DESCRIZIONE del libro di Ann Mark-Vita di Vivian Maier-Nella periferia di Los Angeles, il 17 luglio 1955, apriva per la prima volta i suoi cancelli Disneyland. Quasi trentamila persone si riversarono nei viali mai calpestati prima, un fiume in piena di bambini pronti a lasciarsi meravigliare. Lì, tra famiglie, figuranti e pupazzi, c’era Vivian Maier, una tata di origine francese da poco trasferitasi sulla West Coast in cerca di un nuovo incarico. La donna girovagava da sola tra la folla con una macchina fotografica in mano: dopo anni di scatti in bianco e nero, aveva deciso di passare al colore per immortalare gli attori travestiti da nativi americani e i castelli di cartapesta, per rendere giustizia a quell’atmosfera sognante e un po’ finta. Ma conclusa la gita, quelle foto non furono viste da nessuno, come le altre decine di migliaia di immagini che Vivian Maier scattò e tenne nascoste agli occhi del mondo per decenni. La storia del loro ritrovamento è già leggendaria: montagne di rullini chiusi in scatole di cartone fino al 2007, quando per un caso fortunato John Maloof, il figlio di un rigattiere di Chicago, acquistò in blocco il contenuto di un box espropriato. All’interno trovò un archivio brulicante di autenticità e umanità, il patrimonio di una fotografa sconosciuta che in pochi anni sarebbe stata celebrata in tutto il mondo. Ma mentre le sue opere diventavano sempre più popolari, la sua biografia restava un segreto impenetrabile, perché Vivian aveva sepolto il suo talento con la stessa cura e riserbo con cui aveva protetto la sua vita. Adesso, grazie alla meticolosa ricerca investigativa di Ann Marks, che ha avuto accesso a documenti personali e fonti di primissima mano, quelle vicende personali finora oscure vengono sottratte all’oblio, al mistero e alla leggenda. “Vita di Vivian Maier” rivela in tutta la sua complessità la storia di una donna fuggita da una famiglia disfunzionale, fra illegittimità, abuso di sostanze, violenza e malattia mentale, per poter finalmente vivere alle sue condizioni. Nessuno, neanche le famiglie presso cui prestava servizio, aveva idea che quella bambinaia di provincia nascondesse uno dei maggiori talenti fotografici del periodo, in grado di ritrarre le disparità e le ingiustizie degli Stati Uniti del boom economico, le persone comuni, i bambini, la semplice vita urbana. In questo, che trabocca di foto (anche inedite), l’opera e la vita finalmente si intrecciano in un’unica storia: il ritratto che emerge è quello di una sopravvissuta, fiduciosa nel suo talento nonostante le sfide della malattia mentale, una donna socialmente consapevole, straordinariamente complessa e soprattutto libera.
Ann Marks spent thirty years as a senior executive in large corporations and served as chief marketing officer of Dow Jones/The Wall Street Journal.After retirement, she put her research and analysis skills to use as an amateur genealogist and became inspired to unlock the mysterious life of photographer Vivian Maier. She has dedicated years to studying Maier’s archive of 140,000 images and is an internationally renowned resource on Vivian Maier’s life and work. Her research has been featured in major media outlets, including the Chicago Tribune, The New York Times, and the Associated Press. Marks lives in Manhattan with her husband and three children.
Descrizione del libro di Stefania Limiti, Sandra Bonsanti–La vittoria della destra in Italia ci mette di fronte alla concreta possibilità che venga stravolta la Costituzione del 1948. Da tempo si parla soprattutto di introdurre l’elezione diretta del capo dello Stato o del presidente del Consiglio. Il mondo democratico e progressista si trova di fronte a una grande battaglia politica per contrastare una riscrittura della Carta che ne mette in discussione i suoi princìpi fondanti.
È vero che esistono Paesi democratici che eleggono direttamente il capo dello Stato ma è anche vero che in altri l’elezione popolare del presidente coincide con tratti fortemente autocratici, dall’Ungheria alla Russia e alla Turchia.
Le autrici hanno dunque voluto contestualizzare la questione nella nostra storia repubblicana, ricostruendo il significato del presidenzialismo – formula tecnico-giuridica tesa a rafforzare i poteri del governo, indebolendo quelli del Parlamento – alla luce delle esperienze politiche che lo hanno sostenuto, a oggi senza successo: quelle golpiste e missine, la piccola pattuglia dei gollisti democristiani, la P2, la Grande Riforma craxiana e le nervose esternazioni di Francesco Cossiga, fino ai giorni più recenti con la pretesa delle grandi banche d’affari di “azzoppare” le costituzioni antifasciste.
Contestualizzare il presidenzialismo nella storia italiana consente dunque di vedere chiaro dietro alle intenzioni di chi vorrebbe mettere il potere nelle mani di un capo eletto a furor di popolo.
Sandra Bonsanti -Nata a Pisa nel 1937, sposata, ha tre figlie. Si è laureata in etruscologia a Firenze e ha vissuto per molti anni a New York. Ha cominciato la sua attività professionale nel 1969 al “Mondo” con Arrigo Benedetti.
Associazione Libertà e Giustizia Via Cordusio 4, 20123 Milano
Ora e sempre Resistenza! Intervista a Sandra Bonsanti
Giornalista, scrittrice e politica italiana: FUL ha incontrato Sandra Bonsanti per una chiacchierata sul valore dell’antifascismo e della memoria storica.
Sandra Bonsantinasce a Pisa il 1° giugno 1937. Figlia di Alessandro Bonsanti, scrittore e sindaco repubblicano di Firenze, è una bambina quando alleati e partigiani liberano la città dai nazisti. Avvia l’attività da giornalista nel 1969 a Il Mondo, settimanale politico, culturale ed economico. Lavora poi per La Stampa, Epoca e Panorama. Nel 1981 entra nella redazione del quotidiano La Repubblica guidato da Eugenio Scalfari, di cui diviene una delle firme di punta. Bonsanti è una delle più autorevoli interpreti del whatchdog journalism italiano, il giornalismo “cane da guardia” della democrazia che interroga politici e personaggi pubblici, indaga sul potere e pretende chiarezza e trasparenza dalle istituzioni per esercitare un’informazione piena e consapevole verso i cittadini.
Nel 1994 Bonsanti diventa membro della Camera dei deputati: alle urne per la XII legislatura vince il seggio nel collegio uninominale di Firenze 2 con la coalizione dei Progressisti. In Parlamento sarà membro della commissione parlamentare antimafia. Nel 1996 rinuncia a ricandidarsi alle elezioni per assumere la guida del quotidiano Il Tirreno. Su incarico dell’Ordine dei Giornalisti e della Federazione Nazionale Stampa Italiana redige con Angelo Agostini la “Carta dei doveri del giornalista”. Dal 2002 al 2015 è presidente di Libertà e Giustizia, un’associazione italiana di cultura politica attiva. Nel 2017, riceve dal sindaco Nardella Il Fiorino d’Oro della città di Firenze, l’onorificenza assegnata alle personalità che con il loro operato hanno dato lustro alla città o si sono distinti a livello internazionale.
È autrice di libri che indagano sui misteri del potere in Italia come Il grande gioco del potere (Chiarelettere, 2013) e Colpevoli (Chiarelettere, 2021) scritto a quattro mani con Stefania Limiti. Ha sempre difeso, onorato e sensibilizzato sull’importanza della memoria storica, dell’antifascismo e della Resistenza, da cui discende la nostra Costituzione. Sandra ci ha aperto le porte di casa a Firenze per una chiacchierata sul valore della Resistenza e dell’antifascismo. Seduti fra tantissimi libri e appunti sparsi, in compagnia di una foto con Sandro Pertini e una vecchia cartolina di New York inviata da Oriana Fallaci, le ho chiesto che significato assume al giorno d’oggi la Festa della Liberazione, festeggiata il 25 aprile con il governo più a destra dell’Italia repubblicana. «Possiamo dire senza timore di essere accusati di esagerare che l’impegno di tutti i cittadini che si riconoscono nella Costituzione deve essere ancora più fermo e deciso di quanto lo sia stato nel passato. Si tratta di sostenere e difendere il grande lavoro e i grandi sacrifici che sono alle spalle del 25 aprile 1945. Dunque, per noi un impegno senza incertezze» osserva Bonsanti.
I vincitori delle ultime elezioni sono la cosiddetta “Generazione Colle Oppio”, dal nome della storica sede del Movimento Sociale Italiano dove molti esponenti di Fratelli d’Italia hanno mosso i primi passi in politica. Alcuni membri della maggioranza e del Governo Meloni sono accusati di aver riportato le lancette indietro di trent’anni, prima della svolta di Fiuggi di Gianfranco Fini. Forse la destra italiana fatica ad affrancarsi definitivamente dal fascismo perchè non è antifascista? «La destra italiana, diversamente da quello che è accaduto in altri Paesi, come in Germania, insiste a trovare pretesti per non dare un addio definitivo a quello che è stato il coinvolgimento di tanti cittadini italiani con il fascismo. Il perché va cercato in motivazioni di origine familiare, oppure semplicemente storiche. Ogni caso è a sé e non c’è una spiegazione unica» spiega Bonsanti.
Sfortunatamente, allo stesso tempo, restano sempre meno partigiani: spetta alle istituzioni tenere alto il valore della memoria storica. Nata come reazione al regime fascista e dalle sue ceneri, la repubblica è l’affermazione dei valori dell’antifascismo. «Le istituzioni possono sicuramente aiutare a celebrare il valore di ogni singolo partigiano e dei partigiani riuniti nelle loro associazioni. È importante mostrare che le istituzioni stanno decisamente dalla parte di chi ha combattuto contro il fascismo.»
In tempo di guerra che sconvolge l’Europa, non posso esimermi da chiedere a Sandra se trova delle analogie fra la Resistenza italiana di allora e quella ucraina di oggi: «Ogni popolo deve essere riconosciuto libero di scegliersi amici e nemici. Un’analogia importante può essere riscontrata nel fatto che si tratta, sia in Ucraina che nell’Italia della guerra, di invasioni del proprio territorio e nel fatto che ci sono uomini e donne pronti a combattere e a morire per la libertà» risponde.
Anche l’informazione gioca un ruolo importante nel promuovere la memoria. Circa vent’anni fa è iniziata un’opera mistificatoria della Resistenza. Chiedo alla nostra ospite, dall’alto della sua lunga esperienza di giornalista, come si fa una corretta informazione su questa stagione cruciale della nostra storia. «Tutti noi possiamo fare qualcosa di più per promuovere la memoria come cittadini ed è ancora di più quello che può fare l’informazione: approfondire singoli episodi, raccontare e descrivere i personaggi che ne sono stati protagonisti, raccontare esattamente i principi in cui credevano coloro che si sono immolati.»
