Biblioteca di San Valentino (Pescara), per “Incontro con l’autore” si parla del Fucino con Gaetano Lolli –
Biblioteca di San Valentino (Pescara), per “Incontro con l’autore” si parla del Fucino – “Il cerchio dell’acqua” (Leonida edizioni) dell’avezzanese Gaetano Lolli verrà presentato sabato 11 gennaio 2025 presso la Biblioteca di San Valentino (Pe) alle ore 16:30 per l’appuntamento “Incontro con l’autore”: in dialogo con l’ingegnere marsicano, ci sarà la giornalista Alessandra Renzetti.
Il romanzo storico, record di ristampa in meno di un anno, continua il suo tour volto alla conoscenza della storia millenaria del Fucino con tante preziose curiosità anche tecniche sui lavori che hanno caratterizzato la più grande opera di ingegneria idraulica del tempo. La prefazione è dell’archeologa Emanuela Ceccaroni.
È lo stesso lago che condivide con il lettore le sue paure, le sue angosce ed il suo addio, un aspetto questo che sta incuriosendo il pubblico: ” ‘Il cerchio dell’acqua’ lascia ampio spazio alle riflessioni, anche perché la sua lettura è lineare e la storia è chiara. Nelle pagine del romanzo scorre anche un viaggio emotivo che lo stesso lago, con un senso di amarezza sempre maggiore, percorre fino all’ultimo dei suoi giorni in cui non nasconde il suo dolore e l’incapacità di capire l’uomo per la sorte che ha scelto per lui”.
Tante sono le riflessioni e gli interrogativi che il romanzo scatena ed ancora oggi divide l’opinione pubblica e politica sulla realizzazione di questa grande opera d’ingegneria che ha interessato grandi nomi della storia fra cui un orgoglioso e curioso Alexandre Dumas: era necessario prosciugare il Fucino? Ha portato davvero i suoi benefici? Lo stesso Lolli continua, durante le presentazioni del suo libro, a creare un interessante dibattito che ha coinvolto anche i ragazzi in età scolastica.
L’autore affida proprio ai pensieri e ai sentimenti del lago Fucino il compito di congiungere le storie degli uomini attraverso le varie epoche sul cui sfondo si muovono i singoli personaggi che animano le pagine di questo percorso, lungo le sponde del bacino lacustre.
Ingresso libero.
Per info è possibile seguire le pagine social di @gaetanololli, @gaetanololliscrittore ed il sito www.gaetanololliscrittore.it.
Una breve biografia di Gaetano Lolli Sono nato nella terra dei Marsi e vivo ad Avezzano.
Sono un ingegnere edile-architetto, lavoro in una società di ingegneria e questo è il mio lavoro; le mie passioni però non sono altrettanto univoche, sono molte, per questo mi piace definirmi “fedele discepolo della mia curiosità” che mi porta ovunque.
Leggo tantissimo e scrivere col tempo è diventata una conseguenza naturale, credo che sia un modo insensato e romantico di sottrarre tempo alle cose da fare.
Ho un retaggio di appartenenza fortissimo con il mio territorio, dalla mia terra, dalle montagne che la caratterizzano traggo sempre spunti e la volontà di scrivere, dopo tutto “l’universale si coglie anche restando presso di sé”.
-Maria Luisa Fehr-Romanzo APRILE- Mondadori editore Milano 1934-
-Articolo di Guido Piovene per la Rivista PAN n°5 del 1934-
Guido Piovene-Scrittore e giornalista italiano (Vicenza 1907 – Londra 1974). Formatosi all’incrocio di un cattolicesimo sensuale con un illuminismo attinto ai moralisti francesi del Sei-Settecento, aperto alle influenze del freudismo e dell’esistenzialismo, P. indagò le passioni e i vizi umani. Tra i romanzi più noti: Le furie (1963), in cui ha tentato di applicare la tecnica del nouveau roman, dando particolare rilievo alla memoria di un mondo in decadenza di fronte al quale lo scrittore subisce rimorsi e inibizioni, non senza però lasciare nel lettore un sapore di ambiguità; e Le stelle fredde (1970, premio Strega), in cui ritorna con gli stessi simboli la materia autobiografica.
Vita e opere
Nel 1935 entrò a far parte del Corriere della sera per poi passare a La Stampa, della quale fu collaboratore fino alla fondazione, con I. Montanelli e altri, del quotidiano milanese Il Giornale (1974). La sua opera, che varia dalla corrispondenza e dai servizi di giornalismo d’alto livello alle pagine di viaggio e di riflessione, al racconto, al romanzo, è quella di un saggista formatosi all’incrocio di un cattolicesimo morbido e sensuale, di tradizione vicentino-fogazzariana, con un illuminismo attinto soprattutto ai moralisti e romanzieri francesi del Sei-Settecento; ma aperto alle suggestioni del freudismo e dell’esistenzialismo. Un saggista inteso all’esplorazione lenta, minuta delle passioni, dei vizi umani, colti nel loro sinuoso trasformarsi o dissimularsi in virtù (a cominciare dall’egoismo così spesso atteggiato a pietà); un osservatore e descrittore di «caratteri», il quale, come narratore, rivela, sotto il lucido intellettualismo della sua indagine e delle sue invenzioni, l’ansia di una ricerca soggettiva, di un personale riscatto. Ne è testimonianza, nei suoi racconti (La vedova allegra, 1931; Inverno di un uomo felice, post., 1977; Spettacolo di mezzanotte, post., 1984) e nei romanzi (Lettere di una novizia, 1941; La gazzetta nera, 1943; Pietà contro pietà, 1946; I falsi redentori, 1949; Le furie, 1963; Le stelle fredde, 1970; Verità e menzogna, post., 1975; Romanzo americano, post., 1979), quel procedere della narrazione, entro una cornice apparentemente oggettiva, per monologhi – in forma epistolare, di diario, di confessione, ecc. – dei protagonisti, che permette allo scrittore di eludere, come in un gioco o finzione scenica, quanto di troppo autobiografico urge al fondo della sua arte. Accanto alla produzione saggistica (Lo scrittore tra la tirannide e la libertà, 1952; Idoli e ragione, post., 1975), poi raccolta in Saggi (2 voll., post., 1986-90), e ai notevoli libri di reportage, di viaggio e di costume (De America, 1953; Viaggio in Italia, 1957; Madame la France, 1966; L’Europa semilibera, 1973; ecc.) è da ricordare il discusso La coda di paglia (1962), in cui P. rievocò i propri rapporti col fascismo. Al genere fiabesco appartiene Il Nonno Tigre (1972).
Giuliana Piovesan è nata a Velletri (Roma) nel 1947 e vive a Padova. Ha pubblicato per le Edizione del Leone: Il giorno dell’anno (Edizioni del Leone, 1992), Al ponte Rosso (Edizioni del Leone, 1999), Passo a due (Edizioni del Leone, 2003, con Franco Gentilucci), Le immagini dell’aria (Biblioteca dei Leoni, 2017). È presente con suoi scritti, pezzi critici, poesie, in volumi monografici, antologie, riviste. È da oltre vent’anni attiva nella realtà culturale della sua città. Collabora inoltre alla conduzione di più biblioteche nell’ambito del sistema civico di Padova.
LA TORRE DEI MORI
Scende come bronzo
dalla torre dei Mori
quel suono puro–
i dodici rintocchi battono
a martello l’ultima ora
Se dite al gallo di non cantare,
nessuno più verrà rinnegato
nel giorno che ancora segna il passo
( Non cercate la bella Aurora,
lei sta al Gritti Palace Hotel
——–Bloody Mary per due
alle ore undici… )
C’ERA UNA VOLTA
E piangere come potremo
per una storia che non è stata mai
-fogli in risma extra strong,
neppure dall’involucro mai tolti.
Mai il delicato fruscio
in un voltare di pagina,
né il segreto in una piccola piega.
Nell’aria noi allucinati
lo coglieremo pure
quel vago sentore di gelsomino
–ma sarà un nulla, come di fumo…
PER UN DIO SCONOSCIUTO
Abbassata la serranda sul negozio,
l’ondulato e inerte metallo
è scivolato fino a terra.
( Fulmineo come un artiglio
mi aggredisce il tuo non ricordo )
Resiste una scritta orizzontale,
impastata di carta, polvere e giorni:
“ Signori, il lunedì si chiude–
si chiude tutto il tempo “.
( Inutili clamori, e calda luce
laggiù, nel bar all’angolo… )
L’ISOLA
Lunghe notti ho vegliato e giorni
–e tu per me mai un segno
Sciolgo amore gli ormeggi
–e la nostra storia portala con te
nell’isola senza nome e ricordo
dove si consumerà il tuo tempo
–vuoto ormai di giorni.
EX VOTO
Non lo si poteva fare, mi dice la Signora–
benedetta non era l’acqua e le anime poi
non si lavano via così con uno sciacquo
Ma lei deve capirmi, Signora
erano le cinque in punto del mattino
e rossa colava l’anima cara
lungo il filo del sogno e se ne andava–
capisce, l’anima cara se ne andava
e cosa si poteva mai fare a quell’ora?
Eburnea Signora, mi creda, le mando il voto
di tutte le rose del mercato, ma non venga
ancora a sgranarmi i rosari dell’atto profano
Suvvia, Signora, la smetta ed esca pure lei–
fuori è maggio.
LILIALE I
Ben oltre i giorni della Pasqua
s’erano gingillati con la sfavillante carta
dell’uovo, che in realtà se ne stava
tutto nudo sopra una sedia di paglia–
–messo lì con svagata noncuranza.
Sembrava un banale piccolo inganno,
con degli effetti che potremmo definire
à trompe l’oeil, nulla di eclatante.
Il lato clamoroso dell’ affaire
veniamo a saperlo soltanto ora
che la Sfavillante, senza indulgenza alcuna,
si è sottratta al ruolo assegnatole dal gioco
e fuggitiva lascia nella più profonda
e sigillata indifferenza quelli che furono
i suoi sogni privati, del tutto privati.
Della storia qui conclamata rimane solo
un esile pensiero liliale, quasi ilare.
LILIALE II
Il colore bianco e la forma infantile
facevano dei miei sandali
due foglie calcinate
graziosamente oscillanti
in grembo alla dolce creatura del sud–
–dall’orto il ligustro si protendeva
fin sullo scalino dove quieta
rimanevo ad intrecciare attese.
E se la bella immagine m’incanta
il pensiero delle sue mani
esile ancora si leva all’alba.
AMORE E PSICHE
Perdonami amore se ancora strappo
piume e versi alla nostra casta camelia…
Nella cara stanza oggi è così buio
che solo arde giallo di tanta luce
il biglietto che s’appunta alla finestra…
L’ABITO ROSSO
Lungo la linea dell’abito rosso
molle scivolava il ventaglio nero
L’antico tondo trasudava vita
nello smalto che la racchiudeva
Incisa a filo dell’orlo floreale
la dedica ancora si leggeva
“zefiro di rugiada il prato bagna”
OPERA
Giocoliere gentile che nella mano
il cavo della bava fermo tieni
sicuro rimani e non visibile
——–pura mimica sospesa nell’aria.
Al cielo sia cangiante il tuo giullare.
L’ARIA
Smarrita nell’intreccio della storia
la piuma di ligustro si librava
in un cielo a noi ancora sconosciuto…
( era sua l’ombra sottile che ora si posa )
IL GRAFFIO
Segui amore il graffio della vita
e la brina che si posa sull’orlo
Non soffiarci sopra, non appannarla
Apri la nota alla voce del tempo.
AMARGO
Quel banchetto nudo dove la vita
si fa putta e graziosamente porge
la mandorla amara che solo al filo
della mente rilascia il suo gentile
………………………………………
( qui io non vi dirò nulla dell’albero
né della luna che lo sorvegliava )
ORO E BIANCO
per Stefania C.
Di giovane ramoscello è la tua mano–
Anima quasi bambina che a sé stringe
il nastro d’oro dei tulipani bianchi
( Indifferente il fioraio al nostro rito… )
SOVRAPPOSIZIONE
Il tram è in partenza verso il centro…
Si direbbe opaca la superficie
che sbuca dal manifesto murale,
se il riverbero e l’incerta materia
non mostrassero la forma ellittica,
dove lo specchio retrovisore filma
senza scatto il via vai della strada.
