti
https://aulascienze.scuola.zanichelli.it
http://www.isavemyplanet.org
http://www.ovovideo.com
https://www.paginemediche.it
http://www.storiadellamedicina.net
https://www.vaccinarsintoscana.org
https://it.wikipedia.org
Biografia scritta da Francesco Centorrino e scrivo per Microbiologia Italia. Mi sono laureato a Messina in Biologia con il massimo dei voti ed attualmente lavoro come microbiologo in un laboratorio scientifico. Amo scrivere articoli inerenti alla salute, medicina, scienza, nutrizione e tanto altro.
Edward Jenner – the Original Vaccinator
Edward Jenner – Medico è il padre dell’immunizzazione-Creò il primo vaccino contro il vaiolo-
Dr. Edward Jenner was a man who has saved millions of lives due to his discovery of cowpox as the most effective treatment for the killer disease of smallpox. Born in 1749, he was orphaned at the age of five years, his parents both dying within two months of each other in 1754. He was sent away to boarding school at the age of eight years, and whilst there was subjected to be inoculated with a small amount of smallpox which was the standard treatment of the day, although it was a matter of luck as to whether the patient survived or not. He suffered side effects that haunted him to his dying day. Luckily for us, he survived his ordeal, and as an adult, he dedicated his life to finding a more effective and much safer cure for smallpox and despite a great deal of opposition from some of his medical colleagues, found the cure and in 1980, the World Health Organisation officially announced that smallpox had finally been eliminated. There is a statue of him in Gloucester Cathedral and sadly visitors to the cathedral know little or nothing about him. As the 200th anniversary of his death in 1823 approaches, this book attempts to show the reader how much we owe him.
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7) Robert Koch medico, batteriologo e microbiologo tedesco
Franco Leggeri Fotoreportage- Murales Ospedale Spallanzani di Roma- 7) Il nome di Robert Koch è legato allo studio della tubercolosi, per la quale cercò di preparare una sostanza in grado di combatterla. Premio Nobel per la Medicina nel 1905
Roma -Portuense-Vigna Pia e Dintorni– Questo reportage, come quelli a seguire, vuole essere un viaggio che documenta e racconta la storia di un quartiere di Roma: Portuense-Vigna Pia e i suoi Dintorni con scatti fotografici che puntano a fermare il tempo in una città in continuo movimento. Non è facile scrivere, con le immagini di una fotocamera, la storia di un quartiere per scoprire chi lascia tracce e messaggi. Ci sono :Graffiti, Murales, Saracinesche dipinte, Vetrine eleganti che sanno generare la curiosità dei passanti ,il Mercatino dell’usato, il Mercato coperto, le Scuole, la Parrocchia, il Museo, la Tintoria storica della Signora Pina, la scuola di Cinema, la scuola di Musica, le Palestre , il Bistrò ,i Bar ,i Ristoranti, le Pizzerie e ancora i Parrucchieri e gli specialisti per la cura della persona e come non ricordare l’Ottica Vigna Pia .Non mancano gli Artigiani e per finire, ma non ultimo, il Fotografo “Rinaldino” . Il mio intento è di presentare un “racconto fotografico” che ognuno può interpretare e declinare con i suoi ”Amarcord” come ad esempio il rivivere “le bevute alla fontanella”, sita all’incrocio di Vigna Pia-Via Paladini, dopo una partita di calcio tra ragazzi ,oppure ricordando i “gavettoni di fine anno scolastico. Infine, vedendo il tronco della palma tagliato, ma ancora al suo posto, poter ricordare, con non poca tristezza, la bellezza “antica” di Viale di Vigna Pia.
