Tove Irma Margit Ditlevsen–Romanzo Infanzia La Trilogia di Copenaghen Vol. 1-Fazi Editore
Tove Irma Margit Ditlevsen
Descrizione del libro di Tove Irma Margit Ditlevsen , Romanzo Infanzia(La Trilogia di Copenaghen Vol. 1)-Fazi Editore-nella sua prima traduzione italiana (di Alessandro Storti), il volume che inaugura la trilogia di Copenaghen: tre romanzi autobiografici riscoperti di recente e giustamente celebrati a livello mondiale come capolavori.
La piccola Tove vive con i genitori e il fratello maggiore in un quartiere operaio di Copenaghen. Il padre, uomo schivo dalle simpatie socialiste, si barcamena passando da un impiego saltuario all’altro. La madre è distante, irascibile e piena di risentimento: non è facile prevedere i suoi stati d’animo e soddisfare i suoi desideri. A scuola Tove si tiene in disparte, dentro di sé è convinta di essere incapace di stabilire veri rapporti con i coetanei; fa però amicizia con la selvaggia Ruth, una bambina del suo quartiere che la inizia ai segreti degli adulti. Eppure anche con lei Tove indossa una maschera, non si svela né all’amica né a nessun altro. La verità è che desidera soltanto scrivere poesie: le custodisce in un album gelosamente nascosto, soprattutto da quando il padre le ha detto che le donne non possono essere scrittrici. Sempre più chiara, in Tove, è la sensazione di trovarsi fuori posto: la sua capacità di osservazione, lucida, inesorabile, ma al tempo stesso sensibilissima, le fa apparire estranea l’infanzia che sta vivendo, come se fosse stata pensata per un’altra bambina. Le sta stretta, quest’infanzia, eppure comincerà a rimpiangerla nell’attimo stesso in cui se la lascerà alle spalle.
Fazi Editore
«I tre volumi della trilogia di John Self, «New Statesman formano un tipo particolare di capolavoro, il tipo che arriva a riempire un vuoto. È un po’ come scoprire che Lila e Lenù, le eroine di Elena Ferrante, sono reali… La strada di Istedgade è pungente (e pericolosa) quanto lo stradone della Ferrante».
«The New York Times Book Review»
«Come si annuncia la grande letteratura – quella di serie A, quella con la L maiuscola? Annuncio la trilogia
di memorie di Tove Ditlevsen con l’emozione
tipica di quando ho davanti un capolavoro».
Parul Sehgal, «The New York Times»
«La trilogia è un vero tour de force. Questi libri sono sfavillanti, come mi aspettavo. Straordinariamente intensi ed eleganti».
Lucy Scholes, «The Paris Peview»
«La trilogia di Copenaghen di Tove Ditlevsen, poco ma sicuro, è uno dei più importanti eventi letterari dell’anno».
Sophie Wennerscheid, «Süddeutsche Zeitung»
«La sua evocazione della battaglia di una donna della classe operaia con padroni, guinzagli e i suoi stessi demoni ne fa un vero capolavoro».
Liz Jensen, «The Guardian»
«Ciò che autrici come Annie Ernaux stanno facendo oggi, Tove Ditlevsen l’ha fatto più di cinquant’anni fa. Scrittura autobiografica a cui inchinarsi. Finalmente, finalmente!».
Emilia von Senger, «She Said»
«Vado dritto al punto: questi sono i migliori libri che ho letto quest’anno. Infanzia ha le frasi chiare e semplici di Natalia Ginzburg ma anche l’orrore pervasivo di una bella favola».
