La Chiesetta è stata edifica dal Sig. Enrico SCORSOLINI a perenne memoria di ALBERTO FALCIANI. La chiesetta fu inaugurata da S.E. Monsignor Tito Mancini Vescovo ausiliare di Porto e Santa Rufina , Segretario particolare di S.E. Cardinale EUGENIO TISSERANT. L’inaugurazione avvenne il 16 maggio 1965.La bella chiesetta di campagna fa parte della Parrocchia di Sant’Isidoro di Tragliata, vi si celebra la Messa domenicale e tutti i pomeriggi alle ore 16:00 si recita il Santo Rosario .
S.E. Monsignor Tito Mancini, Vescovo Ausiliare per la Diocesi di Porto e Santa Rufina.
S.E. Monsignor Tito Mancini, Vescovo Ausiliare per la Diocesi di Porto e Santa Rufina.
Biografia-S.E. Monsignor Tito Mancini-Il Vescovo Pietro Mancini nacque a Bologna il 24 novembre 1901. Trasferitosi a Firenze entrò giovanissimo nel Convitto della Calza da dove , ordinato sacerdote insieme a Mons. Bagnoli il 25 luglio 1925, uscì per dedicarsi al ministero.
Il quel 25 luglio 1925 furono ordinati preti anche Don Antonio Pettini, Don Romano Rastrelli, Don Serafino Ceri.
A Don Mancini si deve la costruzione della nuova Chiesa parrocchiale di Santa Maria a Coverciano .
Dopo aver svolto il ministero a Coverciano per un certo periodo , cioè sino al mese di agosto del 1933, Don Tito Mancini passo alla Marina Militare con il grado di Capitano dedicandosi all’assistenza religiosa dei marinai; ma i parrocchiani di Coverciano non lo dimenticarono e quando arricchirono di un nuovo concerto di campane il loro campanile vollero che una campana fosse dedicata a San Tito al ricordo proprio di Don Tito Mancini.
Ben presto Don Tito Mancini dovette lasciare il ministero a favore dei marinai perché chiamato a Roma al seguito del Cardinale francese Eugenio Tisserant il quale ripose ogni fiducia nel sacerdote calzista. Ben presto, il 29 gennaio 1947, Don Mancini divenne Vicario Generale della Diocesi di Ostia Porto e Santa Rufina delle quali era titolare il Cardinale Tisserant, e poi lo stesso Cardinale ottenne , nel 1960, dalla Santa Sede che Monsignor Mancini gli fosse assegnato come Vescovo Ausiliare e fu lo stesso Cardinale Tisserant a consacrare.
Si legge nel settimanale “Vita” nell’edizione del 4 aprile 1962 , in un lungo articolo dal titolo TISSERANT a pag. 43 :” il 29 gennaio 1961 il Cardinale Tisserant, versò non poche lacrime di commozione mentre consacra Vescovo Mon. Tito Mancini, assegnatogli come Ausiliare.
Prosegue il cronista:” sembra che consagri Vescovo un figlio.” Era questo il commento dei presenti. Dopo la cerimonia di investitura gli invitati fecero al Cardinale le congratulazioni per aver ottenuto un Vescovo Ausiliare per la Diocesi, il Cardinale rispose così:”Non dovete rallegrarmi con me perché ho avuto il Vescovo Ausiliare, ma perché ho avuto Questo Ausiliare, Mons. Tito Mancini .” Appena aver pronunciato queste parole il Cardinale fece un gesto che commosse profondamente i presenti e il Vescovo Mancini: si sfilò dal dito l’anello episcopale che egli aveva ricevuto 24 anni prima nel giorno della sua propria consacrazione e lo donò al sua neo Ausiliare….”.
Il 28 febbraio 1967 Mons. Tito Mancini passò a reggere le Diocesi di Nepi e Sutri nella Tuscia laziale.
L’attività pastorale di Monsignor Tito Mancini ,molto intensa , diede ottimi frutti. A questo proposito giova ricordare ciò che il parroco Don Alberto Benedetti attestò di lui ancora vivente:” dalla mente e dal cuore…Mancini trae motivo per portare la fiaccola della Fede e l’ardore della Carità in ogni angolo della Diocesi, con semplice umiltà aiuta i parroci , sostituisce quelli improvvisamente impediti per malattia o impegni , nella celebrazione della Santa Messa…” Monsignor Tito Mancini morì a Sutri, rimpianto del clero e dal popolo, dal 4 marzo 1969 è sepolto all’interno della Cattedrale della Diocesi di Porto e Santa Rufina a La Storta vicino al Cardinale Eugenio Tisserant , Monsignor Luigi Martinelli,Monsignor Pietro Villa e Vescovo Andrea Pangrazio, come si legge nell’epigrafe .
S.E. Monsignor Tito Mancini, Vescovo Ausiliare per la Diocesi di Porto e Santa Rufina. con il Cardinale EUGENIO TISSERANT
Ricerche bibliografiche, foto d’archivio e foto originali sono di Franco Leggeri-
CAMPAGNA ROMANA Cappellina SCORSOLINICAMPAGNA ROMANA Cappellina SCORSOLINICAMPAGNA ROMANA Cappellina SCORSOLINICAMPAGNA ROMANA Cappellina SCORSOLINICAMPAGNA ROMANA Cappellina SCORSOLINICAMPAGNA ROMANA Cappellina SCORSOLINICAMPAGNA ROMANA Cappellina SCORSOLINICAMPAGNA ROMANA Cappellina SCORSOLINICAMPAGNA ROMANA Cappellina SCORSOLINICAMPAGNA ROMANA Cappellina SCORSOLINICAMPAGNA ROMANA Cappellina SCORSOLINICAMPAGNA ROMANA Cappellina SCORSOLINICAMPAGNA ROMANA Cappellina SCORSOLINICAMPAGNA ROMANA Cappellina SCORSOLINICAMPAGNA ROMANA Cappellina SCORSOLINICAMPAGNA ROMANA Cappellina SCORSOLINICAMPAGNA ROMANA Cappellina SCORSOLINICAMPAGNA ROMANA Cappellina SCORSOLINIS.E. Cardinale EUGENIO TISSERANT impone la berretta a Monsignor Tito MANCINI .(25 dicembre 1960)Monsignor Tito MANCINI accompagna S.E. Cardinale EUGENIO TISSERANT nella visita dei Borghi dell’ENTE MAREMMAMonsignor Tito MANCINI(dietro vestito di nero) accompagna S.E. Cardinale EUGENIO TISSERANT nella inaugurazione del Collegio Sant’Eugenio –LA STORTA .Monsignor Tito MANCINI (di profilo primo da sx) accompagna S.E. Cardinale EUGENIO TISSERANT nella visita dei Borghi dell’ENTE MAREMMA
Londra- Per la prima volta nella storia, una donna dirigerà la National Portrait Gallery: è Victoria Siddall
Londra-Per la prima volta nella sua storia, la National Portrait Gallery sarà diretta da una donna: Victoria Siddall, classe 1977, già direttrice di Frieze, è infatti la nuova direttrice del museo di Londra.
Per la prima volta nella sua storia, la National Portrait Gallery di Londra sarà diretta da una donna: la nuova direttrice del museo inglese è infatti Victoria Siddall, nominata ieri dal Board of Trustees dell’istituto. La nuova direttrice assumerà l’incarico nell’autunno del 2024. Siddall ha una lunga esperienza alla guida di istituti nel mondo dell’arte, sia nel pubblico sia nel privato: tra le sue ultime esperienze si può annoverare il suol ruolo di co-fondatrice, tra il 2020 e il 2021, di Gallery Climate Coalition e Murmur, due associazioni che promuovono la responsabilità nei confronti dell’ambiente nel settore dell’arte e della musica. Inoltre, ha lavorato negli ultimi due anni in un altro importante museo londinese, la Tate. È stata inoltre direttrice globale di Frieze, con lei è stata fondata la fiera Frieze Masters e ha quindi guidato le fiere di Freize a Londra, New York e Los Angeles e ha lanciato quella di Seul. È stata anche trustee della National Portrait Gallery, tra il luglio del 2023 e l’agosto del 2024.