C’è dunque un momento della Seconda Guerra Mondiale che necessita di un approfondimento? «Mi piacerebbe che fossero approfonditi i motivi per cui in Toscana ci furono tante stragi e perché l’esercito dei liberatori americani e italiani antifascisti ci mise tanto tempo ad arrivare fino alla Toscana. Inoltre, a mio avviso tutti gli sbarchi sono stati memorabili, caratterizzati da atti di coraggio e da atti di eroismo», puntualizza Bonsanti.
A proposito di fascismo e antifascismo, faccio un’ultima domanda a Sandra e le chiedo cosa vorrebbe dire alle ragazze e ai ragazzi di oggi: «Penso che sbaglierebbero i giovani se pensassero che ai giorni d’oggi quello che è successo non capiterà mai più. Bisogna continuare a studiare e a trasferire la loro memoria fresca dall’avere ascoltato tanti protagonisti di allora alle generazioni che verranno» conclude lei.
Roma Capitale- Complesso Monumentale di Santo Spirito in Sassia-
Roma- Le origini del Complesso Monumentale di Santo Spirito in Sassia risalgono al 727 d.C., quando il re dei Sassoni Ina istituì la “Schola Saxonum” per dare ospitalità ai pellegrini diretti alla Tomba dell’Apostolo Pietro. Fu eretto sull’area anticamente occupata dagli “Horti” di Agrippina Maior (14 a.C. – 33 d.C.), costruzioni imperiali, ampi e sontuosi giardini che dal Gianicolo si estendevano lungo la riva destra del Tevere. In alcuni ambienti sottostanti l’antico Ospedale sono ancora visibili resti di pareti di opusreticulatum, pavimenti a mosaico, sculture e affreschi.
Considerato uno dei più antichi ospedali d’Europa, il Santo Spirito in Sassia sorse a sostegno dei poveri, dei malati e degli infanti abbandonati, come testimonia ancor oggi la Ruota degli Esposti posta all’esterno dell’edificio.
Restaurato e ampliato nel corso dei secoli, il Complesso è composto dalle Corsie Sistine, dai Chiostri dei Frati, delle Monache e delle Zitelle (o “chiostro del Pozzo”) e infine dal Palazzo del Commendatore (che ne è un ampliamento cinquecentesco), a opera dell’architetto Giovanni Lippi.
Il Palazzo, costruito attorno a un elegante cortile quadrangolare, è ornato da una fontana del XVII secolo e da un orologio ottocentesco a sei ore e ospita l’antica Spezieria, in cui furono condotte numerose ricerche farmaceutiche e dove vennero triturate le erbe medicamentose, di cui oggi sono testimoni le collezioni di antichi vasi e mortai.
Oggetto di un attento restauro terminato nel luglio 2022, le Corsie Sistine furono realizzate su incarico di papa Sisto IV della Rovere nella seconda metà del Quindicesimo secolo. La struttura, costituita dalla Corsia Lancisi e dalla Corsia Baglivi, è lunga 120 metri e larga 13. Le Corsie furono utilizzate dapprima come luogo di degenza e, dal ‘600, come lazzaretto. Un ciclo di affreschi di scuola umbro-laziale, che si sviluppa una superficie di oltre 1200 mq e la cui estensione è seconda solo a quella della Cappella Sistina, ne orna il perimetro superiore. Le Corsie sono collegate da un tiburio ottagonale sotto il quale potete ammirare l’unica opera romana di Andrea Palladio, un raffinato ciborio sormontato da due putti attribuiti ad Andrea Bregno, autore anche dei due maestosi portali d’ingresso.
Nei secoli successivi, il Complesso ospedaliero si sviluppò ulteriormente, con l’edificazione della Sala ospedaliera Alessandrina, oggi adibita a sede del Museo di Storia dell’Arte Sanitaria.
Al suo interno, sono conservate diverse importanti collezioni: quasi 400 pezzi tra ceramiche e vetri farmaceutici, arazzi, sculture e rilievi; circa 300 tra opere pittoriche, disegni e stampe, numerosi affreschi, grottesche e altre decorazioni pittoriche parietali; 20.000 volumi a stampa di cui circa 60 incunaboli, 2.000 cinquecentine e 374 preziosi manoscritti di epoche diverse, 2 codici pergamenacei degli scritti di Avicenna e il più conosciuto Liber Fraternitatis Sancti Spiritus; due globi di Vincenzo Coronelli (un globo terrestre ed uno celeste del 1600); duesfere armillari in ottone e una diottra utilizzata nel rilevamento topografico per determinare e tracciare le visuali, testimonianze uniche della cultura scientifica romana in età moderna.
Informazioni
Indirizzo
Borgo Santo Spirito, 1-2
Orari
Per le modalità di accesso e gli orari della visita rivolegersi ai contatti soprandicati
Fonte-Roma Turismo-Dipartimento Grandi Eventi, Sport, Turismo e Moda.
Via di San Basilio, 51
00187 Roma
La struttura costituisce il più rilevante complesso di edifici quattrocenteschi romani ed occupa l’isolato adiacente al Vaticano tra via di Borgo Santo Spirito, via dei Penitenzieri, via di Porta Santo Spirito e il Lungotevere Vaticano. Fa parte del quattordicesimo rione di Roma, Borgo, divenuto un quartiere della città tra il 1585 e il 1590 e zona cimiteriale in età romana. L’ampia zona comprende anche Castel Sant’Angelo, l’antico Mausoleo di Adriano, divenuto archivio dei Tesori Vaticani, museo e storico rifugio dei Papi raggiungibile attraverso il camminamento coperto del Passetto. Fino al 1929 anche il vicinissimo Stato della Città del Vaticano apparteneva a Borgo ma, con la stipula dei Patti Lateranensi, il governo di Mussolini lo donò alla Chiesa di Roma di Papa Pio XI.
Borgo deve il suo nome al termine sassone Burg, cioè villaggio fuori dalla città di Roma. Era così anticamente chiamato dai pellegrini a maggioranza Sassoni del Wessex, a sud della Gran Bretagna, che qui arrivavano per venerare la tomba dell’apostolo Pietro. Il seguace di Cristo morì da martire sul colle Vaticano nel 64 o 67 d.C. a seguito delle persecuzioni dei cristiani da parte degli imperatori Claudio e Nerone e divenne il primo Papa della Chiesa Cattolica. L’imperatore Costantino edificò una basilica sulla tomba di San Pietro dopo aver emanato l’editto di Milano nel 313 d.C. con cui sanciva la libertà del culto cristiano e di tutte le altre religioni nell’Impero Romano.
La sede del Complesso sorge sulle rovine della villa di Agrippina Major, nobildonna romana e madre di Caligola. Ancora oggi sono visibili i numerosi resti dell’antica dimora nel sottosuolo delle antiche corsie ospedaliere. Il primo nucleo di Santo Spirito venne fatto erigere dal Papa Simmaco nel V secolo e consisteva in un Hospitium, un luogo di ospitalità con facoltà di dimora, per i pellegrini stranieri. Nel 726, il re del Wessex, Ine, anch’esso pellegrino a Roma per pregare sulla tomba di S.Pietro, fece costruire sopra questo antico luogo di accoglienza, una Schola Saxorum, cioè una corporazione per la comunità dei suoi conterranei inglesi che vivevano accanto alla sacra tomba di S. Pietro. La Schola era formata da un complesso di edifici comprendenti uno xenodochio (dal gr. Xenodochêion: xénos ‘straniero’ e déchesthai ‘accogliere’) o ospizio gratuito per forestieri, pellegrini e malati, oltre ad una chiesa titolata a S. Maria con un cimitero.
Nei secoli successivi la struttura venne abbandonata per limitazione dei flussi di pellegrini e conseguente calo delle donazioni e fu danneggiata da diversi incendi.
Nel 1198, Papa Innocenzo III, ristrutturò il complesso e lo cedette all’ fondato dal frate provenzale e cavaliere templare Guido da Montpellier. L’Ordine lo trasformò in un importante nosocomio con gli interventi dell’architetto Marchionne d’Arezzo e prese il nome di Arcispedale di Santo Spirito in Sassia o Saxia a ricordo della comunità sassone che dimorava in loco. Il più antico regolamento ospedaliero che si conosca, il Liber Regulae ne fissava le regole. Operò per tantissimi anni sia come ospedaletto per l’assistenza agli infermi e la cura delle malattie infettive come la malaria, sia come baliatico per la nutrizione dei trovatelli poveri e malati
con le balie, ma anche come brefotrofio per l’accoglienza degli esposti o proietti, cioè i neonati illegittimi e abbandonati. Papa Innocenzo III volle far qui costruire la rota proiecti (dal lat. proiectare ‘esporre’) o ruota degli esposti su esempio della prima istituita a Marsiglia in Francia nel 1188 che permetteva all’Ordine Religioso di accogliere i numerosi neonati indesiderati che
venivano lasciati, anonimamente, sulla parete esterna dell’ospizio, in un cilindro girevole dotato di una fessura coperta da una grata. È probabile che questa fosse la ruota più antica d’Italia e l’uso è stato abolito per legge solo nel 1923. I bambini venivano qui accolti dalle suore dell’ordine di S. Tecla e marchiati sul piede sinistro col simbolo dell’Ordine di S. Spirito, la croce lorenese a doppia traversa, e registrati in latino come filius m. ignotae ‘figlio di madre ignota’ da cui deriva l’espressione romanesca “fijo de na mignotta”.
Considerato l’ospedale Apostolico e il più antico di Roma godette sempre di sostegno, privilegi, esenzioni e indulgenze tanto che, nel periodo di massima prosperità, poté ospitare fino a 300 infermi e 1000 malati.
Nel XIV s. la struttura conobbe un breve declino sia per il trasferimento del papato ad Avignone (1309-1377) che per la peste del 1348 e il terremoto del
1349 e quasi cadde in rovina totale per mancanza di donazioni e supporti economici dal Vaticano. Verso la fine del 1400, la benefica Istituzione ebbe una rinascita architettonica, artistica e patrimoniale grazie a Papa Sisto IV della Rovere (1471-84) dell’ordine Francescano dei frati minori conventuali, artefice della costruzione della Cappella Sistina. Con lui il Complesso divenne tanto ricco da rivelarsi l’Istituzione con maggiori proprietà terriere in tutta Europa.
Dopo l’incendio del 1471, Sisto IV fece ristrutturare il complesso tra il 1474 e il 1477 dall’arch. fiorentino Baccio Pontelli (famoso per il progetto della Cappella Sistina e lì ritratto dal Perugino nell’affresco La consegna delle chiavi a S. Pietro) dandogli la forma attuale.
