Roma-Va in scena mercoledì 30 ottobre 2024 ore 21 in Sala Petrassi dell’Auditorium Parco della Musica, “La malattia dell’ostrica“, un monologo di e con Claudio Morici
“Lo spirito creativo dell’artista (…) può essere metaforicamente rappresentato come la perla che nasce dalla malattia dell’ostrica: come non si pensa alla malattia dell’ostrica ammirandone la perla, così di fronte alla forza vitale dell’opera non pensiamo alla schizofrenia che forse era la condizione della sua nascita.” Karl Jaspers
Dopo aver studiato decine di biografie per un programma tv sui libri, Claudio Morici ha avuto un’illuminazione: gli scrittori sono tutti matti. Hanno subito guerre mondiali, miseria, traumi infantili, come minimo un paio di tragici amori non corrisposti. È gente che sta malissimo, parliamoci chiaro. Il problema è che Claudio, scrittore anche lui, ha un figlio di quattro anni che manifesta già velleità autoriali. Che fare? Come comportarsi? Da padre non ha dubbi: vietare l’utilizzo della penna! Censurare la poesia! Ma soprattutto contrastare un sistema educativo che obbliga milioni di bambini a studiare la visione della vita di persone che… se la sono tolta! Si parla di Cesare Pavese imbottito di sedativi in una stanzetta d’albergo. Di Emilio Salgari che si è sventrato con un rasoio. Giovanni Pascoli è morto di cirrosi epatica, quanti lo sanno? Perché ci concentriamo sulla bellezza della perla e nascondiamo ai nostri figli (e spesso a noi stessi) la malattia dell’ostrica che sempre la produce? Attraverso incursioni nella vita dei grandi e delle grandi della letteratura, Claudio troverà un modo per accompagnare suo figlio nella tempestosa età adolescenziale. Ma soprattutto compirà un viaggio a ritroso nella propria “età a rischio”, riportando alla memoria come i libri lo abbiano curato. Perché gli scrittori ci salvano la vita.
“La malattia dell’ostrica” di Claudio Morici è anche un libro in libreria dal 18 ottobre e un Podcast coprodotto da Fandango Podcast e Teatro Metastasio di Prato. A differenza dello spettacolo e del libro, il podcast non possiede la linea del racconto di bio-fiction. Ma approfondisce, in 10 puntate, la vita di 10 scrittrici o scrittori “matti”, con relativa intervista a uno psicoterapeuta esperto del loro disturbo psichiatrico.
Biografia di Claudio Morici è laureato in psicologia, oltre ad essere scrittore, attore teatrale e videomaker. Ha pubblicato 6 romanzi tra cui “La terra vista dalla Luna” (Bompiani, 2009), “L’uomo d’argento” (E/O, 2012), “La malattia dell’ostrica” (Fandango, 2024). Come autore e performer ha riempito teatri off romani e girato per tutta Italia. Il suo ultimo spettacolo “La Malattia dell’Ostrica” è prodotto dal Teatro Metastasio di Prato ed è diventato recentemente sia un podcast che un libro. Pochi giorni prima del lockdown era in finale a Italia’s Got Talent, con un pezzo comico in cui recensiva l’elenco telefonico di Roma del 2012. Dal 2020 ha cominciato a girare brevi video satirici, ospitati spesso da Propaganda Live, Internazionale.it, RaiNews, repubblica.it e dall’Unione Buddhisti Italiani. Cura una rubrica video dentro PlayBooks, il programma sui libri di Rai Play
Produzione Lo spettacolo è prodotto dal teatro Metastasio di Prato
Mercoledì 30 ottobre 2024
SALA PETRASSI ORE 21
AUDITORIUM PARCO DELLA MUSICA ENNIO MORRICONE
Biglietti da 20 euro
Scritto con Jan Brachmann-Traduzione di Nicola Cattò
Zecchini Editore
Descrizione del libro del grande David Geringas-Spesso le autobiografie di grandi artisti si riassumono in una serie di dati, persone e luoghi di relativa importanza per il lettore: del tutto diverso è quanto si legge nelle “Memorie di un violoncellista” (questo il sottotitolo del volume scritto con Jan Brachmann) del grande David Geringas, l’allievo prediletto di Rostropovič, vincitore del Premio Čajkovskij nel 1970. La sua vita è anche il riflesso della storia, anzi della Grande Storia, fra l’infanzia in Lituania, gli studi nelle Mosca sovietica, l’emigrazione in Germania (con una lunga parentesi verso l’Italia, paese da Geringas amatissimo) e la lunga carriera di violoncellista e insegnante, in un continuo scambio con tutti i compositori più importanti del secondo ’900, che hanno scritto per lui. Nella vita di David Geringas, insomma, c’è la storia musicale e culturale degli ultimi 70 anni: e non è poco.
Richiedete il libro nei migliori negozi o a questo link:
Traduzione di Roberta Scarabelli- Neri Pozza Editore
Un bar nella Vienna degli anni Sessanta: i suoi avventori e le loro storie di vita, speranze, amori e illusioni.
Sinossi del libro di Robert Seethaler-Nell’estate del 1966 Robert Simon ha poco piú di trent’anni e un sogno: aprire un bar. Cresciuto in un istituto per orfani di guerra gestito dalle suore della Carità, per qualche tempo ha lavorato come aiuto cameriere e garzone nei locali all’aperto del Prater, e forse è stato proprio lí – mentre girava fra i tavoli alla luce delle lanterne colorate, alla ricerca di bicchieri vuoti e mozziconi di sigaretta – che si è acceso in lui il desiderio di stare, un giorno, dietro il bancone della propria osteria. Quando il bar all’angolo del mercato chiude i battenti, Robert capisce che la sua occasione è arrivata. Il locale, cupo e fatiscente, si trova in uno dei quartieri piú poveri e sporchi di Vienna, ma da qualche tempo spira un vento nuovo e l’aria è pervasa da uno strano fermento: sui giornali con cui i pescivendoli avvolgono i salmerini e le trote del Danubio si legge di grandi cose a venire, di un futuro radioso pronto a sorgere dal pantano del passato. Infiammato da questi cambiamenti, Robert rimette a nuovo il bar, imbiancando le pareti, verniciando i mobili e lucidando le piastre dei fornelli. Non ha molto da offrire, ma i clienti arrivano comunque, portando storie di passioni, amicizie, abbandoni e lutti. Alcuni sono in cerca di compagnia, altri desiderano ardentemente l’amore, o soltanto un luogo dove sentirsi compresi, e mentre la città diventa sempre piú affollata, anche la vita di Robert si trasforma. Combinando l’incanto di una prosa malinconica a una tenera comicità, Robert Seethaler ha scritto un romanzo animato da personaggi indimenticabili, un caleidoscopio di storie che si fa parabola dell’esistenza umana.
Andreas Heimann:«L’autore traccia un quadro non sentimentale dei suoi personaggi, ma con molta empatia. È un’arte che padroneggia alla perfezione: quella di raccontare grandi storie di piccole persone».
Brigitte:«La narrazione di Robert Seethaler è cosí toccante che si ha voglia di sedersi personalmente in questo “bar senza nome”».
Breve biografia di Robert Seethaler – nato a Vienna nel 1966 e vive tra questa città e Berlino. Autore e sceneggiatore, nel 2007 ha ricevuto il prestigioso premio del Buddenbrookhaus per il suo romanzo d’esordio. Ha ottenuto numerose borse di studio, tra cui la Alfred Döblin dalla Akademie der Künste, e il film tratto dalla sua sceneggiatura (Die zweite Frau) ha ricevuto un importante riconoscimento al Festival del Cinema di Monaco di Baviera nel 2009. Una vita intera (Neri Pozza 2016) è stato selezionato per l’International Booker Prize e diventerà un film diretto da Hans Steinbichler, con Stefan Gorski nei panni di Andreas Egger. Presso Neri Pozza sono apparsi anche Il campo (2019) e L’ultimo movimento (2021). I libri di Seethaler sono tradotti in piú di 40 lingue.
Roma-Via del Babuino presenta il suo “Autumn in Babuino Street”
Roma-L’iconica Via del Babuino, nel cuore del tridente della Capitale, si prepara a celebrare la stagione autunnale con l’evento a tema “Autumn in Babuino Street“, il prossimo 24 ottobre, dalle 17.00 alle 21.00.
Un evento diffuso che rappresenterà un connubio perfetto tra arte, musica, buon vino e shopping e che avrà un focus principale sull’arte contemporanea.
L’evento organizzato da NAB – Nuova Associazione del Babuino in collaborazione con GMA – Global Market of Artification ed il patrocinio del Municipio I di Roma, con la Presidente Lorenza Bonaccorsi ed il tocco essenziale dell’Assessora alla cultura Silvia Ghia, sarà un’esperienza unica nel cuore di Roma, lungo la storica Via del Babuino.
Per l’occasione, saranno esposte 15 opere dell’artista venezuelano-spagnolo Pedro Sandoval, genio dell’arte, in anticipo sui tempi, che presenterà una collezione di opere realizzata con l’intelligenza artificiale e poi intervenuta manualmente.
Le opere sono realizzate meticolosamente a mano con materiali quali olio, resina, spray e acrilico su lino. La mostra a cielo aperto è allestita da GMA-Global Market of Artification, proprietaria della “New Renaissance Art Gallery” al civico 79 di Via del Babuino, che per l’occasione porta alcune delle sue opere più rappresentative fuori dalla galleria, esponendole lungo la via.