Victoria Siddall
Siddall, classe 1977, si è laureata all’Università di Bristol, in Letteratura Inglese e Filosofia. Dopo aver cominciato la sua carriera da Christie’s nel 2000, ha raggiunto Frieze nel 2004 dove dapprima ha lavorato come responsabile dello sviluppo, dopodiché nel 2012 ha lanciato Frieze Masters e ha ricoperto il ruolo di direttrice della prima edizione della fiera. Nel 2015 è diventata direttrice globale delle fiere di Frieze a Londra e New York. Nel 2019 ha seguito lo sviluppo di Frieze Los Angeles ai Paramount Studios e nel gennaio 2021 è diventata Board Director di Frieze: in questa posizione si è occupata del lancio di Frieze Seul. Parallelamente, è stata nel consiglio di Studio Voltaire, una delle più importanti gallerie senza scopo di lucro di Londra, che ogni anno organizza un programma pubblico di mostre e spettacoli. Ha ricoperto anche il ruolo di presidente del Board of Trustees di Studio Voltaire. Nel 2021 ha lanciato il progetto Artists for ClientEarth che ha raccolto 6,5 milioni di dollari grazie alle donazioni di lavori, poi venduti, di artisti come Cecily Brown, Rashid Johnson, Antony Gormley e Beatriz Milhazes. Come direttrice e fondatrice di Murmur, ha seguito lo sviluppo e il fundraising per la nuova associazione, raccogliendo oltre un milione di sterline da organizzazioni d’arte e di musica. Siddall è la tredicesima direttrice della storia dell’istituto e succede a Nicholas Cullinan, che ha lasciato la National Portrait Gallery per andare a dirigere, lo scorso giugno, il British Museum, dopo aver diretto per tredici anni il museo dei ritratti. Nel frattempo il museo è stato diretto ad interim da Michael Elliott.
“Sono lieto di dare il benvenuto a Victoria Siddall come nuova direttrice della National Portrait Gallery”, ha detto David Ross, presidente del Board of Trustees del museo. “La sua forza come leader culturale è considerevole, così come la sua conoscenza del mondo dell’arte, la sua comprensione del pubblico e il suo profilo internazionale. So che lei ha la visione e la determinazione per continuare a rafforzare i nostri recenti successi e per guidare la prossima fase dello sviluppo della Galleria, e non vedo l’ora di lavorare con lei”.
“Sono davvero onorata di avere l’opportunità di guidare la National Portrait Gallery”, dice Victoria Siddall, “un museo che conserva la più grande collezione al mondo di ritratti ed è unica nel suo essere sulle persone e per le persone. L’arte racchiusa tra le sue pareti racconta storie di conquiste dell’umanità e di ciò che ci unisce come società, ispirando e formando la nostra visione del mondo e il nostro posto al suo interno. Questo è forse il più emozionante periodo della storia della National Portrait Gallery, a seguito della recente riapertura e del progetto Inspiring People che il team ha consegnato in maniera così precisa sotto la guida di Nicholas Cullinan. È stato costruito il palcoscenico perfetto e sono davvero emozionata di lavorare con i miei nuovi colleghi, con i trustees del museo e con i suoi sostenitori, e ovviamente con gli artisti, perché guardiamo verso il futuro e ci avventuriamo in un nuovo capitolo”.
“Victoria Siddall porterà ricchezza d’esperienza in questo ruolo e io sono lieta che la National Portrait Gallery stia facendo la storia nominando la sua prima donna alla direzione”, dichiara Lisa Nandy, segretaria di Stato britannica per la Cultura, i Media e lo Sport. “La sua leadership guiderà la Galleria di bene in meglio, sviluppandola a seguito della riapertura dello scorso anno, e sono emozionata all’idea di vedere che cosa lei e il team della National Portrait Gallery ci riserveranno nei prossimi anni”.
Fara in Sabina (Rieti)-Nuove scoperte Archeologiche –
a Fara in Sabina-Un Convegno svelerà i segreti di una Comunità vissuta in Sabina oltre 1800 anni fa-
La Pro Loco di Fara in Sabina – gestore ufficiale dell’ufficio turistico comunale e del Museo Civico Archeologico della Sabina Tiberina di Fara in Sabina – è lieta di annunciare il convegno “Le tombe di Passo Corese. Studio di una necropoli romana”, che si terrà venerdì 6 settembre alle ore 16:00 presso la Sala Civica Santa Chiara di Fara in Sabina. Questo evento imperdibile riunirà esperti, professionisti e appassionati del settore per fare luce su un vero e proprio viaggio attraverso il tempo, alla scoperta di una comunità vissuta in Sabina oltre 1800 anni fa. Si tratta di un incontro che offrirà un’opportunità unica per immergersi nel mondo affascinante dell’archeologia. E, nello specifico, permetterà ai partecipanti – studenti, professionisti del settore, insegnanti, appassionati e curiosi – di scoprire un altro straordinario tassello riguardante il passato di questo territorio. Parliamo infatti di un convegno dedicato agli scavi effettuati nel 2015 nell’area della stazione di Passo Corese (frazione di Fara in Sabina): durante un intervento di bonifica dagli ordigni bellici è stata incredibilmente rinvenuta una necropoli romana, ovvero ben 42 sepolture datate dal I al III secolo d.C. Viene considerato infatti uno dei ritrovamenti più prestigiosi degli ultimi anni. Durante l’incontro saranno presenti diversi archeologi, studiosi e ricercatori, tra cui anche coloro che sono intervenuti direttamente agli scavi e che in questi anni hanno studiato gli scheletri per capire il sesso, l’età, l’alimentazione, la statura e tutte le altre informazioni (ad esempio gli aspetti di tipo sociale, culturale e religioso) per determinare la loro vita in quell’epoca. Tra questi vi sono:
Dott.ssa Alessandra Petra. direttrice Museo Civico Archeologico della Sabina Tiberina di Fara in Sabina;
Alessandro Betori, Soprintendente SABAP per le province di Frosinone e Latina;
Mauro Lo Castro, Soc. Coop. Il Betilo – Servizi per i Beni Culturali s.r.l;
ssa Rosaria Olevano, Soc. Coop. Il Betilo – Servizi per i Beni Culturali s.r.l;
Mauro Rubini, Direttore Servizio di Antropologia della SABAP per le province di Frosinone e Latina;
Angelo Gismondi, Laboratorio di Botanica, Dipartimento di Biologia, Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”;
ssa Cristina Martínez Labarga, Centro di Antropologia molecolare per lo studio del DNA antico, Dipartimento di Biologia, Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”;
ssa Flavia Maria Novi Bonaccorsi, Conservatore per i Beni Culturali;
ssa Tiziana Orsini, Istituto di Biochimica e Biologia cellule CNR di Monterotondo, Roma.
Fara in Sabina-
Oltre al convegno, che aprirà un dibattito su questo importante tema, è stato anche scritto un libro dal titolo “Le tombe di Passo Corese. Approccio multidisciplinare per lo studio di una necropoli romana”, frutto del lavoro e della collaborazione di un gruppo di esperti. Da un frammento della prefazione – scritto da Lisa Lambusier, Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio, per l’Area Metropolitana di Roma e per la Provincia di Rieti – si legge: “Il grande impegno nelle attività istituzionali di tutela, nonché di promozione e valorizzazione scientifica del patrimonio culturale rappresenta per noi un onere “quotidiano”. Nel panorama di queste attività, l’archeologia preventiva rappresenta uno strumento fondamentale e di grande importanza per il nostro territorio. Proprio dall’applicazione di questa nasce il volume “Le Tombe di Passo Corese – Approccio Multidisciplinare per lo studio di una necropoli romana”, che raccoglie i lavori di un team di studiosi condotto su una necropoli di età imperiale rinvenuta nel comune di Fara Sabina nella frazione di Passo Corese: si tratta dell’ennesima scoperta scaturita da indagini archeologiche preventive, strumento, come detto, consolidato che oramai dimostra la propria imprescindibilità per garantire la tutela del patrimonio culturale italiano. I risultati ottenuti – sottolinea Lambusier – contribuiscono a migliorare la conoscenza del contesto sociale e rurale nel quale questa popolazione viveva, proiettandolo in un virtuale confronto con le condizioni attuali di questa importante regione”. Durante l’incontro sarà quindi possibile sia conoscere le ultime scoperte relative agli scavi in questione sia comprendere meglio il ruolo dell’archeologia nella società moderna. Inoltre, per proteggere e rendere accessibile al pubblico questo prezioso patrimonio culturale, in una delle stanze del Museo Civico Archeologico della Sabina Tiberina – Fara in Sabina (ubicato presso Palazzo Brancaleoni in piazza Duomo) sono conservate le ricostruzioni di due scheletri che potranno essere visionate dopo il convegno. Per informazioni e prenotazioni contattare l’Ufficio Turistico Comunale in piazza Duomo, 2: 0765/277321 (gio. ven. sab. dome e festivi), 380/2838920 (WhatsApp), visitafarainsabina@gmail.com
Di fronte al Colle di Fara sorge l’altura di Monte San Martino, abitata in epoca protostorica da un esteso ed articolato insediamento risalente all’età del Bronzo finale (la maggior parte del materiale è venuto alla luce presso le pendici orientali del monte, in località Quattro Venti). Le ricerche hanno evidenziato la presenza di alcune opere di terrazzamento con recinti di mura realizzati in pietrame a secco, di cui si ipotizzò in alcuni casi una datazione ad epoca protostorica. È stato possibile ricostruire l’andamento di almeno tre cinte murarie, irregolarmente ellissoidali, che seguivano le curve di livello[4]. Oggi questo abitato protostorico è stato identificato con Mefula,[5] antica città degli Aborigeni (mitologia), che secondo Dionigi di Alicarnasso sorgeva ad appena 5 km di distanza da Suna (Toffia)[6]. Dionigi riferisce inoltre della presenza di mura, unico caso a riguardo del popolo aborigeno, un dato che trova conferma dall’effettiva presenza sul monte di murature a secco attribuibili ad epoca protostorica (peraltro rare in questo periodo).