Franco Leggeri Fotoreportage-Murales Ospedale Spallanzani di Roma – Robert Koch: una vita per la scienza
Roma,lungo via Folchi ,con inizio dalla via Portuense, si trovano i Murales che raffigurano gli scienziati che hanno combattuto e vinto le battaglie contro le malattie infettive. Eroi veri, ma dimenticati su questo muro di cinta . I Murales ora rischiano il degrado e la “polverizzazione” dell’intonaco. Il muro di cinta dell’Ospedale “Lazzaro Spallanzani”, lato via Folchi, fa da “sostegno” e “tela” ai murales realizzati in questi 270 metri. L’Opera fu iniziata nel febbraio del 2018 e completata e inaugurata il 3 maggio dello stesso anno. Nei Murales sono immortalati i 13 volti di Scienziati che hanno scritto la storia della ricerca sulle malattie infettive. Il progetto dei Murales, finalizzato a celebrare gli 80 anni della struttura ospedaliera, è stato realizzato grazie alla collaborazione fra la Direzione dello Spallanzani e l’Associazione Graffiti Zero che promuove l’integrazione fra la Street Art e i luoghi che la ospitano. Unica grave pecca ,ahimè, non vi è immortalata nessuna donna.
Verranno pubblicati le foto dei Murales di tutti i 13 scienziati , uno alla volta, questo al fine di poter evidenziare la biografia e la loro Opera in maniera più completa possibile. Le biografie pubblicate a corredo delle foto sono prese da Enciclopedio Treccani.on line e Wikipedia
Franco Leggeri Fotoreportage-Murales Ospedale Spallanzani di Roma – Robert Koch: una vita per la scienza
Robert Koch e la tubercolosi
Il nome di Robert Koch è legato allo studio della tubercolosi, per la quale cercò di preparare una sostanza in grado di combatterla.
Robert Koch nasce a Clausthal, in Germania nel 1843, figlio di un ingegnere minerario. Bambino precoce e molto intelligente, a 19 anni entra all’Università di Göttingen per studiare medicina con il ProfessoreHenle; questi sostiene che le malattie infettive sono provocate da organismi vivi.
È a partire da questa affermazione, insieme all’esperienza che egli stesso si farà nel campo della microbiologia, che Koch enuncerà quelli che oggi sono conosciuti come ‘Postulati di Koch’ e che trattano delle condizioni necessarie per poter affermare che un particolare Batterio è causa di una determinata malattia.
Links: Käfige mit Versuchstieren, rechts: ein Brutschrank, Person: Robert Koch [11.12.1843 – 27.05.1910], Deutscher Arzt und Bakteriologe, Datierung: um 1890, Material/Technik: Holzstich, koloriert, , Copyright: bpk
Laureatosi, Koch trascorre un periodo limitato a Berlino per studiare chimica e poi fa una sorta di tirocinio all’ospedale Generale di Amburgo prima di esercitare privatamente.
I primi studi di ricerca Koch li compie sul bacillo del carbonchio. Egli si trova, in questo periodo, nel Wollenstein, dove il carbonchio provoca numerose epidemie tra i bovini. Non ha contatti con altri ricercatori, né accesso a biblioteche, quindi deve contare sulle sue sole forze. Koch riesce a provare che è proprio il bacillo del carbonchio a provocare la malattia: egli inocula in alcuni topi il Sangue prelevato dalla milza di animali malati ed in altri il sangue prelevato dalla milza di animali sani dimostrando che i topi ai quali è stato inoculato sangue infetto si sono ammalati, quelli ai quali è stato inoculato sangue sano no.
Ma va anche oltre. Riesce a produrre una coltura di bacilli del carbonchio facendoli crescere e moltiplicare nell’umore acqueo dell’occhio di un bovino, riuscendo così a dimostrare che i bacilli si riproducono e causano la malattia anche senza il contatto con alcun animale, perché hanno la capacità di resistere quando le condizioni sono avverse producendo delle spore che poi, in condizioni favorevoli, produrranno di nuovo i bacilli.
Franco Leggeri Fotoreportage-Murales Ospedale Spallanzani di Roma
La ricerca contro la tubercolosi
Tra il 1883 ed il 1884 Koch si dedica allo studio del vibrione del colera e alla sua diffusione, e formula delle linee guida che sono ancora oggi ritenute valide. Si dedica poi allo studio di una malattia per quell’epoca molto comune e molto grave, alla quale resterà legato il suo nome, la tubercolosi.