John Self, «New Statesman»
Biblioteca DEA SABINA- SALISANO (Rieti) nel Fotoreportage di Paolo GENOVESI-
SALISANO (Rieti) nel Fotoreportage di Paolo GENOVESI-Brevissimi cenni storici –La sua origine risale alla prima metà dell’XI secolo. Ben presto passò dai suoi più antichi feudatari, i Baronisci, all’Abbazia di Farfa, della quale seguì le vicende storiche fino al XVIII secolo; all’atto pratico fu comunque amministrata dalle potenti famiglie che avevano la commenda dell’abbazia (gli Orsini, i Farnese, i Barberini e i Lante Della Rovere). Sotto gli Orsini, venne ceduta a un loro protetto, il barone Galeotto Ferreoli, il quale mostrò subito una natura violenta e arrogante e sottopose la popolazione a ogni tipo di sopruso: gli abitanti, stanchi di sopportare le sue violenze, lo uccisero insieme ai familiari e alla servitù. Il toponimo si configura come una formazione prediale con il suffisso -ANUS, ma non è chiaro l’eventuale antroponimo latino da cui si sarebbe originato. Conserva i resti delle mura medievali e di un’antica fortezza, dagli storici identificata con il palazzo fatto erigere dal barone Ferreoli e poi distrutto dalla popolazione dopo l’assassinio del tirannico signore. Tra gli edifici religiosi spicca la parrocchiale dei Santi Pietro e Paolo: edificata nel XVIII secolo, a pianta ellittica, è caratterizzata da due eleganti campanili simmetrici sulla facciata e all’interno custodisce una pregevole tela bizantineggiante del Quattrocento, raffigurante la Madonna con il Bambino; interessanti sono anche la chiesa di San Diego e l’attiguo convento francescano, risalenti alla fine del Cinquecento.
Biblioteca DEA SABINA- SALISANO (Rieti) nel Fotoreportage di Paolo GENOVESI-
Comune di Salisano
Salisano è uno dei paesi piu caratteristici della Sabina, si affaccia sulla valle del Farfa, la sua origine risale alla prima metà del XI secolo.
Questo borgo è situato a 460 m s.l.m. sulle propaggini dei monti sabini e viene attraversato dal torrente Farfa.
Fa da cornice a questo meraviglioso borgo la catena montuosa del Tancia, molto suggestiva è la contrapposizione geografica al colle vicino dove c’è Mompeo, altrettanto belli e suggestivi sono i piani di Salisano che si trovano più in alto verso Tancia.
Il nome Salisano sembra avere origine a causa del fatto che l’unica via d’accesso al paese metteva a dura prova la resistenza fisica delle persone che intendevano raggiungerlo e secondo la tradizione poteva essere percorsa esclusivamente da chi era fisicamente sano, da qui salisano, ovvero Sali solo se sei sano.
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Comune di Salisano
Sede: Salisano (Rieti) Date di esistenza: sec. IX –
Intestazioni:
Comune di Salisano, Salisano (Rieti), sec. IX -, SIUSA
Già insediamento romano, dove sorgevano numerose ville di età imperiale, Salisano compare in epoca medievale nell’ 840 quando è citato in un diploma di Lotario I tra i possedimenti dell’Abbazia di Farfa. Attorno alla prima metà dell’XI sec. fu feudo dei Baronisci dai quali lo recuperò l’abate Berardo nel 1052; nel corso del secolo la proprietà si arricchì di diverse donazioni di cui l’Abazia ebbe in seguito ratifica dall’imperatore Enrico V nel 1118, da Urbano VI nel 1262 e da Benedetto XII nel 1339. [espandi/riduci]
Condizione giuridica:
pubblico
Tipologia del soggetto produttore:
ente pubblico territoriale
Bibliografia:
TARQUINIUS, Villeggiature Sabine: Salisano, in “Terra Sabina”, 8, 1924
Salisano: nascita e sviluppo di un Castello Sabino, Roma, Fornasiero editore, 2003
AA.VV., Città e paesi del Lazio, Roma, Editrice Romana s.p.a, 1997
Grappa, C., Storia dei paesi della provincia di Rieti, Poggibonsi, Lalli, 1994
Palmegiani, F., Rieti e la regione Sabina. Storia arte, vita usi e costumi del secolare popolo sabino, Roma, Secit, 1988
Gurisatti, g., Picchi, D., Salisano: formazione e sviluppo del centro antico, Salisano, Comune di Salisano, stampa 1988