Tutto lo short sta in quello squarcio
–sospeso tra realtà e illusione.
CANTO FERMO
per Franco G.
Stasera lascia aperta la porta
ch’io possa entrare, e tu sciogliere
dai fili rossi il nostro carteggio.
La tenda s’alza ariosa come vela
che naviga verso il monte, nuvole
alle specchiere dell’altra stanza e cielo.
–Manica a vento, tu saluti Nina
e sali nell’incanto del tuo Chagall…
IL PAPAVERO
Neve perenne dorme la tua voce
sotto il bianco cappuccio del Subasio.
Lui nasce intoccabile e rosso–
–polvere della tua voce e sabbia
della mia gola, forse non fiore
ma trama di un sogno che non cede
al suo insostenibile peso d’ombra.
SILLABA
I.
S’inquieta come stormo che scolora
il tuo nome sul filo della mia mente
–alto volo da quel cielo scende in sillabe
II.
E se lieta nel liturgico fluire
le tue mani sento in me confuse
con rapido tocco svagata m’insinuo
nella piega che il brivido impone
III.
Si spezza nell’aria un delirio d’ali
( Colombe fremevano nel tuo cielo… )
ANDANTINO GRAZIOSO
Se ne stava quel chiaro spartito
incollato alla vetrina del liutaio–
con il suo si e la bella chiave di violino,
presi nel rigo della prima battuta
( Dal suono sciolte bende
liberano mani ferite )
All’ulivo santo della pietrosa
piccole anime beghine
cerimoniose vanno
al minuetto di pigolanti passi
Le mani tendono al tuo approdo
e avide il tuo nome afferrano
con l’unico riconosciuto fiore–
questo mio votivo monile di carta.
CARPE DIEM VARIAZIONE
Cara, non chiederti quale destino
gli dei abbiano per me e per te deciso
né struggerti (non è lecito saperlo)
sulle vane cifre di Babilonia.
Conviene accettare e patire la sorte –
–l’inverno che ora flagella le onde
sulle scogliere del mare Tirreno
potrebbe essere l’ultimo voto
o avere lungo seguito nella vita.
Sii saggia, continua a mescere il tuo vino
e raccogli la speranza nel breve suo filo.
Vivi questo giorno. Mentre parliamo,
l’avido tempo è già da noi fuggito.
VILLA R.
È cresciuta a dismisura quella rosa–
rosso struggente di velluto e spine
Il tempo si posa su cristallo sottile
mentre sfiora lame di ilare argento
( S’adagiava sul tappeto la figlia dei giorni… )
D’INVERNO
Nell’incerta grazia di una gemma
di te ritrovo quella che non eri
La radicella che pulsa nell’ombra
dall’umido umore risale alla linfa
( Sottili e nati già gli alberi d’inverno )
Biografia di Giuliana Piovesan è nata a Velletri (Roma) nel 1947 e vive a Padova. Ha pubblicato per le Edizione del Leone: Il giorno dell’anno (Edizioni del Leone, 1992), Al ponte Rosso (Edizioni del Leone, 1999), Passo a due (Edizioni del Leone, 2003, con Franco Gentilucci), Le immagini dell’aria (Biblioteca dei Leoni, 2017). È presente con suoi scritti, pezzi critici, poesie, in volumi monografici, antologie, riviste. È da oltre vent’anni attiva nella realtà culturale della sua città. Collabora inoltre alla conduzione di più biblioteche nell’ambito del sistema civico di Padova.
Poesie di Akiko Yosano -Poetessa e scrittrice giapponese-
Akiko Yosano-(1878-1942)- Poetessa e scrittrice giapponese. Profonda conoscitrice della letteratura classica giapponese, manifestò interesse per le nuove correnti letterarie ispirate a modelli occidentali, rinnovando uno dei più tradizionali generi poetici grazie a una grande forza immaginativa, tesa all’esaltazione della passione amorosa.
poesie di Akiko Yosano
SE QUI ADESSO
*
Se qui adesso
ripenso al percorso
della mia passione
somigliavo a un cieco
senza paura del buio.
—————————————————–
Sebbene così fragile
e così breve l’amore,
ha sangue troppo giovane
questa ragazza, per bruciare
poesie di primavera.
*
Ho sentito, non so perché
che tu mi aspettavi
e sono uscita – Nella notte
improvvisa spuntò la luna
sui campi in fiore.
*
Appoggio il mio corpo al cancello
e mi perdo in pensieri
infiniti
guardo il vento autunnale
passare sui fiori rossi.
*
Capelli neri arruffati in mille trecce. Arruffati i miei capelli e arruffati i miei arruffati ricordi delle nostre lunghe notti d’amanti
*
Via Lattea:
a letto, con lui,
apro la tenda
e guardo come, all’alba,
si separano due stelle.
*
La mia giovinezza è presso a finire simile a una pianura docile che, subita, spiombi nel mare
*
Amore o sangue?
tutta la primavera
è in questa peonia che mi ossessiona,
scende la notte, sono sola,
sola senza una poesia.
*
Se qui adesso
ripenso al percorso
della mia passione,
somigliavo a un cieco
senza paura del buio.
*
Mi piace questo alto cantare di vento. L’alba quando cammino sotto l’albero di hi dal vecchio tronco…
Nel 1904, Akiko Yosano scrisse e pubblicò quella che è probabilmente la sua più celebre poesia, Kimi shinitamou koto nakare (“Ti prego, fratello, non morire”). Suo fratello minore, Chuzaburo, era stato mobilitato per la guerra russo-giapponese (che si concluse con la famosa disfatta russa di Port Arthur, o Lüshun); nella poesia, Akiko espresse tutte le sue preoccupazioni. Musicata poco tempo dopo, la poesia è diventata una delle più classiche canzoni contro la guerra in lingua giapponese, dato che così è sentita da tutti nonostante sia molto “lieve” e non contenga espressioni antimilitariste. In particolare, la poesia fu pubblicata su Myōjō proprio quando il numero delle vittime della battaglia di Port Arthur fu reso noto pubblicamente, ed il carattere antibellico della composizione risultò chiaro. Va da sé che piovvero le accuse di disfattismo sulla poetessa. Non sono purtroppo riuscito a determinare chi sia stato l’autore della musica, ed è possibile anche che esistano più versioni musicate della poesia (che in Giappone è davvero famosissima: è arrivata, manco a dirlo, anche alle sigle dei cartoni animati). Il testo giapponese, le note originali e tradotte e la traduzione inglese le ho trovate invece su questa pagina, e così le riproduco. [RV]
君死にたまふことなかれ
La versione inglese. English Translation
Port Arthur, 1904/05.
Le note alla traduzione contenute nella pagina di provenienza sono state fedelmente riprodotte. L’autore della traduzione non è indicato.
PRITHEE DO NOT DIE
Lamenting my younger brother in combat as one
of the troops besieged at Lüshun(Port Arthur)
Yosano Akiko
Oh, younger brother mine, for thee I weep,
Prithee do not die,
For you were born the very last,
And our parents loved you all the more,
Yet they made thee grasp a blade in hand,
Taught thee kill a man you shall,
Kill a man, and die you too,
groomed you thus to age twenty-four.
Master now of the proud old house,
The merchant-house of Sakai1, our town,
You must now carry on our name,
So I prithee, do not die,
Though Lüshun’s2 fortress should perish,
Should it be saved, what of that?
Thou ought know, it nowhere commands
On the familial codes3 of our merchant house.
I prithee do not die,
The Heavenly-Prince does not himself
Lead by his own august presence his troop to battle.
For to command that men shed blood of men,
And die following the beastly path4,
And tell us death be the glory of men,
If his Highness’ heart be compassionate,
How could he truly think it so?
Oh young brother mine in battle,
I prithee you mustn’t die.
Our mother who has lagged behind father
In the passing of the autumn years of life,
It sores me to watch her lament,
Deprived of son to guard the home,
And though she hears our Highness hale and safe,
Our mother’s gray hair grows.
Stooping in the shade of the noren5 she weeps,
The frail young wife of yours,
Or have you forgotten? Or do you think of her?
Think on her maidenly feeling,
Together ere ten months, then parted,
And there’s none another the likes of you,
Oh once again I ask,
Prithee do not die.
— pub. in Myōjō Sept. 1904.
Translation’s Notes / Note alla traduzione
Notes:
1 Sakai is a merchant town with a rich history, which prospered by foreign trade in the age of Warring-States, and its merchants were proud and independent-minded. The famous tea ceremony master Sen-no-Rikyū (1522-1591) who committed harakiri was a Sakai merchant.
2 Lüshun (Port Arthur), pronounced “Ryojun” in Japanese, was a naval port for Russia’s Eastern Fleet.
3 An “old family” often has something called kakun or lessons — do’s and don’ts that are passed down generation to generation. The poetess is saying that since they are merchant family, dying to defend a castle is certainly not one of those lessons.
4 “Beastly path” is a reference to a course of conduct without morality or discipline; In Buddhism, if your conduct in this life is poor, you are said to be relegated to chikushōdō “way of beasts” in the next life.
5Noren is the shop curtain, the drape of cloth hanging at the shop entrance. There is also such a curtain between the storefront and the back area.
Breve biografia di Akiko Yosano-(1878-1942)-Nata come Sho Ho il 7 dicembre 1878 nel villaggio di Sakai, presso Osaka, Akiko Yosano è stata una delle più famose e controverse poetesse giapponesi del primo’900. E’ considerata una delle prime pacifiste e femministe attive nel Giappone dell’epoca Meiji: il suo anno cruciale può essere considerato il 1901. In quell’anno, all’età di 23 anni, sposò Tekkan Yosano, il responsabile editoriale della rivista Myōjō (“Stella lucente”), sulla quale aveva cominciato a pubblicare le proprie poesie. Tekkan era regolarmente sposato e divorziò dalla prima moglie per sposare Akiko, ma in pieno accordo con essa continuò a frequentarla ( oggi si definirebbe famiglia allargata). Nello stesso anno, Akiko Yosano pubblicò Midaregami (“Capelli arruffati”), una raccolta di 400 poesie ritenuta il faro del libero pensiero nel Giappone dell’epoca; come è lecito attendersi, la critica ufficiale stroncò la raccolta e la definì scandalosa. Ciò nonostante, Midaregami riscosse un successo clamoroso, e la fama di Akiko Yosano eclissò quella del marito, anch’egli comunque valente poeta. Akiko morì d’infarto il 29 maggio 1942, in piena guerra; la notizia della sua morte passò inosservata, dopo che per tutta la vita si era spesa contro il crescente militarismo giapponese ed aveva combattuto per la condizione delle donne in una società del tutto oppressiva nei loro confronti. Le sue opere non erano state messe al bando, ma comunque ignorate; solo negli ultimi due decenni è stata riscoperta, tornando a godere del successo di un tempo.
Yolanda Bedregal ((21 September 1916 – 21 May 1999))-Poetessa e scrittrice boliviana, nota anche come Yolanda di Bolivia. La sua poesia, affine agli inizi al Simbolismo, esalta i sentimenti comuni agli esseri umani con linguaggio chiaro e preciso, virando verso una visione più religiosa.
L’AUTUNNO DEI TUOI PARCHI, NEW YORK
*
Chi ha cantato, New York, la dolcezza dei tuoi parchi in autunno?
Chi ha sentito il fruscio dei tuoi baci d’oro
quando l’albero ossuto ha lasciato cadere le foglie
brune nella fucina del ventre della roccia?
Ogni foglia che cade non è forse un tuo pensiero?
Città, perché la gente ti guarda con stupore
come se fossi un mostro dagli occhi milionari?
Perché tutti ti cercano nell’elevazione dell’acciaio
e nessuno nella dolcezza dei tuoi parchi in autunno?
Ho percorso da sola i tuoi grandi viali,
dimenticando la tua severa struttura metallica,
sottomessa solo alla terra su cui posi;
avevi tanta nostalgia di uno sguardo umano
che la terra sorrideva sentendo che la amavo.
