Gabriele Formenti-GEORG PHILIPP TELEMANN Vita e Opera del più prolifico compositore del barocco tedesco
Zecchini Editore-Varese
Descrizione del libro di Gabriele Formenti-GEORG PHILIPP TELEMANN-Nato a Magdeburgo nel 1681 e attivo in varie città tedesche quali Lipsia, Eisenach, Francoforte ed infine Amburgo, Telemann è oggi considerato uno dei maggiori compositori dell’epoca barocca. A fronte di un catalogo che conta migliaia di composizioni si segnala però un interesse tardivo da parte della musicologia nell’indagare la sua opera. Solamente negli ultimi anni si è portata avanti una ricerca che ha potuto svelare alcuni dettagli significativi della sua biografia, come ad esempio il suo rapporto con Johann Sebastian Bach, mentre sul versante delle opere ha evidenziato il costante richiamarsi agli stili allora in voga in Italia e Francia, capaci di guidare il compositore verso la definizione di un ideale “stile misto” che influenzerà tutta la sua produzione. Questo volume rappresenta la prima monografia in Italiano sull’autore e si prefigge di approfondire non solamente gli aspetti più noti riguardo la sua figura, ma anche quelli meno conosciuti, capaci di restituirci, in tutta la sua grandezza, la figura di un musicista straordinario, enciclopedico, fra i più ammirati e conosciuti all’epoca. A corredo del volume il catalogo completo di tutte le sue opere vocali e strumentali e una playlist selezionata dall’autore, ascoltabile gratuitamente online.
Roma al Teatro degli Audaci ritorna a grande richiesta: “Un papà per tutti”-
Roma-Il direttore artistico del Teatro degli Audaci, Flavio De Paola, ha il piacere di invitare, il suo amatissimo pubblico, presso lo stabile del III Municipio per assistere ad una delle commedie che ha fatto ridere le città più importanti d’Italia: “Un papà per tutti“.
Questa divertentissima commedia di Jhon Tremblay, curata nei minimi dettagli dalla regia di Flavio De Paola, sarà in scena al Teatro degli Audaci sino al 16 febbraio 2025! Un cast curato ben selezionato, farà ridere e sorridere il pubblico in sala, saliranno sul palcoscenico Serena Renzi, Emiliano Ottaviani, Antonio Coppola, Antonella Rebecchi, Giulia De Santis e lo stesso Flavio De Paola, che, oltre a dirigere gli attori, in qualità di regista, ricoprirà un ruolo sostanziale all’interno della commedia!
Roma al Teatro degli Audaci : “Un papà per tutti”-Roma al Teatro degli Audaci : “Un papà per tutti”-
“Un papà per tutti” è l’apoteosi degli equivoci: tra menzogne, fraintendimenti e mezze verità, quella messa in atto non è che non una storia della nostra quotidianità. Il protagonista Matteo – interpretato da Flavio De Paola – quando finalmente sta per diventare padre adottivo, è vittima di ciò che non dovrebbe mai accadere in una simile situazione: il suo rapporto di coppia si frantuma e le certezze svaniscono, lasciando spazio a improvvisi e folli equilibri in un “gioco” di menzogne e mezze verità.
Matteo, inoltre, si troverà ad affrontare un incaricato dei servizi sociali, un’impassibile signorina Rottermeier, che incombe come un tuono in una situazione di calma apparente. Ma quella che doveva essere una semplice pratica burocratica di assegnazione dell’infante, si trasforma in una vera e propria baraonda, su cui si innestano storie di tradimenti, di false identità e di nuove scoperte.
Una commedia degli equivoci che non manca di divertire lo spettatore grazie a situazioni tanto assurde quanto comiche e che non perde occasione di trattare, seppur con leggerezza, temi sociali legati all’adozione, alla famiglia e all’omosessualità, lasciando spazio alla riflessione. Le relazioni umane sono al centro dell’intera pièce teatrale e s’intrecciano formando nuovi e insoliti legami, spesso con colpi di scena.
Ma a questo punto non ci resta che invitarvi al Teatro degli Audaci sino al 16 febbraio per non perdere questo straordinario spettacolo, telefonando al numero 06 94376057 tutti i giorni dal lunedì al sabato ore 10:00 – 13:30 / 16:00 – 20:00 e domenica ore 16:00 – 20:00!
DESCRIZIONE-Pablo PICASSO Nel 1935, quando ha già 54 anni e attraversa un periodo di crisi nella professione e nella vita privata, Picasso comincia a scrivere poesie, una passione alla quale si dedicherà, con alcune interruzioni, fino al 1959 facendone il territorio di una geniale sperimentazione. Guidato da un istinto innato, maneggia la lingua con la stessa libertà inventiva con cui utilizza gli altri mezzi espressivi nel suo lavoro di artista. Ama i giochi di parole, gli inventari, le accumulazioni e le combinazioni. Alterna il francese allo spagnolo; liriche composte di getto a elaborate riscritture basate sulla ripresa e variazione degli stessi elementi; poesie fiume, in cui le parole si spintonano proprio come gli oggetti si assemblano sulla tela, a labirintici componimenti a rizoma in cui la linearità è messa al bando: una scrittura personalissima, vertiginosa, inafferrabile, che sfida ogni classificazione ma a cui non sono estranee suggestioni colte, dal barocco spagnolo a Mallarmé, da Alfred Jarry al dadaismo e al surrealismo. Dietro il poeta si intravede in filigrana il pittore, con i numerosi riferimenti alla luce, alle ombre e soprattutto ai colori. Anche i temi che ricorrono sono gli stessi che popolano i dipinti: la Spagna, la corrida, le danze e i canti popolari; la guerra e la violenza della dittatura franchista; il cibo, l’amore, la morte. Arricchita dalle riproduzioni di alcune splendide pagine manoscritte, questa raccolta dei più significativi testi di uncorpus che ne comprende oltre 350 documenta un aspetto ancora poco noto dell’opera di Picasso contribuendo a far luce sul percorso creativo del più grande artista del Novecento.