Robert Koch: una vita per la scienza ,studiò la tubercolosi,Premio Nobel per la Medicina nel 1905
Egli cerca di preparare una sostanza che potesse essere utilizzata con scopi terapeutici contro questa malattia. Questa sostanza, che egli chiamerà tubercolina, viene ricavata dal bacillo stesso della Tubercolosi e, sebbene non abbia il risvolto terapeutico valido sperato, è ancora oggi utilizzata (chiaramente prodotta con tecniche più all’avanguardia) a scopo diagnostico.
Lo studio della tubercolosi e del batterio che la provoca lo porterà anche a sostenere, a ragione anche se nessuno gli crederà, al Congresso Medico sulla Tubercolosi svoltosi a Londra nel 1901, che il batterio che causa la tubercolosi umana e quello che causa la tubercolosi bovina sono differenti.
La ricerca di Robert Koch, alla fine del XIX secolo, si sposta poi in Africa meridionale. Qui egli si reca per studiare e fermare la peste bovina. Purtroppo l’impresa non riesce perché la malattia è provocata da un virus (troppo piccolo per essere visto da un microscopio non elettronico) e non da un batterio, ma Koch riesce comunque a limitare il contagio grazie ad una specie di vaccinazione che egli ottiene inoculando la bile prelevata dalla milza degli animali infettati.
Sempre in Africa, egli si dedica anche allo studio di altre malattie, quali la malaria, la spirochetosi, la tripanosomiasi.
Nella sua vita, Koch viene insignito di molteplici onorificenze, ottiene una laureahonoris causae all’Università di Bologna e conquista l’ambito Premio Nobel per la Medicina per lo studio della tubercolosi nel 1905. Muore a Bade-Baden il 27 maggio del 1910.
Robert Koch: una vita per la scienza
Robert Koch: una vita per la scienza ,studiò la tubercolosi,Premio Nobel per la Medicina nel 1905
Geheimrat Robert Koch nacque nel 1843 a Clausthal, nelle odierna Germania centro-settentrionale. Figlio di un ingegnere minerario, rivelò fin da bambino la sua intelligenza e perseveranza imparando a leggere da solo all’età di 5 anni.
A 19 anni intraprese gli studi di Medicina all’Università di Göttingen, ove ebbe come maestro il prof. Henle. Questi, che da tempo andava sostenendo, contrariamente all’opinione comune, che le malattie contagiosa erano provocate da “organismi vivi parassiti”, senza dubbio influenzò la nascente personalità scientifica del giovane allievo.
Dopo un breve periodo a Berlino per lo studio della Chimica e un soggiorno di studio all’Ospedale Generale di Hamburg, Koch incominciò a esercitare privatamente la professione di medico. Questa attività non gli impedì di interessarsi a numerosi altri argomenti, quali ad esempio l’archeologia e l’antropologia.
I primi lavori fondamentali, eseguiti con penuria di mezzi e in condizioni disagiate, riguardarono il carbonchio ematico degli animali. Tali lavori furono coronati dalla dimostrazione, attraverso l’infezione sperimentale del topo, che il bacillo del carbonchio presente nella milza degli animali morti era l’agente causale della malattia. Successivamente, Koch riuscì a isolare e a coltivare in coltura pura il bacillo, usando come terreno di coltura l’umore acqueo dell’occhio di bovino. Egli dimostrò anche la formazione delle spore e ne documentò la straordinaria resistenza nell’ambiente.
Nel 1880 Koch, già famoso, divenne membro del “Reichs-Gesundheitsamt” (Imperial Ufficio per la Salute) a Berlino; quivi ottenne finalmente mezzi adeguati alle sue capacità, e si dedicò allo studio dei terreni di coltura e della colorazione dei batteri. Risale a questo periodo (1881-82) la messa a punto di nuove metodiche per la coltivazione e l’ottenimento in coltura pura dei batteri ed, in particolare, del bacillo della tubercolosi dell’uomo.
L’esperienza acquisita e le grandi capacità analitiche permisero a Koch di rivedere i principi fondamentali – già proposti in precedenza da Henle – riguardanti le condizioni necessarie per poter dichiarare che “un determinato batterio è causa di una determinata malattia”. Tali principi sono passati alla storia come «Postulati di Koch».