Redazione e revisione:
Barbafieri Adriana, 2007/11/03, revisione
Biblioteca DEA SABINA- SALISANO (Rieti) nel Fotoreportage di Paolo GENOVESI-Biblioteca DEA SABINA- SALISANO (Rieti) nel Fotoreportage di Paolo GENOVESI-Biblioteca DEA SABINA- SALISANO (Rieti) nel Fotoreportage di Paolo GENOVESI-Comune di Salisano Il popolo sabino, giunto dalle coste adriatiche, si stanziò intorno al secolo X-IX a.c. nella regione laziale a Nord Est di Roma, in centri quali: Reate (Rieti), Amiternum (presso l’Aquila), Nursia (Norcia), Fidenae, Cures, Nomentum (Mentana). Numerosi sono i riferimenti nella tradizione storica della partecipazione sabina alla fondazione di Roma, quale l’episodio famoso del ratto delle sabine, parzialmente confermato da elementi linguistici, per i quali non è possibile dubitare della partecipazione dei sabini al sinecismo iniziale di Roma. Nel 290 a.c. Curio Dentato conquistò tutto il territorio sabino, riducendo la popolazione a cives sine suffragio, fino a quando nel 268 a.c. ottennero piena cittadinanza essendo gradualmente assorbiti dallo stato romano. Allo stesso console romano si deve, alcuni anni dopo, il primo prosciugamento della paludosa piana reatina con l’apertura della “cava curiana” che dette luogo alla “Cascata delle Marmore”. Dopo un forte terremoto nel 174 a.c., il sorgere di numerose ville romane nella Sabina testimoniano un cambiamento nella riorganizzazione del territorio e dell’agricoltura. Furono chiamate villae rusticae, come ad esempio “i Casoni”, una villa romana attribuita a Varrone, sorta vicino all’odierno Poggio Mirteto. Intorno al II secolo a.c., il propagarsi del cristianesimo fu marcato da una serie di segni importanti: catacombe, chiese, cappelle. Testimonianze di ciò nella Sabina si ritrovano nelle rovine dell’antico municipio romano di Forum Novum, in località Vescovio, nel territorio di Torri in Sabina, costruito all’incrocio di due strade secondarie che collegavano il nuovo centro con la via Flaminia e la via Salaria. Di particolare interesse è anche la cattedrale edificata nelle vicinanze del Forum risalente allo stesso periodo di costruzione di questo. Notevole è il ciclo pittorico realizzato che scandisce i muri laterali. Sulla parte destra sono raffigurate scene dell’antico testamento, alcune delle quali divenute oggi quasi illeggibili. Sulla parete sinistra sono invece rappresentati momenti del nuovo testamento. L’interno, ad una sola navata, non è stato stravolto da rifacimenti in età moderna per la perdita di importanza della stessa sede diocesana traslata a Magliano Sabina. Livio e Dionigi d’Alicarnasso ricordano, nel periodo regio e repubblicano, guerre tra sabini e romani, fino a quando, nel 449, Roma riportando una vittoria definitiva, occupò Cures, Nomentum e Fidenae. In età longobarda, la Sabina fu invece divisa tra i ducati di Roma e Spoleto. Risale al VI secolo, con il diffondersi del cristianesimo e del monachesimo, la fondazione dell’Abbazia di Farfa la quale, insieme ai contigui edifici monastici, furono completamente distrutti dall’invasione longobarda. Sotto l’abate Ugo I° l’abbazia attraversò un fulgido periodo storico protetta dai Carolingi, in primis da Carlo Magno. Intorno all’abbazia, in virtù dell’opera dei monaci seguaci della regola di S. Benedetto, si sviluppò un borgo attivo di artigiani e di contadini in modo da vendere i loro prodotti nelle frequenti fiere che si svolgevano a Roma. Nel XII secolo la Sabina, con il declino del potere dell’Abbazia e il continuo affermarsi del dominio dello Stato pontificio, vide potenti famiglie feudatarie quali i Savelli, gli Orsini e i Colonna insediarsi in questa zona. Nel 1861 venne unificata all’Umbria e soltanto nel 1923 fu nuovamente aggregata al Lazio, costituendo poi, nel 1927 gran parte della nuova provincia di Rieti.