L’esposizione diffusa sarà accompagnata dalle meravigliose melodie di tre splendide violiniste – Marta Iacoponi, Virginia Galliani e Giorgia Rossetti – che eseguiranno musica pop in itinere.
Artista italiana presente, ma anch’essa di fama internazionale su Via del Babuino sarà Luna Berlusconi che, proprio di fronte all’Hotel de Russie, esporrà l’opera “Divina” mentre all’interno dell’hotel sarà presentata anche la versione NFT della stessa opera.
Le 20 boutique partecipanti all’evento offriranno ai clienti raffinate degustazioni dei prestigiosi vini dell’azienda Principe Pallavicini, produttore leader del territorio laziale e sponsor dell’evento.
Un evento unico ed esclusivo, per rilanciare una delle più famose e blasonate vie dello shopping del Centro Storico capitolino.
Margherita Guidacci–Nata a Firenze, il 25 aprile 1921. A dieci anni perde il padre, esperienza che segna la sua giovinezza. Dopo la maturità si iscrive alla Facoltà di Lettere, dove nel 1943 si laurea con Giuseppe De Robertis con una tesi su Ungaretti. I suoi interessi si rivolgono quindi alla letteratura inglese e anglo-americana, soprattutto a Emily Dickinson e T. S. Eliot. Studia al British Institute di Firenze e cominica a collaborare con riviste letterarie. Nel 1946 pubblica la prima raccolta di poesie La sabbia e l’angelo. Insegna latino e greco e, dal 1950, letteratura inglese nei licei scientifici e istituti tecnici. Dal 1952 inizia la sua attività di pubblicista sulla terza pagina del «Mattino dell’Italia Centrale». Nel 1954 esce un altro volume di versi Morte del ricco. Nel 1948 vince il premio Le Grazie per cinque poesie inedite. Nel 1949 si sposa con Luca Pinna. Nel 1958 vanno a vivere a Roma, dove Margherita inizia la collaborazione col giornale «Il Popolo». Fino al 1972 insegna al liceo scientifico Cavour di Roma e poi ottiene una cattedra di letteratura anglo-americana presso l’Università di Macerata. Continua a scrivere e pubblicare libri di poesia. Muore il 19 giugno 1992 a Roma.
Primo autunno di Elisa
Che dirti, amore mio, che dirti?
Che l’uva è vendemmiata
ed ogni succo disfatto in dolcezza?
Che ragnatele di nebbia
hanno striato la terra? Nel bosco
tutte le bacche sono ormai cadute,
rimane il legno bruno e lucido
e l’anno corre alla sua foce
lungo le vene dell’ultima foglia.
Che dirti, amore mio, che dirti?
Le parole hanno un senso
soltanto se le nutre la memoria.
Ma tu non hai ricordo di stagioni,
tanto meno ricordo di ricordi:
sei nuova e fresca, intatta dal declino
che rattrista lo sguardo di tua madre
mentre fissi serena
questo tuo primo autunno.
Lascia che sia il vento
Lascia sia il vento a completar le parole
che la tua voce non sa articolare.
Non ci occorrono più le parole.
Siamo entrambi il medesimo silenzio.
Come due specchi, svuotati d’ ogni immagine,
che l’uno all’altro rendono
un semplice raggio. E ci basta.
All’ipotetico lettore
Ho messo la mia anima fra le tue mani.
Curvale a nido. Essa non vuole altro
che riposare in te.
Ma schiudile se un giorno
la sentirai fuggire. Fa’ che siano
allora come foglie e come vento,
assecondando il suo volo.
E sappi che l’affetto nell’addio
non è minore che nell’incontro. Rimane
uguale e sarà eterno. Ma diverse
sono talvolta le vie da percorrere
in obbedienza al destino.
All’ipotetico lettore
Ho messo la mia anima fra le tue mani.
Curvale a nido. Essa non vuole altro
che riposare in te.
Ma schiudile se un giorno
la sentirai fuggire. Fa’ che siano
allora come foglie e come vento
assecondando il suo volo.
E sappi che l’affetto nell’addio
non è inferiore che nell’incontro. Rimane
uguale e sarà eterno. Ma diverse
sono talvolta le vie da percorrere
in obbedienza al destino.
(1992)
Da La sabbia e l’angelo (1946)
XVI
Se tu mai sentissi la notte nei tuoi polsi tremare,
E trafiggerti con gli aghi del sangue,
E i minuti del cuore sconvolgerti in improvvise frane,
Allora nemmeno comprenderai
che sia , di terra farsi poi nardo e neve,
Ed entrare in un tempo incorruttibile.
XXVII
Ama l’albero in sé raccolto, ama la chiusa fatica
Del frutto che il tempo nutre e che nel tempo ricade.
Ma più ama l’albero nel vento, quando assomiglia alla fiamma futura.
Margherita Guidacci
Da Una breve misura (1988)
Anche sul fango Lieto risveglio
il sole resta sole d’ali e canti: ogni uccello
e non s’infanga conosce la sua alba
Quando è accaduto il peggio
Quando è accaduto il peggio
si forma un grande silenzio
come un lago immobile
su una città sommersa.
Son più reali le nuvole
delle case che prima abitavamo.
Ci affacciamo curiosi
e indifferenti come posteri.
sulla rovina che più non è tale
per noi, se soverchiandosi ha travolto
la nostra conoscenza,
Che sollievo sentire
che nulla ormai ci riguarda!
Margherita Guidacci
Da Nerosuite (1970)
Clinica neurologica
Qui giunto molte cose o pellegrino
puoi domandarti ma una sola importa:
E’ l’ultima casa dei vivi
o la prima dei morti?
Stella cadente (1992)
Alcuni desideri si adempiranno
altri saranno respinti. Ma io
sarò passata splendendo
per un attimo. Anche se nessuno
mi avesse guardata
risulterebbe ugualmente giustificato –
per quel lucente attimo – il mio esistere.
*
Tutti i vostri strumenti hanno nomi bizzarri
e difficili, ma io vedo chiaro
e so che in fondo sono solamente
metri e gessetti con cui misurate
e segnate – segnate e misurate
senza stancarvi.
Sfilate spilli di tra le labbra, come un sarto:
me li appuntate sull’anima
e dite: “Qui faremo un bell’orlo.
Dopo starai tanto meglio.”
Io non voglio che mi tagliate un pezzo d’anima !
Se ne ho troppa per entrare nel vostro mondo,
ebbene, non voglio entrarci.
Sono una poetessa:
una farfalla, un essere
delicato, con le ali.
Se le strappate, mi torcerò sulla terra,
ma non per questo potrò diventare
una lieta e disciplinata formica”
Poiché non mi veniva nessuna parola
(la parola era “addio”, ma non riuscivo a dirla)
ti ho dato il mio silenzio
ed ho ascoltato il tuo,
e non è stato un vuoto, ma condivisa pienezza
e ancora gioia, mentre accettavamo,
come la terra, un nostro tempo di neve,
bianco grembo d’attesa delle future estati.
Margherita Guidacci
È come una mancanza
di respiro ed un senso di morire,
quando mi stringe improvviso
il desiderio di te tanto lontano
e nulla può calmarlo, altro pensiero
non può occuparmi, tranne il Paradiso
che sarebbe per me lo starti accanto.
Ma poiché ciò m’è negato, più cara,
molto più cara d’una fredda pace
mi è la stretta indicibile
quasi marchio di fuoco che proclami
ancora e sempre quanto sono tua.
A nessun costo vorrei separarmi da questo mio dolore.
*
Scrivo parole ogni giorno.
Non so dove arriverò,
scrivendo.
So che potrei tacere.
Colui che sa, non parla.
Muto nel ventre del tempo
dove uomini gridano, anche.
Lo sguardo
basterà per comprendere e dire
quanto la voce non dice.
Sfioro ogni istante, ogni giorno
l’urlo e il tuono. Vivo intorno.
Potrei fermarmi e attendere.
In silenzio.
Lascia sia il vento a completar le parole
che la tua voce non sa articolare.
Non ci occorrono più le parole.
Siamo entrambi il medesimo silenzio.
Come due specchi, svuotati d’ ogni immagine,
che l’uno all’altro rendono
un semplice raggio. E ci basta.
*
Ho messo la mia anima fra le tue mani.
Curvale a nido. Essa non vuole altro
che riposare in te.
Ma schiudile se un giorno
la sentirai fuggire. Fa’ che siano
allora come foglie e come vento,
assecondando il suo volo.
E sappi che l’affetto nell’addio
non è minore che nell’incontro. Rimane
uguale e sarà eterno. Ma diverse
sono talvolta le vie da percorrere
in obbedienza al destino.
Margherita Guidacci
se il muro fosse di pietra e non d’aria,
se attraverso il muro non si toccassero gli alberi,
se le alte sbarre d’ombra che ti rigano l’anima
fossero l’ombra di vere sbarre a cui potersi aggrappare,
se ricordassi lo scatto d’una porta che si chiude
alle tue spalle e il tintinnìo delle chiavi
alla cintura del carceriere che si allontana:
quale sollievo ne avresti nell’orrore!
perché ciò che si chiude può tornare ad aprirsi,
la rocca più imponente può essere distrutta.
ma dove sei non è porta, e nessuna porta s’aprirà.
e non è muro: nessun muro sarà abbattuto.
le sbarre d’ombra sono le vere sbarre,
non saranno divelte. tu confini con l’aria,
tocchi gli alberi, cogli i fiori, sei libera,
e sei tu stessa la tua prigione che cammina.