Ovunque si nota ancora il blasone del Papa col casato dei Della Rovere, a memoria del suo intervento, insieme al sigillo dell’Ordine Ospedaliero che gestiva la struttura, la croce lorenese a doppia traversa sovrastata dalla colomba dello Spirito Santo.
Nei secoli XVII e XVIII seguirono altre due ristrutturazioni e l’ultima si annovera al 1926 in cui venne ricostruita la facciata quattrocentesca con le bifore marmoree.
Dal 2000 il complesso monumentale è sede di un importante centro congressi mentre l’ospedale di S. Spirito in Sassia continua la sua secolare tradizione di assistenza ai malati nella nuova struttura in via Lungotevere in Sassia 1, adiacente all’antico nosocomio. Disegnato dagli architetti Gaspare e Luigi Lenzi negli anni 1920-33, oggi fa parte dell’ ASL E di Roma. Offre le prestazioni di pronto soccorso, ricovero ospedaliero con 200 letti e varie attività specialistiche ambulatoriali.
LA CORSIA SISTINA
È la parte più antica del Pio istituto ed oggi adibita a polo congressuale ma adibita ancora ad ospedale sino ai recenti anni 80. E’ lunga 120 m, larga 12 m e alta 13 m, suddivisa in un maestoso tiburio e due sezioni dette Braccio di Sopra e Braccio di Sotto ribattezzate sala
Lancisi e sala Baglivi nella seconda metà dell’800 in onore di due famosi medici ed anatomisti qui operanti e vissuti tra il XVII e XVIII secolo. Nella corsia venivano allora alloggiate le file dei letti a baldacchino dei degenti allietati dal suono di un organo in fondo alla sala. Quando il numero dei ricoverati aumentava per le epidemie venivano aggiunti letti al centro delle corsie chiamati carriole e da qui deriva il detto dialettale romano “li mortacci tua e de tu nonno in cariola”, con cui si enfatizza l’ingiuria anche con la morte dell’avo in cariola, cioè in soprannumero.
Le pareti appaiono finemente decorate con un ciclo di quasi cinquanta affreschi del XV secolo che rievocano la storia dell’antico ospedale, le benemerenze del fondatore Papa Innocenzo III e episodi della vita di Papa Sisto IV della Rovere, artefice del rinascimento dell’Ospedale.
Il tiburio a forma di torre ottagonale era l’originale ingresso dell’ospedale la cui cupola venne decorata con nicchie contenenti statue degli apostoli e con due ordini di finestre bifore e trifore con l’onnipresente stemma del Papa Sisto IV della Rovere. Il soffitto è costituito da eleganti pannelli lignei dipinti. Al centro conserva l’unica opera romana dell’architetto veneto Andrea Palladio, un altare in marmo con un dipinto seicentesco di Carlo Maratta. Gli ingressi laterali sono arricchiti da due portali di marmo quattrocenteschi, opere dell’architetto e scultore lombardo Andrea Bregno. Quello sotto il portico della facciata orientale è di modeste dimensioni mentre l’altro è ben conosciuto col nome di Portale del Paradiso, alto 10 m, largo 5 m e recentemente restaurato.
Nella lunetta conchigliata superiore è decorato l’emblema di Sisto IV tra due putti alati e nelle colonne laterali compaiono numerosi simboli associati alla religione cristiana, alla medicina e alle arti curative.
IL MUSEO STORICO DI ARTE SANITARIA
È ospitato nella Sala Alessandrina e venne inaugurato nel 1933 grazie al prezioso contributo di un generale e 2 professori di medicina: il Generale Mariano Borgatti, il Prof.
Giovanni Carbonelli e il Prof. Pietro Capparoni che raccolsero in questa sede del precedente Museo Anatomico, l’immenso materiale storico medico prima depositato in Castel Sant’Angelo. È un mausoleo della medicina con la biblioteca ed un archivio storico e nacque con lo scopo di promuovere e disciplinare gli studi storici dell’Arte Sanitaria in Italia. È alloggiato in nove stanze e conserva preziosi cimeli tra cui mortai, modelli anatomici, cere, antichi strumenti di ostetricia, la macina della China per macinare la corteccia dell’albero di China e produrre il chinino per curare la malaria. Inoltre conserva ferri chirurgici, microscopi, apparecchi per l’anestesia, la prima lettiga della Croce Rossa per il trasporto dei malati e moltissima documentazione su malattie e preparazioni farmaceutiche del passato. È altresì presente la ricostruzione di una farmacia del passato e di un laboratorio alchemico.
L’ANTICA SPEZIERIA
Si trova adiacente alla sala Lancisi e qui i frati un tempo preparavano i farmaci. Numerose ricerche farmaceutiche vennero qui condotte come quella sull’impiego della polvere della corteccia di China per la cura della malaria, allora molto diffusa e senza rimedio. Conserva inoltre una rara collezione di preziosi vasi per le spezie.
LA BIBLIOTECA LANCISIANA
Fu fondata nel 1711 dal medico Giovanni Maria Lancisi, docente di anatomia e medico personale del Papa e venne dotata di una rendita. Nacque all’interno dell’ospedale per favorire la formazione e l’aggiornamento dei medici e chirurghi e con l’intento di promuovere il confronto tra medici e lo svolgimento di sperimentazioni. È considerata la più importante biblioteca medica d’Italia e conserva 20.000 volumi e 375 manoscritti. Tra questi vi sono antichi libri di grammatica, retorica, politica, filosofia, teologia, matematica, storia naturale, chimica, farmacia, anatomia, chirurgia, medicina legale e alcuni strumenti scientifici originari come i globi del monaco cartografo Vincenzo Coronelli, due sfere armillari e una diottra.
IL PALAZZO DEL COMMENDATORE
Vi abitava l’amministratore capo del Complesso. Il palazzo venne edificato durante il papato di Pio V tra il 1566 e il 1572 ad opera degli architetti Nanni
di Baccio Bigio e Ottaviano Nonni detto Mascarino e per volere del Commendatore Bernardino Cirillo e per questo chiamato anche Palazzo di Cirillo. È arricchito con un sontuoso cortile decorato con arcate e colonne di marmo e un orologio barocco diviso in sei ore alla romana, tipica misurazione del tempo durante il periodo medievale. In questo modo la giornata veniva scandita dal ripetersi quattro volte del ciclo di sei ore l’una. Ha la forma di copricapo cardinalizio ed è incorniciato da un serpente che si morde la coda simbolo di eternità. Come lancetta ha un ramarro in bronzo e a lato l’antico emblema dell’ospedale con la croce a doppia traversa e la colomba dello Spirito Santo.
LA CHIESA DI SANTO SPIRITO IN SAXIA
Originalmente la chiesa del dodicesimo secolo era dedicata a Maria Vergine di cui rimane ancora il campanile romanico di Baccio Pontelli. Fu ricostruita varie volte e, dopo il Sacco di Roma nel 1527, Papa Leone IV chiamò l’architetto fiorentino Antonio da Sangallo il Giovane per la ristrutturazione eseguita tra il 1538 e 1545.
Il completamento della facciata tardo rinascimentale su due ordini e della grandiosa scalinata vennero terminati nel 1590 da Ottaviano Mascherino su commissione del Papa verso la fine del Papa Sisto V.
Al suo interno si conserva ancora un’icona mariana donata da re Ina, una serie di opere d’arte tardo-manieriste, numerosi pregiati affreschi e stucchi e un soffitto ligneo policromo ad opera di Antonio da Sangallo con gli stemmi di Papa Paolo III.
La Chiesa è oggi il Centro di Spiritualità della Divina Misericordia ufficialmente istituito dal Cardinale Camillo Ruini con decreto del 1994. Conserva le reliquie del Santo Papa Giovanni Paolo II in un ostensorio in argento a copia di quello rappresentato da Raffaello nell’affresco La disputa del Sacramento nella stanza della Segnatura al Vaticano.
Roma-Che disastro di famiglia – La Regola del topo- al Teatro de’ Servi-
Roma- Va in scena al Teatro de’ Servi, dal 12 al 24 novembre, Che disastro di famiglia – La Regola del topo, commedia di N.L. White con la regia di Luca Ferrini.
“La Regola del Topo” è una vera e propria farsa comicissima, una “commedia delle porte” travolgente e dal ritmo forsennato. Marito e moglie aspettano l’arrivo del capo dell’ufficio adozioni per ottenere l’idoneità a diventare, finalmente, genitori. Peccato che il giorno scelto per questa delicata operazione non sia dei migliori! Lo zio ed il cugino di lui hanno, infatti, in serbo sorprese a non finire al limite della legalità che metteranno a serio rischio non solo l’adozione ma il sistema nervoso stesso della coppia di coniugi.
Tra gag esilaranti, immigrati clandestini, situazioni caotiche, bugie, pistole fumanti e contrabbando aggravato, i protagonisti si troveranno a fronteggiare situazioni tanto complicate quanto esilaranti, dando vita ad una inarrestabile ed esplosiva catena di spassosissimi colpi di scena. Dopo il grande successo de “Il teorema della Rana”, N. L. White torna a teatro più determinato che mai nel voler regalare al pubblico novanta minuti di risate scatenate e di frenetica comicità.
Alt Academy Produzioni
presenta
CHE DISASTRO DI FAMIGLIA
LA REGOLA DEL TOPO
di N.L. White
regia di Luca Ferrini | aiuto regia Andrea Verticchio
con Paolo Roca Rey, Alessandra Mortelliti, Luca Ferrini, Guglielmo Lello, Denis Persichini, Antonia Di Francesco, Davide Sapienza
DAL 12 AL 24 NOVEMBRE
TEATRO DE’ SERVI- ROMA
Informazioni, orari e prezzi
INFORMAZIONI GENERALI
Teatro de’ Servi
Via del Mortaro, 22 | 00187 Roma
Per informazioni e biglietti:
tel. 06.6795130 | info@teatroservi.it
Orari spettacoli:
da martedì a venerdì ore 21
sabato ore 17:30 e 21
domenica ore 17.30
Biglietti: 25 euro
Mariantonia Crupi: il nuovo romanzo “I limoni e la malvarosa”
– Adhoc Edizioni–
Descrizione del libro Mariantonia Crupi-“I limoni e la malvarosa” è un romanzo al plurale, dominato da un universo di donne che attraversano il tempo nel paese di Acquaro, ai piedi delle Serre calabresi, il paese dell’autrice, narrate attraverso una scrittura evocativa, elegante e intensa, e che esprime, al tempo stesso, i moti dell’anima e gli slanci della natura, il passato e il presente, uniti da una grande casa di pietra, un fiume, una panchina che vive i suoi secoli di vita, declinandoli agli amori, alle passioni, alle perdite, alla speranza.