L’insediamento aborigeno di Mefula scompare già durante la prima età del Ferro (forse in relazione alla contemporanea nascita dei centri sabini in pianura, come la vicina Cures).
Tra il IX secolo a.C. e il VI secolo a.C. nella località di Santa Maria in Arci si era stabilito un insediamento sabino, identificato con la città di Cures, che continuò a vivere in età romana (resti di terme e di un piccolo teatro e necropoli). Il territorio era sfruttato dal punto di vista agricolo con una fitta rete di ville, costruite su terrazzamenti in opera poligonale nel II secolo a.C. e in opera quasi reticolata nel I secolo a.C. (“villa di Grotte di Torri” e ancora di Fonteluna, di Mirteto, di Cagnani e di San Lorenzo a Canneto, di Sant’Andrea e di San Pietro presso Borgo Salario, di Grottaglie, di Piano San Giovanni, di Grotta Scura, di Monte San Martino, di Fonte Vecchia).
Le origini dell’attuale abitato sembrano risalire ad epoca longobarda, alla fine del VI secolo, come sembra indicare il toponimo, derivante dal termine longobardo fara, con il significato di “clan familiare”. Il castello è attestato dal 1006 e dal 1050 fu sotto il controllo dell’abbazia di Farfa. Fu quindi feudo degli Orsini. Dal 1400 è divenuto sede dell’abate commendatario di Farfa e si sono succedute le varie famiglie proprio a partire dagli Orsini fino alla famiglia Barberini, con il cardinale Francesco Barberini, nipote di papa Urbano VIII, che nel 1678 ha fondato, con sede nell’antico castello, il monastero delle Clarisse Eremite.
Nel 1867 fu toccata con la frazione di Coltodino dalla Campagna garibaldina dell’Agro Romano per la liberazione di Roma. Giuseppe Garibaldi dopo la sconfitta di Mentana raggiunse con i suoi Volontari la stazione ferroviaria di Passo Corese in comune di Fara dove partì in direzione del nord. Sempre da Fara sulla riva del Tevere partì con alcune barche la sfortunata spedizione dei Fratelli Cairoli conclusa tragicamente a Villa Glori. Testimonianze della Campagna dell’Agro Romano per la liberazione di Roma (1867) sono conservate nel Museo nazionale di Mentana.
Il 10 dicembre 1920 la frazione di Canneto Sabino fu teatro di un eccidio, il più cruento, quanto a numero di morti del cosiddetto Biennio rosso. Durante una manifestazione organizzata dai braccianti nel tentativo di ottenere migliori condizioni di lavoro un gruppo di Carabinieri ne uccise 11 in località Colle San Lorenzo.
Con un articolo e un discorso di Claudio Treves,a cura di Giovanni Scirocco
BIBLION EDIZIONI
Dalla Presentazione di Paolo Bagnoli: «È passato un secolo dal discorso che Filippo Turati tenne alla Camera il 26 giugno 1920, comunemente conosciuto con il titolo Rifare l’Italia!. Di esso, nel corso degli anni, sono state riproposte diverse edizioni. Si tratta di un intervento rilevante, praticamente un vero e proprio saggio sulla situazione dell’Italia a meno di due anni dalla fine della guerra; un testo che Turati aveva a lungo meditato e che espose alla Camera confermando di essere un grande oratore […]. Spicca il richiamo che Turati fa alla funzione nazionale del socialismo. Esso, ora, viene concepito non solo quale forza di difesa e di organizzazione del proletariato, della sua lotta per l’emancipazione dei ceti più deboli e per il loro riscatto civile e sociale, ma quale forza di governo».
«Filippo Turati», come scrive un suo biografo, «è stato l’uomo politico che ha maggiormente inciso sulla storia del Partito socialista italiano. Il ruolo di maggior leader del socialismo nel nostro Paese è infatti indiscutibile sino al 1911; controverso ma comunque notevolissimo, sino al 1918; sempre molto importante sino al 1922; rilevante, soprattutto da un punto di vista intellettuale morale, prima ancora che politico, dal 1922 al 1932» (Franco Livorsi).
Dal moderatismo al radicalismo
Nato in un piccolo paese della Brianza dalla gentildonna Adele di Giovanni e da Pietro Turati, commissario distrettuale legato alla Destra storica, Filippo deve seguire il padre nei vari trasferimenti ai quali è costretto dalla carriera burocratica, da Mantova a San Remo, Forlì, Napoli, Pavia, Siracusa e Cremona dove diventa prefetto a partire dal 1873, senza che questo vagabondaggio gli impedisca di frequentare con profitto un regolare corso di studi. Dall’educazione familiare deriva un profondo legame con la tradizione risorgimentale e una certa impronta moderata da lui stesso sottolineata: «Io sono figlio di un prefetto, e probabilmente un certo lievito burocratico mi è rimasto nel sangue».
Determinanti, nell’orientarlo verso posizioni democratiche, sono le amicizie scolastiche, prima con Leonida Bissolati (1857-1920), compagno di liceo insieme al quale si iscrive alla facoltà di Giurisprudenza di Pavia e si trasferisce dopo il biennio a Bologna; poi con Achille Loria (1857 – 1943) e con Enrico Ferri (18561929), incontrati all’ateneo bolognese. Qui si laurea a pieni voti nel 1877 con una tesi di economia politica; agli studi affianca la passione per la poesia; comporrà opere (Disordine, Il Mago, Credo) che saranno pubblicate nel 1878 su varie riviste.
Nello stesso periodo matura il graduale trapasso da un vago teismo spiritualista al positivismo, anche per l’influenza di Arcangelo Ghisieri (1855- 1938), cui si avvicina nel 1878 diventando presto redattore dei due fogli radicali da lui diretti («Preludio» e «Rivista repubblicana») mentre collabora con la rivista scapigliata milanese «La farfalla» e approfondisce lo studio del positivismo aderendo alla tesi del filosofo Roberto Ardigò (1828-1920) e del criminologo determinista Cesare Lombroso (1835-1909). A un crescente interesse per l’impegno sociale si alternano in questa fase una costante attrazione per la produzione poetica e la traduzione di canti popolari (Fiori del Nord, Fiori del Sud), e una preponderante attenzione al proprio privato, aggravata anche da una forma di nevrosi che lo porta alla depressione e lo spinge talora a coltivare idee di suicidio.
Solo nel 1882-83, Turati, che in questi anni gira l’Europa per cercare psichiatri in grado di curarlo, supera la propria crisi personale intensificando l’impegno politico, preannunciato alla fine del 1882 sul settimanale socialista «La Plebe» dal saggio Il delittoe la questione sociale, nel quale Turati difende le tesi lombrosiane contro i sostenitori del libero arbitrio, definito «una fola da donnicciole», e mette l’accento sui condizionamenti sociali (e non solo biologici) del comportamento criminale. Ciò segna anche il congedo ufficiale dalla poesia, sancito dalla raccolta in volume delle poesie giovanili e da un ultimo volume di traduzioni (Canti popolari slavi, greci e napoletani 1883), benché Turati continui a scrivere versi ancora per diversi anni, componendo fra l’altro, nel 1886, il Canto dei lavoratori, Inno delPartito Operaio Italiano.