Anniversario. Margherita Guidacci, poetessa dolcemente audace ed eversiva
Alberto Fraccacreta domenica 25 aprile 2021-fonte Avvenira giornale della CEI
La sua esperienza testimonia con forza il bisogno della vita. Ed è questa serietà specchiata che rende così audace, così dolcemente eversiva e attuale la lezione della poetessa nata il 25 aprile 1921
Margherita Guidacci è stata una delle poetesse più interessanti della sua generazione – e potremmo dire del nostro Novecento – ma soltanto negli ultimi anni l’attenzione critica verso la sua opera ha reso parziale giustizia a lei, che oggi compie il suo centesimo genetliaco. Nata il 25 aprile 1921 a Firenze, Margherita ha trascorso un’infanzia dickinsoniana: avide letture, molta introspezione, poche amicizie, una primissima adolescenza punteggiata di lutti con la prematura scomparsa del padre Antonio. Si avvicina alla poesia grazie al cugino (poeta in proprio) Nicola Lisi che, diciottenne, le mette in mano gli Ossi di seppia. Montale – assieme a Leopardi, Eliot, Rilke – segna il suo background letterario, orientandolo verso una linea espressiva di afflato metafisico, distesa e ragionata, dotata di “classicismo paradossale”, distante ugualmente dalle intuizioni orfiche e dal preziosismo della parola pura. Iscrittasi alla Facoltà di Lettere dell’Università di Firenze, si laurea nel ’43 con un’ardita tesi su Ungaretti discussa con Giuseppe De Robertis.
Dopo qualche tempo, abbandona gli studi di letteratura italiana e incomincia a dedicarsi al versante angloamericanistico, avviando un imponente lavoro di traduzione spalmato su quattro decenni ( John Donne, William Blake, Elizabeth Bishop e altri). Ciò avviene per una ragione d’intenti che riguarda intrinsecamente la poetica: il suo fiuto la conduce sin dagli esordi a una callida iunctura, a un «accostamento drammatico di significati», lasciando in secondo piano le risonanze verbali, l’«accostamento magico di suoni». La Guidacci concepiva la poesia come istintività rabdomantica – e pare che lei avesse il “dono” –, la scossa elettrica dell’ispirazione ne doveva setacciare l’“acqua” (parola spesso ricorrente nei suoi versi), il flusso assoluto e cristallino del mistero essenziale.
Esordisce nel ’46 con La sabbia e l’Angelo ( Vallecchi 1946), una silloge egregia che nel titolo ha qualcosa di betocchiano e, al contempo, con un originale antiermetismo di fondo ci riporta alle terse atmosfere bibliche, alle modulazioni spiritualistico-cristiane della Firenze anni Quaranta («Il mondo è così diviso: in principio è la brezza; / e poi vi sono le cose che con voce o con gesto alla brezza rispondono; / e poi vi è anche la pietra crudele, che tronca il volo alla brezza»). D’altra parte, in un’intervista ha dichiarato di essersi «nutrita dell’Antico Testamento e in particolare i Salmi, l’Ecclesiaste, Giobbe ed i profeti, Geremia, Daniele ed Ezechiele». Per il severo timbro delle Scritture, unito a una sincera preoccupazione religiosa, si può accostare (senza sovrapporre) la Guidacci alla quasi coetanea e altrettanto notevole Cristina Campo. Al ’49 risale il suo matrimonio con il sociologo di origine sarda Luca Pinna da cui ebbe tre figli. Diviene insegnante di inglese nelle scuole secondarie, continuando parallelamente la sua attività di traduttrice e cementando la collaborazione con alcuni quotidiani.
I successivi testi poetici – Morte del riccio ( Vallecchi 1954), Giorno dei santi (Scheiwiller 1957), Paglia e polvere (Rebellato 1961) – approfondiscono la natura dicotomica che informa un po’ tutte le sue liriche: il nesso tempo-eterno, la lotta tra amore e morte, il ritorno al primigenio e alla nuda solidità degli elementi, persino il senso del dolore e della malattia (precipuamente in Neurosuite, Neri Pozza 1970), sempre filtrati da una dizione prosastica, comunicativa. Visivamente parlando, infatti, la poesia della Guidacci appare assai moderna e priva d’incrostazioni: i versi lunghissimi, whitmaniani – che non disdegnano talora un impulso civile – si sposano con una visione dell’esistenza prossima a conchiudersi nella più genuina preghiera («Dio mi ha chiamato ad arricchire il mondo / decretandone il semplice strumento: / basta un opaco granello di sabbia / e intorno il mio dolore iridescente!»). Nel ’76 è chiamata a insegnare Letteratura angloamericana all’Università di Macerata e passa poi nell’81 alla Lumsa di Roma.
Dal ’79, intanto, in collaborazione con Aleksandra Kurczab e Brenno Bucciarelli traduce tre opere letterarie di Giovanni Paolo II: Pietra di luce, Il sapore del pane e Giobbe ed altri inediti. Negli anni Ottanta si registrano ben otto sillogi, percorse da un misticismo che abbandona gli inquieti pudori delle prime raccolte per farsi sempre più universale: spiccano L’altare di Isenheim (Rusconi 1980), La Via Crucis dell’umanità (Città di Vita 1984), Il buio e lo splendore (Garzanti 1989) fino al postumo – Margherita morirà a Roma il 19 giugno 1992 – Anelli del tempo (Città di Vita 1993). A cura di Maura Del Serra è uscita lo scorso dicembre un’edizione aggiornata dell’intero corpus lirico, Le poesie (Le Lettere). Sara Lombardi, in un volume monografico dedicato all’autrice fiorentina, ha scritto che «in conformità con la sua formazione cattolica, la poesia per la Guidacci non sarà mai gioco letterario, ma esperienza estremamente seria». Niente di più vero. È questo bisogno di vita che la sua esperienza testimonia con forza. Ed è questa serietà specchiata che rende così audace, così dolcemente eversiva e attuale la lezione di Margherita Guidacci.
Inge Müller è nata a Berlino il 13 marzo 1925. Sopravvissuta miracolosamente ai furiosi bombardamenti su Berlino che hanno chiuso la seconda guerra mondiale, sarà lei stessa a estrarre i corpi dei genitori dalle macerie della loro casa. È morta suicida il 1° giugno 1966. Solo vent’anni dopo le sue poesie saranno pubblicate nella raccolta Wenn ich schon sterben muss. Come exergo al libro, il marito, Heiner Müller, ha scritto parole che danno tutta la dimensione della distanza, della solitudine della donna che aveva sposato: «… Più di una volta ho letto le poesie contenute in questa raccolta; alcune mi erano estranee, alcune mi irritavano, molte le ho capite solo dopo il suicidio della donna che le ha scritte in tredici anni accanto a me…».
Giunge un giorno
Inviato da noi
L’uomo
Annunziato.
Vantatevi voi,
voi che ci conficcate nel selciato
calpestandoci.
Per ridere non ho bisogno di un motivo
Per piangere di nessun dolore
Sono come voi e da voi ferita
Non sono nessuna oppure solo una bocca.
Dodecafonica e terza.
Siamo piantati nella terra
Da entrambi i lati
Ci consuma la pioggia
Dalla radice spunta
Una gialla talea, che
Il sole più non raggiunge.
Quando ci incontrammo
Quando ci incontrammo
In una strada laterale delle nostre vie
Sentivi paura della vita
Sentivo paura della morte
Che era vicina e vedemmo il cielo rosso
Avvolgerci soffice come una coperta di lana
E ci riscaldammo per un attimo
L’attimo
durò sette estati. Quando levammo gli occhi
Il tempo era già trascorso.
Francia-Santuario di Lourdes -Per Flaminia Leggeri la fotografia è uno strumento di narrazione. Narrare con le immagini, comunicare e curiosare per Flaminia Leggeri è costruire una piccola o tante piccole storie di persone di varia umanità così come amava il grande Scrittore e Regista Mario Soldati, ma in questo caso i bambini hanno attirato la fotocamera e “l’obiettivo” di Flaminia e, con queste innocenti foto, ha saputo cristallizzare l’attimo di libertà e di curiosità così bella nei bambini. L’obiettivo è fuori dalla “normalità ovvia” dell’immenso Santuario di Lourdes. La domanda e la curiosità della fotografa sono: cosa fanno i bambini ? Come utilizzano le pause negli attimi in cui i genitori concedono la ”Tana Libera Tutti”? Fotografare l’attimo di vera innocenza e tranquillità dei bambini che sono nell’abbraccio della Vergine Maria e coperti dal suo manto. Flaminia con la fotocamera cerca di superare la “parola” con le immagini che, appunto, diventano “forza espressiva” in questa Oasi di Pace all’interno dell’immenso Santuario.