Letizia Battaglia, la più celebre fotografa italiana-
Letizia Battaglia
Il 5 marzo 1935 nasce Letizia Battaglia, la più celebre fotografa italiana. Celebre più all’estero che nei nostri confini, e questo è un grande classico nostrano: non saper riconoscere e premiare il talento. Figuriamoci se poi fa un mestiere difficile, il fotografo, e se per di più è donna. Quindi fotografa.
Letizia Battaglia è nata a Palermo. La Sicilia sembra andarle stretta, e invece sarà il destino di una vita. Si sposa giovanissima, scappa a Milano, collabora con giornali e riviste scandalose per l’epoca, come “Le Ore”. Impara a scrivere reportage, ma soprattutto impara e perfeziona la sua tecnica fotografica.
Ma Palermo è nel suo destino. Il direttore de “L’Ora” la reclama e dai primi anni ’70 diventa la testimone di una lunga stagione: stagione di morti ammazzati, di bambini che giocano allo Zen o in qualche altra periferia, di donne che faticano in casa, di boom edilizio.
Letizia è sempre lì, in prima fila a raccontare per immagini ciò che nemmeno le parole possono più fare. Una società schiacciata dal fenomeno mafioso, tarpata nel suo volo da una cappa viscosa e invisibile. E i suoi scatti prediligono le figure femminili, le donne di Sicilia nelle loro strade, nei mercati, nei loro lutti continui a causa della mattanza che in quegli anni causerà più di mille vittime di mafia. Nel 1979 è cofondatrice del centro di documentazione Giuseppe Impastato. Nel 1985 è la prima donna europea a ricevere il premio Eugene Smith a New York, primo di una lunga serie di riconoscimenti.
Racconta la mafia in tutta la sua cruda violenza, la porta nella casa dei siciliani prima, del resto d’Italia poi. Suo è lo splendido scatto in bianco e nero di Rosaria, la vedova di Vito Schifani, uno degli agenti di Falcone, saltato in aria a Capaci. In una intervista ha descritto le battaglie della sua vita: «Mio padre non capiva cosa fosse un essere umano donna. Mi trovavo all’interno di una società dove una donna non veniva considerata, ho attraversato tutto questo mentre ancora si doveva lottare. Queste lotte le ho fatte prettamente da sola, senza percepire che fosse una lotta giusta, è stato molto complicato uscirne indenne».
Martha Argerich puoi conoscerla attraverso la sua biografia scritta da Olivier Bellamy: un libro interessante, intrigante e ricco di aneddoti, corredato di cronologia, premi, galleria fotografica, repertorio, discografia e videografia, documentari, indici dei nomi, delle etichette, delle opere citate, dei musicisti, dei cantanti, dei cori, dei luoghi, delle orchestre e degli ensemble che hanno collaborato con la grande pianista argentina.
MARTHA ARGERICH
Olivier Bellamy
MARTHA ARGERICH- L’enfant et les sortilèges-
Presentazione di Carlo Piccardi
pagine XII+356 – formato cm. 17×24 – illustrato
Collana “Personaggi della Musica”, 19 – euro 25,00
Genio del pianoforte”, “miracolo della natura”, “ciclone argentino”, o ancora “leonessa della tastiera”: non mancano certo le definizioni per evocare la dirompente personalità di Martha Argerich. Nata nel 1941, la leggendaria pianista argentina, applaudita sulle scene internazionali da decenni, affascina per la potenza delle sue esecuzioni e per il mistero della sua personalità. Il suo temperamento indomabile, il carattere libero e indipendente ne fanno un personaggio davvero atipico nel mondo della musica classica. In una narrazione costellata di aneddoti inediti e di sorprendenti rivelazioni, Olivier Bellamy dipana le fila di una vita ricca di eventi e di sviluppi imprevedibili: dall’infanzia in Argentina, quand’era bambina prodigio a Buenos Aires, passando per gli studi di perfezionamento dapprima a Vienna con Friedrich Gulda e quindi ad Arezzo e Moncalieri con Arturo Benedetti Michelangeli, per arrivare alle decisive affermazioni del Premio Busoni di Bolzano e del Concorso di Ginevra e all’apoteosi dello “Chopin” di Varsavia, fino agli anni più recenti, caratterizzati anche da momenti di profonda crisi, da rinunce ai concerti e ancora da trionfali ritorni… Di città in città (Buenos Aires, Vienna, Bolzano, Amburgo, New York, Ginevra, Bruxelles, Londra, Rio de Janeiro, Mosca…), attraverso i suoi colleghi musicisti, gli amori, le amicizie, il libro delinea il ritratto intimo di un’artista dalla profonda umanità.
MARTHA ARGERICH
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Bernardino MOLINARI in concerto al Teatro AUGUSTEO di ROMA- 9 marzo 1924
Programma di sala originale completo
Bernardino MOLINARI in concerto al Teatro AUGUSTEO di ROMA- 9 marzo 1924
Biografia di Bernardino MOLINARI– (Nacque a Roma l’11 apr. 1880 – ivi 1952)da Giovanni e Maria Stozzi.Dotato di precoce talento musicale – H. Wolf diede un giudizio lusinghiero su una fuga bachiana eseguita dal M. a soli dieci anni (Mucci, p. 17) –, entrò nel 1896 al liceo musicale di S. Cecilia, studiando armonia e organo con R. Renzi e composizione con S. Falchi. Si diplomò nel 1902, affrontando già durante gli studi i primi concerti.
Nel 1908 venne inaugurata a Roma la grande sala dell’Augusteo, destinata a diventare la sede storica dell’orchestra di S. Cecilia: quattro anni dopo, il trentaduenne M. – che si era rivelato prezioso elemento già dal 1909, preparando l’orchestra per l’attesissimo concerto che avrebbe diretto R. Strauss – ne divenne il direttore artistico e stabile. Prendeva così avvio una lunga stagione, destinata a durare fino al 1944, di fondamentale importanza per l’educazione musicale del pubblico romano: in perfetta intesa con il conte Enrico di San Martino, presidente dell’Accademia di S. Cecilia, il M. avviò un capillare lavoro di riappropriazione della cultura sinfonica, messa in disparte da un secolo di predominio operistico, da intendersi come altra grande tradizione musicale italiana, parallela a quella melodrammatica.