A questi studi seguì un breve ma intenso e proficuo intervallo (1883-84) dedicato allo studio del colera e delle modalità di diffusione del vibrione nell’ambiente. Anche in questo campo Koch si distinse per la sua attività di «pioniere» della microbiologia, formulando alcune linee-guida per il controllo della malattia che vennero ben presto approvate e adottate in numerosi Stati e che, nella sostanza, ancor oggi vengono seguite.
Ospedale Spallanzani di Roma-foto di Franco Leggeri
Successivamente Koch riprese gli studi sulla tubercolosi che, a quel tempo, rappresentava una delle malattie più gravi e frequenti. Gli studi vennero rivolti alla preparazione di una sostanza derivata dal bacillo della tubercolosi, denominata «tubercolina», che Koch riteneva provvista di attività terapeutica. Ben presto tale attività si rivelò inesistente, ma la tubercolina si rivelò, in seguito, straordinariamente utile a scopo diagnostico (e lo è ancor oggi, seppure purificata e prodotta con tecniche più sofisticate di quelle di Koch).
Nel 1896 Koch ebbe l’occasione di soggiornare nell’Africa meridionale allo scopo di studiare l’origine di una terribile malattia dei ruminanti: la peste bovina. Koch non riuscì nel difficile intento (la peste bovina è sostenuta non da un batterio bensì da un virus); tuttavia, riuscì a limitare l’estensione dei focolai e a rallentare la diffusione della malattia attraverso una sorta di vaccinazione che consisteva nell’inoculare agli animali sani bile prelevata da animali ammalati.
In questi anni Koch giunse alla conclusione che la tubercolosi dell’uomo e del bovino erano sostenute da batteri differenti, e difese strenuamente la sua opinione (che oggi sappiamo essere esatta) contro lo scetticismo o l’avversione dei più al Congresso Medico sulla Tubercolosi tenutosi a Londra nel 1901.
Rappresentano punti fermi nella storia della Medicina altri studi compiuti da Koch, prevalentemente nel continente africano, su numerose malattie: malaria, surra, spirochetosi, tripanosomiasi, babesiosi.
Franco Leggeri Fotoreportage-Murales Ospedale Spallanzani di Roma -Muro di cinta-
Koch raccolse, durante la sua non lunghissima vita, innumerevoli premi e onorificenze, compresa una laurea ad honorem presso l’Università di Bologna. Nel 1905 venne insignito del premio Nobel per la Medicina per gli studi eseguiti sulla tubercolosi.
Robert Koch si spense a Baden-Baden il 27 maggio 1910, all’età di 67 anni.
Paolo Genovesi Fotoreportage Faggeta Monte Cimino-
Pro Loco di Soriano “Un tuffo nella fiaba”Paolo Genovesi Fotoreportage Faggeta Monte Cimino”Splendida la faggeta di Soriano, alterna alberi secolari a pietre che determinano una ricca varietà di paesaggio. Servito da decine di sentieri ben segnati, ci immerge in una pace di altri tempi. Da visitare assolutamente”.
Paolo Genovesi Fotoreportage Faggeta Monte Cimino
Monte Cimino si trova in un territorio profondamente plasmato dall’intensa attività vulcanica esplosiva, avvenuta migliaia di anni fa nella provincia di Viterbo. Più precisamente, l’affascinante geologia dei Monti Cimini ha un’età antica compresa tra 1,35 milioni e 800.000 anni fa. Durante questo intervallo di tempo, la risalita di magmi viscosi acidi lungo la frattura ha originato più di 50 rilievi collinari intorno al rilievo principale, ovvero il Monte Cimino (1.053 m).
Paolo Genovesi Fotoreportage Faggeta Monte Cimino
Nell’area sono presenti anche altri rilievi, tra cui il Monte Montalto (786 m), il Monte Roccaltia (712 m), il Monte Turello (626 m) e il Monte S. Antonio (617 m), tutti caratterizzati da una morfologia a domi, ovvero ammassi di magma molto viscoso che si presentano come piccole alture con grossi massi tondeggianti sulla cima.