Il set fotografico scelto da Flaminia è statala spianata accanto al santuario della Madonna di Lourdes, con l’imponente ruota della basilica superiore che sale sopra la grotta. Il santuario della Madonna di Lourdes è un santuario e un luogo di pellegrinaggio “cattolici mariani” nella città di Lourdes Francia. Il Santuario comprende diversi edifici religiosi e monumenti intorno alla Grotta di Massabielle dove si sono verificate le apparizioni della Vergine Maria tra cui 3 basiliche : la Basilica della Madonna dell’Immacolata concezione,della Basilica del Rosario e della Basilica di San Pius X, note, rispettivamente, come basilica inferiore superiore e sotterranea.
A beneficio dell’obiettivo e fotocamera di Flaminia non potevano mancare persone con abbigliamenti diversi in una giornata di pioggia. Poi, sul fiume Gave,l’angolo dove “le paperelle” (Germano reale) che vivono in tranquillità e soddisfano la curiosità dei milioni di pellegrini che le osservano e danno loro da mangiare. Da notare la foto che ritrae la signora la tra i cespugli, nei pressi della Grotta, raccoglie erbe e “cattura” l’Escargot, il nome francese delle lumache.
Endre Ady (1877-1919) è vissuto nell’Ungheria a cavallo di due secoli, alla vigilia del crollo dell’impero austro-ungarico, mentre il paese era combattuto tra arretratezza e modernità, tra le rivendicazioni sociali stroncate dalla tragedia della Grande Guerra e la nascita dei grandi movimenti artistici e culturali del Novecento. Di tutti gli umori del tempo ha fatto materia dei suoi versi. Poeta “maledetto”, consumato dall’alcool e dal fumo, spesso in povertà, ma con l’ambizione di frequentare il grande mondo internazionale della cultura, fu portato a morte precoce dalla sifilide contratta in un incontro occasionale. Inviso ai benpensanti, adorato dal popolo e dagli artisti, nella Budapest in cui si addensavano le ombre di un fascismo spietato seppe tenere aperto uno spiraglio di libertà, assieme a Béla Bartók, György Lukács, Lajos Kassák. Di famiglia calvinista, ebbe sempre una passione profonda per i testi della tradizione biblica, ma non ne fece mai oggetto di una devozione formale. Il suo definirsi un «incredulo che crede» lo fa sentire vicino alla sensibilità dell’Occidente contemporaneo.
*
Testi selezionati da Il perdono della luna. Poesie 1906-1919 (trad. di G. Caramore, V. Gheno, Marsilio, 2018)
ENDRE ADY
Poesie scelte
Il poeta di Hortobágy
Un giovane cumano, occhi grandi,
dilaniato da brame pensose,
custode di mandrie, andava verso Hortobágy,
la celebre steppa magiara.
Miraggi e crepuscoli allora
cento volte gli presero l’anima.
E se nel cuore un fiore sbocciava
se lo brucavano i popoli branco.
Mille volte pensò cose sublimi.
Pensò alle donne, al vino, alla morte.
Ovunque altrove nel mondo
sarebbe stato un sacro cantore.
Ma se osservava i compagni – sporchi,
ebeti, in brache – se osservava il suo gregge,
seppelliva veloce il suo canto:
erompeva in bestemmie. O fischiava.
Al cospetto del principe buono Silenzio
Cammino nel bosco, sotto la luna.
Mi battono i denti, fischietto.
Alle mie spalle, alto, un colosso:
il principe buono Silenzio;
e guai a me se indietro mi volto.
Guai a me se tacessi,
o guardassi lassù, verso la luna.
Un gemito, uno schianto.
Un solo passo, e il principe buono, Silenzio,
già mi avrebbe schiacciato.
Il Maligno antico
[…]
«Signore, ho una madre: una donna che è santa.
Ho una Léda: che sia benedetta.
Ho un paio di guizzi di sogni,
qualche seguace. E sotto la mia anima
un grande acquitrino: l’orrore».
«Avrei forse anche uno o due canti,
una o due nuove, grandi canzoni lascive,
ma ecco, voglio soccombere
sotto il tavolo, nell’ebbrezza,
in questa antica contesa».
«Signore, congeda il tuo servo desolato,
non c’è nulla ormai, solo la certezza
l’antica certezza, il sicuro sfacelo.
Non m’incantare, non farmi male, non darmi da bere.
Signore, io non voglio più bere».
«Ho la nausea, un gran disgusto
e reni malati e consunti.
Mi inchino a te un’ultima volta,
scaglio a terra il bicchiere.
Io mi arrendo, Signore».
[…]
Sangue e oro
A me, al mio orecchio fa lo stesso,
se ansima la voluttà o rantola il tormento,
se sgorga il sangue o tintinna l’oro.
Io so, proclamo che questo è il Tutto
e che a nulla serve ogni altra cosa:
solo il sangue e l’oro. Il sangue e l’oro.
Tutto muore e tutto trascorre,
gloria, canti, potere, denaro.
Ma sopravvivono il sangue e l’oro.
Popoli muoiono e ancora rinascono
e santo è l’audace che, come me, afferma
per sempre: il sangue e l’oro.
Sotto il monte di Sion
Con barba arruffata, bianca, da Dio,
lacero, tremulo, correva ansimante,
il mio Signore, da tempo in oblio,
in alba d’autunno, umida, cieca,
da qualche parte, sotto il monte di Sion.
Una grande campana il mantello,
rattoppato con lettere rosse,
mesto e malconcio, il vecchio Signore,
percuoteva, picchiava la bruma,
per il Rorate cœli suonava campane.
Un lume nella mia tremula mano,
una fede nella mia anima lacera,
e nella mente la giovinezza di un tempo:
allora fiutavo l’odore di Dio,
e qualcuno andavo a cercare.
Mi attendeva là, sotto il monte di Sion,
ardevano i sassi con fiamme robuste.
Suonando campane mi accarezzava,
le sue lacrime mi mondavano il viso,
era buono il vecchio, e clemente.
La vecchia mano rugosa baciavo,
e contorcendomi rimuginavo
«Come ti chiami, bel vecchio Signore?
A chi ho rivolte le tante preghiere?
Ahimè, non riesco a ricordare».
«Una volta morto a te son tornato
io, che in vita ero dannato.
Potessi ricordare una preghiera di bimbo!»
Lui mi guardò con grande tristezza
e suonava, suonava campane.
«Oh, se sapessi il tuo nome grandioso!»
Attese, attese, poi ascese correndo.
Ogni suo passo il rintocco di un salmo:
salmo di morte. E intanto io siedo, piangendo,
piangendo, sotto il monte di Sion.
In tre sulla pianura
Siamo solo in tre sulla grande pianura:
Dio, io e una maledizione contadina.
So bene che tutti moriremo,
ma io lancio un forte grido spietato.
Io da solo non temo, non tremo,
tanto ormai il mio guscio è di Satana.
Eppure conservo la pianura e il suo Dio
assieme a quella maledizione contadina.
Qui ormai è inutile tutto, in autunno,
in inverno, e primavera, e nella lenta estate.
Sulla grande pianura non ci sarà prodigio,
se noi, noi tre, non proviamo a resistere.
E adesso ammutoliamo
Baciami in bocca, Sera, bella sorella
fammi tacere e dài la notizia
che il tuo fratello, quello che assorda,
ha smesso, irritato, i suoi canti.
Ora per l’ultima volta vuol raccontare
la poca letizia che ha ricavato
da questo matto matto cantare.
Baciami in bocca, Sera, bella sorella.
Divieti mesti, liete confessioni,
melodiosi lamenti, ferite profonde,
mai più scaverò nell’anima mia
pozzi per voi risonanti.
Ogni fonte di sangue è ricolma.
Sulla tomba del sacro tacere di ogni cosa
siedono, muti e come in croce,
divieti mesti e liete confessioni.
Viva ormai ogni cosa, e ciascuno.
Vivano le parole solenni,
ma Endre Ady non parla,
ma Endre Ady non parli.
Si nasconda pure, se sa dove andare,
dimentichi tutti i suoi desideri,
col cuore vermiglio percosso a livida morte,
viva ormai ogni cosa, e ciascuno.
Ammutoliamo, Sera, bella sorella.
Ammutoliamo con un grande bacio.
Guardiamo come fossimo morti,
allentate le corde, la sordità della notte.
Forse ancora romperemo il silenzio,
ma la nostra parola non sarà un sacro segreto,
tormento per noi e per gli altri.
Ammutoliamo, Sera, bella sorella.
La tristezza della resurrezione
[…]
Oh, guai a chi risorge
e non sente la propria vita,
la sua è la parola di vacuo burattino
e lui stesso è marionetta di un teatrino,
domanda, tentazione e mistero.
Io questo aspetto: che qualcuno
mi chiami
e con bocca dolce, calda
mi sussurri chi sono.
Qui nella valle dei Tatra c’è un lago,
scintillante, pulito, selvaggio.
Vi cerco dentro i secoli,
la mia vita,
i canti che schiudono le tombe.
Cerco vicinanza a me stesso,
al Tempo che vola via,
allo specchio, alla magia,
per riconoscermi dentro.
E si ferma la Vita
e so che ormai non c’è nulla,
nessuno vive più
e niente è vero.
Un vecchio viso grinzoso ghigna dal lago.
Non so chi sia.
Sono risorto, ahimè, sono risorto.
La vendetta del silenzio
(Una vecchia leggenda)
Gli venne tagliata la lingua
e languì a morte chi
le sue confortanti parole
assetato amava e bramava.