Filippo Turati
L’adesione al socialismo
In questi anni, tuttavia, Turati non si discosta dalle posizioni radicali e democratiche, pur manifestandosi aperto alle idee del nascente movimento socialista italiano. Solo il deludente comportamento della Sinistra e l’immobilismo dell’Associazione democratica cui aderisce, lo spingono nel 1886 a caldeggiare un’alleanza elettorale col Partito operaio italiano di cui assume la difesa legale dopo lo scioglimento deciso da Depretis (1886) e favoriscono una sua graduale evoluzione verso posizioni socialiste e marxiste. A questa maturazione concorre in larga misura la socialista russa Anna Kuliscioff, da tempo attiva in Italia che diventa nel 1885 fedele compagna di Turati e lo mette in relazione con la socialdemocrazia europea.
Il socialismo e il marxismo di Turati hanno d’altra parte una forte impronta riformista, che resterà una costante della sua politica portandolo ad avversare l’anarchismo e il socialismo rivoluzionario e a ricercare invece sempre l’alleanza con le forze democratico-borghesi. Lo confermano nel 1889, la sua elezione a consigliere comunale di Milano con l’appoggio dei radicali e il programma della Lega socialista, da lui costituita nello stesso anno e rappresentata tramite Andrea Costa al congresso di fondazione della II Internazionale.
Si deve anzi a Turati, al suo infaticabile impegno organizzativo e alla sua notevole influenza culturale, l’instaurarsi in Italia di una tradizione socialista che, pur riferendosi al marxismo, deriva dal positivismo* una visione evolutiva e gradualista dei processi politiche e sociali. Al diffondersi di questa ideologia Turati contribuisce soprattutto con la sua rivista «Cuore e critica», rilevata da Arcangelo Ghisleri nel 1890, trasformata nel 1891 in «Critica sociale» e che presto diventerà, «per opera sua e della Kuliscioff, il centro di raccolta e di organizzazione della nuova cultura socialista e rimarrà il più autorevole organo teorico e politico del movimento socialista italiano» (Gaetano Arfé).
La scelta riformista
Nel 1892 Turati, che ha già una posizione politica di rilievo, collabora alla stesura del programma su cui nasce a Genova il Partito socialista italiano* ed è fra i più decisi sostenitori della rottura con gli anarchici in polemica con quanti coltivano «l’illusione del partito grande, che accolga un po’ tutti». In questa fase, segnata da una profonda crisi politica e sociale, dall’inasprirsi dei conflitti di classe e dalla repressione del movimento operaio, egli sembra assumere un atteggiamento più intransigente verso la borghesia, giudicata nel suo insieme «massa reazionaria», attacca aspramente Crispi e insiste sulla necessaria autonomia politica del nuovo partito facendo prevalere nel Congresso di Reggio Emilia (1893) il rifiuto di ogni alleanza elettorale coi radicali.
Ma dopo la sconfitta dei Fasci siciliani e lo scioglimento del Partito socialista torna in evidenza e riceve anzi più precisa formulazione il sostanziale riformismo di Turati che, nel 1894, aderisce coi socialisti milanesi alla «Lega per la difesa della libertà» creata dal radicale Felice Cavallotti (1842-98) e scrive il saggio I sobillatori, teorizzando il passaggio al socialismo come processo realizzabile solo grazie all’azione di una élite intellettuale. Alla sfiducia nell’azione di massa si associa la persuasione che i socialisti debbano stabilire una intesa organica con le forze borghesi disponibili a una politica di riforme democratiche.
Questa tesi, minoritaria al congresso clandestino di Parma del 1895, è all’origine della rottura con lo stesso Engels e porta all’isolamento politico di Turati, nuovamente battuto al congresso di Firenze del 1896, quando il P.S.I. torna alla legalità. Ma le elezioni dello stesso anno lo vedono per la prima volta deputato e il suo nome appare spesso sull’«Avanti!» diretto da Leonida Bissolati, che è su posizioni ancora più decisamente riformiste. Al congresso di Bologna del 1897, Turati è messo in minoranza per soli sei voti e la sua linea ispira di fatto il comportamento del partito come testimoniano i tumulti del 1898 a Milano contro il carovita.
Il P.S.I. vi reagisce esortando alla calma, cercando di dissuadere i manifestanti dalle dimostrazioni di protesta e adottando la turatiana «propaganda contro l’insurrezione» anche dopo il sanguinoso intervento dell’esercito, l’arresto dei dirigenti socialisti e lo scioglimento del partito e della C.G.L., tornati alla legalità solo nel 1900. Turati, pur essendosi adoperato per sedare i tumulti, viene arrestato, condannato a dodici anni e liberato dopo un anno solo grazie all’indulto; egli attribuisce la strage «più alle autorità di Milano che al governo di Rudinì, forse nel tentativo di trovare un compromesso con lo stesso di Rudinì nell’ora della massima repressione antisocialista» (Livorsi). Dai fatti di Milano trae anzi motivo per ribadire la necessità di «rivoluzioni lente e pacifiche» e di un’intesa con i liberali democratici facenti capo a Giolitti.
Tale intesa si realizza già nel 1899 quando Turati, rieletto nel collegio di Milano, e gli altri deputati socialisti, conducono insieme ai giolittiani una dura battaglia ostruzionistica contro il nuovo regolamento parlamentare autoritario imposto dal governo Pelloux e contribuiscono poi alla sua caduta (giugno 1900), che apre la strada ai ministeri di Saracco (1901) Zanardelli (1901-03), e Giolitti (1903-14). Poco dopo Turati conferma «il contrasto ormai insanabile tra socialismo evolutivo e linea della violenza rivoluzionaria, oltre che tra socialismo e anarchismo» (Livorsi), deplorando nel discorso alla camera l’uccisione di Umberto I* a opera dell’anarchico Gaetano Bresci e rifiutando di assumere perfino la sua difesa legale per non ingenerare equivoci.
Al prevalere delle posizioni di Turati contribuisce intanto il diffondersi in seno al socialismo europeo del revisionismo del tedesco Eduard Bernstein (1850-1932), che ritiene una utopia sprovvista di ogni fondamento l’idea marxista di una trasformazione integrale della società e riduce la battaglia socialista a una lotta per le riforme, da condurre per via democratica e parlamentare. È questa anche l’opinione di Turati benché egli si prefigga come obiettivo finale, contrariamente a Bernstein o a Bissolati il socialismo. «Noi siamo sicuri colla via legale di acquistare i pubblici poteri», egli aveva detto già nel 1898 condannando le rivolte come «rovina del partito e della causa del proletariato».
Filippo Turati Rifare L’ITALIA
Dalla vittoria alla crisi del riformismo
Il congresso di Roma del settembre 1900 sancisce la vittoria di Turati e della Kuliscioff; essi conquistano alle tesi riformiste la grande maggioranza del P.S.I. con l’appoggio di Claudio Treves (1869-1933), Giuseppe Modigliani (1872 – 1947) e molti altri dirigenti socialisti, sconfiggendo la sinistra, da tempo rappresentata dall’amico di gioventù di Turati, Enrico Ferri, e da Costantino Lazzari (18571927). Anche il settimanale «Lotta di classe», diretto da quest’ultimo, passa sotto il controllo dei turatiani col nome di «Azione socialista». Diventa così possibile trasformare il P.S.I. in un interlocutore privilegiato di Giolitti, che da parte sua mira a rafforzare lo stato liberale integrando nel sistema di governo i socialisti riformisti e i cattolici liberali, in cambio del riconoscimento di alcuni diritti dei lavoratori o di un’attenuazione del vecchio anticlericalismo.
Secondo Turati «il liberalismo giolittiano, espressione di una moderna borghesia al passo con l’evoluzione dei tempi, poteva favorire, in dialettico civile antagonismo con il movimento operaio» (Arfé) una trasformazione democratica della società, dando sempre maggiori spazi al movimento di classe e conducendo gradualmente al socialismo. Questa visione e questa pratica collaborativa, impostesi nel P.S.I. non senza forti resistenze della sinistra, entrano però in crisi di fronte alla politica coloniale di Giolitti e alla guerra contro la Libia, intrapresa nel 1912. L’impresa, palesemente contrastante con la linea pacifista e antimperialista del P.S.I, è condannata dallo stesso Turati ma trova il consenso della frazione di destra guidata da Bissolati, che viene espulsa. Ciò indebolisce i riformisti anche perché la vicenda sembra confermare la tesi della sinistra, secondo cui non è possibile una collaborazione con i partiti borghesi.