Grazie ai concerti da lui diretti, approdarono per la prima volta a Roma e in Italia molti nuovi capolavori di C. Debussy, I. Stravinskij, A. Honegger. Il M. si fece inoltre promotore di una nuova scuola sinfonica italiana: una fitta schiera di nomi dove spiccavano O. Respighi, R. Zandonai, G.F. Malipiero, A. Casella, il giovane G. Petrassi e, prima delle leggi razziali del 1938, M. Castelnuovo Tedesco.
Con tale repertorio non fu sempre facile conquistare il pubblico: burrascosa, per esempio, fu l’accoglienza del concerto (5 febbr. 1922) ove furono presentati i Tre canti d’amore di F. Mantica, le Impressioni pagane di V. Davico e il Concerto gregoriano di Respighi. Una correzione di rotta (dalle serate di sole novità italiane si passò ai concerti misti, ma sempre, se possibile, con una pagina di autore italiano contemporaneo) e importanti iniziative parallele all’attività concertistica (la costituzione, nel 1929, di una commissione di lettura per le partiture inedite) rinforzarono però il sogno del M. di una scuola sinfonica italiana.
D’altronde con gli anni la politica culturale di B. Mussolini tese a privilegiare il sinfonismo rispetto al vecchio mondo del melodramma, vedendo nell’orchestra sinfonica una metafora della compatta disciplina di massa; né il M. mancò di svolgere, quale membro del Direttorio del sindacato nazionale dei musicisti, un ruolo – del tutto informale – di consulente musicale del duce.
Non meno impegnato fu come rielaboratore di partiture. Tra le numerose trascrizioni sono da citare (incise anche in disco): L’isle joyeuse di Debussy (trascritta per pianoforte e orchestrata dal M.), Moto perpetuo di N. Paganini (esteso dal violino solista alla massa dei primi violini) e Le quattro stagioni di A. Vivaldi (riadattate per un’orchestra «allargata»). Il M. fu attivo anche sotto il profilo didattico: nel 1936 varò presso l’Accademia di S. Cecilia un corso di perfezionamento in direzione d’orchestra, destinato a trasformarsi tre anni dopo in cattedra ufficiale. Ne uscirono allievi come F. Molinari Pradelli, O. Ziino e G. Gavazzeni; ma già in precedenza il M. aveva dato il proprio contributo alla formazione delle nuove leve, utilizzando e valorizzando – quale suo maestro sostituto all’Augusteo – M. Rossi, destinato di lì a poco a un’importante carriera. Il M. fu un vero personaggio pubblico, noto per il suo carattere talvolta irascibile (si accaniva in un interminabile numero di prove, esasperando gli strumentisti) e animatore di riunioni – il mercoledì e la domenica, dopo i concerti all’Augusteo – che convogliavano grandi menti di ogni campo artistico.
Il 16 febbr. 1933, per il venticinquesimo anno dell’Augusteo, il M. diresse un trionfale concerto, dal programma identico a quello diretto da G. Martucci nel 1908 per l’inaugurazione.
Ma alla sala restavano solo tre anni di vita: costruita sulle rovine del mausoleo di Augusto, fu demolita – in ottemperanza alla visione urbanistica neoimperiale del regime – nel maggio 1936, per rendere più visibili le vestigia antiche e isolarle dagli edifici circostanti. Dalla stagione 1936-37, e fino al 1946, la sede sarebbe stata il teatro Adriano. Per ironia della sorte, solo nel 1937 l’orchestra di S. Cecilia fu formalizzata come «stabile»: l’unica orchestra sinfonica stabile italiana.
A fronte dei concerti romani non meno importanti furono le presenze del M. all’estero, sia con i complessi ceciliani sia con le orchestre del posto (reiterata la collaborazione con la Filarmonica Ceca a Praga). Importanti poi, nell’ambito dell’asse Roma-Berlino, i concerti in Germania nella stagione 1940-41.
All’indomani della liberazione di Roma, il M. venne duramente contestato nel corso di due serate all’Adriano. Il 9 luglio un suo concerto offrì «il destro […] di inscenare una manifestazione ostile […]. Il pubblico fischiava; alcuni ufficiali americani si fecero largo tra la folla inferocita ed andarono a stringere la mano al Maestro» (Il Tempo, 11 luglio 1944, p. 2). Peggio, però, le cose andarono nel concerto del 12 luglio: dalla galleria piovvero volantini intitolati «Fuori Molinari!», in cui si leggeva «come il fascista Molinari trattasse con rozzi metodi dittatoriali gli orchestrali» e che «si invita ogni spettatore di buon senso a manifestare energicamente il proprio dissenso». La prima parte del concerto fu portata a termine, ma la seconda – era prevista la sinfonia n. 9 di L. van Beethoven – non poté avere luogo perché il soprano solista, Liana Cortini, comunicò nell’intervallo la sua volontà di non cantare per «protesta contro il maltrattamento che il M° Molinari faceva agli interpreti» (Fiorda, p. 71). Alla fine «fischi ed urla lo costrinsero a ritirarsi» (Il Tempo, 13 luglio, p. 2). Il giorno dopo, sempre nel Tempo, apparve una lettera della Cortini, da molti ritenuta complice dei contestatori, dove il soprano ribadiva le proprie ragioni.
L’incidente all’Adriano segnò duramente il M., che si sarebbe riaffacciato su un podio romano solo con l’orchestra del teatro dell’Opera, con due edizioni di Norma di V. Bellini: prima nel gennaio 1946, poi nel luglio dello stesso anno, alle Terme di Caracalla. Furono le ultime apparizioni di una carriera ormai conclusa: incapace di farsi una ragione delle numerose epurazioni di quei mesi (che oltre al M. coinvolsero, per breve periodo, pure Enrico di San Martino), indifferente ai tentativi degli accademici di S. Cecilia di assicurargli una riabilitazione morale (venne eletto vicepresidente), sempre più chiuso in se stesso, il M. morì a Roma il 25 dic. 1952.