Forse è per questo, città di New York,
che ti ho sentito mia, come una fata madrina
quando, attraversando i tuoi parchi, le foglie mi seguivano
con un mormorio profondo, muto tra i rumori,
mettendo a tacere la loro angoscia di soli infranti.
Ho amato la tua erba secca quando soffiava il vento
dei primi freddi in caduta verticale.
Ho amato i secchi filari di tronchi spogli
che sembravano bambini affamati in casa
di un avaro magnate, o lavoratori congelati
nello sciopero forzato da giorni senza pane.
Città, quanto ti amo pensando alla tua nebbia!
È così che sei più intima e più tu,
con gli occhi chiusi davanti a un cielo arancione,
inviando il tuo messaggio al fiume in cui si culla
la commovente lacrima dell’esistenza umana.
Città, ti conosco perché ti ho baciato i piedi
nell’erba gialla del tuo parco muto.
Città, ho visto i tuoi alberi scrivere geroglifici
sulla pagina aperta del cielo biancastro
fini tracce scure di segno terreno
e poi ho udito il canto liturgico degli esseri
che in solenne processione dimorarono nelle tue viscere.
Ho visto sulle tue fredde banchine galleggiare le grandi navi,
e anche la vela più alta a stelle e strisce,
dall’acqua sorgeva il tuo cuore nascosto;
ed era solo l’ombra della mia mano nell’addio
che accarezzava la carena gravida dei tuoi viaggi.
Ho visto i tuoi ponti scavalcare il tumulto della gente,
ragnatele giganti di meditazione.
Ho sentito nella notte la tua voce intima gonfia
di un respiro caldo come un seno sognante.
Mi sono sentita piccola nella tua rete di luci
(ma c’era Aladino a guidare i miei passi)
e mi hai dato ombre, riflessi, folla, solitudine.
New York, città intima, come ho saputo amarti
negli angoli lontani dove sei più tu!
Chi ha cantato, New York, la dolcezza
autunnale dei tuoi parchi?
Dammi quella voce amica per continuare a chiamarti
forte nel nobile flusso del tuo Hudson.
Dammi quella voce amica per continuare a chiamarti
nell’erba arida che i tuoi sandali dorano.
Dammi il vento dei moli, la mano dei tuoi ponti.
New York, continuo ad amarti nei tuoi parchi
come un’altra foglia bruna nel tuo vento d’autunno.
—————————————————–
Me llegaré al altar del hombre
en ofrenda de huída y rebeldía.
Hombre de ahora y de siempre,
abre tu mano a recibirme
y levántame al cielo como una hostia
aunque soy sólo pétalo de lágrima.
Hombre nuevo y eterno,
escúchame.
Sobre tu pecho roto
llamo y clamo.
Mi palabra golpea
-obsesionante ala obsesionada-
contra las sienes.
Mi palabra del grito
te taladra la frente,
sangre de luz de la herida
bautizará por un instante,
hombre frágil,
a la mujer eterna.
Eterna como el sueño fugaz.
Yo te miro sin ojos desde siempre.
tú me llevas en ti desde que existes.
Si antes no lo sabías,
ahora
ya no lo puedes olvidar.
Yo he crecido en el mar
sobre una ola que se alargó
para volverse tallo.
En ese tallo de agua limpia
he subido a mirar a los ojos de Dios.
Ahora me inclina un hálito a tu mano,
y estoy en ti como la mujer muerta
por la que todos los hombres han llorado.
Tú también has llorado
por tu hija, por tu madre,
por la mujer eterna de cuya muerte vives.
Ya no lo puedes olvidar.
Cuando tus ojos caminen en la sombra,
sentirás todavía por el cuerpo
una dulzura amarga y tibia:
beso en las palmas juntas
y una paloma que huye de tus dedos.
Con mi cara de piedra
yo estoy en la otra orilla.
Existo para ti en este momento;
y para mí no existo
porque soy más que eterna en cinco letras.
En el altar de Hombre fuerte como la vida,
hombre de hierro y hielo,
metal, sangre y espíritu,
cae la ofrenda íntegra
de la mujer lejana.
Mujer de canto y llanto
eterna como el sueño.
Alegato inútil
Cada día tenemos más salobre la saliva.
La migaja se crispa
ante la entornada puerta del perdón.
Cada día se saltan a las uñas
los dos niños morenos de los ojos
que fueron ángeles despiertos
a celestes honduras.
¿Con qué habrá de rematar el alegato
que está y en el tope del sollozo?
Cada hora se ha hecho voraz
como engranaje de colmillos;
los pasos se han desacostumbrado
a la caricia de la grama húmeda;
el aire avanza granizado de saetas.
Conduélete, Señor, a ti clamamos.
¡Así tu mundo tambalea!
No somos Job, oh Padre; ¡no te tornes padrastro!
¿Acaso estás enfermo, o te pudres
con este vaho que te sube desde nos?
No te tornes padrastro, buen Dios.
Sonríe una vez sobre tu Hechura.
Regresa a tu niñez de Primer Día
cuando soplabas burbujas de color
y te brotaba de las sienes
boscaje y pleamar.
Eras entonces sin arrugas,
y era tu barba de cristal
lira entre los dedos de la luz.
Sonríe, Padre, sobre el Libro mancillado,
y todos en Tu nombre
escribiremos PAZ.
La simple trinidad de una palabra:
bandera universal para soñar;
hostia de comunión para construir;
extramaunción para vivir.
Perdona, Dios, esta mi turbia arena…
Canción de la esperanza
Canción de la esperanza
en el camino inútil
de mi vida, tus manos
cruzan como dos alas
cargadas de ternura
Elegía humilde
Un auto ha arrollado a la vieja sirvienta
¡La pisó como una hoja!
Era una flor del campo, toronjil, yerbabuena.
En la casa hubo duelo
por su muerte de plata.
Esta mujer oscura de noble cepa aymara
endulzaba la vida de seres y de cosas.
Llena está nuestra infancia de su imagen
de Mamita Copacabana;
debajo de su manta de castilla
siempre traía la sorpresa
de frutas, empanadas o juguetes.
¡Ay dulce abuela nuestra
de las macetas y del canario!
Tendida en su mortaja,
con unción le besamos las santas manos toscas
quietas por fin del cotidiano afán.
Parecían avergonzadas del reposo;
dos angelitos blancos bajaron a cubrirlas.
Su nombre era Mama-Usta, y nada más.
Las hadas humildes sólo tienen un nombre
pero es varita mágica de gracia y bendición.
De la mano llevaba a mi padre a la misa;
la conocieron los abuelos y bisabuelos.
Era lazo entre el ahora y lo perdido.
Todo lo daba, todo, su bondad y su alegría,
el cobre de la dádiva, el óleo del consuelo.
Cual sombra milagrosa
colmaba de manjares la olla de cada día,
y con agua y con sol daba celajes
a los visillos y manteles.
Ella prendía el fuego del hogar.
Un auto la ha matado. ¡Ay, Dios mío!
Su frente estaba herida
y su cuerpo, nunca tocado,
salpicado de barro.
Cuando llegaba al cielo,
con un solo zapato, la falda desgarrada
un coro de jilgueros le cantaba aleluyas.
Con humilde inocencia, debió de imaginar
que era fiesta pascual para nosotros.
-¿Como para ella el aleluya?
¿Como para ella nuestro llanto?-
Sencilla y limpia entró en la gloria
cuidando todavía la canasta
para la cena de hoy.
Nuestra Mama Usta ha muerto.
¡Ay canario, ay macetas, patio y agua!
Final
(Fragmento)
Ansiosa, ansiosa, ansiosa
como los cuerpos jóvenes,
allí donde quiebra la inquietud de los hombres,
allí donde diluyen su anhelo las mujeres,
en ese mismo límite
yo soy la curva flecha
que se lanza a sí misma.
Salí del duro sueño
que se rompió la quilla
contra la fina arista de mi primer naufragio.
Era mi nave nueva,
era mi sueño intacto.
Eras tú, marinero, un marinero abstracto
que me echaba en sus hombros -San Cristóbal enorme-
y yo un rosado peso: pétalo sin historia.
¿Ahora qué? Yo me digo.
El amor sólo existe en el borde del beso.
¿Y después? En el borde del sueño.
¿Y después? En el borde del mundo,
donde los hombres trizan su propia vida trunca
y donde las mujeres se alegran con las lágrimas.
En ese mismo borde
me detuve de súbito.
Me desnudaba el aire.
Por mis piernas subían suaves hilos rosados,
los senos me brotaron como pequeñas lunas.
Mi voz era la muda
rugiente voz de todas las mujeres del mundo.
Tres pinceladas ágiles
escribieron tres puntos en cruz sobre mi cuerpo.
En ese mismo borde
se me quedaron quietos
los breves pies errantes.
Mis brazos levantados
hacían señas largas
a los astros maduros.
Nieblas, nubes en polvo y líquidos arcoiris,
sangre de estrellas rotas, harapos de los mares
todo estaba caído en mis ojos cerrados
porque unos raros pájaros me arrancaron los ojos.
Ahora qué ¡Yo me dije!
Amor para mis quietos pequeños pies clavados.
Amor para mis ojos en el pico de un ave.
Para aquellos que saben desenterrar un sueño.
Los hombres están tristes porque el amor es eso.
Ya no te llamo ahora.
Ahora mi carne joven
tiene pequeñas lunas
y es más fácil hundirse
en el mar que en la tierra.
Holocausto
Oh Cristo, yo quisiera de tu augusta cabeza
desclavar los espinos; endulzar tu martirio;
darte mi adolescencia como incienso en delirio;
alabándose en salmos, restañar tu tristeza.
Te volcaría en mi alma con la dulce certeza
de corporal expolio a cabezal de lirio.
Me inmolaría entera como ala sobre cirio.
El humo, en holocausto de mi cuerpo ofrendado
empapada en perfume la esponja de la hiel
y, unida entre llaga, mi vida en tu costado.
La culpa redimida y el mundo sin pecado
a la ultima palabra de Dios crucificado,
urgiría con rosa de amor tu humana piel.
Juan Gert
Mi sueño se hizo dulcemente cal.
La bóveda perfecta de tu cráneo
enclavada en la mariposa de mis huesos
es frágil tulipán
coronando las alas abiertas de la pelvis.
Sacas el molde al mundo
en mi cintura breve;
recogido y devoto como un rezo,
hilas con mi sangre el Universo,
hijo mío.
Creces dentro de mí
como en vaso ritual.
Por ti conozco
la humildad de ser la tierra fértil,
por ti el orgullo del vital milagro;
por ti soy urna bíblica,
por ti soy comunión y penitencia.
Por ti la muerte en su medalla acuna
perfil de piedra en querubín de niebla.
El vivo tulipán de tu cabeza
saca de nuevo el molde al Universo.
Nacimiento
Ultimo día del invierno y primero de la primavera.
Ultimo día de la tibia tiniebla de la entraña
para entrar en la fría luz del mundo.
Yo estaría madura de la sombra, de la nada,
del amor: madura de la carne en que crecía.
Y asomo mi cabeza con un grito:
flor de sangrante herida
cúspide lúcida del dolor mas hondo
jubiloso momento de tragedia!
Mi madre habrá tenido sus ojos, lacrimosa,
a la semilla de las cruces.
Nadie pensaba entonces que relojes
de cuarzo o girasol la esperarían.
Al vórtice de esta hora, cuantos muertos
habrá resucitado en el vagido
que tenia la alcoba de luz verde.
Yo habría de cumplir cuantos designios,
tendría que repetir la mascara de algún antepasado
quién sabe la ponzoña de su alma, o su nobleza;
realizar sus venganzas, restañar sus fracasos.
Venir de la resaca de unos seres lejanos
que se amaron un día
que se encadenaron con la vida
ser argolla mas de esa condena.
Saber que somos frutos de un punto de alegría
y ese germen, ¡Dios mío!
desde qué grietas sube, de qué simas?
De la tibia tiniebla a la luz fría
hendiendo vida y muerte
la frágil levadura su eternidad mordida.
Rebelión
Miraba yo la pampa inmensa soñando con el mar.
Miraba yo la pampa tensa, tan alta, tan serena,
tocando con el cielo su frente de cristal;
un acorde de grises y violetas su manto,
que altura en la belleza!
que altura en la belleza!
que majestad estática en el día altiplánico!