Nel congresso di Reggio Emilia del 1912 Turati è nuovamente posto in minoranza e la sua posizione si indebolisce ancor più durante la Prima Guerra mondiale, benché tale avvenimento laceri profondamente anche la sinistra del partito, dalle cui file provengono il direttore dell’«Avanti!» Benito Mussolini e altri esponenti del più acceso interventismo nazionalista. Essi vengono espulsi e l’unità del partito si ricompone sulla parola d’ordine «né aderire né sabotare» condivisa anche da Turati. Ma coi procedere della guerra egli inclina sempre più verso la solidarietà con la nazione in guerra («anche la nostra patria è sul Grappa») in contrasto con quanti condividono la tesi di Lenin secondo cui occorre sfruttare la guerra imperialista per innescare il processo rivoluzionario. Anche la recisa condanna del «terrore rivoluzionario» e del leninismo espressa da Turati e dalla Kuliscioff contribuisce a far declinare l’influenza del riformismo, posto seccamente in minoranza dai massimalisti nel congresso di Roma del 1918. Turati evita a stento una condanna e l’espulsione per i suoi discorsi «patriottici».
Filippo Turati
La nascita del P.C.I. e del P.S.U.
Nell’immediato dopoguerra l’acuirsi dei conflitti di classe, la tendenza della borghesia a rispondere con la repressione alle richieste operaie senza più tentare la strada del riformismo giolittiano, e l’esito della rivoluzione bolscevica, che offre l’esempio di un’insurrezione vittoriosa, rafforzano le tendenze di sinistra del P.S.I. Nel congresso di Bologna del 1919 Turati si trova ormai a capeggiare una minoranza piuttosto esigua benché influente in parlamento, nel campo dell’opinione e nel movimento sindacale. Proprio questa influenza dei riformisti, che si oppongono nel 1920 al movimento di occupazione delle fabbriche e restano legati alla II Internazionale di indirizzo antileninista, fa sì che sembri necessaria a molti la loro espulsione dal partito, richiesta da Lenin come condizione per accogliere il P.S.I. nella III Internazionale. Da principio tuttavia questa domanda non viene accolta e provoca anzi una scissione da sinistra nel congresso di Livorno del 1921, con la nascita del Partito comunista d’Italia d’obbedienza leninista.
Ciò peraltro non attenua i contrasti interni che paralizzano il partito, proprio mentre va dilagando lo squadrismo fascista e appare più urgente una iniziativa del movimento operaio. Turati, critico verso la «intransigenza contemplativa» dei massimalisti, utilizza il suo prestigio in seno al gruppo parlamentare per rilanciare l’idea di una collaborazione con i popolari e i liberali contro i fascisti, in contrasto con la direzione del P.S.I. che punta su una ripresa delle lotte di massa e dell’unità coi comunisti. Si arriva così al congresso di Bologna del 1922, che rende definitiva la rottura espellendo Turati e la sua corrente. Essi danno vita al Partito socialista unitario (P.S.U.), di cui è eletto segretario Giacomo Matteotti* e che si ispira al tradizionale riformismo turatiano, ricercando la collaborazione con le forze politiche borghesi e operando per la riunificazione di tutti i socialisti su una linea di netta demarcazione dai comunisti rivoluzionari.
Filippo Turati
L’esilio
Negli anni successivi, coerente con la sua fede democratica e nei limiti di un’azione solo parlamentare, Turati conduce una energica battaglia contro gli aspetti illegali e illiberali del fascismo, pur nutrendo al pari di Giolitti e di altri esponenti borghesi l’illusione di una sua evoluzione. Egli oscilla «tra l’estrema opposizione e la speranza di democratizzazione del fascismo» (Livorsi), del quale fa un’analisi molto riduttiva ritenendolo causa di precapitalismo, arretratezza, reazione. Solo dopo il delitto Matteotti (1924), Turati accentua la sua opposizione al regime, sforzandosi di consolidare l’unità fra i partiti raccoltisi nell’Aventino e soprattutto tra riformisti e popolari.
Ma anche in questa circostanza rifiuta la proposta di uno sciopero generale contro il «governo degli assassini», avanzata dal P.C.I. e ribadisce il proposito di mantenere la lotta entro i binari della legalità, anche per non compromettere l’unità con gli antifascisti più moderati. Questo legalitarismo si risolve però in uno sterile attendismo e favorisce il definitivo affermarsi della dittatura che, con le leggi speciali (1925-26), liquida le opposizioni incarcerando o costringendo all’esilio i dirigenti antifascisti. Nel dicembre 1926 anche Turati, ormai quasi settantenne e senza l’appoggio di Anna Kuliscioff, scomparsa l’anno precedente, espatria clandestinamente grazie all’aiuto di alcuni giovani antifascisti fra cui Carlo Rosselli, Ferruccio Parri, Sandro Pertini raggiungendo Parigi.
Qui ricostituisce il P. S. U . col nome di Partito socialista unitario dei lavoratori italiani (P.S.U.L.I.) e continua la sua infaticabile attività politica. I suoi obiettivi di fondo restano l’unità dei partiti democratici, realizzata nel 1927 dando vita alla Concentrazione antifascista e assumendo la direzione del periodico «La libertà» e la riunificazione dei socialisti, raggiunta nel 1930 mediante la fusione del P.S.U.L.I. con il P.S.I. diretto da Pietro Nenni, due anni prima della morte. Nell’esilio Turati rivede inoltre la sua precedente analisi del fascismo, che vede adesso non come tipica manifestazione di situazioni arretrate ma come degenerazione sempre possibile del capitalismo, funzionale al suo dominio di classe.
Corvaro di Borgorose (Rieti)-La realizzazione del Museo Archeologico Cicolano (MAC), attualmente gestito dalla Comunità Montana Salto Cicolano, è stata possibile grazie alle risorse stanziate dalla Regione Lazio – Direzione Regionale Culturale e Politiche Giovanili, a seguito dell’Accordo di Programma Quadro siglato nel 2005 tra Governo e Regione. Il museo nasce dal continuo e incessante impegno della Soprintendenza per i Beni Archeologici del Lazio, oggi BAP per le province di Frosinone, Latina e Rieti, che da molti anni lavora sul territorio della valle del Salto.
La sede del MAC è stata individuata nel vecchio edificio scolastico dismesso di Corvaro, frazione del Comune di Borgorose. Recuperato e riqualificato a nuova struttura da un moderno progetto architettonico, concluso nella primavera del 2015, essa tiene conto degli aspetti museografici dell’allestimento attraverso soluzioni spaziali e ampliamenti che garantiscono gli standard museali, la conservazione e l’esposizione al pubblico della consistente collezione dei reperti provenienti in gran parte dalle necropoli arcaiche e dai depositi votivi rinvenuti in prossimità dei santuari di età romana. L’allestimento del percorso museale, curato e realizzato da Cooperativa Archeologia, è suddiviso in dieci sale che inquadrano in ordine cronologico le varie fasi di occupazione del Cicolano: un lungo arco temporale che scorrendo sin dall’età del Bronzo Medio raggiunge la tarda età imperiale.
Fonte: www.museoarcheologicocicolano.it
Corvaro di Borgorose (Rieti)-MUSEO ARCHEOLOGICO CICOLANO (MAC)-
ORARI
Il Museo è aperto venerdì, sabato e domenica negli orari 10:00 – 13:30 / 15:00 – 19:00
Il Museo resta chiuso domenica 5 maggio 2019 e nei giorni di Ferragosto, Natale e Capodanno.
TARIFFE
Ingresso € 3,00
Tariffa ridotta € 2,00
minori tra i 10 e i 18 anni
adulti sopra i 65 anni
studenti universitari fino a 26 anni di età muniti di libretto
scolaresche di età superiore a 10 anni.
Corvaro di Borgorose (Rieti)-MUSEO ARCHEOLOGICO CICOLANO (MAC)-
Ingresso gratuito
bambini fino a 10 anni
classi della scuola dell’infanzia e della scuola primaria che non usufruiscono dei servizi museali
insegnanti che accompagnano le classi
guide turistiche autorizzate nell’esercizio della professione
giornalisti e gli organi di informazione in genere, nell’esercizio delle loro attività
studiosi che ne abbiano fatto preventiva richiesta per motivi di ricerca e siano stati autorizzati dal Direttore del Museo.