Se gli estimatori del M. furono molti, da Debussy (con cui ebbe un fitto scambio epistolare) a Stravinskij, non mancò chi scorse dei limiti nel concertatore: lo stesso altissimo numero di prove potrebbe essere indice di insicurezza, più che di scrupolo professionale (D’Amico). Il librettista e critico musicale E. Mucci, autore nel 1941 di una biografia del M., parlò anche di un’evoluzione del suo approccio interpretativo: più infuocato nella prima parte della carriera, più misurato poi. La documentazione discografica è comunque troppo sguarnita per una disamina della sua arte. Pesa pure, ai fini di un giudizio complessivo, la scarsa frequentazione del genere operistico: oltre a Norma, solo Aida di G. Verdi (di cui il M., sulla scia di A. Toscanini, recuperò la sinfonia disconosciuta dall’autore), Manon Lescaut di G. Puccini e, in ambito francese, Werther di J. Massenet e Romeo e Giulietta di Ch. Gounod, oltre a Oedipus rex (per il M. una logica coda delle frequentazioni con lo Stravinskij sinfonico).
Fonti e Bibl.: Necr., in M. Labroca, Ricordo di B. M., in Rassegna musicale, gennaio 1953, pp. 38 s.; E. Mucci, B. M., Lanciano 1941; Il Tempo, Roma, comunicati redazionali, 11, 13 e 14 luglio 1944, p. 2; G. Boni, B. M., in S. Cecilia, dicembre 1962, p. 5; R. Rossellini, B. M., ibid., pp. 6 s.; N. Fiorda, Arte beghe e bizze di Toscanini, Roma 1969, pp. 69-71; G. Barigazzi, La Scala racconta, Milano 1984, p. 279; F. Nicolodi, Musica e musicisti nel ventennio fascista, Fiesole 1984, pp. 94, 139, 294 s., 300 s., 348, 351, 413; H. Sachs, Musica e regime, Milano 1995, pp. 42 s., 115 s., 128, 175, 202 s., 211 s., 216, 247, 310; F. D’Amico, Un ragazzino all’Augusteo, a cura di F. Serpa, Torino 1991, pp. 235 s.; S. Biguzzi, L’orchestra del duce, Torino 2003, p. 124; Diz. encicl. univ. della musica e dei musicisti, Le biografie, V, p. 134.
Fonte -Enciclopedia TRECCANI on line-
Bernardino MOLINARI in concerto al Teatro AUGUSTEO di ROMA- 9 marzo 1924Bernardino MOLINARI in concerto al Teatro AUGUSTEO di ROMA- 9 marzo 1924Bernardino MOLINARI in concerto al Teatro AUGUSTEO di ROMA- 9 marzo 1924Bernardino MOLINARI in concerto al Teatro AUGUSTEO di ROMA- 9 marzo 1924Bernardino MOLINARI in concerto al Teatro AUGUSTEO di ROMA- 9 marzo 1924Bernardino MOLINARIGiovanni BRAHMSBernardino MOLINARI
Biografia di Bernardino MOLINARI– (Nacque a Roma l’11 apr. 1880 – ivi 1952)da Giovanni e Maria Stozzi.Dotato di precoce talento musicale – H. Wolf diede un giudizio lusinghiero su una fuga bachiana eseguita dal M. a soli dieci anni (Mucci, p. 17) –, entrò nel 1896 al liceo musicale di S. Cecilia, studiando armonia e organo con R. Renzi e composizione con S. Falchi. Si diplomò nel 1902, affrontando già durante gli studi i primi concerti.
Nel 1908 venne inaugurata a Roma la grande sala dell’Augusteo, destinata a diventare la sede storica dell’orchestra di S. Cecilia: quattro anni dopo, il trentaduenne M. – che si era rivelato prezioso elemento già dal 1909, preparando l’orchestra per l’attesissimo concerto che avrebbe diretto R. Strauss – ne divenne il direttore artistico e stabile. Prendeva così avvio una lunga stagione, destinata a durare fino al 1944, di fondamentale importanza per l’educazione musicale del pubblico romano: in perfetta intesa con il conte Enrico di San Martino, presidente dell’Accademia di S. Cecilia, il M. avviò un capillare lavoro di riappropriazione della cultura sinfonica, messa in disparte da un secolo di predominio operistico, da intendersi come altra grande tradizione musicale italiana, parallela a quella melodrammatica.
Grazie ai concerti da lui diretti, approdarono per la prima volta a Roma e in Italia molti nuovi capolavori di C. Debussy, I. Stravinskij, A. Honegger. Il M. si fece inoltre promotore di una nuova scuola sinfonica italiana: una fitta schiera di nomi dove spiccavano O. Respighi, R. Zandonai, G.F. Malipiero, A. Casella, il giovane G. Petrassi e, prima delle leggi razziali del 1938, M. Castelnuovo Tedesco.
Con tale repertorio non fu sempre facile conquistare il pubblico: burrascosa, per esempio, fu l’accoglienza del concerto (5 febbr. 1922) ove furono presentati i Tre canti d’amore di F. Mantica, le Impressioni pagane di V. Davico e il Concerto gregoriano di Respighi. Una correzione di rotta (dalle serate di sole novità italiane si passò ai concerti misti, ma sempre, se possibile, con una pagina di autore italiano contemporaneo) e importanti iniziative parallele all’attività concertistica (la costituzione, nel 1929, di una commissione di lettura per le partiture inedite) rinforzarono però il sogno del M. di una scuola sinfonica italiana.
D’altronde con gli anni la politica culturale di B. Mussolini tese a privilegiare il sinfonismo rispetto al vecchio mondo del melodramma, vedendo nell’orchestra sinfonica una metafora della compatta disciplina di massa; né il M. mancò di svolgere, quale membro del Direttorio del sindacato nazionale dei musicisti, un ruolo – del tutto informale – di consulente musicale del duce.