Così nella puszta viveva
l’ammutolito eremita,
fluttuando in pomeriggi sordi
come calda melodia estiva.
E quando tutto fu taciuto,
eruppe dolore e angoscia,
ogni pietà e silenzio,
accumulati nel muto.
Il vocio vociante in precedenza
mai s’era così presentato;
e tonante l’eremita sparse
tra tutti il suo verbo in abbondanza.
E dei semplici si acquetò
la collera e il cordoglio,
e come un Dio che dispone e castiga
la lingua tagliata parlò.
Stringo con la mia mano che invecchia, la tua mano, e proteggo i tuoi occhi con questi occhi che invecchiano.
Belva di spente età, mi bracca l’orrore, sono arrivato da te attraverso rovine di mondi, e attendo, insieme a te, atterrito.
Stringo con la mia mano che invecchia, la tua mano, e proteggo i tuoi occhi con questi occhi che invecchiano.
Non so perché né sino a quando rimarrò qui con te: ma stringo la tua mano e proteggo i tuoi occhi.
Endre Ady
(Traduzione di Umberto Albini)
da “Endre Ady, Poesie”, Guanda, Milano, 1978
***
Őrizem a szemedet
Már vénülő kezemmel Fogom meg a kezedet, Már vénülő szememmel Őrizem a szemedet,
Világok pusztulásán Ősi vad, kit rettenet Űz, érkeztem meg hozzád S várok riadtan veled.
Már vénülő kezemmel Fogom meg a kezedet, Már vénülő szememmel Őrizem a szemedet.
Nem tudom, miért, meddig Maradok meg még neked, De a kezedet fogom S őrizem a szemedet.
Endre Ady
da “Életem nyitott könyve”, Gondolat, 1977
Parente della morte
Io sono parente della Morte.
Amo l’amore morente,
amo baciare
chi se ne va.
Amo le rose malate,
le vogliose donne sfiorenti,
e i lucenti, malinconici
tempi d’autunno.
Amo il richiamo spettrale
delle ore tristi
e il fratello giocoso
della grande e santa Morte.
Amo coloro che partono,
che piangono e si destano
e, nei freddi mattini brinati,
i campi.
Amo la stanca rinuncia,
il pianto senza lagrime,
la pace, rifugio di saggi, di poeti
e di malati.
Amo i delusi, gl’infermi,
coloro che sono fermi,
gl’increduli, i tristi:
il mondo.
Io sono parente della Morte.
Amo l’amore morente,
amo baciare
chi se ne va.
Proteggo i tuoi occhi
Stringo con la mia mano
che invecchia, la tua mano,
e proteggo i tuoi occhi
con questi occhi che invecchiano.
Belva di spente età, mi bracca l’orrore,
sono arrivato da te
attraverso rovine di mondi,
e attendo, insieme a te, atterrito.
Stringo con la mia mano
che invecchia, la tua mano,
e proteggo i tuoi occhi
con questi occhi che invecchiano.
Non so perché né sino a quando
rimarrò qui con te:
ma stringo la tua mano
e proteggo i tuoi occhi.
Endre Ady era un poeta ungherese, nato in una famiglia calvinista aristocratica decaduta. Era nato con sei dita per mano, segno di eccezionalità ma anche di malaugurio, di un destino diabolico. Fu l’ ostetrica ad accorgersene e ad amputargli quello che avanzava. Per tutta la vita il poeta mostrò con orgoglio le sue cicatrici, che chiamava magiche.
Visse e studiò in Ungheria, abbandonando gli studi di Legge per diventare giornalista. Due donne gli furono fatali, la prima perché lo avvelenò. E’ lei la protagonista di un bellissimo racconto intitolato “Il bacio di Rosalia Mihaly“. Rosalia, che nasconde la vera identità di Maria Rienzi, visse solo ventisei anni. Fu “piccola, teatrale e virago”. Aveva i capelli rossi e rideva fragorosamente, secondo quanto si addice a una ballerina. “Non l’ ho mai vista Rosalia Mihaly”, scrive il poeta, “ma nessuna altra donna ha segnato la mia vita in modo più possente”. Si era invece invaghito di Marcella Kun, anche lei attrice, e le aveva promesso che se si fosse concessa avrebbe scritto per lei una bella recensione. Ma lei tentennava, spaventata dal suo ardore. “Io non mi ero mica messo a studiare l’ amore per sapere che diavolo fosse”, le diceva, “ma per consumarmici, per ridurmici in cenere, come più mi fa piacere”. Ma alla fine cedette. E lo contagiò. Una ricerca ossessiva delle origini della malattia, porta il poeta, attraverso un giornalista mediocre e volgare, fino alla tomba di Rosalia Mihaly, ultimo anello della catena. Così scriveva Ende Adry, e identica era la sua vita. La sifilide lo tenne in ostaggio tutta la vita. E l’ alcool accompagnò la sua autodistruzione.
Quel bacio avvelenato divenne l’ immagine primaria della sua poesia, e insieme il diaframma che lo costrinse al di qua della vita che avrebbe voluto. Era un giornalista di successo e un poeta quasi sconosciuto, quando gli fu diagnosticata da un medico parigino. Era lì, nella ville lumiere dei poeti simbolisti – dove scopre le opere di Mallarmè, Verlaine, Rimbaud, Baudelaire, fratelli d’ arte e di insanità – insieme alla donna che amò perdutamente. Adel Brul, divenuta poi Leda nei canti che le dedicò, era la moglie di un eccentrico e ricco uomo d’ affari, Odon Diosy. “Aveva i capelli tinti di azzurro cupo, le scarpe, le calze dello stesso azzurro; si metteva del rossetto non soltanto sulle guance e sulle labbra, ma ne tingeva anche, rendendole simili all’ interno di una conchiglia, le narici dal disegno inconsueto sul naso imponente”. La descrive così Paolo Santarcangeli nella prefazione alla raccolta di poesie pubblicate da Lerici editore. Una femme fatale, una donna alta provocante sensuale e colta. Lei lo trasformò da giornalista di talento a poeta grandissimo, tra i più importanti della cultura austro-ungarica. Profeta di un mondo prossimo alla dissoluzione, cantore di passione e desiderio, sensuale e potentissimo. “Credo di essere la coscienza dell’ odierna magiarità colta” scriveva Endre Andy di sè dopo la pubblicazione della raccolta di poesie che lo consacrò al successo e lo travolse insieme di critiche e riprovazione (Új ver sek, Poesie nuove), – “ma questa coscienza non può essere sempre pulita”. Rimane a Parigi per un anno, con Leda e il marito, poi torna in Ungheria. Ma nel 1906 ripartono insieme e viene per la prima volta in Italia. Per una crociera che parte da Trieste e arriva fino in Sicilia. Sarà di nuovo a Roma nel 1911 ma il suo amore con Leda, sempre tormentato e funestato dal male e dalla sua vita disperata, sta per finire.
L’ anno successivo lei lo lascia per un altro uomo, e lui, su consiglio dell’ amico Sándor Ferenczi, allievo prediletto di Freud, decide di ricoverarsi in un ospedale per malattie mentali. “Siamo in piedi, rigidi e dimenticati/ sull’ orlo di un precipizio selvaggio/ l’ uno all’ altra attaccati,/ né un lamento lacrima o parola/per precipitare basta una mossa/come legami di carne e sangue/ci proteggono le nostre labbra/blu e tremanti, ci tengono attaccati/finche mi baci non abbiamo parole/ma dì un parola e cadiamo entrambi”, scrive in una sua poesia famosa che risale a quel periodo. Si consolerà sposando qualche anno dopo la giovanissima ammiratrice Beruka Bonza, la Csinszka delle sue poesie. Con lei si trasferisce in Transilvania.
Nel frattempo, il 28 giugno 1914, lo studente bosniaco Gavrilo Princip uccide l’ arciduca Francesco Ferdinando a Sarajevo. Endre Ady scrive, si spende contro la catastrofe del conflitto in agguato, ma invano. Un mese dopo l’ Austria-Ungheria dichiara guerra alla Serbia, dando inizio alla prima guerra mondiale. La sconfitta militare, avrà come conseguenza la fine dell’ Impero. Nel 1918, in seguito al Trattato Versailles, nascono Austriae Ungheria come stati autonomi, e insieme la Cecoslovacchia e un nuovo assetto dei Balcani che diventarà la Yugoslavia. I nuovi confini costringono un quarto della entia magiara a vivere fuori dalla nuova nazione ungherese. La Transilvania diventa rumena, e anche il paese natìo di Endre Ady, Érmindszent, che alla morte del poeta verrà a lui intitolato. Nella nuova repubblica, il poeta viene eletto presidente della Accademia Vorosmarty, la più importante istituzione culturale del paese. Ma le sue condizioni di salute non gli permisero neanche di tenere il discorso di insediamento. Muore il 27 gennaio 1919 e i suoi funerali furono seguiti da una folla enorme che lo acclamava come il poeta simbolo della nuova nazione. Lui lasciò scritto soltanto che voleva essere dimenticato, come una domanda senza risposta.
Daria Menicanti è stata una Poetessa, insegnante e traduttrice italiana. In lei si mescolano il registro sarcastico e ironico e quello più sottile della malinconia. Per Lalla Romano la sua era “una voce nuova, moderna e classica, per niente alla moda, ma libera e anche audace”.