De pronto un niño llora.
Entre la paja brava, con su ponchito viejo
llora un niño. Por que?
Quien sabe…
El indio aymará se lleva el grito en su raza,
y su clamor innato
desgarra la serena nobleza del paisaje.
Un niño, un llanto humano es una herida abierta
que ensangrienta este mundo.
Tiemblan y se estremecen los monolitos míticos:
se rompen y entreveran los caminos de paz.
Hay maldad en la tierra.
Arde lo que era de hielo.
Las palabras suaves se crispan en los puños
desafiando al relámpago.
Corro sobre la pampa desaforadamente;
me quema el corazón como una brasa.
Hay maldad en la tierra, hay injusticia.
Quizás mas lejos halle la bandera que busco.
Quiero la gleba abierta con sus labios de surcos
como un libro de música.
Quiero que se calme este llanto de niño
que es llanto del mundo.
Resaca
Cuando ya la resaca deje mi alma en la playa,
y del arco agobiado de mi espalda se vaya
el ala cercenada, cual vela desafiante,
en cicatriz y estela prolongará el instante.
Quedarán vigilando, símbolo intrascendente,
dos pobres ojos pródigos y una mendiga frente.
¡Catacumba de agua, amor! ¡No me conoces!
Ni nadie nos conoce. Sólo hay fugaces roces,
desencuentros, en la prieta mudez de encrucijadas.
Expían su demora presencias nunca halladas.
No son cruz ya los brazos ni altar para holocausto
de salvajes ternuras. Con su claror exhausto,
un sol desalentado ahonda los abismos.
Somos polvo y lucero, todo en nosotros mismos.
Para esta elemental ceniza taciturna
sea la inmensa lágrima del Mar celeste urna.
Salada savia
Padre mío, el invierno -espada de tu muerte-
sus varillas de hielo sobre mi pecho inclina.
Crujen las hojas secas en desolada sombra
al filo del minuto que te arrancó a la luz.
Ya no hablaremos nunca del verdeciente pino
aunque giren los meses hacia la primavera;
yo veré conmovida hundirse contra el cielo
la erguida copa oscura, y ya estarán tus ojos
perennemente mudos en el carbón azul.
Se esponjarán los días, descenderán las noches
hacia asoladas playas del Siempre y del Después,
mas la salada savia del amor está herida
al filo el minuto que te quitó de mí.
Contigo platicamos del trino y la gavilla,
del papel y el amigo, la reja y la parábola,
del agridulce zumo en el cristal humano.
Fraternales rondaban por tu voz de maestro
San Francisco de Asís, Don Quijote y Jesús.
Padre mío, en las horas del hogar apacible
devanamos la lana del cotidiano afán;
y siempre tu sonrisa tendía el hilo de oro
que bendecía el agua y suavizaba el pan.
Presagio de ventura, flotaban nuestros nombres
con halo de alegría si los decías tú.
Hoy me duele hasta el nombre que tú ya no pronuncias
y me pesan las manos tendidas hacia ti.
Tus ojos amparaban la senda de mi verso.
Mi infancia en tus rodillas todavía mecía
la muñeca de trapo que el tiempo sepultó.
Ahora me llueven años por cada hora que faltas.
Nuestro pino ha llorado hasta su último espino.
Aúlla la madera de su sillón vacío;
los platos en la mesa tienen sonido a roto;
las pisadas resuenas indagando algún eco.
Esta salada savia del amor se hace niebla
al filo del minuto que te llevó a la luz.
Tus manos
Canción de la esperanza
en el camino inútil
de mi vida, tus manos
cruzan como dos alas
cargadas de ternura.
Viaje inútil
Para qué el mar?
Para qué el sol?
Para qué el cielo?
Estoy de viaje hoy día
en viaje de retorno
hacia aquella palabra sin orillas
que es el mar de mi misma
y de tu olvido.
Después de que te he dado mar y cielo
me quedo con la tierra de mi vida
que es dulce como arcilla
mojada en sangre y leche.
Ahora me sobra todo lo que tuve
porque soy como acuario y como roca.
Por mi sangre navegan peces ágiles
y en mi cuerpo se enredan las raíces
de unas plantas violetas y amarillas.
Tengo en la espalda herida
cicatrices de alas inservibles,
y un poquito en mis ojos todavía
hay humedad inútil de recuerdos.
Pero, que importa todo esto ahora?
cuanto estiro los brazos y no hay nada
que no sea yo misma repetida.
Acaso no soy mar y no soy roca?
Misterios de colores en mi vida
suben y bajan en mareas altas
y extraños animales y demonios
se fingen ángeles y helechos en mis grutas.
Están además el mar, el sol, la tierra.
Ahora que he vuelto de un amor inmenso,
tengo ya en la palabra sin orillas
lo que pudo caber entre sus manos.
Origine e diffusione-Franco Leggeri Fotoreportage-La Maremmana è conosciuta come la razza della maremma toscana e laziale, e discende dal Bos Taurus Macroceros, il bovino dalle grandi corna (razza grigia della steppa) che dalle steppe asiatiche si è diffuso in Europa. I reperti archeologici di Caere (Cerveteri) e la testa taurina del museo di Vetulonia sono la conferma che la razza Maremmana occupava le attuali aree di allevamento (maremma toscana e laziale) fin dai tempi degli Etruschi. Nel tempo i bovini sono stati poi esportati in varie zone e diversi Paesi. Ad esempio, i Granduchi di Toscana esportavano i tori maremmani nei loro possedimenti in Ungheria per rinsanguare la razza Pustza. Con la progressiva bonifica dei terreni paludosi, la razza ebbe un notevole impulso tra le due guerre mondiali, grazie anche ad una intensa opera di selezione. La Maremmana in passato era una razza “da lavoro” e “da carne” ed il secondo dopoguerra, contraddistinto dalla meccanizzazione agricola e dalla riforma agraria, è stato l’evento che ha portato alla sua diminuzione in termini numerici. Oltre ciò, anche gli incroci hanno ulteriormente ridotto il numero dei capi in purezza.
Oggi continua il mantenimento e la valorizzazione della razza Maremmana che è conosciuta come “razza da carne”, ma anche come simbolo di biodiversità.
Questa razza è diffusa maggiormente nella sua culla d’origine, ovvero nelle regioni Lazio e Toscana, in particolare nelle province di Grosseto, Viterbo, Roma, Terni, Latina, Pisa, Livorno e Arezzo, ma possiamo trovare bovini maremmani, in minor numero, anche in altre regioni, come Marche, Umbria, Basilicata e Puglia. L’interesse verso questa razza è cresciuto anche da parte di operatori stranieri, in particolare spagnoli e centro americani, che vedono nella Maremmana il mezzo ideale per la valorizzazione di ambienti particolarmente difficili.
L’allevamento è di tipo brado: gli animali vivono all’aperto per tutto l’anno, riparandosi nelle macchie durante l’inverno. Le mandrie al pascolo vengono gestite, ancora oggi, dai butteri in sella ai cavalli maremmani. In primavera avviene la marcatura a fuoco dei soggetti di 1 anno e le vacche vengono imbrancate con i tori. La stagione delle monte dura circa 3 mesi: vengono formati dei gruppi di monta in cui il toro viene inserito con un rapporto di 1:20/30. Riguardo l’alimentazione, oltre all’erba di pascolo e ghiande dei boschi, vengono integrati fieno e granaglie; i bovini maremmani può essere somministrato anche foraggio di qualità inferiore.
Associazione allevatori
Nel 1957 è stata fondata l’Associazione Nazionale Allevatori Bovini da Carne (ANABIC) con sede a S. Martino in Colle (PG), che promuove il miglioramento genetico, valorizza e diffonde le razze bovine autoctone italiane (Marchigiana, Chianina, Romagnola, Maremmana e Podolica) e detiene il Libro Genealogico Nazionale unico delle Razze Bovine Italiane da Carne, il cui Regolamento fu approvato nel 1969. L’associazione partecipa anche alle iniziative di carattere promozionale e divulgative, collabora ai programmi di ricerca degli Organismi statali competenti ed Università, e fornisce l’assistenza tecnica agli operatori stranieri interessati ad allevare le Razze Italiane.
Consistenza
I capi di razza maremmana iscritti all’ANABIC* sono 11593. Le regioni più rappresentative della razza sono quelle d’origine: il Lazio (con 8844 capi e 168 allevamenti) e la Toscana (con 2543 capi e 65 allevamenti). E’ diffusa anche in altre regioni italiane come Basilicata (con 93 capi e 5 allevamenti) e Puglia 8con 86 capi e 3 allevamenti).
Secondo i dati della BDN – Anagrafe Nazionale Zootecnica (aggiornati al 31/12/2020), che include anche i capi iscritti, in Italia sono allevati 14785 bovini di razza Maremmana. Nel dettaglio, in base alla categoria di animali sono così suddivisi in: 809 da 0 a 6 mesi, 2059 da 6 a 12 mesi, 1715 da 12 a 24 mesi, e 10202 da 24 mesi in su. In particolare, nel Lazio sono presenti 10269 capi ed in Toscana 3468, in totale.
Caratteristiche morfologiche
I bovini maremmani sono di taglia grande e sono caratterizzati da elevata rusticità, solidità, robustezza scheletrica e tonicità muscolare. Inoltre, sono longevi e raggiungono anche i 15-16 anni di età.
Di seguito sono riportate le caratteristiche morfologiche indicate dallo “standard di razza”.
La grande struttura ossea è leggera, gli arti sono molto solidi, gli unghioni sono duri, gli appiombi sono generalmente perfetti ed i piedi sono forti e ben serrati, con talloni alti. La capacità addominale è idonea a contenere alimenti a bassa digeribilità, e il dorso è lungo e largo. La pigmentazione è nera nelle parti del musello, fondo dello scroto, nappa della coda ed unghioni. La persistenza di peli rossi è limitata alla regione del sincipite, la coda è grigia e la depigmentazione è parziale nelle aperture naturali. La cute è fine, elastica e nera. La testa è leggera, con musello ampio.
Il dimorfismo sessuale in questa razza è rappresentato dal colore del mantello e dalla forma delle corna. Il mantello è di colore grigio, più scuro nei tori e più chiaro nelle vacche. Le corna sono un tratto caratteristico della razza: a forma di semiluna nei maschi ed a forma di lira nelle femmine; negli adulti il colore delle corna è bianco-giallastro alla base e nero in punta.
Maschi: per i tori il peso medio è di 10-12 quintali e l’altezza media è di 150 cm. Hanno il mantello grigio scuro. Il collo è ben proporzionato e muscoloso con giogaia sviluppata; il profilo superiore è marcatamente convesso.
Femmine: per le vacche adulte il peso medio è di 6 – 8 quintali e l’altezza media è di 145 cm. Le bovine hanno il mantello grigio chiaro, il collo è lungo e leggero con giogaia sviluppata, e il profilo superiore è più rettilineo. La mammella appare sviluppata e vascolarizzata, con tessuto elastico e spugnoso, quarti regolari e con capezzoli ben diretti e di giuste dimensioni per l’allattamento. I parti sono spontanei e sono concentrati in primavera. Le vacche possiedono una spiccata attitudine materna ed assicurano una produzione di latte abbondante per l’accrescimento giornaliero del vitello ( > 1 kg).
I vitelli nascono con i mantello color fromentino che, dopo 3 mesi d’età, diventa grigio. Alla nascita pesano 30-40 kg e rimangono con la madre fino ai 6/7 mesi d’età. Vengono poi svezzati e venduti, oppure rimangono in azienda per l’ingrasso.
*(dati ANABIC aggiornati al 31/12/2020): le consistenze del Libro Genealogico includono sia gli animali iscritti ai Registri Principali Vacche e Tori, che hanno almeno due generazioni di ascendenti note (definiti dalla normativa comunitaria “di razza pura”), sia quelli iscritti al Registro Supplementare Vacche ed al Registro del Giovane Bestiame, che, pur appartenendo alla razza ed essendo iscritti al Libro, non possiedono una genealogia completa fino alla seconda generazione.