Attività di educazione al patrimonio
Visite guidate: € 20,00 per ciascun gruppo (minimo 8, massimo 25 persone), oltre al biglietto d’ingresso, in base alle le tariffe vigenti;
Laboratori didattici per le scuole: 5,00 € per ciascun bambino/scolaro. Il costo comprende ingresso, visita guidata e attività didattica.
Corvaro di Borgorose (Rieti)-MUSEO ARCHEOLOGICO CICOLANO (MAC)-
Eventi speciali a ingresso gratuito
Incontri di studio, convegni, conferenze e presentazioni di libri.
E’ richiesta la prenotazione per la visita guidata chiamando al 342 7543587 negli orari di apertura del MAC, oppure inviando mail a info@museoarcheologicocicolano.it
Corvaro di Borgorose (Rieti)-MUSEO ARCHEOLOGICO CICOLANO (MAC)-
Museo Archeologico Cicolano. Via di San Francesco, Corvaro di Borgorose (Rieti)
Aperto il venerdì, sabato e domenica, ore 9-13 e 14-18
Tumulo di Corvaro e Museo Archeologico del Cicolano
-Tumulo di Corvaro –
Museo Archeologico del Cicolano
Alla estremità occidentale della Piana di Corvaro in località “Montariolo” è situato il tumulo di Corvaro, che rappresenta l’emergenza archeologica più rilevante presente nel territorio dell’intero Cicolano.
La scoperta del grandioso monumento funerario, denominato localmente “Montariolo”, avvenuta nel 1984, ha determinato l’inizio delle ricerche archeologiche sistematiche nel territorio, condotte e sostenute economicamente dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici del Lazio e da alcune Università straniere. I numerosi ed importanti rinvenimenti, che sono preziosa testimonianza della cultura materiale dell’ antico popolo degli Equicoli, hanno motivato la costituzione del nuovo Museo Archeologico Cicolano (MAC) il quale deve essere considerato il museo di tutto il territorio della valle del Salto.
Museo Archeologico Cicolano. Via di San Francesco, Corvaro di Borgorose (Rieti)
Aperto il venerdì, sabato e domenica, ore 9-13 e 14-18
Foto e Poesie del Festival Riviviamo il Centro Storico anno 2005-
Immagini e poesie a cura di Paolina Carli-
Arch. Antonio ZACCHIA , Sindaco di Toffia:”…Quando si spengono le luci negli improvvisati palcoscenici per le vie diel Borgo tutto sembra perfino superato! Solo il ricordo delle scene vissute, le immagini dei fotografi Eugenio Spallazzi e Massimo Maccaroni, i racconti e la raccolta di Poesie di Paolina Carli mi rendono profondamente felice!…”
Digitalizzazione a cura dell’Associazione Culturale DEA SABINA
RIETI-Camera di commercio di Rieti-CANTIERI SCUOLA dell’anno 1948 nel territorio della Provincia .
Nel 1948 venne attribuita alla Camera di commercio di Rieti il compito di gestire ed organizzare i Cantieri scuola, in collaborazione con la Prefettura di Rieti, con l’Ufficio provinciale del lavoro e l’ispettorato ripartimentale del corpo delle foreste. Quest’attività di organizzazione e controllo, deliberata il 25 novembre 1948, comportava la realizzazione di una serie di interventi sul territorio al fine di combattere la disoccupazione e, al tempo stesso, di offrire alla provincia una adeguata ricostruzione dopo il conflitto bellico. In genere, salvo rare eccezioni, si trattava di cantieri mirati o al rimboschimento, oppure ad una più ampia sistemazione delle zone montane, o alla costruzione di un più adeguato apparato viario. I lavori erano eseguiti sotto la direzione tecnica dell’Ispettorato forestale del ripartimento di Rieti, mentre l’avviamento al lavoro era curato dall’Ufficio provinciale del lavoro tramite la sua rete di Uffici di collocamento. Durante i lavori del cantiere era prevista anche un’assistenza medica demandata alle singole condotte tramite una apposita convenzione stipulata con l’INAIL.
Ordine delle foto dei Cantieri scuola:A)-Pescorocchiano;B)-Poggio Bustone;C)-Turania;D)-Contigliano;E)-Labro;F)-Poggio Catino;
G)- Corografia della provincia di Rieti con l’ubicazione dei Cantieri scuola.
A)- Pescorocchiano;
B)-Poggio Bustone;
C)-Turania;
D)-Contigliano;
E)-Labro;
F)-Poggio Catino;
G)- Corografia della provincia di Rieti con l’ubicazione dei Cantieri scuola.
Fara in Sabina -La seconda settimana del Festival FLIPT del Teatro Potlach
Fara in Sabina -Il grande festival FLIPT – Festival Laboratorio Interculturale di Pratiche Teatrali del Teatro Potlach di Fara Sabina ha avuto inizio il 26 giugno e prosegue fino al 7 luglio nella sua sessione internazionale.
Il Festival è sostenuto dalla Regione Lazio e dalla Fondazione Varrone, e che ha il patrocinio della Provincia di Rieti e del Comune di Fara Sabina.
La prima settimana di Festival ha visto succedersi numerosi spettacoli internazionali di altissima qualità, e la seconda settimana di festival non è da meno.
Pino Di Buduo, direttore artistico del Teatro Potlach
Ecco tutti i prossimi appuntamenti:
Lunedì 1 luglio alle 18:00 presso il Teatro Potlach
La compagnia polaccaTeatr Brama porta in scena lo spettacolo “Voices”, dove la principale forma di espressione è il canto, trasportando lo spettatore in diversi mondi emotivi. Uno spettacolo in cui gli spettatori potranno perdersi tra le polifonie meravigliose di paesi lontani, grazie ai 6 attori/musicisti in scena.
E poi alle ore 21:00 presso il Teatro Potlach
La compagnia brasiliana Estelar de Teatro si esibirà con lo spettacolo “Tarsila o il vaccino antropofagico”. Poesia, musica e videoproiezioni delle immagini del pittore brasiliano Tarsila do Amaral, in uno spettacolo-utopia e manifesto artistico alla ricerca di nuove immagini. Con l’attrice Viviane Dias.
Martedì 2 luglio altri due appuntamenti per il FLIPT:
Alle ore 18:00 lo spettacolo “La lingua dei fiori”, della compagnia italiana Teatro Nucleo, animerà la passeggiata del Belvedere di Fara in Sabina. In scena sette attori, per uno spettacolo che vuole indagare con gli strumenti della poesia, del canto, dell’immagine, la vita ribelle e silenziosa del mondo vegetale: nell’indifferenza generale, i fiori organizzano la loro lenta ma inesorabile rivoluzione fatta di bellezza, profumo, incanto. Lo spettacolo è gratuito e non è necessaria la prenotazione.
Alle ore 21:00 al Teatro Potlach una coproduzione tra “Kamigata-mai Monokai”, la compagnia di Keiin Yoshimura dal Giappone, e Residui Teatro dalla Spagna, con lo spettacolo “White Bird”. L’opera si basa su un antico racconto tradizionale giapponese, interpretato con diverse tecniche del teatro e della danza tradizionali giapponesi (teatro Noh, Kyogen e Kamigata-mai) in aggiunta a tecniche del teatro fisico e della Commedia Dell’Arte.
Mercoledì 3 luglio continuano gli spettacoli:
Alle ore 18.00 sarà presentato “La mia vita nell’arte” della compagnia brasiliana Estelar de Teatro presso il Teatro Potlach. Lo spettacolo condivide i paradossi di un regista pedagogo nel XXI secolo – un mondo digitale – che cerca ispirazione dalle lezioni di K. Stanislávski nei suoi luoghi di utopia per nutrire un teatro del futuro.
Alle ore 21:00, presso il giardino del Teatro Potlach, ci sarà lo spettacolo “caMARá” della compagnia tedesca antagon theaterAKTion. Due uomini vagano tra le onde, danzando con le stelle. Benedikt Müller e Lucas Tanajura del gruppo antagon Theater AKTion utilizzano teatro, danza, acrobazie, musica strumentale e canto per creare un viaggio intimo iniziato con la domanda: “Cosa succede quando perdiamo tutte le certezze e ci tuffiamo nell’ignoto? Dove ci porterà il nostro viaggio quando lasciamo la terraferma e ci arrendiamo alle forze della natura?” Uno spettacolo da non perdere
Giovedì 4luglio un’altra ricca giornata:
Alle ore 18:00 ci sarà, presso il Teatro Potlach, lo spettacolo “Home” della giovane compagnia ucraina“Maysternya 55”. Lo spettacolo esplora artisticamente il concetto di casa e come cambia nel tempo e durante la guerra. Il collettivo, composto da ucraini sparsi per il mondo a causa della guerra in Ucraina, riflette su due concetti di casa: quello originale e quello attuale.