ESTIVA
*
Ogni sera le madri dai balconi
chiamano i figli con urli soavi.
Cadono i nomi gridati nel buio
come stelle filanti. Ad uno ad uno
tornano con le bluse a quadrettini
le gonnellette alte una spanna i teneri
re,le regine.
Daria Menicanti, il “grillo” che ha cantato Milano
“Io mi sento il palloncino fuggito dal suo grappolo”
Da bambina la chiamavano grillo, un soprannome che ha conservato per tutta la vita e che a volte disegnava accanto alla sua firma. Un nomignolo profetico per chi del canto ha fatto la sua voce. Daria Menicanti è una delle poetesse italiane dimenticate da riscoprire.
A Piacenza c’è nata “per caso” in quel 6 aprile del 1914 perché sentiva di avere un destino legato al mare viste le origini livornesi e fiumane dei genitori. Il padre aveva studiato con Pascoli che nutriva speranze nel promettente poeta. Lui scelse però di studiare legge e lavorare prima come assicuratore a Trieste e poi come bancario in diverse città del Nord. In seguito fu costretto a cambiare molti lavori per le difficoltà dovute al suo antifascismo e la famiglia si spostò spesso seguendolo.
Daria era la sesta figlia, l’ultima, la più vezzeggiata, la più capricciosa, mingherlina ma con un carattere molto risoluto. I rapporti con la famiglia furono sempre burrascosi, specie col padre spesso assente. Non disse a nessuno che si laureava e nessuno invitò al suo matrimonio, pochi mesi dopo. Dopo le nozze in Comune tornò semplicemente a casa, riempì una borsa e se ne andò dicendo “stasera non vengo a casa perché mi sono sposata”, ricorda la nipote Lucia.
A mano a mano quale ero ritorno:
una che va vestita come càpita,
contenta del poco, di rari
amici scontrosi,
una dispari
felice di bere alla brocca
della sua solitudine.
Daria è una persona schiva e solitaria e i primi anni li vive nella stessa “campana di vetro” di cui parla Sylvia Plath, che avrebbe poi tradotto nel 1968. È di salute cagionevole perciò non va a scuola e studia a casa seguita dalla sorella maggiore Trieste. Inizia a frequentare la scuola pubblica solo alle superiori iscrivendosi al Liceo Ginnasio Berchet di Milano. Continua gli studi alla Facoltà di Lettere e Filosofia e ha come compagni di corso Antonia Pozzi, Luciano Anceschi, Vittorio Sereni, Enzo Paci. Si laurea in estetica con Antonio Banfi e una tesi sulla poetica di Keats. Proprio quel Banfi che creerà intorno a sé la “scuola di Milano”.
Lo sbocco naturale della sua formazione è l’insegnamento e per tutta la vita Daria Menicanti insegna nella scuola media, diventando in seguito anche preside. Ma il suo lavoro culturale è più ampio. Dagli Anni 30 in poi compone poesie, scrive sulle riviste letterarie e traduce, traduce moltissimo, specialmente dall’inglese e dal francese: John Henry Muirhead, Paul Nizan, Betty Smith, Noel Coward, Nelly Sachs, Paul Geraldy, Sylvia Plath. Le traduzioni servono da laboratorio per la definizione della lingua poetica anche se Daria ha tradotto soprattutto prosa, e specialmente filosofia. “La vita dello scriba è una manciata / di sillabe e vocali e consonanti / e di allitterazioni”.
Dopo tanto silenzio
mi arriva di lontano
festante, fragorosa
una banda di rime,
di assonanze.
Le corro incontro
felice
fino sull’angolo.
L’impronta filosofica resta sempre forte nella sua scrittura. La sua poesia non si lascia andare mai al sentimentalismo ma è sempre frutto della lucida riflessione propria della filosofia. Eppure non è mai fredda, distante, anzi si interessa alla più piccola realtà, inclusi animali e piante, tanto cari alla poetessa.
È ancora capace di infanzia
il tronco ficcato sul cuore
della città. Una luce d’alba gli esce
dai rami, ai piedi gli si affolla
un subbuglio di verde.
A un vento improvviso lo zampillo
della fontana gira verso il tronco
assentendo approvando: – D’accordo,
sussurra, la vita
può essere ancora bella
“Il razionalismo per me è sempre stata una vocazione. Pensa che tempo fa mi dicevo che ero una illuminista” dice in una intervista parlando della sua poesia come dell’“irrazionale espresso razionalmente”. A radicare la sua opera creativa nel razionalismo filosofico ha contribuito l’amore per Giulio Preti, anche lui filosofo della scuola banfiana. Si sposano nel 1937 ma il matrimonio è burrascoso. Finisce nel 1954 ma restano legati da una profonda amicizia.
Poeta
In giro me ne vado come un cirro
silenzioso color ombra. Mi piace
stare alto sui tetti a galleggiare
guardando. Io mi sento il palloncino
fuggito dal suo grappolo: una cosa
ironica leggera e all’apparenza
felice
Le amicizie di Daria si contano sulle dita di una mano ma sono per sempre. Lalla Romano, collega a scuola, diventa la sua più cara amica e di lei dice che “aveva maturato una voce nuova, moderna e classica, per niente alla moda, ma libera e anche audace”. Anche Vittorio Sereni è un punto di riferimento importante, sia personale che professionale. Ogni domenica la poetessa va a pranzo dai Sereni e dà alle loro figlie lezioni private di greco e latino.
Alla poesia si avvicina già negli anni dell’Università ma è ancora qualcosa che tiene per sé. È negli Anni 50, e soprattutto dopo il definitivo trasferimento a Milano, che si dedica alla poesia innestandola a fondo nella sua città.
Con la tazzina stretta tra le dita,
ben calda tra le dita,
sola, in pace,
in un tiepido alone
di vapori,
di aroma di caffè,
indugio presso il banco
insaziata di calore
tra gli urti continui
e i pardons.
Nel 1964 esce per Mondadori la prima raccolta, Città come, che vince il premio Carducci. Nella prestigiosa collana Lo Specchio saranno pubblicate anche Un nero d’ombra nel 1969 e Poesie per un passante nel 1978. Il direttore della collana era Sereni e nel 1982 aveva già approvato un volume in attesa di pubblicazione, Ferragosto. Ma nel 1983 l’amico muore improvvisamente e Mondadori fa un passo indietro comunicandole per lettera che non sarà più pubblicata. Uno sgarbo che Daria non digerirà mai. Da allora in avanti la poetessa affida le sue raccolte a editori più piccoli: Altri amici, un bestiario poetico dedicato agli animali da Daria tanto amati, esce nel 1986; Ferragosto, considerata dall’autrice la sua opera migliore, vede le stampe nello stesso anno; Ultimo Quarto nel 1990.
Lucciola
Fu per come esitava che l’amai
subito
e colsi quel seme di luce
stringendo le due palme.
Ma come ci guardai gelosa, buio
era tornato il bel fuoco,
ombra con ombra
pace
Dopo l’ultima raccolta continua a scrivere anche se le sue condizioni fisiche e psichiche vanno peggiorando rapidamente, fino alla morte appena 5 anni dopo. Sulle poesie inedite ha lavorato febbrilmente, correggendo e limando continuamente i versi come testimoniano i taccuini scritti a matita. Un lavorio continuo che passa al setaccio della ragione tutti i moti dell’animo e li distilla.
Di qua la vita e da quell’altra parte
la morte e in mezzo l’uomo
in stato di assedio
La sua poesia si è nutrita di minime situazioni quotidiane, di silenzi e inquietudini, piccole epifanie, di vissuto cittadino popolato da personaggi che qualche volta Daria sembra orchestrare sulla scena come una abile regista. Quando parla di se stessa si definisce un “camaleont poet” come il suo amato Keats.
Ma sono – oltre che me – sono sul guscio
d’un fiore il mite grillo
dell’estate inquilino –
o l’urlo abbandonato dell’ossesso
sul marciapiede riverso –
Nella sua opera si passa dal tratto nostalgico e struggente a quello ironico e tagliente, dalla riflessione filosofica sulla vita al ritratto dei reietti metropolitani. La città è sempre presente, se non da protagonista come sfondo attivo.
Me ne vo con un gran coltello infisso
nel petto, il manico fuori.
Me ne vado tranquilla e bianca. Un vigile
col fischio mi richiama: – Il coltello,
mi grida, il coltello! –
Par proprio che la lama
superi le misure della legge.
Così mi fermo e pago
l’ennesima contravvenzione
E spesso presente è il cuore, anche se non viene quasi mai nominato direttamente ed è sempre mediato dall’intelletto. Non c’è sentimentalismo fine a se stesso ma riflessione lucida e acuta sulle ragioni del cuore.
Se il cuore è innamorato
il fracasso che fa.
L’hanno paragonata a Umberto Saba e Sandro Penna ma a lei piaceva di più far riferimento ai poeti classici, specialmente a Orazio e Marziale, a cui si ispirano anche i suoi fulminanti epigrammi.