Fonte-Rivista online: RUMINANTIA®Web Magazine del mondo dei Ruminanti
Poesie di Daria Menicanti- una delle voci più nuove e singolari della letteratura italiana del Novecento
Daria Menicanti è nata a Piacenza da padre toscano e madre croata, l’originale poetessa e traduttrice si laureò nel 1937 in Lettere e Filosofia con una tesi su John Keats. In seguito lavorò a Milano come professoressa e preside di Scuole Medie. Le sue strofe, in apparenza leggere, sono il frutto di una profonda riflessione esistenziale che coltivò anche grazie al rapporto col marito, il filosofo Giulio Preti, sposato nel 1937, con cui mantenne rapporti di amicizia anche dopo la separazione, avvenuta negli anni Cinquanta. “Ironia, unica salvatrice del genere umano”, affermò lei stessa ribadendo di fatto una dichiarazione di poetica. “Daria aveva maturato una voce nuova, moderna e classica, per niente alla moda, ma libera e anche audace”, scriverà la narratrice Lalla Romano in un articolo pubblicato dal Corriere della sera il 20 gennaio 1995 per commemorare l’autrice, morta il 4 gennaio precedente a causa di un tumore alla gola in una casa di cura di Mozzate. Un giudizio egualmente lusinghiero lo aveva già espresso parecchi anni prima, nel 1978, il critico Sergio Solmi: “La sua poesia, -affermava- priva degli strombazzamenti di cui godono normalmente i poeti alla moda, pare a me, nella sua nuda semplicità e sincerità, una delle più vive e schiette dei nostri giorni. Appartiene alla poesia d’ogni tempo, dai primi lirici greci fino a Leopardi. Il sottile brivido che essa insinua nel lettore è il brivido dell’autentica poesia.”
—————————————————————- INVERNO AL BAR BOZZI
(Daria Menicanti)
Con la tazzina stretta tra le dita,
ben calda tra le dita,
sola, in pace,
in un tiepido alone
di vapori,
di aroma di caffè,
indugio presso il banco
insaziata di calore
tra gli urti continui
e i pardons.
Qui ritrovo la luce,
qui di nuovo la gente,
qui le parole,
vi si compra in una schedina
qualche gran sogno di poche ore
e, con lire duecento, si avventa
per voi
l’ultima voce dal juke box.
Ma gratuitamente a ciascuno
tremulo grida il video turchino
ora le stragi del Congo
le stragi d’Algère –
e in cima al mio alto sgabello
(dianzi quieta
quasi felice)
improvvisamente a disagio
mi sento uno stupido uccello
che tutti ha lasciato partire
i propri compagni
da soli
per il Sud.
PER UNA POETICA
Di solito succede a questo modo:
dopo un lungo silenzio le parole
anche le più comuni le più
consumate dall’uso e dalla pace
vita riprendono, colore.
Escono ardendo e si aggruppano in corone
di isole in arcipelaghi
o, se hai forza e fortuna, in continenti.
Con quel sapore nuovo con quel
mutante arcobaleno che hanno intorno
a fatica le riconosci e ancora
più a fatica le fermi mentre sciamano
da te veloci: ma è un altrove è un fuori
il grido amoroso intrattenibile
che le incalza saltuario
che le spinge lontano dagli orrori del vuoto.
Cedono a mano a mano
sommesse o sontuose – lo sai –
al divenire al duro precisarsi:
volanti comete di tanto
indugiano quanto una nota
quanto in lastra di specchio una presenza
e subito si arrendono spente
nel nuovo turno di silenzio.
L’ULTIMO MESE D’INVERNO
Con l’ultimo mese d’inverno
si fa delicata una stagione
già tanto mordace. La luna
riporta con gentili esche la sua
trasparente morte.
E’ FIORITO L’ALBERO DEL CORTILE
Una sfera
pallida e trasparente è caduta
sopra le braccia aperte
dell’albero in attesa.
Una sfera
di fiori brevi più bianchi dell’alba
s’è posata in cortile
tra vorticose pareti.
La sua presenza aerea
la sua improvvisa grazia da immortale
rende felice e disperato chi
la guarda.
Gabbiani
Gabbiani blu gridano ai pesci ingiurie
parolacce. Gridano in Gabbiano
ai pesci: ehi, voi! ehi, voi!
Ci si buttano sopra imprecando.
**Ultimamente i cieli
si erano fatti così muti che
perfino quest’ira dall’aria
sembra piacevole cosa se pure
atroce come la vita.
*
“In interiore homine est”
Un’altra primavera! E il sole mite
mi tenta, mi ammicca dai vetri,
ma dentro alla mia casa io resto calda,
quieta, assai ricca:
come un segreto affidato,
come in cavo di mano una ben stretta
perla.
* Ombre
Ombre mute sarebbero ombre
perdute per i muri o fra i sassi
di un marciapiede se non le ospitassi
qui da me. E’ allora che diventano
cose salde sangue voce.
Ha scritto Segio Solmi che la poesia della Menicanti appartiene al filone “della poesia d’ogni tempo, dai primi lirici greci fino a Leopardi, nei suoi poli fondamentali di amore-morte”. Non si potrebbe dir meglio, né con più provocante speditezza. In effetti, la poesia della Menicanti è lì, tutta da vedere e da gustare nella sua ammirevole semplicità e trasparenza, e sembra a prima vista impossibile compiere su di essa operazioni critiche che vadano al di là della pura certificazione, della pura conferma del fatto che (è ancora Solmi a notarlo) il “sottile brivido” che essa insinua nel lettore è il “brivido dell’autentica poesia”. E, quando a una ricapitolazione dei suoi contenuti, penso proprio non vi sia nulla di artificioso o di arbitrario nel rinviare tranquillamente, come fa Solmi, ai “poli fondamentali di amore-morte”, avendo in mente e all’orecchio, si capisce, i frammenti greci, primi fra tutti quelli di Saffo. Tuttavia, sono convinto che sia non solo possibile, ma proficuo definire la poesia della Menicanti anche in rapporto a una tradizione più recente e specifica, quella della poesia italiana del nostro secolo. Giovanni Raboni
TETTO
All’alba – già è novembre – e sento ancora
dai nidi chiamare colombi
piccoli, azzurri, con la voce fina,
e degli ardenti padri per lo zinco
della gronda convessa affaccendarsi
su e giù gli artigli di porpora
e le lotte amorose
e le squisite agonie
e l’incalzante tubare.
TUTTI I GATTI LO CREDONO
Nerofumo e smeraldi, sulla vetta
di una colonna un gatto mi contempla
risibilmente piccolo, ma già
convinto di essere un dio.
QUASI
Quasi ce l’ho con lui. Per quel furtivo
andarsene che ha, gliene voglio;
per quel viso già pieno di nebbie.
Non sfuggirmi, lo supplico, gli piango,
non uscire così dalla tua casa,
le mie memorie. Se mi lasci, caro,
vivrai dove?
Chi ti riscalderà?
Fonte- Pingback: Ufficio poesie smarrite, la rubrica di Luca Mastrantonio dimostra che i giornali possono ancora fare cultura|
Biografia di Daria Menicanti nasce, ultima di quattro figli, nel 1914 a Piacenza da padre toscano e madre fiumana.Trasferitasi la famiglia a Milano, Daria frequenta il Liceo Ginnasio Berchet, dove sostiene l’esame di maturità nel luglio 1932. Si iscrive alla Facoltà di Lettere e Filosofia, e ha come docenti Antonio Banfi, Adelchi Baratono, Luigi Castiglioni, Mario Hazon e come compagni di corso Enzo Paci, Vittorio Sereni, Antonia Pozzi , Luciano Anceschi. Con Banfi, che Daria ritiene, insieme a Baratono, fondamentale per la propria formazione, si laurea nel luglio 1937 discutendo una tesi dedicata all’analisi della poetica e della poesia di John Keats. Allo stesso anno, oltre all’abilitazione all’insegnamento medio (Daria sarà per tutta la vita insegnante), conseguita nell’autunno, risale il matrimonio con Giulio Preti (1911-1972), dal quale si separa negli anni Cinquanta, pur mantenendo un fortissimo e tenace legame di affetto, di stima e di amicizia: più o meno esplicito dedicatario e oggetto di molte intense poesie; e conteranno nella sua vita gli amici Vittorio Sereni ed Enzo Paci, cui si aggiungeranno, negli anni successivi, Lalla Romano (con la quale condivide la pratica della pittura, che in Daria si accosta sempre di più a quella della poesia), Manlio Cancogni, Marco Marchi, Silvio Raffo, Lulli Paci (che di Daria, insieme a Maria Teresa “Pigot” Sereni, è allieva privata di greco), Fabio Minazzi.
Agli anni Trenta, gli anni della formazione universitaria, risalgono le prime prove poetiche, poi ripudiate, inclini ai modi dell’ermetismo; Daria, sulla scia della mediazione banfiana, li definirà asfittici. Nonostante il ripudio di queste prime prove inadeguate a esprimere la propria indole toscana «ridente e piangente» (della quale, in una intervista del 1993 pubblicata nel numero di febbraio 1995 di «Poesia», rivendica la diversità rispetto a quella, per esempio, dell’amico Sereni), continua a scrivere in segreto. Soltanto nel 1964, presso Mondadori, esce la sua prima raccolta poetica, Città come (premio Carducci 1965), alla quale seguiranno, sempre per Mondadori, Un nero d’ombra (1969) e Poesie per un passante (1978); per Forum/Quinta generazione (Forlì), esce nel 1986 Altri amici; per Lunarionuovo (Acireale), Ferragosto, nel 1986; per Scheiwiller, nel 1990, Ultimo quarto, con una nota di Lalla Romano.
Intensa è anche l’attività di traduzione dall’inglese (e, secondo la testimonianza di Francesca Romana Lulli Paci, figlia di Enzo, Daria è anche ottima grecista e latinista, in grado di comporre esametri latini): a partire dalla fine degli anni Trenta traduce John Henry Muirhead, Filosofi inglesi contemporanei (introduzione di Antonio Banfi, Milano, Bompiani, 1939); di Paul Nizan, Aden Arabia (Milano, Mondadori, 1961) e La cospirazione (ivi, 1980); di Noel Coward, Amore e protocollo (Milano, Club degli Editori, 1962); di Jean Paris, James Joyce (Milano, Il Saggiatore, 1966); di Betty Smith, Al mattino viene la gioia (Milano, Mondadori, 1967); di Paul Geraldy, Toi et moi (ivi, 1978); di Sylvia Plath, La campana di vetro (ivi, 1979). Sue poesie sono inoltre presenti in molte antologie, tra cui Donne in poesia, curata da Biancamaria Frabotta per Savelli nel 1976. L’impronta dell’innovativa cultura dalla cifra europea ricevuta negli anni Trenta presso l’Università di Milano emerge dalla poliedrica attività di Daria Menicanti: è poetessa secondo modi inclini e alla riflessione filosofica; traduttrice, aderendo a una tensione generazionale (si pensi al Vittorio Sereni di Frontiera), rivolge la propria attenzione verso le contemporanee letterature straniere. Soprattutto, a connotare la sua scrittura e a distanziarla da altre esperienze coeve, è la lucidità, che si rivela anche a livello tecnico, della riflessione e della scrittura che la sostiene. Poesia che, pur apparentemente distante rispetto alla temperie storica e politica, intende dare ascolto a tutta la realtà, animali e piante compresi, presenze peraltro insostituibili nella vita di Daria.