«“I limoni e la malvarosa” è il titolo, malinconico e suggestivo, un po’ gattopardo, un po’ alla ricerca del tempo perduto di un lungo viaggio di sentimenti e di memoria, di gratitudine, amicizia e solidarietà, di partenze, ritorni e solitudini, la Calabria lontana, voluta e sofferta, bella e passionale»,commenta la scrittrice. Sinossi
Lina, figlia di un ricco borghese, muore pochi giorni prima del suo matrimonio con Riccardo.
Riccardo sposa quindi Diamante, la migliore amica di Lina, nobile e non bella.
Vivono, insieme alla madre di lei, nella grande casa di pietra adiacente il fiume.
Per loro lavorano Apollonia, Maruzza e la greca Vasiliki, unite da rapporti di profonda solidarietà, e le loro vicende personali si intrecciano al destino stesso dell’intero paese, tra partenze, perdite, assenze, solitudini, amori impossibili, passioni e tormenti infiniti, sottolineati dal canto d’acqua del fiume, che si assapora, e possiede voci, sensazioni e memorie.
È la giovane Diamante che, al termine di un doloroso percorso di formazione, sa dare voce alle loro esperienze individuali, unendole in una personalissima catarsi, con un ritorno agognato ma sofferto, in una terra non sempre prodiga, mai facile, sempre amata.
Biografia di Mariantonia Crupi è nata ad Acquaro e vive a Pizzo di Calabria.
È stata docente di Lingua e Letteratura Francese presso l’Istituto Tecnico Commerciale di Pizzo e l’Istituto Alberghiero di Vibo Valentia. “I limoni e la malvarosa” è il suo romanzo di esordio.
SPAGNA-Fotoreportage -Parco Nazionale della Sierra de Guadarrama
Il Parco Nazionale della Sierra de Guadarrama è situato a nord di Madrid, capitale della Spagna.La catena montuosa del Guadarrama domina il parco. Forma il tratto principale orientale del Sistema Central – l’ammasso di catene montuose che attraversa il centro della penisola iberica. La catena montuosa del Guadarrama è salita due volte – la prima volta circa 380 milioni di anni fa, la seconda circa 80 milioni di anni fa. Dopo questa seconda spinta verso l’alto, la catena montuosa ha iniziato a erodere nuovamente, creando il sistema dei corsi d’acqua della montagna. Inoltre, l’episodio glaciale e interglaciale durante il Periodo Quaternario ha portato alla formazione dei ghiacciai nell’area e ai processi periglaciali. Sono questi eventi di erosione che forniscono l’attuale topografia della catena montuosa Guadarrama, come il massiccio Peñalara. Situata sulle pendici meridionali delle montagne Guadarrama, La Pedriza è una particolare caratteristica montuosa unica della penisola iberica – una collezione di rocce e dirupi dalla forma sorprendente.
Sette diverse specie di lucertola vivono nel parco – una di queste è la rara lucertola da muro di Guadarrama.
Poiché il parco non è lontano da Madrid, è fortemente frequentato da appassionati di escursioni tutto l’anno. La rete di sentieri, strade e servizi pubblici è ben sviluppata. E poiché l’area è rimasta in gran parte non colpita dalle attività umane, il parco è un rifugio eccezionale per la biodiversità. Si può sperimentare un gran numero di avvoltoi grifoni e la zona ospita almeno 100 coppie di avvoltoi grifoni da riproduzione. È anche la sede dello stambecco spagnolo.
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Fu insegnante di lettere e collaborò a diverse riviste, tra cui La Voce. Le sue prime poesie rivelavano un profondo interesse per problematiche morali, portandolo a una crisi spirituale. Ordinato sacerdote nel 1936, continuò a scrivere poesie che riflettono il suo costante colloquio con Dio. Fu anche traduttore di autori russi tra cui Tolstoj e Gogol’.
Intraprende nel 1903 gli studi di Medicina a Pavia, interrompendoli per seguire i corsi universitari di lettere presso l’Accademia Scientifico-letteraria di Milano (non ancora Università Statale). Nel ’10 si laurea con una tesi sul pensiero di Gian Domenico Romagnosi, relatore Gioacchino Volpe. Dopo la laurea inizia a insegnare in diversi istituti tecnici (prima a Milano, Treviglio, Novara, poi a Como e ancora a Milano) e collabora a «La Voce», alla «Rivista d’Italia», alla «Riviera Ligure», anche per l’amicizia con Giovanni Boine. Nel ’13 vengono pubblicati i Frammenti lirici per le Edizioni della Voce dirette da Giuseppe Prezzolini, con la dedica «ai primi dieci anni del secolo ventesimo». Nel ’14 conosce Lidia Natus, pianista russa, e vive con lei a Milano. Allo scoppio della Prima guerra è richiamato alle armi col grado di sottotenente del 159° reggimento fanteria; il 17 giugno sul Podgora subisce un forte trauma cranico a causa di un’esplosione; tra il ’16 e il ’19 passa da un ospedale militare all’altro finché, nel ’19, viene riformato. Riprende il suo lavoro d’insegnante in vari istituti privati, dirige la collezione “Maestri di Vita” per l’editore Pavia e tiene conferenze. Nel ’22 pubblica i Canti anonimi raccolti da C. Rebora nelle edizioni de Il Convegno di Milano, una poesia severa, percorsa da un’ansia di verità, di serietà, di fastidio per gli illusori miti contemporanei, espressa in un linguaggio dissonante, privo di concessioni e di abbandoni; una «poesia che non consola», dunque. Nel ’28 s’evidenzia la profonda crisi religiosa (in conflitto con l’educazione morale, mazziniana e laica, ricevuta in famiglia) che lo porta, nel ’31, a entrare come novizio all’Istituto della Carità al Monte Calvario di Domodossola. Nel ’36 è ordinato sacerdote. Negli anni seguenti esercita varie funzioni negli istituti rosminiani di Domodossola, Torino, Rovereto e Stresa, dove infine rimane. In questa nuova vita il silenzio della poesia è quasi totale fin quando non riprende con un’esplicita vocazione di celebrazione liturgica( Via crucis, 1955; Gesù il fedele, 1956) sentita con intensità e passione dolorosa o legata all’esperienza esistenziale attraversata, in Poesie religiose (1936-1947) e specialmente nei Canti dell’infermità (1947-1956), nati in anni in cui è via via ridotto dalla malattia a una progressiva e assoluta immobilità. Nell’estate del ’55 Rebora compone un Curriculum vitae, significativa e sommaria autobiografia, nella quale menziona anche la volontà di distruzione dei libri e dei manoscritti (poi impedita dal nipote , Roberto Rebora, che sottrae le carte allo strascée ). Nel 1985 escono Le poesie (1913-1957), a cura di Lucilio G. Mussini e Vanni Scheiwiller ,pp.585, Coedizione Garzanti-Scheiwiller, Milano.
Bibliografia:
Novati Laura, Giovanni e Vanni Scheiwiller editori. Catalogo storico 1925-1999, Milano, Unicopli, 2013, p.55-56
Mentre lavoro nei miei giorni scarsi,
Mi pare deva echeggiar imminente
Una gran voce chiamando: Clemente!
Per un’umana impresa ch’è da farsi…
E perché temo che risuoni quella
Quando dai miei fratelli io fossi assente,
Monto, senza sostar, di sentinella
Nel cuor disposto a servire la gente. (1926) 1
ELEVAZIONE SPIRITUALE
Come bello, Signor, nel tuo creato!
Ma sol nel cuore sei bellezza amante!
E doni amor onde chi ama è nato
a quella vita che in morir s’espande.
(8 ottobre 1955) 2
CURRICULUM VITAE
Per Te, con Te, in Te, Gesù, ch’io veda
il Padre: e coi fratelli: un cuore solo;
sii Tu, Spirito, l’ultimo respiro.3
POESIA E SANTITÀ
Mentre il creato ascende in Cristo al Padre,
nell’arcana sorte
tutto è doglia del parto:
quanto morir perché la vita nasca!
pur da una Madre sola, che è divina,
alla luce si vien felicemente:
vita che l’amor produce in pianto,
e, se anela, quaggiù è poesia;
ma santità soltanto compie il canto.4
1 C. Rebora, Le poesie, Garzanti, Milano 1994, p. 251.
2 Ibidem, p. 278.
3 Ibidem, p. 307.
4 Ibidem, p. 320.
RENDIMENTO DI GRAZIE
Io benedico il giorno che fui nato;
io benedico il prete e il sacro Fonte,
il giorno e l’ora che fui battezzato.
Io benedico quel casto mattino
quando, gravato già di nove lustri,
mi cibai di Gesù come bambino.
Io benedico il dì che nel mio Duomo
lo Spirito discese a fare tempio
della Sua gloria anche me, pover’uomo.
Benedico quell’invito giocondo
a lasciar tutto per amor di Cristo,
scegliendo l’Ognibene sopra il mondo.
Benedico l’Amore Crocifisso
quando mi elesse a ministrare il Sangue
che al Ciel ci salva dal mortale abisso.
Bene sia sempre a chi quaggiù la voce
del Signor a seguir mi fu d’aiuto,
l’universal carità della Croce.
Per tante grazie e patimenti tanti
l’Amante Trinità sia benedetta:
con Maria, e Giuseppe, e tutti i Santi.5
Sitivit anima mea ad Deum
fortem vivum (Ps. 41, 3)
Inaridita la terra,
protende la bocca:
implacabile il cielo di sopra.
Signore, scenda la pioggia,
che aiuti nei beni del tempo
ad ambir con fiducia gli eterni. –
Ecco cade, nel silenzio, una goccia:
qua, là, crepita l’acqua:
ora scroscia sonora,
su alberi in fiore, patiti,
e zolle in malati germogli:
5 Ibidem, p. 321.
ovunque giunge, s’intende: si estende
la fecondazione gioiosa.
In poco volgere d’ora
l’arido aspetto d’ogni cosa,
il grigio no della morte si sperde
nel sovrano sì della vita
fra trilli d’uccelli e fremiti e fruscii:
fresca appare la quiete del verde:
al Creatore amante tutto s’intona.
O Gesù, aver sete,
anelarti così!
O anima, alla grazia
del Suo amor che si dona,
così, anima, indiata, ringrazia.
(Aprile 1953) 6
Nello Spirito andiam del Precursore
Che prepara le vie del Signore,
E dice: non guardate chi sono io,
Ma guardate a Chi viene, al nostro Dio.
(24 giugno 1930) 7
J.M.J.
– Et iterum venturus est cum gloria…
La Fede, in Agostino, prende piede:
La Speranza, in Tommaso, prende corpo:
La Carità, in Rosmini, prende fuoco:
La Chiesa in essi ascende: e a poco a poco
La Verità – che è Cristo – aggiunge al Corpo
Mistico il cuore di ciascun che crede,
Vincendo il mondo col fraterno affetto,
Nel Sangue di Gesù. Poi sarà detto:
Sia or tutto in tutti Dio benedetto…
(Nel Mese di Maria [maggio], 1947)8
6 Ibidem, p. 418.
7 Ibidem, p. 440.
8 Ibidem, p. 456.
Di Gianluca Giorgio
Tra i poeti del Novecento letterario spicca la figura di Clemente Rebora. Il letterato dopo la conversione, avvenuta nel 1929, scelse di diventare sacerdote e membro dell’Istituto della Carità.