Dopo tanto odio ti ricordo infine
con animo fraterno
e ti perdono
il bene che mi hai fatto
(Le poesie e le citazioni sono tratte da Il concerto del grillo: l’opera poetica completa con tutte le poesie inedite, Mimesis)
Poesie di Janet Frame- da Parleranno le tempeste. Poesie scelte-
A cura e traduzione di Francesca Benocci ed Eleonora Bello-Gabriele Capelli Editore
Janet Frame (Dunedin 1924–2004) è stata una tra le più importanti scrittrici neozelandesi. Candidata due volte al premio Nobel, l’ultima nel 2003, è soprattutto nota per il film di Jane Campion Un angelo alla mia tavola tratto dalla biografia omonima. Nata in una famiglia indigente, riesce a diplomarsi come insegnante ma è successivamente bollata come non “normale” e non idonea all’insegnamento. Diagnosticata schizofrenica, viene internata per otto anni in manicomio dove è sottoposta a 200 elettro-shock e minacciata di lobotomia. A darle forza e libertà sarà la scrittura e i riconoscimenti che il mondo letterario inizia a tributarle arrivando a essere tradotta in tutto il mondo. Non così per le sue poesie, amatissime ma raramente tradotte. Oltre a Un angelo alla mia tavola, sono stati pubblicati in italiano i romanzi Gridano i gufi, Volti nell’acqua e Verso un’altra estate. Parleranno le tempeste è la prima raccolta di poesia tradotte in italiano.
Provati estate primavera autunno inverno,
datemi il grande freddo per sempre,
ghiaccioli su tetti muri finestre il sogno
marmoreo perpetuo integrale di un mondo e di persone ghiacciati
nella più nera delle notti, così nera da non riuscire a distinguere
il sogno perpetuo integrale marmoreo.
Gli occhi ciechi sono ora padroni di sé.
Un tempo
Un tempo la brezza calda della gente
che filtrava sotto la porta chiusa che mi separava da loro
cambiava la fiamma, influenzava
la forma dell’ombra,
mi bruciava ribruciava dove facevo
tavolette di cera nell’oscurità.
Poi oltre la porta era solo silenzio.
Le gazze ladre tappavano il buco della serratura
attraverso cui rassicuranti becchi di luce avevano pizzicato briciole.
Un inverno che non ho mai conosciuto
ha sigillato le crepe con un male chiamato neve.
Cadeva così pura
dal nulla, in fiocchi accecanti.
Oltre la porta era solo silenzio.
Io indugiavo nel mio rituale solitario.
Effetti personali
Un amo dentro a un portafoglio di plastica strappato,
una vite arrugginita, un folletto della Cornovaglia,
del mio primo libro un volantino spiegazzato,
alti il doppio, o morti, nelle foto di famiglia
i bambini, un orologio d’argento con la cassa rotta
“Resistente agli urti” ma non era l’orologio che il piccolo Levìta
aveva, nell’inno, nella sera silenziosa fatta
di oscuri cortili del tempio e luce sbiadita…
anche se mio padre si chiamava Samuel. Che udito debbo avere,
e perché, mi chiedevo un tempo, per sentire il Verbo?
… un chiodo lucido… la lettera di un nuovo amore,
una spilla ossidata appartenuta a mia madre.
Poi, quasi adescasse dall’ultima marea questo ciarpame infranto,
la bella mosca schiuma-onda da pesca, di mio padre il vanto.
Parleranno le tempeste
Parleranno le tempeste; di loro puoi fidarti.
Sulla sabbia il vento e la marea scrivono
bollettini di sconfitta, gusci imperfetti
presso il memoriale liscio d’alberi d’altura,
alghe, uccello lacero, rasoio affilato, corno d’ariete, conchiglia.
Dacci le notizie dicono gli asceti leggendo
e rileggendo dieci miglia di spiaggia; tra gusci vuoti, guarda,
bruciano nella stampa del sale, storie
d’inondazione: come abbandonai casa e famiglia.
Rasoio: come tagliai la gola alla luce del sole.
Corno d’ariete: come caricai danzando alla luce lanosa del sole.
Conchiglia: come la mia vita salpò su un’oscura marea.
Francesca Benocci è nata a Sinalunga, in provincia di Siena, il 17 maggio 1985. Dopo infinite peripezie geografiche e un corso di studi in medicina messo prematuramente da parte, approda alla facoltà di Lettere e Filosofia di Siena. Si iscrive al corso di laurea in “Lingue, letterature e culture straniere” laureandosi nel 2010 in inglese e russo. Scrive una tesi che ha come oggetto la “comparazione” tra due traduzioni italiane di uno stesso testo in inglese. Ha completato, sempre presso l’Università di Siena, un master in traduzione ed editing di testi letterari e ha iniziato un dottorato in Translation Studies alla Victoria University of Wellington, in Nuova Zelanda.
Eleonora Bello (1985) ha conseguito una laurea triennale in Lingue e Letterature straniere presso l’Università degli Studi di Milano, dove ottiene anche il Master di primo livello PROMOITALS (Didattica dell’Italiano come lingua seconda e straniera). Successivamente ottiene il Master di secondo livello all’Université de Franche-Comté (Besançon, Francia) in Letteratura e Cultura Italiana. Ha insegnato italiano come lingua straniera a Milano, Città del Messico e Besançon.
Janet Frame: scrittura e follia scritto da Ivana Daccò
Una che che ce l’ha fatta ad uscire dal manicomio, un po’ per fortuna, molto per determinazione. Per capacità. Un genio.
Mentre leggo “Un angelo alla mia tavola”, autobiografia di Janet Frame, mi si impone il riflettere sul fatto che la sua opera e la qualità della sua figura di donna vengono, e sono, legate alla sua storia di sofferenza psichica; e la riflessione si allarga allo stereotipo che propone come pressoché inevitabile la relazione tra una sensibilità fuori dell’ordinario, che sa tradursi in parole, e la malattia mentale, quantomeno la precarietà di quel tanto di equilibrio richiesto (e non potrebbe essere diversamente) dalle convenzioni sociali, dall’epoca e dalla società in cui si vive.
E’ uno stereotipo che colpisce, non solo ma in particolare, le donne; e il tema della presenza, ad esempio, di suicidi tra le scrittrici o, come nel caso di Janet Frame, di malattia mentale, ritorna, più o meno dibattuto, più o meno sostenuto da dati oggettivi, quasi ci fosse una richiesta sociale che prescriva questo. ‘Genio e sregolatezza’ certo ma, per le donne, sembra si chieda qualcosa di più.
Non voglio, qui, raccontare la storia di vita della Frame, che è bene lasciare al libro, al suo diretto racconto che spero a breve di riuscire a proporre, se non per il ‘non dettaglio’ di anni di vita, tra i venti e i trent’anni di età, trascorsi al manicomio prima che, a seguito del suo successo di scrittrice, tale diagnosi non venisse, diciamo, revocata e le venisse restituita la libertà personale.
Vero, la sua biografia dice, a proposito della fine dell’esperienza manicomiale, che è stata riconosciuta come <errata> la diagnosi di schizofrenia che le era stata ascritta ed è stato tirato un rigo sui duecento elettroshock subiti e sulla lunga esperienza di reclusione, per non dir altro. E allora va bene, diciamo che la diagnosi era sbagliata; oppure che la schizofrenia non esiste; che, forse, è altra cosa e non si cura con gli elettroshock, come pure avviene ancora in molte parti del mondo. Diciamo che sono il regime manicomiale e la supposta cura a causare la devastazione mentale e fisica delle persone affette da questa malattia. Problema complesso.
Ma il tema che, mentre leggo, mi si pone è un po’ diverso. Il tema sta nel fatto che, in qualche modo, sembra sia difficile che non venga correlata alla pseudo o vera malattia di cui Janet Frame (non) soffriva, la sua particolare sensibilità, la visione che lei stessa esprimeva della sua vita, di cui diceva che era scissa tra “questo mondo” e “quel mondo”, tra la vita che conduceva in quello che chiamava il suo mondo, ricco di sensazioni, colori, emozioni, riservate a lei sola, da tradurre in scrittura, da contenere, forse, attraverso la parola scritta, e dunque mediata, e la vita che conduceva nel mondo di tutti, dentro le regole, gli impegni che la società richiede, dove si muoveva comunque con la necessaria competenza – e con la fatica, va detto, che ciò comportava per lei, donna introversa, timida, a disagio nelle relazioni con gli altri.
Ed ecco aprirsi l’estrema aporia che vuole far convivere, nella mente di una ‘pazza’ (con tutto ciò che il senso comune associa a tale condizione), una sensibilità fuori dell’ordinario, un pensiero preda di visioni, emozioni di grande forza, stati d’animo difficili da controllare e l’estremo rigore, la capacità tecnica, la cura, la continuità di impegno richiesti dalla scrittura. Tutte cose che mal si sposano con una mente devastata.
E colpisce come, ancora, viva una forma di malinteso romanticismo, fuori tempo e fuori contesto, che fa amare, quasi desiderare, sembra, la figura dell’artista caratterizzato da eccessi (nel vivere, nel sentire, nel comportarsi) che diventano disagio mentale fino ad arrivare alla pazzia, e fino al comportamento suicidario, in particolare quando l’artista è donna.
Non sono infrequenti i luoghi comuni che associano la letteratura al femminile alla pazzia, che indicano un tasso di suicidi particolarmente elevato tra le scrittrici. Poi, al dunque, tutti pronunciano un solo nome: Virginia Woolf. Janet Frame è fortunatamente morta anziana, per una malattia, nella sua città natale di Dunedin in Nuova Zelanda.