Muore, per un tumore alla gola, in una casa di cura di Mozzate, tra Varese e Como, il 4 gennaio 1995. Lalla Romano le dedica un appassionato contributo che appare sul «Corriere della Sera» del 20 gennaio, sostenendo che già a partire dalla sua prima raccolta: «Daria aveva maturato una voce nuova, moderna e classica, per niente alla moda, ma libera e anche audace. » NOTE 1. Daria Menicanti, Epigramma per un filosofo [aprile 1965, a G. P.], in Ead., Un nero d’ombra , Milano, Mondadori, 1969, p. 110. Torna su Fonti, risorse bibliografiche, siti su Daria Menicanti Daria Menicanti, La vita è un dito. Antologia poetica 1959-1989, introduzione e cura di Matteo M. Vecchio, con uno scritto di Fabio Minazzi e una lettera di Marco Marchi, Borgomanero, Giuliano Ladolfi Editore, 2011 Daria Menicanti, Città come, Milano, Mondadori, 1964 Daria Menicanti, Un nero d’ombra, Milano, Mondadori, 1969 Daria Menicanti, Poesie per un passante, Milano, Mondadori, 1978 Daria Menicanti, Altri amici, Forlì, Forum/Quinta Generazione, 1986 Daria Menicanti, Ferragosto, Acireale, Lunarionuovo, 1986 Daria Menicanti, Ultimo quarto, con una nota di Lalla Romano, Milano, Scheiwiller, 1990 Matteo M. Vecchio (a cura di), con una nota di Silvio Raffo, Due racconti inediti di Daria Menicanti: «Il nonno», «Marta» , in «Studi Italiani», a. XXI, n. 42, fasc. 2, luglio-dicembre 2009, pp. 81-91 Referenze iconografiche: Daria Menicanti, anni trenta. Immagine in pubblico dominio. Voce pubblicata nel: 2012 Ultimo aggiornamento: 2023
On. Elettra POLLASTRINI-L’unica donna della provincia di Rieti eletta alla Costituente-
On.Elettra Pollastrini -P.C.I.Nata a Rieti il 15 luglio 1908, deceduta a Rieti il 2 febbraio 1990, operaia e parlamentare Comunista.La sua famiglia di antifascisti nel 1934 fu costretta a emigrare in Francia per sottrarsi alle persecuzioni del regime. Trovato un lavoro la giovane Elettra, che aveva aderito al Partito Comunista, fece l’operaia alla Renault e nell’azienda francese fu alla testa delle lotte di quei lavoratori. Incaricata della redazione di Noi Donne, allo scoppio della guerra civile nella penisola iberica si portò in Spagna. Al rientro in Francia fu arrestata e rinchiusa nel campo di Rieucross. Riuscita a rientrare in Italia, nel 1941 la Pollastrini tornò a Rieti dove riprese l’attività antifascista clandestina e, dopo l’annuncio dell’armistizio, entrò nella Resistenza romana. Arrestata dai tedeschi e tradotta in Germania trascorse venti mesi nel carcere di Aichach. Dopo la Liberazione, tornata in Italia, fu una delle nove donne comuniste entrate a far parte della Consulta nazionale e, nel 1948, fu eletta deputata del PCI alla Camera, dove restò per due Legislature. Nel 1958 si trasferì in Ungheria dove, per 5 anni, lavorò a Radio Budapest. A Rieti, a Elettra Pollastrini è stata intitolata una strada; porta il suo nome anche una Sezione dell’ANPI, che vi si è recentemente costituita.
Fonte- ANPI nazionale-L’On.Elettra Pollastrini , nella foto in B/N è quella seduta a dx dell’On. Nilde Jotti-(Foto Archivio Camera dei Deputati)-
Nota- A)L’On.Elettra Pollastrini , nella foto in B/N è quella seduta a dx dell’On. Nilde Jotti-(Foto Archivio Camera dei Deputati)- B)La pagina di giornale con le 21 Onorevoli elette alla Costituente è del Corriere della Sera -1946- C) Scheda della Camera dei Deputati con le coordinate anagrafiche dell’On. Elettra Pollastrini. ANPI COMITATO ANTIFASCISTA DELLA SABINA-
David Copperfield di Charles Dickens –Articolo di Giovanni Teresi-
David Copperfield è l’ottavo romanzo dello scrittore inglese Charles Dickens e rientra nei romanzi sociali . L’opera, inizialmente, è stata pubblicata a puntate mensili tra il 1849 e il 1850 con il titolo originale The Personal History, Adventures, Experience and Observation of David Copperfield the Younger of Blunderstone Rookery (Which He Never Meant to Be Published on Any Account).
É il romanzo più popolare ed autobiografico di Dickens.
David Copperfield, dopo la morte della madre, lascia Blunderstone per Londra. Mr Murdstones, il patrigno, lo obbliga ad andare a lavorare al magazzino di vini di Murdstone and Grimby. All’ età di dieci David diventa un piccolo apprendista. Egli lavora insieme con altri tre o quattro ragazzi che lavorano sotto il controllo di un supervisore adulto. David descrive la miseria e la sporcizia del posto di lavoro. Così, sotto la sferza del tirannico maestro Creakle e la fatica del lavoro in fabbrica, sperimenta presto la durezza della vita.
Ma grazie alle cure della bizzarra zia Betsey, che lo aiuta a sistemarsi presso l’avvocato Wickfield e a terminare gli studi, David scoprirà la propria vocazione letteraria e riconquisterà il suo rango borghese. Impareggiabile nel raccontare paure ed emozioni dell’universo infantile, Dickens sfodera doti di acuto osservatore nel disegnare la galleria di tipi umani che ruota attorno al protagonista: da Mr. Micawber, sempre sull’orlo del fallimento ma capace del più genuino entusiasmo, all’ammirato compagno di studi Steerforth, che rivelerà da adulto la sua natura spregiudicata e viziosa, al servile e viscido Uriah Heep, il cattivo della storia. Alla fine del diciannovesimo secolo il lavoro minorile e le dure condizioni erano considerate una cosa normale e i piccoli lavoratori erano sottoposti a grossi rischi. Ma David non può esprimere la segreta agonia della sua anima. Egli vede il futuro in modo negativo e non ha speranza: nessuna possibilità di crescere e di distinguersi come individuo. La miseria del suo lavoro e la sua condizione sociale soffocano i suoi sogni e le sue aspettative.
Con geniale esuberanza il romanzo intreccia commedia e tragedia sullo sfondo di una Londra prototipo della metropoli moderna e tetra incubatrice di miseria, solitudine, crimine.
Charles Dickens miscelando insieme una buona dose di dramma ma anche di ironia, riesce a trasmettere al lettore una miriade di emozioni, che passano dalla tristezza, alla gioia, dalle risate alle lacrime, dalla rabbia ai sospiri. Insomma, immergersi tra le pagine di David Copperfield equivale a vivere un vero e proprio viaggio non solo in un’epoca passata, ma anche in sensazioni molto forti, che rendono la lettura un’esperienza completa e piena.
Biografia-Charles Dickens, secondo di otto figli, nasce a Portsea, il 7 febbraio 1812. È considerato uno dei maggiori autori inglesi del suo secolo, ed è ritenuto dalla critica il “fondatore” del romanzo sociale, che tratteggia la vita dei ceti sociali economicamente svantaggiati e denuncia situazioni di sopruso e pregiudizio.
Nel 1815, quando Charles ha tre anni, la famiglia si trasferisce a Londra. Due anni dopo, un nuovo trasferimento, stavolta a Chatham, nel Kent. Passa il tempo libero all’aperto impegnato in voraci letture. Più tardi racconterà delle sue vivide memorie riguardanti l’infanzia e della particolare memoria fotografica che lo aiutò a dar vita alle sue finzioni. Nel 1823, la famiglia Dickens, assai impoverita, è costretta nuovamente a trasferirsi a Camden Town, allora uno dei quartieri più poveri di Londra.
All’età di quindici anni entra nello studio legale Ellis & Blackmore come praticante. Nel frattempo, comincia a frequentare i teatri londinesi, assistendo a diversissimi generi, dalle tragedie shakespeariane alle farse e alle operette musicali.
Nel 1832 inizia a collaborare con alcuni quotidiani, come cronista.
Nel 1836, in aprile, comincia in dispense mensili a pubblicare sul Morning Chronicle il primo romanzo. Il romanzo s’intitola I quaderni postumi del Circolo Pickwick (The Posthumous Papers of the Pickwick Club): il libro lo rende in breve assai famoso nel panorama della narrativa inglese.
A gennaio del 1837, con il primo numero della rivista Bentley’s Miscellany, esce la prima puntata di Oliver Twist.
Tra il maggio 1849 e il novembre 1850 viene pubblicato, a cadenza mensile su un giornale di proprietà di Dickens, il romanzo David Copperfield; l’idea di un’opera scritta in prima persona fu suggerita allo scrittore dall’amico e confidente John Forster. Nell’opera a fondo autobiografico si possono riconoscere personaggi e situazioni che lo stesso Dickens aveva conosciuto e vissuto in prima persona.
Muore il 9 giugno 1870.
Il 14 giugno è sepolto nell’abbazia di Westminster, nella quale la sua salma viene portata da un treno speciale, nell’angolo dei poeti (Poets’Corner).
Canto di Natale è stato scelto come libro della gara di lettura delle scuole medie per l’anno scolastico 2013/2014.
BIBLIOGRAFIA SINTETICA
Le avventure di Oliver Twist David Copperfield Grandi speranze Canto di Natale
Charles Dickens: biografia
Charles Dickens nasce a a Portsmouth nel 1812. La sua famiglia non lo favorisce negli studi. I nonni paterni erano stati domestici presso famiglie della nobiltà: il nonno materno, colpevole di appropriazione indebita, era fuggito per sottrarsi all’arresto. Nel 1824 il padre, un modesto impiegato con abitudini superiori alle sue possibilità, viene rinchiuso per debiti nelle carceri londinesi di Marshall sea ed il piccolo Dickens è costretto a interrompere gli studi. Lavora per sei mesi in una fabbrica di lucido per scarpe. Anche dopo la scarcerazione del padre, la madre lo fa continuare a lavorare. Una precoce esperienza di miseria, umiliazione e abbandono, che lo segna in modo irreparabile. Dopo un’istruzione sommaria, lavora come commesso in uno studio legale, poi come cronista parlamentare e collaboratore di giornali umoristici.
CHARLES DICKENS RIASSUNTO VITA – Grazie a “Il circolo Pickwick”, il ventiseienne Dickens diventa di colpo uno scrittore di successo. La sua popolarità aumenta con i romanzi successivi, usciti a dispense mensili, con le conferenze, gli spettacoli teatrali da lui organizzati, in cui Dickens si esibisce anche come attore. Tra il 1837 e il 1839 abita al 48 di Doughty Street (Londra). S’impegna in una prolifica attività creativa, scrivendo anche due romanzi alla volta, ma senza mai perdere il gusto per la convivialità. Nel 1846 fonda il quotidiano “Daily News”, che dura meno di un anno. Nel periodo tra il 1850 e il 1859 è direttore del mensile “Household Words”. Innamoratosi della giovanissima Ellen Ternan, nel 1858 si separa dalla moglie da cui aveva avuto dieci figli. Una nuova relazione, poco fortunata. Muore a Gad’s Hill [Kent] nel 1870.
Il Circolo Pickwick: riassunto
Il romanzo si sviluppa come il resoconto dei viaggi che Samuel Pickwick, fondatore dell’omonimo circolo, compie con gli amici Nathaniel Winkle, Augustus Snodgrass e Tracy Tupman, in Inghilterra all’inizio dell’Ottocento. Pickwick vuole studiare le persone che incontra e descriverne abitudini e caratteristiche. All’inizio del viaggio il gruppo di amici viene notato da Jingle e dal suo domestico Job Trotter, due delinquenti che riescono a ingannarli e a metterli nei guai. L’episodio più importante del romanzo è l’incontro con Mr. Wardle, un gioviale e ricco gentiluomo, che nel corso della storia Pickwick ed i suoi amici torneranno spesso a trovare. Snodgrass si innamora di Emily, figlia di Wardle; Winkle di Arabella, amica di Emily e Tupman dalla sorella di Wardie, Rachel. Quest’ultima viene ingannata da Jingle, che la sposa per la sua dote e poi fugge con lei. Ma Pickwick e Wardle riescono a trovarli e a convincere Jingle a lasciar stare la signora. Pickwick conosce Sam Weller, un onesto lustrascarpe, che diventa suo domestico ed un grande amico. Pickwick deve anche affrontare una causa legale mossa dalla sua governante per una mancata promessa di matrimonio. Dopo un periodo trascorso in prigione, riesce ad uscire e tutto si risolve per il meglio.
Oliver Twist: riassunto
Storia di un orfano, che prima viene segregato in un ospizio di mendicanti e poi è costretto a vivere tra ladri e prostitute. Tutto inizia in un paesino dell’Inghilterra nel XIX secolo, con una vagabonda che muore dando alla luce un bambino, il cui nome sarà Oliver Twist.