Il suo canzoniere, comprendente più raccolte poetiche, tratta della condizione umana con vibrante partecipazione e calore.
Vissuto sul finire del Mille ed Ottocento ed i primi del Novecento, fu tra i giovani che parteciparono alla Grande Guerra.
Quest’esperienza segnò la vita ed il percorso umano dell’autore nel suo cammino verso Dio. Contrario alla politica interventista, fu chiamato a offrire il proprio contributo, richiamato dalla leva militare.
Il suo ruolo lo spinse ad immolarsi per i suoi soldati ed a viverne le ansie e le tristezze della condizione di vita in trincea. Di questo periodo è la lirica Viatico nella quale fotografa, con immediatezza e penetrazione, il senso di quel dramma, caratterizzato dalla condizione di guerra.
Questa è contenuta fra le poesie sparse e le prose liriche, che raccolgono i contributi del poeta dal 1913 al 1927.
Già il titolo è emblematico indicando il conforto e le cose necessarie all’esistere che, con il dramma della Guerra, sembrano perdersi.
Il ritorno alla vita ed alla speranza nel domani, rappresentano quasi il senso sacro di un sacramento che fa da sfondo ai versi, per il futuro dell’umanità.
La lontananza dalla famiglia, la vita di trincea ed il pericolo che da un momento ad un altro si potesse perdere l’esistere, segnarono quell’esperienza nella vita di molti, come uno dei momenti più bui del secolo scorso.
La poesia, scritta dal poeta, ancora non sacerdote, richiamato alle armi, rievoca l’esperienza del campo di battaglia ed al tempo stesso del dolore che in esso si vive. La bellezza dell’esistere diventa sacra, se spesa per i fratelli e per quell’ideale che prese il cuore di Rebora, tanto ad immedesimarsi nel Cristo sofferente,vivendo il dolore della vita di tanti fratelli, dopo la maturata conversione religiosa.
Ecco la lirica:
O ferito laggiù nel valloncello tanto invocasti se tre compagni interi cadder per te che quasi più non eri.
Tra melma e sangue tronco senza gambe e il tuo lamento ancora,
pietà di noi rimasti a rantolarci e non ha fine l’ora, affretta l’agonia, tu puoi finire,
e conforto ti sia nella demenza che non sa impazzire, mentre sosta il momento il sonno sul cervello, lasciaci in silenzio
Leggendo l’itinerario poetico di Clemente Rebora (Milano1885-Stresa 1957) si resta ammirati dalla forza di volontà nel seguire Dio.
Nel corso dell’esistenza, il poeta ha sempre cercato nell’Assoluto la risposta ai molti interrogativi sulla propria vita. Vita nascosta ed alle volte incrinata sui binari della sofferenza e del dolore.
Da reduce della Prima Guerra mondiale, alla precarietà del lavoro di professore financo alla sofferenza fisica, il suo cammino non gli ha risparmiato nulla.
Ma accanto a tutto questo brilla chiaro, nel suo animo, il desidero profondo della rinascita e della consacrazione a Qualcuno di più grande ,che può esser solo Dio.
Religioso presso l’Istituto della Carità, nel quale spenderà il proprio quotidiano e sacerdote dal 1936, ha interpretato le parole del vangelo, come segno di speranza, per il mondo, sconvolto da due Guerre mondiali e tanta tristezza.
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Animo delicato e profondamente sensibile alle sofferenze altrui, il Padre celeste e gli ultimi furono il suo mondo, per il quale spese i propri giorni.
In occasione della solennità del Santo Natale, che celebra la nascita del Cristo nel grembo della Vergine Maria, il poeta compose una breve lirica, dedicata a tale evento così importante per la fede.
I versi sono del 1 dicembre 1955 ed appartengono alla raccolta dei Canti dell’infermità, composti tra l’ottobre 1955 ed il dicembre del 1956.
La poesia si intitola “Avvicinandosi il Natale”.
Si noti, nella lettura, il senso del divenire e la potenza di quel fuoco che disgela le coscienze, addormentate, dal trambusto del mondo, che nell’animo del sacerdote lascia il posto alla venuta del Santo di Betlemme, tanto amato e desiderato.
Oh Comunion vera e sol beata,
se con te, Cristo, sono crocifisso
quando nell’Ostia Santa m’inabisso!
Intollerabil vivere del mondo
a bene stare senza l’Ognibene!
Penitenza scansar, che penitenza!
Se ancor quaggiù mi vuoi, un giorno e un giorno,
con la tua Passion che vince il male,
Gesù Signore, dàmmi il tuo Natale
di fuoco interno nell’umano gelo,
tutta una pena in celestiale pace
che fa salva la gente e innamorata
del Cielo se nel cuore pur le parla.
O Croce o Croce o Croce tutta intera,
nel tuo abbraccio a trionfar di Circe,
solo sei buona e bella, e come vera!
Abbraccio della Madre, ove già vince
nel suo Figlio lo strazio che l’avvince.
Di Gianluca Giorgio
Padre Clemente Maria Rebora spirò al mondo il 1 novembre 1957. La sua esistenza di poeta trascorse, feconda ed attraversata da moltissime istanze, che lo portarono dall’ideale laico della bontà a quello divino della santità.
Proveniente da una buona famiglia di tradizioni mazziniane, fin da giovane, sente il richiamo della partecipazione e del farsi fratello fra i fratelli, frutto di un solidarismo laico.
Nel 1910 si laurea in Lettere, discutendo una tesi avente ad oggetto: “Gian Domenico Romagnosi ed il pensiero del Risorgimento”. Relatore è il professor Gioacchino Volpe.
Fu autore di diverse raccolte, tra cui i Frammenti lirici (1913) per le edizioni de la Voce di Giuseppe Prezzolini, i Canti anonimi (1922) ed infine i Canti dell’infermità (1956).
La poesia è stata sempre la sua realtà, nelle pieghe dell’esistere I suo versi sentono il richiamo alla poetica del Leopardi.
Parte degli studiosi sono concordi nel ritenere che i Frammenti lirici abbiano influenzato, anche, autori come Eugenio Montale, per i suoi Ossi di seppia (1925).
Fu professore di italianistica, in diversi Istituti ed amò il mondo dell’insegnamento, con la volontà di donarsi, ai ragazzi, per portarli al desiderio di un mondo migliore.
Ufficiale, durante la Prima guerra mondiale, una non nota “mania dell’eterno”, gli fu diagnosticata, come pensiero dominante, da un medico di Reggio Emilia, dopo aver riportato una ferita da obice, alla tempia, durante il conflitto.
In quei mesi di trincea, il poeta è ricordato per esser stato vicino ai soldati e dedito all’ascolto di ogni sofferenza.
Del periodo successivo è la traduzione di diverse opere della letteratura russa, tutt’ora, ripubblicate. Convertito al Cristo, dal 1929, ascese i sentieri della religione, per varcare quelli della gioia dell’incontro con il Padre.
La sensibilità maturata, tramite un percorso fra la ricerca personale e la cultura furono la base per scendere nel cuore dell’uomo e portarvi la felicità dell’incontro con quella fede, che trasfigura ogni cosa.
Chi conobbe padre Clemente Maria Rebora lo ricorda, dopo la sua entrata nell’Istituto della Carità, come un uomo nuovo, completamente, rinnovato dalla parola del vangelo.
Seguendo il beato Antonio Rosmini, nella nuova famiglia religiosa, scelse di vivere la Carità come anelito e la Provvidenza, come mezzo del suo essere.
“Dalla perfetta Regola ordinato-scrive nel Curriculum vitae– l’ossa slogate trovaron lor posto: scoprì l’intelligenza il primo dono: come luce per l’occhio operò il Verbo, quasi aria al respiro il Suo perdono”.
Fu un religioso devoto e pio: solo la bontà, sempre pronta alle esigenze di coloro che incontrava sul suo cammino.
Il sorriso e l’accoglienza erano il modo di porsi nell’incontro con l’altro.
Fu un autentico padre, donando quanto possedeva, ai tanti, che ne chiedevano l’intercessione o la carità. Si privava di tutto pur di assecondare le molte richieste.
Visse, con altissima partecipazione, la fede, leggendo nei segni del quotidiano, la mano di Dio che guida il cammino, alle volte, difficile dell’esistere.
Condivise un sacerdozio, esemplare e generosissimo, reso vivo dall’esser parte della Passione del Cristo e della Madonna addolorata, venerata nella spiritualità rosminina.
Seguì i giovani, amministrò i Sacramenti, predicò ritiri ed insegnò nelle scuole dell’Istituto della Carità, pur di far regnare il vangelo nella società.
Poche parole, dense di molta interiorità, filtrano dai suoi consigli spirituali, ai fedeli. La conversione gli fece abbandonare il mondo culturale, la musica e la poesia, seppur ripresa poco tempo prima di morire, con diverse liriche religiose, pur di trovare la verità della croce.
Fu un vero apostolo e con la parole e l’esempio, riportò molti cuori alla fede ed alla bontà.
Visse di Dio e per Dio lasciando la terra per il cielo, nella contemplazione dell’Assoluto, cercato ed amato nel corso dei propri giorni.
La vita
Clemente Rebora – il grande poeta innamoratosi di Cristo crocifisso – nasce a Milano, nel 1885, da una laicissima famiglia di origine genovese: il padre, che era stato con Garibaldi a Mentana, tiene il ragazzo lontano dall’esperienza religiosa e lo educa agli ideali mazziniani e progressisti, tanto in voga fra la borghesia ambrosiana del tempo.
Dopo il liceo, il giovane frequenta medicina per un anno a Pavia, ma non è questa la sua strada. Passa a Lettere: l’accademia scientifico letteraria di Milano – presso la quale si laurea – era un ambiente pieno di fervore creativo. Rebora incontra condiscepoli di grande ingegno, con i quali intrattiene appassionanti conversazioni.
Intraprende poi l’attività d’insegnante. La scuola è per lui luogo d’educazione integrale, per formare uomini pronti a cambiare la società; e proprio con articoli di argomento pedagogico comincia a collaborare a “La Voce”, la prestigiosa rivista fiorentina.
Come quaderno de “La Voce” esce nel 1913 la sua opera prima: i Frammenti lirici. Il successo è immediato.
Alla fine di quello stesso anno conosce Lidya Natus, un’artista ebrea russa: nasce fra loro un affetto che li lega fino al 1919.