Non meno impegnato fu come rielaboratore di partiture. Tra le numerose trascrizioni sono da citare (incise anche in disco): L’isle joyeuse di Debussy (trascritta per pianoforte e orchestrata dal M.), Moto perpetuo di N. Paganini (esteso dal violino solista alla massa dei primi violini) e Le quattro stagioni di A. Vivaldi (riadattate per un’orchestra «allargata»). Il M. fu attivo anche sotto il profilo didattico: nel 1936 varò presso l’Accademia di S. Cecilia un corso di perfezionamento in direzione d’orchestra, destinato a trasformarsi tre anni dopo in cattedra ufficiale. Ne uscirono allievi come F. Molinari Pradelli, O. Ziino e G. Gavazzeni; ma già in precedenza il M. aveva dato il proprio contributo alla formazione delle nuove leve, utilizzando e valorizzando – quale suo maestro sostituto all’Augusteo – M. Rossi, destinato di lì a poco a un’importante carriera. Il M. fu un vero personaggio pubblico, noto per il suo carattere talvolta irascibile (si accaniva in un interminabile numero di prove, esasperando gli strumentisti) e animatore di riunioni – il mercoledì e la domenica, dopo i concerti all’Augusteo – che convogliavano grandi menti di ogni campo artistico.
Il 16 febbr. 1933, per il venticinquesimo anno dell’Augusteo, il M. diresse un trionfale concerto, dal programma identico a quello diretto da G. Martucci nel 1908 per l’inaugurazione.
Ma alla sala restavano solo tre anni di vita: costruita sulle rovine del mausoleo di Augusto, fu demolita – in ottemperanza alla visione urbanistica neoimperiale del regime – nel maggio 1936, per rendere più visibili le vestigia antiche e isolarle dagli edifici circostanti. Dalla stagione 1936-37, e fino al 1946, la sede sarebbe stata il teatro Adriano. Per ironia della sorte, solo nel 1937 l’orchestra di S. Cecilia fu formalizzata come «stabile»: l’unica orchestra sinfonica stabile italiana.
A fronte dei concerti romani non meno importanti furono le presenze del M. all’estero, sia con i complessi ceciliani sia con le orchestre del posto (reiterata la collaborazione con la Filarmonica Ceca a Praga). Importanti poi, nell’ambito dell’asse Roma-Berlino, i concerti in Germania nella stagione 1940-41.
All’indomani della liberazione di Roma, il M. venne duramente contestato nel corso di due serate all’Adriano. Il 9 luglio un suo concerto offrì «il destro […] di inscenare una manifestazione ostile […]. Il pubblico fischiava; alcuni ufficiali americani si fecero largo tra la folla inferocita ed andarono a stringere la mano al Maestro» (Il Tempo, 11 luglio 1944, p. 2). Peggio, però, le cose andarono nel concerto del 12 luglio: dalla galleria piovvero volantini intitolati «Fuori Molinari!», in cui si leggeva «come il fascista Molinari trattasse con rozzi metodi dittatoriali gli orchestrali» e che «si invita ogni spettatore di buon senso a manifestare energicamente il proprio dissenso». La prima parte del concerto fu portata a termine, ma la seconda – era prevista la sinfonia n. 9 di L. van Beethoven – non poté avere luogo perché il soprano solista, Liana Cortini, comunicò nell’intervallo la sua volontà di non cantare per «protesta contro il maltrattamento che il M° Molinari faceva agli interpreti» (Fiorda, p. 71). Alla fine «fischi ed urla lo costrinsero a ritirarsi» (Il Tempo, 13 luglio, p. 2). Il giorno dopo, sempre nel Tempo, apparve una lettera della Cortini, da molti ritenuta complice dei contestatori, dove il soprano ribadiva le proprie ragioni.
L’incidente all’Adriano segnò duramente il M., che si sarebbe riaffacciato su un podio romano solo con l’orchestra del teatro dell’Opera, con due edizioni di Norma di V. Bellini: prima nel gennaio 1946, poi nel luglio dello stesso anno, alle Terme di Caracalla. Furono le ultime apparizioni di una carriera ormai conclusa: incapace di farsi una ragione delle numerose epurazioni di quei mesi (che oltre al M. coinvolsero, per breve periodo, pure Enrico di San Martino), indifferente ai tentativi degli accademici di S. Cecilia di assicurargli una riabilitazione morale (venne eletto vicepresidente), sempre più chiuso in se stesso, il M. morì a Roma il 25 dic. 1952.
Se gli estimatori del M. furono molti, da Debussy (con cui ebbe un fitto scambio epistolare) a Stravinskij, non mancò chi scorse dei limiti nel concertatore: lo stesso altissimo numero di prove potrebbe essere indice di insicurezza, più che di scrupolo professionale (D’Amico). Il librettista e critico musicale E. Mucci, autore nel 1941 di una biografia del M., parlò anche di un’evoluzione del suo approccio interpretativo: più infuocato nella prima parte della carriera, più misurato poi. La documentazione discografica è comunque troppo sguarnita per una disamina della sua arte. Pesa pure, ai fini di un giudizio complessivo, la scarsa frequentazione del genere operistico: oltre a Norma, solo Aida di G. Verdi (di cui il M., sulla scia di A. Toscanini, recuperò la sinfonia disconosciuta dall’autore), Manon Lescaut di G. Puccini e, in ambito francese, Werther di J. Massenet e Romeo e Giulietta di Ch. Gounod, oltre a Oedipus rex (per il M. una logica coda delle frequentazioni con lo Stravinskij sinfonico).