Alle ore 21:00 uno spettacolo in coproduzione tra il Centro Anziani “Insieme” di Fara Sabina APS, il Teatro Potlach, e l’assessorato ai Servizi Sociali del comune di Fara in Sabina. “Le radici del futuro” è il titolo dell’evento che avrà come protagonista il Monumento ai Caduti di Fara in Sabina che prenderà vita nuova con luci, proiezioni e installazioni visive. Alla fine del percorso artistico allestito sul monte, sarà possibile assistere a un filmato che racconta, attraverso la voce di chi ha il ricordo del passato e delle tradizioni, la storia dei mutamenti della vita nei borghi, per trasmetterla alle nuove generazioni. E a seguire… una sorpresa dal vivo, per permettere un contatto tra le generazioni, tra il passato e il presente!
Il 6 e 7 luglio l’appuntamento imperdibile con lo storico spettacolo del Teatro Potlach “Città invisibili”. Gli oltre 100 artisti Italiani ed internazionali che hanno partecipato a queste dodici giornate di Festival invaderanno il centro storico di Fara in Sabina con performance, teatro, danza, musica e molto altro!
Per info e prenotazioni scrivere al numero del Teatro Potlach: 3517954176
Teatro Potlach -Via Santa Maria in Castello n.28 | Fara in Sabina (RI)
Castelnuovo di Farfa. L’Acquedotto di Cerdomare ha il suo terminale e monumento nella mitica FONTANA, dove si possono leggere i nomi , riportati in epigrafe, dei Castelnuovesi che iniziarono e portarono a termine l’Opera.
DOMANDA su Castelnuovo di Farfa ACQUEDOTTO DI CERDOMARE :”MA L’ACQUEDOTTO DI CERDOMARE E’ ANCORA UNA PROPRIETA’ DEI CITTADINI CASTELNUOVESI?”
Ripubblichiamo la Domanda rivolta dal nostro compaesano AUGUSTO MEI al sindaco Zonetti – L’articolo fu “postato” il 12 settembre 2016.
10) Che fine ha fatto l’acquedotto “storico” di “CERDOMARE” di proprietà dei Cittadini di Castelnuovo sin dal 1915 e realizzato da Amministratori veri castelnuovesi, Sindaco Scoccia, nel 1923? Quest’acquedotto è ancora “proprietà esclusiva” dei Cittadini di Castelnuovo oppure è stato “dismesso”?
Alleghiamo al post –Foto delle sorgenti e Gazzetta del Regno d’Italia dell’Agosto del 1915 dove è riportato il bando di Appalto dei lavori per la realizzazione dell’Acquedotto – l’Appalto è firmato dal Sindaco facente funzione. G.FABRI e dal Segretario comunale G.SALZERI.
Il progetto dell’Acquedotto fu eseguito dall’Ing.Vincenzo Jacobini nel 1908 e ,con le varianti ,terminato il 30 giugno 1910.
L’acquedotto fu iniziato, terminato e inaugurato dal Sindaco Giuseppe Scoccia nel il 21 ottobre 1923 coadiuvato dagli Assessori: GIACOMO SIMONETTI-UGO MALFRANCI-GIOVANNI CARGONI-RAIMONDO UMANI. I lavori furono eseguiti dalla Ditta FANTE&MANNI.
L’Acquedotto ha il suo terminale e monumento nella mitica FONTANA, dove si possono leggere i nomi , riportati in epigrafe, dei Castelnuovesi che iniziarono e portarono a termine l’Opera.
Nota e foto di Franco Leggeri, castelnuovese.
Castelnuovo di Farfa sorge a 358 metri di altezza sul livello del mare, sulle propaggini meridionali dei monti Sabini.
Storia
Il territorio di Castelnuovo di Farfa risulta frequentato già a partire dal Neolitico. In epoca protostorica il sito più importante è sicuramente la Grotta Scura, al termine di Via Cornazzano, a poca distanza dal fiume Farfa. I primi ritrovamenti risalgono agli anni 1987-88, quando il Gruppo Speleologico “F. Orofino” rinvenne alcuni frammenti ceramici protostorici, risalenti all’età del Bronzo medio (XV-XIV secolo a.C.). La grotta è costituita da un’ampia sala in roccia calcarea, a cui si accede attraverso una stretta apertura, dove venne recuperato il materiale. Secondo la descrizione del Guidi “dalla sala un lungo corridoio porta ad una serie di piccoli ambienti dove sono stati individuati resti di focolari, ossa animali e vasi integri, gli unici materiali in giacitura sicuramente primaria”[4]. Alcuni frammenti con decorazione “appenninica” hanno permesso una datazione per tutta la durata della media età del Bronzo (XV-XIV secolo a.C.). La grotta presenta un ramo, lungo più di 200 metri, periodicamente occupato dalle acque, dove sono stati rinvenuti insieme oggetti ceramici sia di epoca protostorica che di epoca romana (lucerne in terracotta e monete). La presenza di vasi integri in ambienti difficilmente accessibili della grotta dimostra che una parte della cavità fosse riservata alla deposizione di offerte. Inoltre le tracce di focolari, riferibili a cerimonie rituali, sembrano attestare un utilizzo della grotta sia a fini abitativi che cultuali. La grotta è costituita da un ramo attivo e da due rami fossili, posti a livelli diversi e raggiungibili tramite cunicoli. La presenza di acque sorgive deve aver comportato la destinazione cultuale della grotta. Questo luogo di culto in grotta, tra i più antichi di tutta la Sabina, è stato identificato recentemente nel “santuario di Marte”[5], riportato da Dionigi di Alicarnasso presso Suna (oggi Toffia), antica città degli Aborigeni (mitologia)[6].
Medioevo
Nel VI secolo è riferito in zona l’arrivo di San Lorenzo di Siria, fondatore dell’Abbazia di Farfa, il quale avrebbe svolto opera di evangelizzazione cristiana anche nei territori limitrofi. Una chiesa dedicata a San Donato è riportata già in un documento dell’877, per cui si può tranquillamente fissare la nascita del primitivo insediamento rurale all’Alto Medioevo. In questo documento la chiesa viene ceduta dal vescovo di Arezzo, Giovanni, al monastero di Farfa, in cambio di altri beni, tra cui San Donato ed annesse “terre, case, chiese, selve, molini” ecc…, una elencazione che spiega il livello di organizzazione che si era formato attorno alla prima chiesa[7]. Questa chiesa divenne anche il centro catalizzatore del territorio, elemento di aggregazione sociale, antesignano del castrum. Il primo insediamento fortificato e protetto da mura, il Castellum Sancti Donati, è citato in un documento del 1046, che ne attesta la cessione al vicino monastero di Farfa, e risulta decaduto già nel 1104.
Il Castrum Novum risale al Duecento. A partire dal 1288 nacque una disputa a riguardo di chi appartenesse il colle in cui sorgeva questo castrum medievale: secondo i castellani apparteneva alla comunità, secondo i monaci all’Abbazia di Farfa. La lunga contesa fu lontana dall’essere risolta. Nel 1477 i cippi confinari, rimossi dagli abitanti, vennero riportati al loro posto dall’abate commendatario[8]. Il castello medievale è difeso da una cinta muraria con ben nove torri, presidiate nel Rinascimento da “guardie civiche” e comandate da un “capitano”. Nel 1592 una delibera del Consiglio ordinò l’acquisto di 50 “archibusci” (fucili) e 4 “archibuscioni” (cannoncini). Lungo le mura si aprono due porte, Porta Castello e Porta Cisterna. Il borgo è caratterizzato da strette vie lastricate e da edifici civili, tra cui quelli appartenuti, ad esempio, alle famiglie Cherubini e Simonetti. Nel nucleo del paese sorge la chiesa di San Nicola di Bari ed una bella fontana seicentesca “a parete”, con arco centrale.