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Carmen Verde-Romanzo “Una minima infelicità” – Neri Pozza Editore
Descrizione del romanzo di Carmen Verde-Una minima infelicitàè un romanzo vertiginoso. Una nave in bottiglia che non si può smettere di ammirare. Annetta racconta la sua vita vissuta all’ombra della madre, Sofia Vivier. Bella, inquieta, elegante, Sofia si vergogna del corpo della figlia perché è scandalosamente minuto. Una petite che non cresce, che resta alta come una bambina. Chiusa nel sacrario della sua casa, Annetta fugge la rozzezza del mondo di fuori, rispetto al quale si sente inadeguata. A sua insaputa, però, il declino lavora in segreto. È l’arrivo di Clara Bigi, una domestica crudele, capace di imporle regole rigide e insensate, a introdurre il primo elemento di discontinuità nella vita familiare. Il padre, Antonio Baldini, ricco commerciante di tessuti, cede a quella donna il controllo della sua vita domestica. Clara Bigi diventa cosí il guardiano di Annetta, arrivando a sorvegliarne anche le letture. La morte improvvisa del padre è per Annetta l’approdo brusco all’età adulta. Dimentica di sé, decide di rivolgere le sue cure soltanto alla madre, fino ad accudirne la bellezza sfiorita. Allenata dal suo stesso corpo alla rinuncia, coltiva con ostinazione il suo istinto alla diminuzione. Ogni pagina di questo romanzo ci mostra cosa significhi davvero saper narrare utilizzando una lingua magnifica che ci ipnotizza, ci costringe ad arrivare all’ultima pagina, come un naufragio desiderato. Questo libro è il miracolo di una scrittrice che segna un nuovo confine nella narrativa di questi anni.
RECENSIONI
«Nelle fotografie sediamo sempre vicine, io e mia madre: lei pallida, a disagio, con uno sguardo che pare scusarsi. A quei tempi, pregava ancora Dio che le mie ossa s’allungassero. Ma Dio non c’entrava. Se ci vuole ostinazione per non crescere, io ne avevo anche troppa».
«Ho letto il romanzo di Carmen Verde. Mi è piaciuto. Ha un ritmo veloce e leggero, come un treno che attraversa la notte con tutte le luci accese. Guardi stupito e ti chiedi chi siano quelle sagome che appaiono dietro i vetri. L’autrice conosce la geometria dei segreti e sa come giocare con il lettore». Dacia Maraini
«Carmen Verde ha una voce sorprendente e un immaginario cosí personale da risultare splendidamente spiazzante. Una minima infelicità è un libro pieno di ossessione e dolcezza, di crudeltà e pietas. Ha dentro la meravigliosa complessità di certe miniature, dove la cura per i dettagli rivela un mondo insieme familiare e straniato. I suoi personaggi si muovono sul bilico morale dei grandi classici e custodiscono l’oscura sensualità e abiezione che sanno regalarci scrittrici come Némirovsky o Lispector». Veronica Raimo
L’Autrice-Carmen Verde, vive a Roma. Questo è il suo primo romanzo.
Ferdinand du Puigaudeau -pittore impressionista francese
Breve biografia di Ferdinand du Puigaudeau fu un pittore impressionista francese noto per le sue rappresentazioni colorate di fiere di campagna, fuochi d’artificio e tramonti. Fondendo elementi di simbolismo e neoimpressionismo con l’impressionismo tradizionale, i dipinti di Du Puidgaudeau hanno contribuito al movimento con una voce estetica unica. Nato il 4 aprile 1864 a Nantes, in Francia, fu in gran parte autodidatta prima di arrivare alla famosa colonia di artisti di Pont-Aven nel 1886, dove conobbe Paul Gauguin . Tramite il rivenditore Paul Durand-Ruel, uno dei dipinti di Du Puigaudeau è stato acquistato da Edgar Degas, che sarebbe diventato uno dei suoi amici più cari. All’inizio del 1900, l’artista ha viaggiato a Venezia dove ha prodotto una serie di importanti tele raffiguranti i luoghi iconici della città. Nonostante il suo plauso, l’artista viveva spesso con la sua famiglia sull’orlo della povertà. Nei decenni successivi, l’artista ha subito una serie di battute d’arresto che lo hanno lasciato amareggiato e depresso. Du Puigaudeau morì il 19 settembre 1930 a Le Croisic, in Francia. Oggi, le sue opere sono conservate, tra le altre cose, nelle collezioni del Museo Thyssen-Bornemisza di Madrid, del Museo d’Arte di Indianapolis e del Musée des Beaux-Arts de Quimper in Francia.
Nelle sue tele ha dimostrato l’uso sapiente dei colori da cui sono nati meravigliosi paesaggi, particolari chiaroscuri e la luce che fa da vera protagonista in alcuni casi.