Eppure. Qualcosa sembra esserci, potrebbe, e il nome della Woolf non è il solo, nel computo delle morti cercate. L’elenco potrebbe essere lungo – limitandoci al ‘900 vengono alla mente le poetesse Amelia Rosselli, Antonia Pozzi, Alfonsina Storni, l’americana Silvia Plath. Possiamo aggiungere Marina Cvetaeva, Alejandra Pizarnik, Violeta Parra. Sibilla Aleramo ha a suo carico un tentativo fortunatamente fallito mentre ha evitato tale esito, ma pagando con una vita di grande sofferenza, la sudafricana Bessie Head; e non è stata facile la vita, e la storia manicomiale di Alda Merini.
Solo un abbozzo di elenco impossibile, che comporterebbe comunque la mancanza di tutte quelle che il mondo non ha conosciuto.
Le biografie di queste donne riportano difficoltà di vita talora gravi, che tuttavia difficilmente consentirebbero una correlazione tanto semplicistica, come se il viverle dovesse portare, di per sé, attraverso una relazione diretta e inevitabile, alla pazzia; o come se il cedere alle prove della vita fosse il segno distintivo di un animo elevato, di una sensibilità superiore che tutte le donne che, similmente provate, non hanno ceduto, non possedessero.
Eppure. E’ pensabile che queste grandi scrittrici siano state, pur dentro storie personali difficili, più che sane di mente, ma che il loro mondo le abbia messe alla prova in modo alla fine insostenibile, mponendo loro un sovraccarico di peso per il loro essersi permesse la scrittura, la poesia, deviando dall’assunzione di ruolo prescritta? E’ pensabile che quel di più che la società ha posto sulle loro spalle abbia fatto la differenza?
Janet Frame, I ghiaccioli , da Parleranno le tempeste, Gabriele Capelli Editore (2017)
Districare quei fitti ricci rossi per Janet era un problema come cercare uno spazio di silenzio in cui immergersi per accudire le sue amate parole.
Non era una vita semplice quella che le si presentò, e non lo fu nemmeno in seguito: tre sorelle con cui condividere vestiti, letto e libri, un fratello colpito da continui attacchi epilettici, una maestra che non perdeva occasione per ricordarle la sua povertà, il suo disordine, i suoi abiti sporchi, una madre che tentava di abbellire le povere case – in cui continuamente si trasferivano per seguire il padre ferroviere – con oggetti di fantasia.
Un taccuino – dono dal padre – si trasforma in un’insperata ancora di salvezza nel grigio di quei primi anni, e un libro di fiabe – Le favole dei fratelli Grimm – prestato da un’amica, la introduce in un mondo ricco e senza confini. La fantasia viaggia libera e si lascia andare.
Janet è “diversa”, poco incline alle relazioni, introversa, timida, lo sarà per tutto il resto della sua esistenza con buona pace di chi la voleva cambiare. Scopre il mondo dei libri e tra quelle parole cerca un riparo. I libri aumentano, sempre in prestito, li porta a casa, non li lascia nemmeno per mangiare. Comincia a scrivere sul suo taccuino, scrive a scuola, prime composizioni, primi tentativi di liberare la parola. Non viene presa sul serio: lei è la “strana”, la “matta”. Pubblica sul giornalino della scuola, e non solo; queste prime scritture ricevono un riconoscimento insperato. Cambia maestra. Il nuovo maestro legge con interesse i suoi temi a scuola, il resto che le aleggia intorno non gli interessa minimamente. La incoraggia a proseguire e Janet giura a se stessa che da grande farà la poetessa!
Difficile credere che questo sia stato il background di Janet Frame, autrice neozelandese, due volte proposta per il Premio Nobel.
Un’idea narrativa inserita in una autobiografia, richiesta proprio dal suo maestro, un tentativo di suicidio e Janet la “diversa” finisce per otto lunghi anni in un ospedale psichiatrico sottoposta a quattrocento elettroshock, il “trattamento”, lo chiamano i medici, una “esecuzione” lo definisce lei.
Janet scrive su qualunque pezzo di carta riesce a recuperare e consegna i testi alla sorella durante le rare visite in istituto.
Non volevo che mi accadesse nulla, scriverà in seguito nella sua autobiografia, per questo si rende disponibile, lava, mette la cera, rispetta i suoi turni, ma lo stesso non sfugge al trattamento che le viene somministrato con la stessa regolarità.
Il giorno prima dell’intervento per la lobotomia il medico di Janet annulla l’operazione e prepara le sue dimissioni dall’ospedale. Quei racconti affidati alla sorella durante le rare visite, sono stati inviati a un premio prestigioso e Janet risulta prima. La notizia della vincita e dell’uscita del libro è riportata sul giornale. Il medico la dimette il giorno dopo, Janet non è più persona da manicomio.
Gli occhi ciechi sono ora padroni di sé – da Canto
Janet Frame continuò a scrivere racconti, pubblicò con regolarità, vinse molti premi ma la poesia? Che fine aveva fatto la poetessa? Restava “nascosta in bella vista” (Gina Mercer).
Sono invisibile. / Sono sempre stata invisibile / come la povertà in un paese ricco, come i ricchi nelle stanze riservate delle loro case piene di stanze, come le pulci, i pidocchi, come un’escrescenza sottoterra, i mondi oltre il cielo, il vento, il tempo, le idee — l’elenco dell’invisibilità è infinito, e, dicono, non fa buona poesia. Come le decisioni. / Come l’altrove. / Come gli istituti lontani dalla strada di nome Scenic Drive. / Basta similitudini. Sono invisibile.
Oltre alle poesie disseminate nei suoi romanzi, alcuni dei racconti brevi possono essere definiti “poesie in prosa” (Bill Manhire). Pubblicazioni sporadiche su alcune riviste e, nonostante un solo volume di poesia pubblicato durante la sua vita, l’opera in versi comprende ben 170 componimenti!
Non pubblicò mai una seconda raccolta, per diversi motivi. La necessità di guadagnarsi da vivere la condusse a produrre ciò che era più vendibile, i suoi discussi trascorsi psichiatrici, ma anche una certa misoginia di sguardo, un buon numero di guardiani sessisti ansiosi di stroncare e reprimere la poesia di Janet Frame, nonché una polverosa invidia maschile.
La stessa nipote, Pamela Gordon, nel ruolo di esecutrice letteraria in possesso dei suoi manoscritti inediti di poesia e di prosa, ha subito pressioni. E quando tentò di spingerla a pubblicare il volume di poesie prima di morire, Janet rispose: “Non ho bisogno che nessuno mi dica che il mio lavoro è buono. Fallo dopo che sarò morta.”
Gli dei
Chi ha detto che gli dei non hanno bisogno di sognare? /Fanno più sogni di tutti e più cupi / con gli occhi notturni che infiammano un regno / che il loro risveglio piange, perduto.
[…]
Più sono solitari i loro picchi di nuvole / più vicini si fanno i loro sogni/ a scaldare colline deserte e popolate / – gli dei più di tutti hanno bisogno di sognare.
E nonostante la sua figura di poetessa sia stata trascurata e quasi dimenticata (per anni non è stata più pubblicata), oggi la sua poesia è tornata ad essere tradotta e pubblicata. Parleranno le tempeste – il volume da cui sono tratte alcune poesie qui presenti – è la terza edizione di poesie scelte e tradotte a vedere la luce negli ultimi anni.
Le poesie di Janet Frame (1924 – 2004) colpiscono per la chiarezza, il controllo, la precisione con cui riescono a definire aspetti dell’animo, della psiche, del comportamento umano. Riesce a mettere a fuoco con esattezza e piena responsabilità, con una padronanza sorprendente figurazioni metaforiche, che sono intese a chiarire, a definire aspetti dell’esistere, dello stare, dell’andare, del morire. Lo scontro costante, quotidiano, l’opposizione tra luce e buio, tra il visibile e l’invisibile che pure permane sono dichiaratamente i suoi temi portanti. È evidente la sua abilità nel provocare sentimenti in chi legge. Il suo talento nel filtrare e amplificare i più complessi sentimenti, il nascosto, lo straordinario nelle cose di tutti i giorni, il non detto, la vergogna, la colpa, le contraddizioni umane.
La Frame affronta temi vari e profondi ma lo fa con un approccio originale e creativo, lo fa con scelte linguistiche in cui le continue allitterazioni, il gioco, i simil-anagrammi rappresentano uno sforzo/gioco poetico. Le poesie colpiscono per la struttura e composizione nell’ affrontare i temi della morte, della separazione e della partenza.
La poetica di Janet Frame non si aggroviglia su nuclei di rabbia ma rappresenta un percorso di silenzio in cui riportare alla luce antiche memorie con una discrezione estrema e sofferta, mai urlata.
Il poeta, allora, “respira con un polmone solo / sale una scala con un solo piolo / spara alle stelle senza arma alla mano”.
Nel passo lieve Janet Frame sostiene la sua lotta senza perdersi e rimanendo fedele al suo essere “Eppure ho sentito / di insetti stecco e sagome / e letti a righe / nel cielo e file / di fiori incorporei / in bianco e nero / miseri come gli arcobaleni contro la pressione / e la purezza / del non-colore. / Devo continuare a lottare / con la testa gialla e rossa / dal profondo della fossa, io rimanendo a modo mio”.
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