L’altitudine dell’intero complesso varia da 373 a 1.053 m, con un’altezza media di 548 m. La testimonianza dell’intensa attività vulcanica di questa zona si scorge, inoltre, osservando la presenza in tutto il territorio di formazioni rocciose, blocchi sparsi che possono raggiungere volumi di decine di metri cubi che caratterizzano il paesaggio, ricordando la straordinaria geologia di questi monti, oltre che l’enorme portata e la forza del Cimino durante le sue eruzioni. In particolare, sulla vetta del Monte Cimino l’attenzione di molti visitatori è attirata da un grande masso di circa 250 tonnellate, anche conosciuto come sasso “menicante” o sasso “naticarello”, già noto al tempo dei Romani, il cui nome è legato alla sua particolare posizione, sospeso in equilibrio su una sporgenza del terreno.
Paolo Genovesi Fotoreportage Faggeta Monte Cimino
Il comprensorio del Monte Cimino, identificato con il nome “Monte Cimino (versante nord)”, è stato riconosciuto come Zona Speciale di Conservazione (ZSC) e Zona di Protezione Speciale (ZPS), compresi nella rete ecologica europea di siti di interesse comunitario denominata “Rete Natura 2000”, con il fine di proteggere il biotopo di notevole interesse fitogeografico, naturalistico e storico-monumentale presente in quest’area.
Foreste, sorgenti e torrenti caratterizzano l’ambiente dei Monti Cimini estendendosi per circa 975 ettari nel territorio dei Comuni di Soriano nel Cimino, Vitorchiano e Viterbo. È interessante notare come queste aree siano quasi totalmente coperte da formazioni forestali di latifoglie che, nei settori meno disturbati dall’azione dell’uomo, si articolano seguendo una sequenza altitudinale: ai querceti e leccete succedono boschi misti mesofili con una presenza diffusa di castagneti e, infine, una fustaia vetusta di faggi sulla sommità del Monte Cimino.
Paolo Genovesi Fotoreportage Faggeta Monte Cimino
La principale valenza naturalistica che ha motivato la costituzione della ZSC è legata alla presenza di due habitat forestali di interesse comunitario, che presentano elementi faunistici di particolare interesse, tra cui insetti, crostacei e anfibi, e di una significativa popolazione di gambero di fiume. La designazione come ZPS è motivata dalla segnalazione di alcune specie minacciate o vulnerabili di rapaci forestali e rupicoli, di diversi passeriformi e del succiacapre, uccello protetto dalle abitudini notturne che frequenta ambienti aperti.
Il tipo forestale più diffuso nell’area è senza dubbio rappresentato dai castagneti, sia cedui che da frutto, che si estendono in un intervallo altitudinale tra i 550 e i 950 m, presentando spesso delle compenetrazioni con i querceti alle quote inferiori. La grande diffusione del castagno è stata certamente favorita dall’opera selettiva che l’uomo ha compiuto nei secoli passati, a fini produttivi, e dal substrato vulcanico acido, che risultano fattori fondamentali per la diffusione di questa specie.
Paolo Genovesi Fotoreportage Faggeta Monte Cimino
Per la bellezza del paesaggio, per la biodiversità degli ambienti rinvenibili e per la particolarità floristica, l’area è stata nel tempo oggetto di numerosi studi riguardanti flora e vegetazione, molti focalizzati proprio sulla faggeta del Monte Cimino.
Foresta
La natura dei suoli di origine vulcanica del Monte Cimino, tra i più fertili di tutta l’Italia centrale, permette ai faggi di crescere rigogliosi sino al raggiungimento di imponenti dimensioni, oltre 50 metri. La faggeta pura si sviluppa per circa 60 ettari, con un’altitudine che varia dai 1.054 m della cima a una quota di circa 800-850 m.
Il faggio, però, si spinge anche a quote inferiori, isolato o a piccoli gruppi, penetrando all’interno dei cedui misti e dei cedui di castagno – dove si presentano condizioni favorevoli di umidità –, nelle sacche di terreno più profondo e negli impluvi. Nel contesto di tale habitat si inserisce il castagno, specie che è stata favorita dall’uomo per la buona qualità del legname e del frutto, e che ha esteso il proprio l’orizzonte fino a dove avrebbe dovuto insediarsi il faggio. Ne consegue che il settore meglio conservato è il settore nord-orientale del Monte Cimino, proprio lungo i valloni dove scorrono i corsi d’acqua, dove i castagneti non sono riusciti a insediarsi. Il faggio è inoltre presente anche in prossimità delle piccole lacune createsi nella copertura dei cedui.