Negli anni dalla seconda guerra mondiale, tra il 1940 e il 1943, a Farfa sorse un campo d’internamento civile. Vi giunsero in soggiorno coatto 21 profughi ebrei. Dopo San Donato Val di Comino Castelnuovo fu il comune nella regione Lazio ad ospitare il gruppo più numeroso di rifugiati ebrei.[9] Il periodo più difficile venne dopo l’8 settembre 1943 con l’occupazione tedesca e la Repubblica Sociale Italiana. Nonostante il pericolo di arresto e la fuga, quasi tutti gli ex-internati riuscirono a sfuggire alla cattura e alle deportazioni. Solo uno di loro, lasciato il paese, sarà arrestato a fine novembre 1943 nella provincia di Macerata e nell’aprile 1944 condotto alla morte ad Auschwitz.[10]
Monumenti e luoghi di interesse
Architetture religiose
S. Donato, chiesa di origine altomedievale (IX secolo), in cui si conservano alcune nicchie affrescate. In seguito è stata inglobata in un moderno casolare.
S. Nicola di Bari, chiesa parrocchiale. La chiesa originaria venne eretta poco dopo la metà del Cinquecento, nel punto più alto del castello. Ormai vecchia e malandata venne interamente ricostruita nel decennio 1769-1779 su progetto del capomastro Antonio Lepri, che poté contare nell’aiuto manuale dei castellani. La costruzione venne in gran parte finanziata dai marchesi Simonetti. All’interno della chiesa venne tumulato nel 1781 il corpo di S. Vittore “martire fanciullo”, privo delle mani e dei piedi (forse da mettere in relazione al martirio).
Madonna degli Angeli. Eretta nell’anno giubilare 1600, quando i Castelnovesi, per intercessione della Vergine, restarono immuni da una spaventosa epidemia che seminò strage nei dintorni. La costruzione fu affidata a tali Mastro Plauto e Mastro Giovanni, che realizzarono un tempietto rotondo con 4 cappelle ed un’abside, in pietra spugnosa locale. Nel 1698 venne aggiunto il campanile. La chiesa, ormai fatiscente, crollò nel 1933, rimanendone illeso soltanto il muro su cui si apriva la nicchia con l’immagine della Madonna. Venne quindi interamente ricostruita nel 1939, a spese del cavalier Angelo Salustri Galli.
S. Maria. Eretta al di fuori dalle mura castellane nel 1577 da tal Mastro Giovanni, cui andò un compenso di 20 scudi.
Architetture civili
Il torrione di Porta Castello, con l’ingresso principale al borgo, a ridosso della strada.
Il Palazzo dei marchesi Simonetti (oggi Salustri Galli), grandi benefattori del paese. Tra costoro si annovera il cardinale Giuseppe Simonetti, concittadino, alla cui elezione a porporato nel 1766 vennero indetti nel paese tre giorni di spettacoli, con musiche, spari e fuochi artificiali.
La poesia di Madre Teresa per riflettere sullo spirito del Natale.
È Natale, la poesia
È Natale ogni volta che sorridi a un fratello e gli tendi la mano. È Natale ogni volta che rimani in silenzio per ascoltare l’altro.
È Natale ogni volta che non accetti quei principi che relegano gli oppressi ai margini della società.
È Natale ogni volta che speri con quelli che disperano nella povertà fisica e spirituale.
È Natale ogni volta che riconosci con umiltà i tuoi limiti e la tua debolezza.
Madre Teresa di Calcutta ci ha lasciato una profonda meditazione sul significato del Natale, consegnandoci un testo sorprendente per la sua semplicità ma ricco di quell’umanità che il Figlio di Dio viene a portare ad ogni essere umano. Leggiamo con umiltà queste parole ricolme della gratuità dell’amore di Dio per ogni sua creatura:
È Natale ogni volta che sorridi a un fratello e gli tendi la mano.È Natale ogni volta che rimani in silenzio per ascoltare l’altro.È Natale ogni volta che non accetti quei principi che relegano gli oppressi ai margini della società.È Natale ogni volta che speri con quelli che disperano nella povertà fisica e spirituale.È Natale ogni volta che riconosci con umiltà i tuoi limiti e la tua debolezza.È Natale ogni volta che permetti al Signore di rinascere per donarlo agli altri.
Queste parole sono un vero decalogo dell’accoglienza, dell’accettazione e del servizio gratuito verso il prossimo.
Il sorriso del cuore è un segno di apertura verso l’altro, perché riflette quella disposizione dell’animo riconciliato e riappacificato, il quale è molto più eloquente di tante inutili e vuote parole.
Il sorriso esprime quell’apertura che ha perdonato profondamente il torto subito. Potremmo dire che il sorriso è l’apertura della porta giubilare della misericordia della propria casa perché manifesta una retta intenzione di convivialità e di condivisione.
La realtà, molte volte, è diversa, perché la durezza del nostro cuore ritiene difficile sorridere a quel parente che, dopo tanto mesi, si è riaffacciato alla soglia della nostra casa; ci viene più facile giudicarlo per il suo allontanamento piuttosto che riaccoglierlo, con la gioia di avere ritrovato una persona che ritenevamo perduta.
Quanto è facile cadere nel rischio di offrire “falsi sorrisi” che sono il preludio di dialoghi aridi, di discorsi inutili, di relazioni finte e di falsa vanagloria.
Il vero sorriso è il preludio dell’ascolto, il quale è la chiave universale per entrare nel cuore del nostro interlocutore. L’ascolto silenzioso è quella forza interiore capace di trasferire l’altro dalla periferia dell’emarginazione al centro dell’attenzione. L’ascolto restituisce dignità e valore a quegli avvenimenti della vita che hanno bisogno di essere detti a qualcuno per essere compresi da colui che li racconta. L’ascolto è un servizio insostituibile ed efficace perché contiene la forza silenziosa di fare uscire dal cuore di chi abbiamo difronte quelle verità scomode, che sono il preludio della possibilità di offrirgli parole di incoraggiamento e di speranza.
Queste parole di Madre Teresa contengono un prezioso segreto evangelico: se vogliamo capire e riconciliarci con quel parente che siede con noi alla mensa di Natale, evitiamo di usare troppe parole per giustificarci o per cercare di ridurre la situazione imbarazzante. Il giusto atteggiamento che ristabilisce una sana e duratura riappacificazione è l’umiltà dell’ascolto, capace di comprendere le difficoltà dell’altro e di ricucire quello strappo che il nostro spietato giustizialismo ha creato per la superbia e la durezza del nostro cuore.
L’ascolto, preceduto dal sorriso, è davvero misericordioso quando offre parole e gesti di speranza verso coloro che sono stati travolti dalle vicende della vita e non riescono a trovare un via d’uscita da quel deprimente stato di angoscia e di disperazione.
Come sarebbe bello sentire a Natale le suocere che consolano le nuore per le fatiche nell’educazione dei figli e nel conciliare il lavoro con la famiglia, quanto farebbe bene ai figli vedere il padre dialogare con gioia con il loro nonno, quale gioia sarebbe ricordare durante questa notte santa tutti quelli che ci hanno preceduto facendo memoria di alcuni episodi della loro vita, quanto sarebbe bello parlare con quel parente con il quale riteniamo di avere subito un torto e riconoscere il nostro limite invece che condannare la sua debolezza.
Il Natale è la festa del memoriale della venuta del Figlio di Dio sulla terra, affinché il Bambino Gesù possa rinascere in ogni essere umano e rinnovare dall’interno le nostre vite, la frase di Madre Teresa, “è Natale ogni volta che permetti al Signore di rinascere per donarlo agli altri”; sono parole piene di speranza, perché contengono una sapienza che non è di questo mondo, affermando quella verità cristiana tanto dimenticata ai nostri giorni: il cambiamento del mondo è possibile quando si inizia a cambiare prima il nostro cuore.
La conversione è davvero contagiosa, quando siamo noi per primi a riconoscere di essere bisognosi della Misericordia di Dio. Se Cristo nascerà in noi, la nostra casa diventerà come la umile stalla di Betlemme, povera di sicurezze terrene ma ricca di umanità e del calore umano, la quale sarà visitata dai tanti pastori emarginati del nostro quartiere, i quali ascoltando le voci dei vicini di casa, potranno accorrere con fiducia al nostro focolare. Sarebbe bello pensare ad un Natale che trasformi le nostre famiglie nelle quali nessuno che bussa alle nostre porte tornerebbe a casa sua a mani vuote, ma troverebbe tanti segni visibili della misericordia di Dio, fatta a volte di parole ma altre volte di gesti concreti, usando quella carità cristiana che è davvero autentica quando ha la forza di spogliarsi di qualcosa di proprio per rivestire il bisogno materiale e spirituale dell’altro.
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