Fino all’età di nove anni, il bambino resta in orfanotrofio ma la fame e le continue punizioni lo spingono a fuggire. Arriva a Londra e fa casualmente conoscenza con un giovane che approfitta della sua ingenuità per introdurlo in una banda di ladruncoli capeggiata dall’ebreo Fagin. Un giorno i borsaioli derubano un vecchio gentiluomo, il signor Bronlow. Oliver fugge inorridito, ma, scambiato per il vero ladro, viene arrestato. Bronlow lo discolpa e lo ospita a casa sua, ma per ordine di Fagin, che aveva paura delle possibili rivelazioni che Oliver poteva fare, Sikes lo scassinatore e la sua amante Nancy riprendono il ragazzo. Così Oliver, costretto nuovamente a fare il ladro, partecipa ad un un furto. Ma il colpo va male e Oliver è ferito ad una spalla da un colpo di pistola. Lo salvano la signora Maylie con la nipote adottiva Rose. Grazie a loro il ragazzo ritrova fiducia e salute. Fagin intanto cerca Oliver insieme a Monks, un altro scagnozzo che sembra avere un odio particolare per il ragazzo. Nancy, che è sempre stata buona con Oliver, avverte Rose Maylie del complotto che Fagin sta tramando contro di lui.
Il tradimento della ragazza viene scoperto e Sikes la uccide. L’assassino, costretto a nascondersi, viene rintracciato e mentre tenta di fuggire rimane accidentalmente impiccato. Il signor Bronlow, saputa tutta la vicenda, fa arrestare Fagin e la sua banda e si scopre che Monks è un fratellastro di Oliver ed è figlio illegittimo della sorella di Rose, Maylie: Rose è quindi zia di Oliver. Il padre di Oliver, prima di morire, aveva lasciato del denaro a entrambi i figli e per questo motivo Monks avrebbe voluto togliere di mezzo il fratello per accaparrarsi tutta l’eredità. Ma questo non gli è stato possibile e Oliver venne adottato da Bronlow che lo educa con l’affetto di un padre.
David Copperfield: riassunto
I primi capitoli del romanzo David Copperfield sono dedicati all’infanzia di David che, orfano di padre, vive con la madre e con la governante Peggotty. Il clima felice viene interrotto dal matrimonio della madre di David con Mr. Murdstone, un uomo freddo e crudele che, spalleggiato da sua sorella, instaura in casa un clima di terrore. David, viene prima mandato nella scuola del signor Creakle e, dopo la morte della madre, è costretto a lavorare a Londra in un deposito di vino. Qui trova conforto solo nell’amicizia del signor Micawber e della sua famiglia presso la quale vive. Quando Micawber è arrestato per debiti, David fugge da Londra e si reca da una zia materna, Miss Betsy Trotwood, che si prende cura di lui. Il ragazzo può continuare la sua educazione a Canterbury, nella casa dell’avvocato Wickfield, la cui assennata figlia Agnes è destinata ad influire grandemente sulla sua vita.
Completati gli studi, va a far pratica nello studio legale di Mr. Spenlow. Ritrova anche un suo compagno di collegio, Steerforth e lo presenta alla famiglia della sua amica nutrice Peggotty.
Ma Steerforth seduce la nipote di Peggotty, Emily, e muore in un naufragio. David sposa la giovane Dora Spenlow che dopo pochi anni muore. Il giovane, dapprima sconsolato, scopre finalmente l’errore che ha fatto nel trascurare Agnes. Il padre di Agnes intanto è caduto nelle mani di un individuo ipocrita e malvagio, il suo assistente, Uriah Heep, dal viso cadaverico e dalle mani appiccicose, che si sta impadronendo del suo patrimonio e aspira alla mano di Agnes. Le malefatte di Heep vengono però smascherate da David con l’aiuto di Micawber. Tutto allora finisce bene: Heep è condannato; David, che ha raggiunto la fama come autore di romanzi, sposa Agnes; Micawber, sistemati finalmente i debiti, parte per le colonie.
Tempi difficili: riassunto
Il signor Gradgrind si è impegnato nella sua vita a realizzare fatti, perché tutto il resto è inutile, anche i sentimenti. Ha educato i suoi figli inculcando loro l’importanza dei fatti e si stupisce molto quando sorprende due di loro, Louisa e Thomas, a guardare attraverso una fessura il circo appena giunto in città. Su consiglio del suo vecchio amico banchiere, il signor Bounderby, decide che la colpa dell’accaduto è della figlia di un clown, Cecilia Jupe detta Sissy, che il giorno prima è andata a casa sua per chiedere il permesso di iscriversi nella scuola. Gradgrind decide di cacciarla e si reca nella locanda dove la giovane alloggia col padre per comunicare che non c’è posto nella scuola. Qui scopre che il clown ha abbandonato la figlia e decide di accoglierla in casa sua per educata secondo le sue idee. Sissy fa subito amicizia con la primogenita del signor Gradgrind, Louisa, la prediletta del signor Bounderby. Tom, il fratello di Louisa, pensa che una volta diventato grande sarebbe potuto andare a lavorare nella banca di Bounderby, approfittando del debole dell’uomo per la sorella. Bounderby è stato abbandonato dalla madre quand’era ancora in fasce e ora è uno degli uomini più ricchi di Coketown, possedendo anche molte fabbriche. Ha alle sue dipendenze una signora di nobili origini, la signora Sparsit, ed un certo Stephen Blackpool.
Andando via dalla casa del signor Bounderby, Blackpool conosce una vecchia signora, che si reca un paio di volte all’anno a Coketown, per cercare di vedere da lontano il Signor Bounderby, verso il quale prova una vera e propria ammirazione. Gli anni passano ed il signor Gradgrind si accorge che la figlia è diventata una donna. Così le parla di una proposta di matrimonio ricevuta dal signor Bounderby. Louisa, un po’ per l’educazione ricevuta e un po’ per assecondare il fratello, acconsente alle nozze. Dopo il matrimonio, la signora Sparsit si trasferisce dalla casa del signor Bounderby alla banca, per gestirla. Qui lavora anche il fratello di Louisa, che approfitta del matrimonio della sorella per far carriera. Il signor Gradgrind viene eletto nel parlamento inglese, dove conosce il signor Harthouse, che lo convinve ad inviare, dietro una sua lettera di presentazione, il proprio fratello, James Harthouse, a Coketown.
Harthouse giunge in città e si reca dal signor Bounderby per presentarsi. Incontra Louisa, di cui rimane subito affascinato. Per avvicinarsi a lei, fa amicizia col fratello. In città intanto il clima è rovente tra operai e padroni: Stephen Blackpool viene evitato dai suoi compagni, perché rifiuta di aderire alle manifestazioni sindacali. Un giorno, viene invitato a casa del signor Bounderby, che lo licenzia additandolo come sobillatore. Più tardi Stephen riceve a casa la visita di Louisa che gli porta dei soldi per aiutarlo dopo il licenziamento.
Anche il fratello di Louisa dice di volerlo aiutare e gli chiede di andare ad aspettare fuori dalla banca nei seguenti due giorni. Stephen segue le istruzioni ricevute da Tom, ma non vede nessuno. Viene però notato dalla signora Sparsit. Sapendo che ormai non avrebbe più avuto nessuna possibilità di trovare un posto di lavoro a Coketown, decide di abbandonare la città. Qualche giorno la banca viene rapinata. Il signor Bounderby incolpa Blackpool, visto sorvegliare la banca qualche giorno prima. Poi accoglie a casa sua la signora Sparsit, rimasta sconvolta dalla rapina. La signora Sparsit nota la simpatia tra Louisa e il signor Harthouse. Dato che la presenza della signora Sparsit gli fa piacere, il signor Bounderby decide di invitarla ogni week-end a casa sua. Una settimana il signor Bounderby rimane fuori città per lavoro e la signora Sparsit fa sapere a Louisa che non si sarebbe recata a casa loro, ma vi si reca lo stesso di nascosto per sorprenderla col signor Harthouse. Sente la dichiarazione d’amore del signor Harthouse a Louisa e si reca subito dal signor Bounderby per avvisarlo. Dopo l’accaduto Louisa si reca dal padre in cerca di conforto, mentre Sissy va dal signor Harthouse e lo convince ad andare via per il bene di Louisa. Alla fine però Il signor Bounderby e Louisa si separano. Il signor Bounderby vuole trovare Stephen, sospettato della rapina insieme ad una misteriosa vecchia signora. Fa affiggere manifesti ovunque, dove si dice che Stephen è il colpevole della rapina.
I giorni passano e Stephen non torna. Un giorno la signora Sparsit si reca dal suo padrone con l’anziana sospettata di essere la complice di Stephen e si scopre che quella anziana signora è la madre del signor Bounderby e che questi ha mentito sul fatto di essere stato abbandonato. Stephen è quindi scagionato. Una domenica Rachel e Sissy vanno in campagna per una passeggiata e trovano Stephen, che incarica il signor Gradgrind di discolparlo. Nel frattempo Tom scappa e si nasconde nel circo del signor Sleary, dove lavorava il padre di Sissy. Il signor Gradgrind elabora un piano per far abbandonare il paese a Tom, che sale su una nave diretta in America. Sissy si trasferisce stabilmente a vivere dal padre, mentre il signor Bounderby, per rifarsi della figura fatta in paese, fa fare carriera a Bitzer, che per poco non è riuscito a catturare Tom. La signora Sparsit rimane per qualche tempo al servizio del signor Bounderby, che alla fine la licenzia.
La signora Sparsit è ben felice di lasciare il suo impiego, anche se è costretta ad andare al servizio di una sua dispotica parente.
Grandi speranze: riassunto
Pirrip Philip, detto Pip, è un ragazzo orfano che viene cresciuto dalla sorella, prepotente e violenta, Mrs Gargery, che lo picchia spesso. Stessa sorte tocca al buon Joe, marito di Mrs Gargery, con il quale Pip ha un buon rapporto. Durante una passeggiata alla palude Pip incontra un evaso che lo minaccia e lo obbliga a portargli del cibo per rifocillarsi ed una lima per liberarsi dagli anelli da deportato che ha alle caviglie. Pip sottrae del cibo da casa e una lima dalla fucina di Joe e, come stabilito, li porta all’evaso che lo ringrazia. Un giorno Pip viene portato a giocare da Miss Havisham, che vive in una casa maestosa, ma molto buia. Miss Havisham indossa un abito da sposa ingiallito e logoro e nella sua sala da pranzo ci sono ancora i resti di un pranzo nuziale e di una torta, tra ragni e topi. Qui Pip conosce Estella, adottata da Miss Havisham. Pip è affascinato da Estella anche se lei lo tratta con superbia e altezzosità. Dopo la visita da Miss Havisham e le parole di disprezzo di Estella, Pip inizia a vergognarsi di Joe, della sua ignoranza, della sua rozzezza e della sua semplicità e da quel momento decide di studiare per diventare migliore. Un giorno gli viene data la notizia che un benefattore sconosciuto gli ha lasciato i suoi beni, dandogli “grandi speranze”. Pip è convinto che Miss Havisham sia la benefattrice e che il suo progetto sia di unire Pip ed Estella. Pip va a vivere a Londra, studia presso Mr Pocket, vive con Herbert, un ragazzo conosciuto anni prima a casa di Miss Havisham. L’avvocato Jaggers ed il suo aiutante Mr Wemmick gestiscono i beni di Pip. Con Mr Wemmick, Pip intrattiene rapporti amichevoli.
Ogni tanto Pip torna al paese a far visita a colei che considera la sua benefattrice e dal paese intero è chiamato Mr Pip. Continua a vergognarsi di Joe e per anni evita di andarlo a trovare. Nel frattempo la sorella di Pip viene picchiata da Orlick, aiutante di Joe alla fucina, rimane invalida, viene assistita da Biddy e muore dopo qualche anno. Un giorno Pip riceve la visita di uno strano uomo ed in lui riconosce l’evaso che molti anni prima aveva salvato portandogli del cibo ed una lima. E’ Magwitch, tornato clandestinamente dall’Australia dove si era arricchito, per rivelare a Pip di essere il suo benefattore. Pip resta meravigliato e scopre che il piano di Miss Havisham non era di unirlo ad Estella, ma di farlo soffrire per amore di Estella. Miss Havisham è stata abbandonata dall’uomo che doveva sposarla nel giorno delle nozze e, per vendicarsi di questa triste sorte, aveva deciso che Estella avrebbe dovuto far soffrire tutti gli uomini che la amavano. Pip ed Herbert decidono di aiutare “zio Provis”, il nome dato a Magwitch, a fuggire.