Allo scoppio della prima guerra mondiale Rebora è sul fronte del Carso: sergente, poi ufficiale. Ferito alla tempia dallo scoppio di un granata, ne rimane segnato soprattutto a livello psicologico (i biografi parlano di «nevrosi da trauma»).
Nell’immediato dopoguerra torna all’insegnamento, optando per le scuole serali, frequentate da operai: da quel popolo semplice che egli, con slancio umanitario, ama.
Si autoimpone un regime di vita molto austero, devolvendo gran parte dello stipendio ai poveri e spesso ospitandoli in casa. Appare a molti come una specie di santo laico, ma in realtà, «l’ignorato Battesimo operando», egli è sempre più affascinato dalla religione. Lo si evince anche dai Canti anonimi: il suo secondo libro di poesia, del 1922.
Nella stessa direzione va la sua iniziativa editoriale: Isedici Libretti di vita attraverso cui divulga opere di mistica occidentale e orientale (e su tali argomenti è anche apprezzato conferenziere).
Sono questi, diversi segnali che preludono all’approdo: la conversione al cattolicesimo, nel 1929. Decisiva è per lui la figura dei cardinal Schuster, da cui riceve il sacramento della Cresima. Rebora adesso capisce che la via alla totalità passa attraverso la sequela di un carisma particolare: nel suo caso è quello rosminiano, con il «voto di annullamento» – perdersi per ritrovarsi -, con la mistica prospettiva di «patire e morire oscuramente scomparendo polverizzato nell’amore di Dio».
Nel Curriculum vitae il poeta, ormai anziano, ricorderà Rosmini come il maestro cui filialmente si era affidato, forma attraverso la quale la novità di Cristo aveva investito e cambiato la sua persona:
E fui dal ciel fidato a quel sapiente
che sommo genio s’annientò nel Cristo
onde Sua virtù tutto innovasse.
Dalla perfetta Regola ordinato,
l’ossa slogate trovaron lor posto:
scoprì l’intelligenza il primo dono:
come luce per l’occhio operò il Verbo,
quasi aria al respiro il Suo perdono.
La vita di Rebora può procedere ormai con passo sicuro: nel 1931 entra come novizio nell’Istituto rosminiano di Domodossola, nel ’33 emette la professione religiosa, nel ’36 è’ ordinato sacerdote. Per un ventennio don Clemente spende le proprie energie in mezzo a poveri, malati, prostitute. Colui che camminando tra le tante parole (magari poetiche) si era imbattuto nel Verbo che si è fatto carne, ora non ha più bisogno di scrivere: la parola fa spazio all’azione di carità. Solo negli ultimi anni di vita, malato nella carne, tornerà alla parola poetica: Curriculum vitae, autobiografia in versi, del 1955; Canti dell’infermità, del 1957, l’anno della morte di Rebora.
L’itinerario poetico
La palestra in cui il giovane Rebora affina il proprio stile poetico è la rivista “La Voce”: egli, assieme a Sbarbaro e Jahier, e a narratori quali Boine e Slataper («gente che – avverte Gianfranco Contini – era abbonata al Cahier de la quinzaine, che sentiva l’esigenza religiosa … »), pensa un’arte come testimonianza nuda, autentica, magari polemica, sempre carica di tensione morale ed esistenziale.
Tra questi autori che «testimoniano in versi il tormento profondo dell’uomo alienato ed esposto all’angoscia delle estreme domande esistenziali, Rebora è colui che più di tutti ha trasfuso in poesia esistenzialità e moralità, disperazione e speranza, rifiuto dell’esistente e ansia di assoluto, fino a costruire il più autentico monumento di poetica espressionistica della nostra letteratura primonovecentesca» (Elio Gioanola).
li suo stile espressionistico consiste nel deformare il segno linguistico, renderlo aggressivo, incandescente, non temendo di mescolare termini aulici e dialettali per ottenere accordi stridenti e disarmonici. «La carica di violenza deformante con cui egli aggredisce il linguaggio – scrive il Mengaldo – mima il caos peccaminoso della realtà rugosa». Gli fa eco il Gioanola: «La poesia di Rebora appare lacerata da un’inquietudine profonda, dal senso di un’inadeguatezza radicale rispetto al mondo com’è e agli uomini come mostrano di vivere. Egli ha intuito la sproporzione tra il comune operare umano e l’ansia delle domande sul senso dell’essere e dell’esistere».
A Mario Apollonio che si chiede se non sia tutta religiosa la poesia di Rebora (anche quella che precede la conversione), si può decisamente rispondere in maniera affermativa: nei frammenti lirici e ancor più nei Canti anonimi il senso religioso si esprime proprio come “sproporzione” che evolve in “domanda” di totalità, mentre gli attimi che scorrono sono come una morsa funerea che aggredisce brandelli di gioia. Nitidamente il poeta lo ricorderà nel Curriculum vitae:
un lutto orlava ogni mio gioire:
l’infinito anelando, udivo intorno
nel traffico e nel chiasso, un dire furbo:
Quando c’è la salute c’è tutto,
e intendevan le guance paffute,
nel girotondo di questo mondo.
Al cuore, strutturalmente fatto per l’infinito, non basta il buon senso, la salute – epidermico colorito sulle guance -; gli è piuttosto necessario il Senso ultimo, la Salvezza.
Al giovane Rebora proprio questo mancava: «ammiccando l’enigma del finito sgranavo gli occhi a ogni guizzo; fuori scapigliato come uno :scugnizzo, dentro gemevo, senza Cristo».
Questo gemito, questa grande tristezza è il carattere fondamentale della vita consapevole di sé, che è – come diceva san Tommaso «desiderio di un bene assente». Quel bene, quell’unico oggetto veramente cercato, sfugge all’umana capacità di «presa». Un individuo è allora tentato di aggrapparsi agli idoli, che però dapprima si offrono a un possesso precario, poi scivolano via – beffardi – tra le dita. La creatura resta sola con il suo “grido”, con «una segreta domanda».
E’ il tema della splendida lirica Sacchi a terra per gli occhi:
Qualunque cosa tu dica o faccia
c’è un grido dentro:
non è per questo, non è per questo!
E così tutto rimanda
a una segreta domanda…
Nell’imminenza di Dio
la vita fa man bassa
sulle riserve caduche,
mentre ciascuno si afferra
a un suo bene che gli grida: addio!
La ragione è esigenza di spiegazione adeguata e totale dell’esistenza. La risposta c’è: l’intima domanda che urge nel cuore ne è la prova; c’è, ma dimora al di là dell’orizzonte da noi misurabile. La ragione al suo vertice si sporge sul «mistero».
E’ ladinamica de Il pioppodi Rebora (come già de Il libro di Pascoli, dal quale il poeta rnilanese riprende la tripletta di rime: «pensiero-mistero-vero”):
Vibra nel vento con tutte le sue foglie
il pioppo severo;
spasima l’aria in tutte le sue doglie
nell’ansia del pensiero:
dal tronco in rami per fronde si esprime
tutte al ciel tese con raccolte cime:
fermo rimane il tronco del mistero,
e il tronco s’inabissa ov’è più vero.
Tutto il reale è segno che rimanda ad altro, oltre sé, più in là; tutto è “analogia” che chiede di “tendere a”, ovvero di “ad-tendere”. Se l’allodola era, in Claudel come in Pascoli, aereo simbolo dell’uomo che ha riconosciuto Dio e spende la vita per lodarlo, nel giovane Rebora è invece l’emblema del poeta: teso al cielo per il quale è fatto, ma legato alla terra, egli canta l’elegia dello schiavo consapevole, inchiodato alla missione di richiamare i fratelli (apparentemente) liberi a prender coscienza della propria condizione. Ogni slancio verso il cielo della felicità pare destinato a ricadere dolorosamente al suolo:
O allodola, a un tenue filoavvinta,
schiavo richiamo delle libere in volo,
come in un trillo fai per incielarti
strappata al suolo agiti invano l’ali.
Egli resta “spatriato quaggiù, Lassù escluso».
Eloquente questa confessione, nell’ultimo dei Frammenti lirici:
Il mio canto è un sentimento
che dal giorno affaticato
le ore notturne stanca:
e domandava la vita.
Questa «domanda di vita» attraversa da un capo all’altro l’opera prima: frammenti gremiti di una domanda di totalità.
In Dall’intensa nuvolaglia il poeta proietta in un evento esterno – il ternporale – l’incombenza minacciosa che intimamente lo pervade. Coscienza del male e domanda di Bene: in 0 pioggia dei cieli distrutti «un’ansia continua di superamento, una richiesta di assoluto muove anche dai più comuni spettacoli, come quello della pioggia» (G. Bàrberi Squarotti). In 0 carro vuoto sul binario morto il dato realistico viene «trasformato in inquietante simbolo di un condizionamento senza scampo – il binario che costringe ad una rotta vincolata – e di ansia per il libero spazio»: è il contrasto esistenziale «tra prigionia dell’hic et nunc e volontà di assoluto» (E. Gioanola).
Nel secondo libro di Rebora, i Canti anonimi, «si accentua la sua tendenza – come dice ancora l’ottimo Gioanola – a scomparire come io per farsi voce, anonima appunto, di una situazione comune, quella della pena nella città moderna sempre più priva di umanità, e dell’ansia amorosa per qualcosa di diverso e più alto».
Dall’immagine tesa
vigilo l’istante
con imminenza di attesa –
e non aspetto nessuno:
nell’ombra accesa
spio il campanello
che impercettibile spande
un polline di suono –
e non aspetto nessuno:
fra quattro mura
stupefatte di spazio
più che un deserto
non aspetto nessuno:
ma deve venire;
verrà, se resisto,
a sbocciare non visto,
verrà d’improvviso,
quando meno l’avverto:
verrà quasi perdono
di quanto fa morire,
verrà a farmi certo
del suo e mio tesoro,
verrà come ristoro
delle mie e sue pene,
verrà, forse già viene
il suo bisbiglio.
Universalmente riconosciuta come il capolavoro di Rebora, Dall’immagine tesasta sulla soglia della conversione: scritta nel 1920 e posta in chiusura dei Canti anonimi, questa lirica sigilla la produzione “laica” del Nostro. Poesia dell’attesa, o meglio dell”‘Atteso”, è reputata da Margherita Marchione «la lirica italiana più religiosa e vibrante del nostro tempo»; e Stefano Jacomuzzi la definisce «uno dei più alti canti religiosi dell’arte contemporanea».