Paolo Genovesi Fotoreportage Faggeta Monte Cimino
La faggeta vetusta è caratterizzata dalla presenza di numerosi alberi di grandi dimensioni, con fusto per una buona parte sgombero da rami e la chioma inserita in alto. La faggeta oggi è relegata alla sommità del Monte, al di sopra dei 900 m di quota, ed è uno degli ultimi frammenti relitti di un’antica ed estesa foresta, che Tito Livio descrisse come impenetrabile e spaventosa: la Selva Cimina. È caratterizzata da un popolamento puro con età dei grandi alberi che si aggira mediamente intorno ai 150 anni, con alcuni individui che superano i due secoli di età. A questo proposito è interessante osservare come gli individui più vecchi presentino una chioma espansa con grossi rami inseriti anche nella parte basale del fusto: questo particolare portamento testimonia che il loro sviluppo è avvenuto in un ambiente più aperto di quello attuale, per esempio in pascoli arborati dove venivano allevati i maiali allo stato brado.
Paolo Genovesi Fotoreportage Faggeta Monte Cimino
La struttura del bosco del Monte Cimino nel complesso è ancora in prevalenza di tipo coetaneiforme, ovvero presenta numerosi grandi alberi di età simile. A seguito dell’abbandono colturale, degli schianti verificatisi nel corso degli anni e quindi del successivo processo di rinnovazione, il bosco inizia tuttavia a presentare caratteri di maggiore complessità. Infatti, secondo studi effettuati in quest’area, all’interno del popolamento è possibile riconoscere tre diversi gruppi di piante con una differente età media: piante giovani di età convenzionale attorno ai 30-50 anni con diametri compresi tra 5 e 30 cm, piante adulte di età convenzionale di 135 anni con diametri compresi tra 25 e 90 cm, e piante vetuste con età superiore ai 200 anni con diametro maggiore di 80 cm. La riscontrata coesistenza di gruppi di piante di diversa età dimostra quindi un principio di evoluzione naturale orientato verso un aumento della complessità della foresta. La faggeta, quindi, attraversa attualmente lo stadio denominato di transizione demografica, durante il quale il bosco coetaneo si trasforma gradualmente in una foresta vetusta a elevatabiocomplessità.
Paolo Genovesi Fotoreportage Faggeta Monte Cimino
La faggeta rappresenta uno dei rari lembi di foresta vetusta di grandi dimensioni presenti in Europa: per questo, uno dei principali obiettivi è garantirne il mantenimento dell’estensione favorendone, se possibile, l’ampliamento e la conservazione.
Paolo Genovesi Fotoreportage Faggeta Monte Cimino
Sentieri
Monte Cimino con i suoi 1050 m di altezza rappresenta la cima più alta della catena montuosa laziale dei Monti Cimini. La sua superficie è quasi interamente ricoperta da foreste, tra cui la faggeta vetusta oggi inserita della World Heritage List dall’UNESCO.
La faggeta è tutelata da una Zona Speciale di Conservazione la cui gestione è affidata all’Ente di gestione della vicina Riserva Naturale del Lago di Vico, ma il luogo ideale da cui partire per una sua visita è il borgo di Soriano nel Cimino. Qui di seguito viene descritto un semplice anello, scelto tra i numerosi sentieri mantenuti dalla Sezione del CAI di Viterbo, utile per visitare la faggeta e scoprire le sue caratteristiche e peculiarità.
Paolo Genovesi Fotoreportage Faggeta Monte Cimino
La faggeta vetusta di Monte Cimino
Camminare tra i faggi più alti d’Europa
Lunghezza 2 km
Dislivello in salita 100 m
Tempo complessivo 1 ora circa
Difficoltà bassa per l’assenza di dislivello e la brevità del percorso
Per la visita al sito Unesco è possibile raggiungere il parcheggio della faggeta nei pressi della “Rupe Tremante”, distante circa 15 minuti in auto, seguendo le indicazioni per la frazione Canepina e quindi, appena usciti da Soriano, per la faggeta.