Fonti e Bibl.: Necr., in M. Labroca, Ricordo di B. M., in Rassegna musicale, gennaio 1953, pp. 38 s.; E. Mucci, B. M., Lanciano 1941; Il Tempo, Roma, comunicati redazionali, 11, 13 e 14 luglio 1944, p. 2; G. Boni, B. M., in S. Cecilia, dicembre 1962, p. 5; R. Rossellini, B. M., ibid., pp. 6 s.; N. Fiorda, Arte beghe e bizze di Toscanini, Roma 1969, pp. 69-71; G. Barigazzi, La Scala racconta, Milano 1984, p. 279; F. Nicolodi, Musica e musicisti nel ventennio fascista, Fiesole 1984, pp. 94, 139, 294 s., 300 s., 348, 351, 413; H. Sachs, Musica e regime, Milano 1995, pp. 42 s., 115 s., 128, 175, 202 s., 211 s., 216, 247, 310; F. D’Amico, Un ragazzino all’Augusteo, a cura di F. Serpa, Torino 1991, pp. 235 s.; S. Biguzzi, L’orchestra del duce, Torino 2003, p. 124; Diz. encicl. univ. della musica e dei musicisti, Le biografie, V, p. 134.
Mezzo secolo fa si suicidava Diane Arbus, la fotografa ribelle che “catturò” il lato oscuro dell’America- Articolo di Roberto Zadik
Personaggio estremamente tormentato e stimolante, la fotografa ebrea newyorchese di origini russe Diane Arbus oltrepassò i confini della fotografia. Le sue immagini ancora oggi colpiscono per la dolente espressività che le caratterizza, per lo sguardo lucido e poetico e il realismo del ritratto etico e sociale della “sua” America con cui questa artista vissuta solo 48 anni e suicidatasi il 26 luglio 1971, ha saputo rappresentare gli emarginati, i deboli, così come il mondo ebraico cui apparteneva e con il quale ebbe un rapporto profondo e conflittuale. Diane Nemerov, questo il suo vero nome prima di sposare il collega e correligionario Allan Arbus che le darà due figlie – prima di separarsi nel 1958 e divorziare nel 1969 -, nacque da una famiglia estremamente benestante, proprietaria di una catena di grandi magazzini. Ma come i cantautori Bob Dylan e Lou Reed, Arbus fu la figlia ribelle di un contesto estremamente “borghese”, attratta dal lato oscuro dell’America.
Icona della sua New York,di origine ebraico-askenazita, estremamente vitale e anticonformista, si consumò fra entusiasmi e depressioni per dedicarsi alla sua passione per la fotografia e l’indagine etica e psicologica compiuta attraverso il suo obbiettivo. Appartenente alla vasta schiera dei fotografi ebrei del Novecento, da Richard Avedon, all’ungherese Robert Capa, al tedesco Helmut Newton, questa artista si differenzia da tutti, con quella ricerca del diverso, dell’eccentrico e dell’anomalo che sembra essere una sua costante.
Nata il 14 marzo 1923, sposatasi a soli 18 anni, il sito theartstory.org descrive la sua infanzia estremamente solitaria, accudita da governanti e baby sitter mentre suo padre era impegnato negli affari e la madre soffriva di gravi depressioni. La sua carriera cominciò negli anni ’40 mentre l’ebraismo europeo veniva devastato dalla Shoah, lavorando assieme al marito, fotografando le modelle procurate dal padre David e dedicandosi con tale dedizione alle sue passioni artistiche da abbandonare anche l’università. Sempre più intenzionata a diventare una grande fotografa, cercò di affinare la sua tecnica al fianco di una professionista come Lisette Model, trascurando la famiglia e il maritò con il quale resterà in buoni rapporti anche dopo la separazione, per gettarsi nel lavoro e nella carriera.
Curiosa della vita e del mondo, dagli anni ’60 la sua personalità di artista indipendente e eccentrica emerse in tutto il suo talento stimolato dalla vivace atmosfera creativa e contestataria dell’era hippie e delle manifestazioni pacifiste contro la Guerra del Vietnam che la videro sempre in prima fila. Costantemente a caccia di stranezze e tortuosità, la Arbus frequentava gli ambienti più disparati. Dalle sfilate di moda, ai circhi, dalle gang giovanili delle strade, alle competizioni di body building e il suo occhio era costantemente puntato sull’essere umano in tutte le sue sfaccettature.
Come evidenzia il sito jewishvirtuallibrary.org, nella sua luminosa carriera la talentuosa fotografa collaborò e strinse amicizia con vari colleghi e collaboratori ebrei. Sempre in cerca di stimoli e di nuove avventure, collaborò con l’artista Marvin Israel direttore artistico della rivista Harper’s Bazaar; fu un rapporto molto stretto ed egli divenne il suo mentore, come era stata già Lisette Model; incontrò il regista e fotografo Stanley Kubrick, i grandi scrittori Norman Mailer e Tom Wolfe, scattando immagini a vari soggetti appartenenti al mondo ebraico delle sue origini. Istantanee estremamente espressive come Coppia di ebrei danzanti che ritrae due anziani felici mentre ballano assieme, la foto alle due gemelle ebree identiche fra loro e soprattutto Il gigante ebreo in cui fotografò l’intrattenitore israeliano naturalizzato americano Eddie Carmel. Un’immagine inquietante in cui Carmel, affetto da gigantismo e figlio di una famiglia ebraica ortodossa polacca, viene rappresentato in tutta la sua figura altissima e massiccia, nipote di uno dei rabbini più alti d’Europa, mentre sovrasta i due genitori, parlando con loro. Morto a soli 36 anni per infarto, Oded Ha Carmeli, questo il suo nome di nascita, divenne un vero fenomeno collaborando per vari film e spettacoli, attirando la curiosità della Arbus sempre pronta a ritrarre personaggi stravaganti e fuori dagli schemi. Carmel e la Arbus morirono a un anno di distanza uno dall’altra e, come sottolinea un articolo del 2014 sul sito del New York Times, questa foto, scattata nel 1970, fu una delle sue ultime immagini. Dilaniata dal suo “male di vivere”, dal super lavoro, in crisi esistenziale nonostante il successo e i prestigiosi riconoscimenti, ricevette due volte il Premio Guggenheim, la Arbus si tolse la vita, ingerendo sonniferi per poi tagliarsi le vene, finì i suoi giorni improvvisamente, in quel luglio 1971 in cui tre settimane prima morì la rockstar Jim Morrison. Stando allo stesso articolo pubblicato dal New York Times il 13 aprile 2014, Carmel “il gigante” invitato al talk show presentato da Richard Lamparski le dedicò una struggente poesia pochi mesi dopo la sua morte.