Strutturalmente è divisa in due parti di tredici versi ciascuna. Nella prima, costruita su una fitta serie di affermazioni e negazioni, il corpo è teso a vigilare l’istante, all’erta come sentinella (o come le vergini prudenti: imminente è l’arrivo dello Sposo). «Nell’ornbra accesa» (ardito ossimoro), nel buio dell’incertezza in cui scintilla l’attesa, il poeta spia quel silenzio gremito d’impercettibili suoni, profumati e leggeri come polline (splendida la sinestesia: «polline di suono»!). Lo spazio, nell’immobilità sospesa e colma di stupore, pare dilatarsi all’infinito. In esso il poeta, che tre volte ribadisce «non aspetto nessuno», pre-sente di essere sull’orlo di una rivelazione. L’«immagine tesa» dell’incipit – spiegherà Rebora ormai vecchio – è «la mia persona stessa assunta nell’espressione del mio viso proteso non solo verso un annunzio a lungo sospirato, ma forse (confusamente) verso il Dulcis Hospes animae».
La seconda parte della lirica, aperta dall’avversativa «Ma», afferma perentoriamente che l’Ospite atteso «verrà» (sei volte ricorre l’anafora). Fragile è la mia capacità di vigilanza, sempre minacciata dalla distrazione – dice il poeta – ma, «se resisto» nell’attesa, non potrò non assistere al Suo impercettibile «sbocciare» (dunque era Lui – l’Ospite – a spandere «un polline di suono»). La Sua venuta sarà un avvenimento «improvviso», imprevisto (qui come già in Péguy); e porterà il “per-dono”, il grande dono della vittoria sul peccato e sulla morte (qui la concezione è già pienamente cristiana, sebbene la conversione accadrà solo nove anni dopo). Verrà come certezza che c’è un «tesoro», per acquistare il quale vale la pena vendere tutto; dolori e pene permarranno, ma abbracciati da un «ristoro» umanamente impensabile. «Verrà, forse già viene»: «La Presenza è alle soglie e chiede un totale tremante silenzio perché possa essere udito il suo discreto “bisbiglio”» (Jacomuzzi). Testirnoniando la propria fede a Eugenio Montale, Rebora – negli ultimi anni di vita – tornerà su quel bisbiglio: «La voce di Dio è sottile, quasi inavvertibile, è appena un ronzio. Se ci si abitua, si riesce a sentirla dappertutto».
Curriculum vitae
In quest’opera il poeta, ormai vecchio e malato, ripercorre la propria vicenda esistenziale, a partire dagli anni della giovinezza, quando «sola, raminga e povera /un’anima vagava». Ogni “idolo” illudeva e puntualmente deludeva. «Immaginando m’esaltavo in fama /di musico e poeta e grande saggio: /e quale scoramento seguitava!». La cultura cresceva in quantità, non in profondità: «Saggezza da ogni stirpe affastellavo /a eluder la sapienza». Un’esistenza mondana era «civil asfissia». Finché si piegò alla Grazia.
Come nella mistica classica, l’incontro con l’Agnus Dei accade al culmine di una lunga salita, dopo aver attraversato la notte oscura dello smarrimento, quando egli si era visto schiacciato da nebbia e caligine, quando aveva provato terrore, disperazione e angoscia. A salvarlo dallo smarrimento era stato dapprima un richiamo, un indizio: un fievole belato. Poi tutto si fa chiaro, e la strada è finalmente in discesa: gli è dato di baciare la tenerezza di Dio, di sostare nella «dimora buona», di camminare lieto, «ri-cordando» – portando nel cuore – Colui che è venuto attraverso Maria.
Alla critica laicista non è piaciuto questo Rebora novissimo, questa poesia che si fa inno, officiatura, parola paraliturgica. Giovanni Getto trova inveceche proprio adesso questa lirica «si insapora d’un gusto pungente»: il senso e il gusto riconosciuto in «Gesù il Fedele, /il solo punto fermo nel moto dei tempi». Centro del cosmo e della storia.
Da Roberto Filippetti _ IL PER-CORSO E I PERCORSI – Schede di revisione di letteratura italiana ed europea volume terzo “Da metà Ottocento al 2000” – Ed. ITACA
L’Olio di Oliva nella Mitologia-Un mito greco attribuisce ad Atena la creazione del primo Olivo che sorse nell’Acropoli a protezione della città di Atene.
La leggenda racconta che Poseidone ed Atena, disputandosi la sovranità dell’Attica, si sfidarono a chi avesse offerto il più bel dono al Popolo. Poseidone, colpendo con il suo tridente il suolo, fece sorgere il cavallo più potente e rapido, in grado di vincere tutte le battaglie ; Atena, colpendo la roccia con la sua lancia , fece nascere dalla terra il primo albero di Olivo per illuminare la notte, per medicare le ferite e per offrire nutrimento alla popolazione.
Zeus scelse l’invenzione più pacifica ed Atena divenne Dea di Atene. Un figlio di Poseidone cercò di sradicare l’albero creato da Atena, ma non vi riuscì, anzi si ferì nel commettere il gesto sacrilego e morì. Al British Museum di Londra si può ammirare una scultura del frontone occidentale del Partenone, dove l’artista Fidia ha rappresentato questo episodio mitologico. Secondo una leggenda riferita da Plinio e da Cicerone, sembrerebbe che sia stato Aristeno lo scopritore dell’Olivo e l’inventore del modo di estrarre l’olio all’Epoca fenicia. Lo stesso Plinio, invece, su altri suoi scritti, parlando dell’Italia, racconta che l’Olivo fu introdotto da Tarquinio Prisco quinto Re di Roma, questa ipotesi è la più verosimile visto che le più antiche tracce archeologiche finora raccolte sull’olivicoltura in Etruria risalirebbero al VII sec. a.C., descrivendo ben 15 metodi di coltivazione di questa pianta, che, ai suoi tempi, rappresentava già la base di importanti attività economiche e commerciali. L’olivicoltura era molto diffusa al tempo di Omero; l’Iliade e l’Odissea narrano spesso dell’Olivo e del suo Olio. A Roma l’Olivo era dedicato a Minerva e a Giove. I Romani, pur nella loro praticità di considerare l’Olio d’Oliva come merce da esigere dai vinti, da commerciare, da consumare, mutuarono dai Greci alcuni aspetti simbolici dell’olivo. Onoravano i Cittadini illustri con corone di fronde di Olivo; così pure gli sposi il giorno delle nozze e della loro prima notte nunziale; ed infine i morti venivano inghirlandati per significare di essere dei vincitori nelle lotte della vita umana. Nell’area islamica molte leggende fanno riferimento all’Olivo e al suo prodotto; tra le tante storie si vuole ricordare quella di Alì Babà ed i suoi 40 ladroni nascosti negli otri che dovevano contenere Olio di Oliva.
Il quadro allegato rappresenta Dispute de Minerve et de Neptune, (1748)-Louvre,Parigi- “… e Atena ottenne di governare sull’Attica, poiché aveva fatto a quella terra il dono migliore, quello dell’ulivo……”
Trevignano Romano è uno dei tre borghi che sorgono sulle sponde del Lago di Bracciano (gli altri due sono per l’appunto Bracciano, che da il nome al lago, e Anguillara Sabazia). La particolarità si Trevignano, rispetto agli altri borghi che si sviluppano anche in altezza, è quella di avere un centro storico quasi interamente al livello del lago, molto comodo se si vuole unire una passeggiata tra i vicoli ad una sul lago senza dover ricorrere alla macchina e senza doversi inerpicare per salite infinite che, sopra tutto con un passeggino al seguito, non sono propriamente comode.Le foto sono state scattate :”Lungo il lago di Trevignano in un luminoso giorno della scorsa primavera ….”
Trevignano Romano
Antico borgo medievale sulle rive del lago di Bracciano-
Trevignano Romano ti aspetta con la sua Natura e la bellezza selvaggia dei sui dintorni, parti da qui per scoprire tutto-Alla scoperta di un borgo medievale sulle sponde del lago, tra cultura, religione e turismo… a Trevignano Romano
DOVE SI TROVA-a due passi dal lago e dalla Capitale
Il centro storico di Trevignano Romano è un piccolo borgo di epoca medievale ad appena 30 min da Roma. Il fascino di questo piccolo centro che si affaccia sul lago, al centro del moderno abitato, ti avvolgerà facendoti sentire in un ambiente familiare e sorprendente.
VIENI A CONOSCERE IL CENTRO STORICO DI TREVIGNANO ROMANO
Passeggia con noi tra i vicoli e ammira gli scorci sul lago
Vieni a conoscere con noi il centro storico, iniziamo da Piazza Vittorio Emanuele III. Nella piazza centrale del paese, catturerà la tua attenzione l’elegante palazzo comunale costruito in epoca rinascimentale, nella facciata trovi lo stemma comunale composto dalle tre vigne, simbolo di uno dei prodotti locali del nostro territorio, le bande araldiche rosse e bianche appartenenti alla famiglia Orsini, antica famiglia romana che possedeva questo territorio ed infine le onde di un lago azzurro sfumato simbolo univoco della nostra cittadina. Ora inizia la passeggiata varcando l’antica porta dell’orologio, porta principale del borgo sovrastata da un antico orologio del XVIII sec., ed entrerai in un mondo nuovo fatto di colori, profumi e sensazioni uniche. Passeggiando lungo la via principale Umberto I, scoprirai come la strada principale si intreccia con le numerose vie e viuzze che ricordano i luoghi simbolo di Trevignano Romano; ad esempio la prima via sulla sinistra prende il nome di Via del castello.
VIA DEL CASTELLO
Alla scoperta delle antiche strade del centro storico di Trevignano Romano
Percorrendo via del castello scoprirai scorci di vita quotidiana e piccoli balconi che guardano direttamente alla piazza principale offrendoti un panorama inedito. Continuando a salire lungo la tortuosa via arriverai appena dietro la chiesa dell’Assunta all’inizio del percorso per raggiungere le antiche rovine del castello, e tanto sarà lo stupore quando capirai di essere al centro della storia.
LUNGO LA VIA CENTRALE
Continua su Via Umberto I e scopri gli antichi mestieri
Continuando sulla via centrale del borgo, sarai meravigliato dai mille colori che arredano le piccole e strette viuzze che scendono verso il lago o salgono verso il monte. A pochi metri dalla porta dell’orologio, sul lato sinistro, incontrerai due botteghe storiche, la prima di uno scultore e la seconda di un rigattiere. Fuori dalla prima bottega il sig. Mariano sarà felice di illustrarti le suo opere di stile moderno ma che tanto ricordano la storia e le tradizioni del nostro paese. Subito dopo, dal sig. Sauro potrai imparare i mille segreti dei pianoforti e di alcuni strumenti antichi indispensabili nei tempi passati. Continua poi lungo la via centrale per raggiungere una piccola piazzetta da cui puoi raggiungere la Chiesa dell’Assunta.