Paolo Genovesi Fotoreportage Faggeta Monte Cimino
Il percorso si snoda lungo sentieri CAI e consente di attraversare con un breve anello i secolari boschi di faggio, accompagnati lungo il percorso dai famosi massi geologici che derivano dall’attività eruttiva del Monte Cimino. Una breve deviazione consente di raggiungere la cima di Monte Cimino, in cui troviamo una suggestiva torre e alcune testimonianze di antichi insediamenti dell’età del bronzo. Questo percorso, arricchito dalle numerose bacheche sulla fauna, la flora e le caratteristiche del luogo, rappresenta l’alternativa più semplice e suggestiva per visitare il cuore di questa antica faggeta.
Paolo Genovesi Fotoreportage Faggeta Monte Cimino
Attività
La Tuscia Viterbese è un territorio incantevole e dai paesaggi vari e di notevole interesse, nonostante sia ancora poco conosciuta. Troviamo in quest’area due catene montuose, i Monti Cimini e i Monti Volsini, e due laghi vulcanici, il Lago di Vico e il Lago di Bolsena, sorgenti di acque termali, che convivono con foreste a perdita d’occhio e faggete collinari, oltre che con la Maremma Laziale e una costa che giunge quasi fino all’Argentario. Numerosi sono i borghi e luoghi storici che meritano una visita, tra cui la stessa Soriano nel Cimino, la storica Villa Lante di Bagnaia, primo esempio di giardino formale che si raccorda con una lecceta vetusta nel barco, e la famosa Civita di Bagnoregio, “la città che muore”. Questa porzione di Lazio è inoltre conosciuta per Bomarzo e per il Parco dei Mostri; per le città etrusche di Tarquinia e Tuscania; per le antiche ville e palazzi d’arte come il Palazzo Farnese di Caprarola, oltre che per la stessa Viterbo, per oltre vent’anni sede pontificia, che conserva ancora il soprannome di “antica città dei Papi”. Tra i numerosi eventi culturali merita una menzione la Sagra delle Castagne, una delle più belle e suggestive manifestazioni storico-rievocative d’Italia, che si svolge nel primo e secondo fine settimana di ottobre a Soriano nel Cimino.
Paolo Genovesi Fotoreportage Faggeta Monte Cimino
Un viaggio nella Tuscia non può prescindere da un’immersione nella faggeta vetusta di Monte Cimino: percorrendo i numerosi sentieri che si sviluppano nel bosco, la sensazione è quella di entrare in un’altra dimensione, riscoprendo i suoni e il silenzio che solo questo ambiente unico nel suo genere sa regalare, come isolato in un contesto circostante alquanto diverso come naturalità dei paesaggi. La faggeta raggiunge il suo massimo splendore nei periodi primaverili e autunnali dove i vari colori, dovuti al naturale ciclo di vita delle piante, generano variazioni cromatiche irrinunciabili per tutti gli appassionati di fotografia.
Paolo Genovesi Fotoreportage Faggeta Monte Cimino
Nei numerosi sentieri che circondano e scendono a valle dalla faggeta vengono praticati molti sport tra cui escursionismo, trekking, corsa e mountain bike. I principali punti d’interesse della faggeta sono la torre e i siti proto-storici presenti sulla vetta del Monte Cimino, testimonianze di antichi insediamenti del bronzo nell’area; i massitrachitici sparsi per l’intera faggeta e creati dall’attività vulcanica di lave quarzo-latitiche oltre un milione di anni fa; la rupe tremante o “sasso menicante”.
Paolo Genovesi Fotoreportage Faggeta Monte Cimino
La vera attrattiva sono, tuttavia, i maestosi faggi secolari arrivati fino ai giorni nostri, grazie a una scelta autonoma pre-ambientalista della comunità locale legata alla bellezza straordinaria dell’ambiente: isolati, sulla cima di Monte Cimino, sono i veri protagonisti indiscussi di questa preziosa foresta.
Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi, Monte Falterona e Campigna
Palazzo Vigiani, via Guido Brocchi, 7
52015 – Pratovecchio (Ar)
P. IVA 01488410513 info@parcoforestecasentinesi.it
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