Il giorno della fuga il piano fallisce e Magwitch viene catturato e ferito gravemente. Dopo il processo viene condannato. Magwitch muore e Pip perde le sue grandi speranze. Poi si ammala e viene assistito amorevolmente da Joe che sa di essere inferiore a lui, ma nonostante questo gli è sempre fedele. Guarito, Pip decide di tornare al paese, di sposare Biddy e restare per sempre accanto a Joe, ma tornato a casa scopre che Biddy e Joe si sono appena sposati.
Ad entrambi chiede perdono per il suo comportamento e per la sua ingratitudine e parte per raggiungere Herbert al Cairo che, con i soldi donati a sua insaputa da Pip, ha avviato un’attività. L’attività procede bene, Pip torna in Inghilterra, rivede Estella che gli confida il suo pentimento per l’atteggiamento nei suoi confronti. Pip le dice che saranno sempre amici e che non l’abbandonerà mai.
Canto di Natale: riassunto
Ebenezer Scrooge è un tirchio, ricco e avaro finanziere della City che non spende nulla e pensa che il Natale sia una perdita di tempo, come anche la domenica, che intralcia il commercio e il suo guadagno. Infastidito dalle festività, costringe il suo contabile Bob Cratchit a lavorare anche il giorno dopo Natale, per rifarsi del tempo perduto. Risponde male a chi gli fa gli auguri per la strada, compreso il nipote Fred, figlio della defunta sorella, che lo prega di pranzare con la sua famiglia. Ma l’unica compagnia che ha importanta per Scrooge è quella della sua cassaforte. Tornato a casa, gli sembra di vedere nel battiporta del portone il volto di Marley, il suo socio in affari morto da 7 anni. Chiuso nella sua vecchia casa, inizia a sentire dei rumori strani (un carro funebre sulle scale, catene dalla cantina) e vede oscillare da sola una campanella. A questo punto si apre una porta e compare il fantasma di Marley, che è condannato a vagare per il mondo senza vedere la luce di Dio perché ha vissuto chiuso nel proprio egoismo lontano dalle persone che amava e che lo amavano. Ammonisce Scrooge e gli annuncia la visita di 3 spiriti: lo spirito del Natale passato, quello del Natale presente e quello del Natale futuro.
Il primo riporta Scrooge al periodo della sua infanzia, che ha dimenticato, e gli fa rivivere i momenti importanti della sua vita, come quando promette ad una ragazza di sposarla, ma poi annulla le nozze perché la giovane non ha soldi per la dote. Da quel giorno Scrooge è rimasto solo e il suo cuore è diventato sempre più arido. Il secondo spirito gli mostra come le persone che conosce trascorrono il Natale. Il terzo spirito gli fa vedere cosa accade dopo la sua morte e cosa la gente pensa di lui. Alla fine Scrooge si ritrova nel suo letto e scopre che è la mattina di Natale. Forte della lezione ricevuta fa mandare un grande tacchino a casa del suo contabile, esce per strada salutando tutti con affetto e si reca dal nipote che lo aveva invitato per il pranzo di Natale.
Passa così il più bel Natale della sua vita. La mattina dopo aspetta l’arrivo in ufficio di Cratchit, ignaro del cambiamento del suo datore di lavoro, ed inizia a trattarlo da amico, gli dà un aumento di stipendio e le vacanze tanto meritate. Da allora Scrooge diventa una delle persone più amate del paese.
Anna Pavlovna Pavlova, la più famosa ballerina russa del XX secolo-
Anna Pavlovna Pavlova,Ballerina (Pietroburgo 1881 – L’Aia 1931). Allieva della Scuola imperiale di ballo a Pietroburgo, studiò con N. G. Legat, P. A. Gerdt e infine con E. Cecchetti, che divenne suo maestro personale. Diplomata nel 1899, nel 1906 fu nominata prima ballerina del teatro Marijnskij di Pietroburgo, sulle cui scene interpretò Il lago dei cigni e Giselle. Nel 1907 M. Fokin creò per lei l’assolo La morte del cigno (o Il cigno) su musica di C. Saint-Saëns, brano emblematico della personalità artistica della P. e a lei rimasto indissolubilmente legato. Nel 1909 danzò a Parigi con la compagnia dei Balletti russi di S. P. Djagilev, interpretando, accanto a V. F. Nižinskij, Les Sylphides e Cléopâtre (coreografia di M. Fokin). Stabilitasi a Londra nel 1911, dopo un’ultima stagione con Djagilev fondò una sua propria compagnia, con la quale danzò in tutto il mondo. Custode di un’estetica conservatrice (si rifiutò di danzare L’uccello di fuoco di Stravinskij), incarnò l’ideale etereo della ballerina classica, influenzando in particolar modo il gusto del sorgente balletto inglese.
Professor Josè Gongora Ballet-Anna Pavlovna Pavlova, la più famosa ballerina russa del XX secolo-Biblioteca DEA SABINA
Tra le personalità più importanti della danza russa c’è Anna Pavlova, una straordinaria danzatrice che ha portato e diffuso la cultura balletto per il mondo, danzando sino ai cinquanta anni. La ballerina russa è ancora oggi il simbolo della danza romantica, della sua malinconia e grazia, della capacità di trasfigurare il mondo delle emozioni in arte del movimento.
Nata a San Pietroburgo nel febbraio del 1881, da un’umile famiglia di contadini, Anna Pavlova scopre il balletto a otto anni, quando assiste a una rappresentazione de La Bella addormentata. Qui, ancora bambina, la piccola Anna comprende nel profondo del suo animo di voler diventare una ballerina. Una scoperta casuale come quella derivata da una semplice visione di uno spettacolo cambia dunque il corso della sua vita. Così a soli dieci anni la troviamo alla Scuola dei Balletti Imperiali, in cui studia costantemente sino al raggiungimento del diploma ottenuto a diciotto anni.
Entra immediatamente a far parte della compagnia, diventa seconda solista nel 1902, prima solista l’anno successivo, diventando in seguito prima ballerina dopo l’interpretazione del Lago dei cigni nel 1906. La troviamo quindi a danzare ne La Fille Mal Gardée, uno dei balletti più antichi della storia della danza classica, al Teatro Mariinskij. Uno dei suoi maestri è Enrico Cecchetti, maestro, ballerino e coreografo italiano, il cui metodo è molto conosciuto soprattutto in ambito anglosassone. Anna lavora per Serege Diaghilev, organizzatore e direttore dei Balletti russi, prima di fondare una compagnia vera e propria, con cui girare il mondo.
Questa straordinaria artista ha avuto un ruolo importante nella storia del balletto. Se nell’Ottocento le ballerine sono donne caratterizzate da una corporatura piuttosto muscolosa e forte, la Pavlova, così minuta e delicata, si presenta fisionomicamente distante da quei modelli, ma ricca di grazia e rara eleganza. Il suo piede è piuttosto minuto e delicato, ragion per cui rinforza le sue scarpe da punta con l’aggiunta di un pezzo di cuoio sulla suola dando così anche il suo contributo allo sviluppo della scarpetta da punta moderna.
Questa ballerina è conosciuta soprattutto per delle esibizioni famose come quella de La morte del cigno. La versione coreografata da Michel Fokine è una delle rappresentazioni più interpretate dalla ballerina durante la sua carriera, un’interpretazione artistica a cui resta sempre fedele.
sua favola termina però in Olanda, dove la Pavlova muore a causa di una pleurite nel gennaio del 1931. Il treno è fermo nella neve, e Anna scende non coprendosi completamente, così il freddo intenso e pungente le provoca un malanno che degenera nelle settimane successive. La straordinaria ballerina resta fedele alla danza sino alla morte, la danza è sua compagna, e non è un caso se in fin di vita, richiede espressamente di poter tenere in mano il suo costume utilizzato per La morte del Cigno. Il giorno successivo alla sua scomparsa, lo spettacolo va in scena con un faro segui persona che si muove su un palco vuoto, illuminando quegli spazi che la ballerina avrebbe dovuto riempire con la sua presenza leggiadra.
Oggi esistono dei frammenti di filmati dedicati a questa artista, che ne fissano per sempre come testimonianza la danza. Molte di queste sequenze sono state inglobate in un film del 1956 chiamato The Immortal Swan (Il cigno immortale).
Professor Josè Gongora Ballet-Nel 1923 , Anna Pavlovna Pavlova,was at the height of her career as one of the world’s most celebrated ballerinas. Pavlova, born in 1881 in St. Petersburg, Russia, had already achieved international fame for her ethereal performances and dedication to the art of ballet. Known for her expressive style and technical prowess, Pavlova became a symbol of the elegance and beauty of classical dance. Her portrayal of the “Dying Swan,” a solo she performed for the first time in 1905, became one of the most iconic pieces in ballet history, solidifying her legacy.
By the time this photograph was taken in 1923, Pavlova had become a household name and was in the midst of her global tours. She was admired not only for her dancing but also for her ability to convey deep emotion through her movements. She was a pivotal figure in bringing ballet to a broader audience, performing in cities around the world and captivating audiences with her grace. Her tours included performances in London, Paris, and New York, where she introduced the beauty of classical Russian ballet to the Western world, forever changing the global perception of ballet.
Pavlova’s influence on the world of dance cannot be overstated. She founded her own ballet company, which toured extensively, and she was instrumental in advancing the recognition of ballet as a legitimate form of artistic expression. Despite the challenges of the time, including the limited acceptance of women in such powerful roles, Pavlova remained a trailblazer for female dancers worldwide. Even today, Anna Pavlova is regarded as one of the most important figures in the history of ballet, and her legacy continues to inspire generations of dancers. The 1923 photograph captures not only her beauty but also her immense contribution to the performing arts, preserving a moment in time that celebrates the artistry of one of ballet’s greatest icons.
Nel 1923 Anna Pavlova era all’apice della sua carriera come una delle ballerine più celebrate al mondo. Pavlova, nata nel 1881 a San Pietroburgo, Russia, aveva già raggiunto fama internazionale per le sue esibizioni eteree e la dedizione all’arte del balletto. Conosciuta per il suo stile espressivo e la sua abilità tecnica, Pavlova è diventata un simbolo dell’eleganza e della bellezza della danza classica. La sua interpretazione di “Dying Swan”, un assolo che ha eseguito per la prima volta nel 1905, divenne uno dei pezzi più iconici della storia del balletto, consolidando la sua eredità.
Quando questa fotografia fu scattata nel 1923, Pavlova era diventata un nome familiare ed era nel bel mezzo dei suoi tour globali. Era ammirata non solo per la sua danza, ma anche per la sua capacità di trasmettere emozioni profonde attraverso i suoi movimenti. È stata una figura fondamentale nel portare il balletto a un pubblico più ampio, esibendosi in città di tutto il mondo e coinvolgendo il pubblico con la sua grazia. I suoi tour includevano spettacoli a Londra, Parigi e New York, dove ha introdotto la bellezza del balletto classico russo nel mondo occidentale, cambiando per sempre la percezione globale del balletto.
L’influenza di Pavlova sul mondo della danza non può essere sopravvalutata. Ha fondato la sua compagnia di balletto, che ha fatto un lungo tour, ed è stata determinante nel far avanzare il riconoscimento del balletto come forma legittima di espressione artistica. Nonostante le sfide del tempo, compresa la limitata accettazione delle donne in ruoli così potenti, Pavlova è rimasta una piste per le ballerine di tutto il mondo. Ancora oggi Anna Pavlova è considerata una delle figure più importanti della storia del balletto, e la sua eredità continua a ispirare generazioni di ballerini. La fotografia del 1923 cattura non solo la sua bellezza ma anche il suo immenso contributo alle arti dello spettacolo, conservando un momento nel tempo che celebra l’arte di una delle più grandi icone del balletto.
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