Scopri gli illustri personaggi di Trevignano
Continuando lungo via Umberto I, scoprirai che il tempo in questo piccolo borgo si è fermato all’epoca medievale, dove i portoni d’entrata delle case venivano costruiti rialzati per evitare che la polvere, il fango e la pioggia entrassero nelle case e anche per evitare che le ruote dei carri potessero provocare spiacevoli incidenti; mentre le botteghe avevano l’entrata direttamente a terra per poter meglio ospitare le derrate alimentari e il pescato.
Tommaso Silvestri, il primo educatore italiano dei sordumuti
Continua fino a piazza Tommaso Silvestri.
Proprio in questa piazzetta devi immaginare il nostro illustre compaesano, l’abate Tommaso Silvestri, mentre accoglieva le suppliche dei fedeli che bisognosi di aiuto potevano contare su di lui. Tommaso Silvestri è stato il primo educatore italiano dei sordomuti nato e morto nei palazzi del centro storico di Trevignano. Tommaso Silvestri, abate del nostro piccolo borgo, nacque a Trevignano agli inizi del 1700, ultimo di sette figli fin da bambino sentì la vocazione per la fede. Dopo un apprendistato tra Roma e la provincia, aiutato da un suo amico francese si trasferisce a Parigi per studiare il metodo fonetico, nuovo metodo per aiutare i sordomuti ad interagire con il mondo. Una volta imparato il metodo, tornò a Roma dove proprio il Papa Pio VI gli chiese di aprire una scuola per sordomuti, scuola che ancora oggi esiste. Intorno al 1789, affetto da una grave malattia, tornò a Trevignano per passare gli ultimi mesi della sua vita. Dalla piazzetta scendendo verso il vicolo con l’arco di Truman potrai uscire di fianco al palazzo dove per anni ha vissuto la famiglia di Tommaso Silvestri e dove l’abate ha vissuto gli ultimi giorni della sua vita.
Il nostro borgo, luogo amato dagli stranieri
L’arco di Truman…ma chi è Truman? Truman era un signore americano che negli ultimi anni della sua vita decise di vivere a Trevignano divenendo famoso per i tanti aneddoti che gli piaceva raccontare. Scomparso a 109 anni, il suo spirito continua ad aleggiare nel piccolo borgo, come dimostra la sua sedia rimasta lì dove l’ha lasciata, accanto alla finestrella della bottega dove poteva godere del fresco dell’aria gelida che dagli antichi cunicoli medievali del castello arriva fino in strada…metti la mano nella finestra attraverso la grata, e in alcuni giorni potrai goderne anche tu!
Tanti sono gli abitanti stranieri che amano vivere nel piccolo centro storico, tanti da creare una piccola comunità! Ad esempio proseguendo poco più avanti sulla destra troverai lo studio di un noto pittore francese che compone ed espone opere in tutto il mondo!
LA SALITA VERSO LA CHIESA
Dalla piazzetta centrale del borgo sali verso la chiesa e le rovine del castello
Dalla piazzetta al centro del borgo sali sulla sinistra su Via della parrocchia e potrai arrivare al cortile della chiesa dell’Assunta e all’inizio del percorso per andare sulla Rocca di Trevignano.
La chiesa si staglia davanti a te imponente e maestosa. Al centro della facciata è la porta d’entrata che permette di immergersi in un mondo nuovo, spirituale. La chiesa venne eretta agli inizi del 1500 su un preesistente edificio. Venne eretta a seguito della battaglia di Papa Alessandro VI Borgia che decise di conquistare i territori degli Orsini. Trevignano e la sua popolazione cercarono di contrastare l’imponente esercito ma purtroppo il borgo venne completamente distrutto e il castello messo a ferro e fuoco. Quando gli Orsini tornarono in possesso dei territori decisero di omaggiare la fedele comunità con la costruzione della chiesa.
Entrando dal piccolo portone ti troverai in un ambiente semplice, aulico e la tua attenzione verrà rapita dal grande affresco dell’abside.
RAFFAELLO A TREVIGNANO
L’arte del maestro dalla mano dell’allievo
Di grandi dimensioni, l’affresco venne dipinto da un allievo di Raffaello…Pellegrino da Modena.
Ti colpirà subito l’immagine crudele di un personaggio con le mani tagliate vicino alla vergine. La storia rappresentata è l’antica leggenda aurea che ricorda come due sacerdoti ebrei cercarono di prendere il corpo della Vergine, ma vennero fermati da un angelo che gli tagliò le mani. In alto è dipinta l’incoronazione della Vergine mentre sui lati due profeti tramandano l’accaduto. Interessante è il disegno dell’antico castello dipinto sul lato sinistro appena sopra l’ebreo in fuga.
Le altre opere
Nelle cappelle di sinistra ti segnalo un affresco appena restaurato che rappresenta la Vergine col bambino e donatore accompagnato da due santi. Il donatore potrebbe essere un esponente della famiglia Orsini.
Nella cappella successiva un trittico bizantino forse proveniente da Roma e rappresentante il Cristo in trono con la vergine e San Giovanni Battista. il trittico è composto da tre tavole decorate finemante con colori pregiati su sfondo dorato.
il alto allentrata è l’organo del 1700 da poco restaurato, mentre vicino al portone d’uscita puo nammirare un tabernacolo marmoreo di epoca rinascimentale con al centro la figura di cristo trionfante. nel lato opposto del poertone è, invece, il quadro della Vergine che viene portato in processione il 15 di Agosto, festività molto sentita in paese.
UN PANORAMA MOZZAFIATO
Saliamo sulla Rocca di Trevignano Romano
Uscendo dalla chiesa, alla fine della piazzetta, appena a sinistra segui il percorso che sale verso la rocca. La lunga e comoda passeggiata vi farà raggiungere in pochi minuti le rovine del castello. salendo lungo il percorso ammirate lo splendido panorama che il lago ti offre, sembrerà come poter volare sulle acque cristalline del lago. Ad ogni gradino potrai apprezzare il lago con colori diversi, ottimi per i vostri selfie.
Arriavndo nel castello sarai sorpreso ed emozianato sapendo che in quelle stesse stanze un tempo vivevano i nostri avi.
Rra uno scorcio e laltro potrai scendere seguendo il medesimo percorso dell’andata.
Non ti resta che venire a trovarci, Ti Aspettiamo!!!
ROMA Municipio XIII-La VILLA ROMANA delle COLONNACCE
– Fotoreportage di Franco Leggeri
Roma- Municipio XIII-Castel di Guido- Fotoreportage di Franco Leggeri –I visitatori che in questi giorni , a seguito delle varie manifestazioni organizzate dalla LIPU, sono stati ospiti del GAR a Villa Romana delle Colonnacce e qui guidati dal mitico Archeologo Luca nel tour tra gli scavi archeologici. Durante la visita alla Villa Romana molti ospiti sono stati incuriositi dalla presenza di alcuni alberi , muniti di cartello con la relativa descrizione di Plinio, che si trovano nell’angolo in fondo all’area archeologica sono alcuni esemplari di : CIPRESSO,LECCIO,FRASSINO e NOCCIOLO.
Questi alberi sono qui a testimoniare che, tra fine dell’età repubblicana e primi decenni dell’epoca imperiale, come si può anche leggere nelle Opere di Plinio il Vecchio, Plinio il Giovane, Catone e Columella , il giardinaggio non è più considerato una occupazione produttiva, ma anche attività svolta per piacere e diletto. Celebre il brano di Plinio il Vecchio: “I decoratori di giardini distinguono, nell’ambito del mirto coltivato, quello tarantino a foglia piccola, il nostrano a foglia larga, l’esastico a fogliame densissimo, con le foglie disposte a file di sei” ed ancora: “Esistono anche dei platani nani, che sono costretti artificialmente a rimanere di piccola altezza”.
ROMA – Municipio XIII-Castel Di Guido – Villa Romana delle Colonnacce
Fotoreportage di Franco Leggeri -Anno 2005-
Castel di Guido- La Villa Romana è del II-III secolo d.C. è sita su di un pianoro all’interno dell’Azienda agricola comunale.La Villa ha strutture di epoca repubblicana che sono le più antiche e di epoca imperiale. La villa ha una zona produttiva di e la parte residenziale di epoca imperiale. La parte produttiva comprende l’aia o cortile coperto: il grande ambiente conserva le basi di tre sostegni per il tetto, mentre è stato asportato il pavimento, al centro si trova un pozzo circolare. Vi è una cisterna per la conservazione dell’acqua meteorica, all’interno della cisterna si trovano le basi dei pilastri che sorreggevano il soffitto a volta. A giudicare dallo spessore dei muri e dei contrafforti si può desumere che avesse un altezza di circa 5 metri. Nell’ambiente di lavoro si trovano un pozzo e la relativa condotta sotterranea. Torcular : sono due ambienti che ospitavano un impianto per la lavorazione del vino e dell’olio. Vi era un torchio collegato alle vasche di raccolta, mentre in un ambiente più basso vi era l’alloggiamento dei contrappesi del torchio medesimo ed una cucina con contenitori in terracotta di grandi dimensioni (dolii). La parte residenziale ha un atrio, cuore più antico dell’abitazione romana, in cui si conservava l’altare dei Lari, divinità protettrici della casa. Al centro vi è una vasca ( compluvio) in marmo in cui si raccoglieva l’acqua piovana che cadeva da un foro rettangolare sito nel tetto (impluvio). Sale da pranzo, forse triclinari , ampie e dotate di ricchi pavimenti e di belle decorazioni affrescate sulle pareti. Cubicoli, stanze da letto . Vi erano dei corridoi che consentivano il transito della servitù alle spalle delle grandi sale da pranzo senza disturbare i commensali o il riposo dei proprietari. Il Peristilio o giardino porticato: era l’ambiente più amato della casa, di solito con giardino centrale ed una fontana. Dodici colonne sostenevano il tetto del porticato, che spioveva verso la zona centrale. I volontari del GAR –Zona Aurelio , scavano con perizia e recuperano frammenti, “i cocci”, li puliscono,catalogano e , quindi, li trasportano nella sede di via Baldo degli Ubaldi dove vengono restaurati e conservati . Nel 1976 la Soprintendenza Archeologica di Roma recuperò preziosi mosaici e pregevoli pitture che sono ora esposti al pubblico nella sede del museo Nazionale Romano di Palazzo Massimo. Se la Villa è visitabile e ben conservata lo si deve all’ottimo lavoro dell’Archeologo Dott.ssa Daniela Rossi che la si può definire “Ambasciatore e protettrice del Borgo romano di Lorium “. Ricordiamo il recente, superbo, lavoro della Dott.ssa Daniela Rossi nel quartiere Massimina sulla via Aurelia. La descrizione della Villa delle Colonnacce sono tratte da un saggio-lezione che la Dott.ssa Daniela.Rossi ha tenuto nella sala grande del Castello nel borgo di Castel di Guido il 18/04/09 .
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