Charlotte Cotton – Mert Alas and Marcus Piggott ·Editore TASCHEN
Descrizione del libro di Charlotte Cotton-Mert Alas and Marcus Piggott-Mert Alas, born in Turkey, and Marcus Piggott, born in Wales, met in 1994, at a party on a pier in Hastings, England. Piggott asked Alas for a light, the pair got talking, and rapidly discovered they had plenty in common, not least a love of fashion. Three years later, the duo now known as Mert and Marcus had moved into a derelict loft in East London, converted it into a studio, and had their first collaborative photographic work published in Dazed & Confused.
These days, Mert and Marcus shape the global image of such renowned brands as Giorgio Armani, Roberto Cavalli, Fendi, Miu Miu, Gucci, Yves Saint Laurent, Givenchy, and Lancôme, and public figures including Lady Gaga, Madonna, Jennifer Lopez, Linda Evangelista, Gisele Bündchen, Björk, Angelina Jolie, and Rihanna. Their photographs encompass a wide range of styles and influences but are renowned particularly for their use of digitized augmentation of images, and a fascination for strong, sexually charged, confident female subjects: “powerful women, women with a meaning, a you-don’t-have-to-talk-or-move-too-much-to-tell-who-you-are kind of woman.”
Bringing our best-selling Collector’s Edition to an affordable, compact format, this collection explores the unique vision of a creative partnership that has defined and redefined standards for glamour, fashion, and luxury. Approximately 300 images from the megawatt Mert and Marcus portfolio are accompanied by an introduction by Charlotte Cotton.
First published as a TASCHEN Collector’s Edition, now available as an affordable, compact edition
Charlotte Cotton – Mert Alas and Marcus Piggott ·Charlotte Cotton – Mert Alas and Marcus Piggott ·
Cotton has curated a number of exhibitions on contemporary photography, and her publications include The Photograph as Contemporary Art, Imperfect Beauty, Then Things Went Quiet, Guy Bourdin, and Photography is Magic. She is also the founder of wordswithoutpictures.org (2008–9) and EitherAnd.org (2012). Words Without Pictures was published by Aperture in 2010.[2]
Cotton was curator of photographs at the Victoria and Albert Museum from 1993 to 2004. She started working as an intern there in 1992.[4] She curated many exhibitions of historical and contemporary photography at the museum including: Imperfect Beauty: the making of contemporary fashion photographs (2000), Out of Japan (2002), Stepping In and Out: contemporary documentary photography (2003) and Guy Bourdin (2003).
Cotton was Curator and Head of the Wallis Annenberg Department of Photography at Los Angeles County Museum of Art (LACMA) from 2007 to 2009.
“Charlotte’s career bridges the traditional and the contemporary. That is her real strength,” said LACMA Director Michael Govan. “At the Victoria & Albert, she dealt with a collection of some 300,000 photographs that has great 19th century and early 20th century material, so she had a real grounding in a big museum collection and historic work. Then she gave it up to experiment and learn more about photography in the contemporary world. She has had huge experience, and she has taken risks. That’s a good combination.”[5]
Cotton has been a visiting critic and scholar at numerous universities and schools in the US and the UK including: NYU Tisch, New York; CCA, San Francisco; Parsons and SVA, New York; Yale University, New Haven; UPenn, Philadelphia; and UCLA, USC, UC Irvine, Los Angeles; Farnham College, Surrey Institute of Design, UK.[citation needed]
The first edition of The Photograph as Contemporary Art was published in 2004. The third was published in 2014 and has a new introduction and extended final chapter.
The Photograph as Contemporary Art is published in nine languages.
Photography is Magic
Photography is Magic is a critical book that surveys the work of over eighty artists, all of whom have experimental approaches to photographic ideas, set within the contemporary image environment, framed by Web 2.0.[9]Photography is Magic surveys over eighty artists whose practices are shaping the possibilities of the contemporary photographic landscape. The contributors include Elad Lassry, Sara VanDerBeek and Kate Steciw.
Curated projects
Exhibitions organized and co-organized by Cotton:
Fashion on Paper & Contemporary Fashion Photography, Victoria and Albert Museum, London, 1997
Information Units: A digital programme exploring the V&A’s Photography Collection. Devised and launched between April and November 1998
Silver & Syrup: a selected history of photography, Victoria and Albert Museum, London, 1998/99
Guy Bourdin, Victoria and Albert Museum, London (2003); National Gallery Victoria (2003); Centre Nationale de la Photographie Paris (2004); Foam Amsterdam (2004)
Stories from Russia: Melanie Manchot & David King, The Photographers’ Gallery, London, 2005
Art + Commerce Festival of Emerging Photographers, The Tobacco Warehouse, Brooklyn, 2005; MOC Gallery, Tokyo (2006); Fendi Gallery, Milan (2006); Matadero Madrid (2006, PHotoEspaña); Center for Photography, Stockholm (2006, XpoSweden)
Philip-Lorca diCorcia, LACMA, Los Angeles, 2008[11]
The Marjorie and Leonard Vernon Collection, LACMA, Los Angeles, 2008/09[12]
Daegu Photo Biennale: Photography Is Magic!, Daegu Arts and Culture Centre, Daegu, 2012[18]
Photoespaña 2014: P2P, Teatro Fernan Gomez, Madrid, 2014[19]
This Place, DOX Centre for Contemporary Art, Prague, 2014/15; Tel Aviv Museum, 2015; Norton Museum, Palm Beach, 2015; Brooklyn Museum, Brooklyn, 2016[20]
Close Enough: New Perspectives from 12 Women Photographers of Magnum, International Center of Photography, New York, 29 September 2022 – 9 January 2023[24]
Publications
Books that Cotton has authored and edited:
Cotton, Charlotte (2000). ‘Imperfect Beauty: The Making of Contemporary Fashion Photographs. V&A. ISBN1851773207.
Cotton, Charlotte (2003). Guy Bourdin. V&A. ISBN1851773991.
Cotton, Charlotte (2003). Then Things Went Quiet. MW Projects. ISBN0954631102.
Cotton, Charlotte (2005). Peek: The Art+Commerce Festival of Emerging Photographers. Art+Commerce. ISBN0977313905. (Editor, essay)
Cotton, Charlotte (2009). Paul Graham: A Series of Conversations between the photographer Paul Graham and Charlotte Cotton. Fabrica Madrid. ISBN9788496466760.
Cotton, Charlotte (2009). The Marjorie and Leonard Vernon Collection. LACMA. (Essay, published for LACMA)
Cotton, Charlotte (2009). Words Without Pictures. LACMA. ISBN9780875872032. (Founder of wordswithoutpictures.org, co-editor, essay, published for LACMA)
Cotton, Charlotte (2009). The Sun as Error: Shannon Ebner in Collaboration with Dexter Sinister. LACMA. ISBN9780875872001. (Commissioned and published for LACMA)
Cotton, Charlotte (2009). The Machine Project Field Guide to LACMA. Machine Project Press. ISBN9780061714573. (Essay, co-published for LACMA)
Cotton, Charlotte (2010). Four Over One: Phil Chang. LACMA. ISBN9780875872049. (Commissioned and published for LACMA)
Cotton, Charlotte (2010). Bananas for Moholy Nagy: Patterson Beckwith. LACMA. (Commissioned and published for LACMA)
Cotton, Charlotte (2012). Photography is Magic!. Daegu Photo Biennale. (Exhibition catalogue, essay, artists’ biographies)
Cotton, Charlotte (2014). The Photograph as Contemporary Art (World of Art). Thames & Hudson. ISBN978-0500204184. (Third edition with new introduction and extended final chapter)
Cotton, Charlotte (2014). This Place. Mack. ISBN978-1910164136. (Exhibition catalogue, editor, essay, interviews)
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Descrizione-dek kibro di Roberto De Giorgi-L’Archeologo di Dio –Thriller, fantareligione, inchieste, ricerche, esoterismo, horror, viaggi nel tempo, c’è di tutto in questo romanzo che raccoglie 60 anni di vita di un professore texano con la passione dell’archeologia. Lo vediamo nel 1925 negli scavi a Megiddo per scoprire le scuderie del Re Salomone, nel 1945 a Napoli alla fine del secondo conflitto mondiale, nel 1965 in Messico in una sorta di ricerca sull’archeologia dell’esistenza. Per finire, l’ultimo racconto vede protagonista Kate, una sua ex allieva e ora professoressa nella sua stessa scuola di El Paso, che deve sconfiggere la maledizione della nipote di Belzebù. Nelson Bentham Mill, è un personaggio inventato che rispecchia la tradizione biblista dei ricercatori statunitensi, racconta in prima persona la sua vita nei primi tre racconti; la sua è una religione dei primordi, legata al mondo del mistero, calata dentro una realtà densa di sentimenti di amicizia, amore, passione, paura e sofferenze. Ma vi sono risvolti della camorra a Napoli e del narcotraffico in Messico, come fenomeni di contorno che entrano con la loro prepotenza e arroganza nelle storie.
Quarta di copertina
Il personaggio di Nelson, presente in questo romanzo, è realmente esistito: Nelson Glueck vissuto dal 1900 al 1970, il quale per tutta la vita si è speso per trovare conferme e prove archeologiche a conferma della Bibbia.
Ispirandosi al filone dell’archeologia americana, l’autore inventa un nuovo Nelson, stavolta Bentham Mills, del quale si racconta la vita nel periodo dal 1925 al 1965 attraverso viaggi avventurosi e fantastici, dall’esodo biblico, passando dall’esoterismo nazista durante il 1945, per finire alla ricerca di un gesuita scomparso nelle montagne nel 1965. Avventura, suspense, mistero, viaggi nel tempo, soprannaturale vissuto senza eccedere, cammino della fede, indagini, e altro in un romanzo originale che inserisce una vera “saga del personaggio” che il lettore segue nella sua vita in tre avventure psico-religiose.
Con molti risvolti di contorno, la fede religiosa, tratti semplici di teologia, il paesaggio sociale, la realtà autentica come la camorra a Napoli o il narcotraffico in Messico
Si tratta quindi di romanzo che racconta tutta la vita del personaggio con un titolo inequivocabile. L‘autore, sin dall’inizio si pone le stesse domande del lettore, rispetto agli avvenimenti fantastici vissuti. Una lettura che non ha riscontri violenti che mantiene il giusto pathos che serve a raccontare e vivere le vicende, i cambi di scena con l’arcano che domina sempre. L’archeologia descritta parte dal Dio biblico punitivo dei primordi per arrivare al Dio che si fa amare, come indagine fondamentale dove si capisce il senso archeologico della vera religiosità.
La sua è un archeologia dei primordi, più ancestrale, più legata al mondo del mistero. Un racconto che però divulga, assume informazioni reali, come reali sono gli scavi, i reperti, come reale è la società di contorno, i paesaggi aspri e meno contorti, i riferimenti biblici, le persone che si incontrano, i sentimenti e le passioni, le paure e le sofferenze.
E’ possibile acquistare il libro nella pagina di streetlib qui, scegliendo le due opzioni, o il formato ebook da leggere sul proprio device (smartphon, tablet) oppure ordinare come libro cartaceo vero e proprio come da cover in copertina dell’articolo. All’atto del pagamento il libro va in stampa ed entro due settimane arriva a casa con le spese di trasporto comprese nel prezzo di copertina (con il servizio postale). Se si vuole accelerare c’è il servizio col corriere express che va pagato a parte.
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