FONTE-Nuova Rivista Letteraria
Ferdinand du PuigaudeauFerdinand du Puigaudeau
Ferdinand Loyen Du Puigaudeau was born in Nantes on 4 April 1864. The year 1882 marked the beginning of his artistic life. He taught himself to paint, by travelling to Italy and Tunisia. The first of his known works was dated in 1886. In that year he visited Pont-Aven. There, Puigaudeau befriended Charles Laval and Gauguin, with whom he decided to travel to Panama and Martinique. Unfortunately, Ferdinand was unable to join his friends, as he was enlisted. In 1889 he travelled to Belgium, where he met various members of the Groupe des XX. In 1890, he presented one of his works at the Salon of the Société Nationale des Beaux Arts; his father introduced him to the dealer Paul Durand-Ruel who exhibited some of his works. He got married on 7 August 1893 in Saint-Nazaire, and had one daughter: Odette.
In 1895 he settled down in Pont-Aven for three years, and was often in the company of the American painters Harrisson and Childe Hassam. He drew inspiration from roundabouts and country fairs for some of his most beautiful paintings. In 1897 Degas bought one of his Fireworks through the dealer Durand-Ruel, an event which marked the beginning of a friendship between the two artists. That same year he travelled to the south of France. Towards 1899-1900, Puigadeau’s family moved to Sannois, near Paris. 1903 was the year of his first personal exhibition at the Galerie des Artistes Modernes, and his break-up with Durand-Ruel.
Puigaudeau travelled to Venice in 1904, where he produced over fifty paintings on that subject. When he returned to France, the exhibition he had been planning fell through. Impoverished, Puigaudeau had to leave Paris. He moved to the village of Bourg de Batz, in Loire Atlantique, where some friends lent him a villa. He recovered, found a new dealer in Nantes (Préaubert), and exhibited his works in various regional Salons.
In 1907, Puigaudeau rented the manor of Kervaudu, and settled down definitively on the peninsula of Guérande. In 1913 he took part in the foundation of the artistic group of Saint-Nazaire. The Great War of 1914 isolated him from the rest of the world. Degas himself called him the hermit of Kervaudu due to his secluded and solitary existence. In 1919 he began to prepare an exhibition in New York, and worked on it for four years, but it was cancelled at the last minute. This failure had terrible repercussions on him-the painter fell into a state of depression and alcohol abuse. In 1924 he illustrated the novel La Brière, by Alphonse de Chateaubriant. He died on 19 September 1930, surrounded by his wife and daughter.
Antoine Laurentin
Ferdinand du PuigaudeauFerdinand du Puigaudeau
Ferdinand Loyen Du Puigaudeau
(1864 – 1930)
Ferdinand Loyen del Puigaudeau, nel corso della sua vita, si è dedicato a molti stili di pittura
benché lo si consideri generalmente un impressionista, ad esempio ha dipinto scene di genere, scene di donne al lavoro o che discutono fra loro alla maniera naturalista Spesso si allontana da quello che è il suo modello perchè preso dalla disposizione dei personaggi e spesso non utilizza degli schemi caratteristici di una particolare corrente pittorica…
alcune delle sue tele ricordano senza dubbio il “synthétisme”, c’è ingenuità nella rappresentazione delle feste popolari, che le rende magiche
Puigaudeau si avvicina ai “symbolistes” a Bruxelles ed in Italia, ma la parte più importante della sua opera sono i paesaggi
la scuola di ponte-Aven su di lui ha svolto un ruolo liberatorio, al contatto di questi vari movimentiFerdinand du Puigaudeau ha saputo togliersi il marchio di impressionista puro, la sua pittura diventa più descrittiva e sembra poco influenzato dalle idee rivoluzionarie di ponte-Aven
egli li cerca di osservare “il fogliame che freme„, “i riflessi delle onde„, “le trasparenze di seta del cielo„
suo cugino Alphonse de Châteaubriant ha detto di lui: “C’è molto certamente in te, della natura, dell’essenza dei conteplativi….„ i suoi temi favoriti sono i fiori, gli effetti atmosferici, i giochi d’acqua e di luce
Si può quindi dire che Ferdinand Loyen du Puigaudeau è ciò che si potrebbe chiamare un piccolo maestro della pittura
possiede cioè un un talento innegabile ma che non è stato riconosciuto per il suo giusto valore, almeno così io la penso
nel 1890, realizza la sua prima esposizione al Beaux-Arts e l’accademia gli proporrà una borsa di studio che rifiuterà, cosa apprezzabilissima, perchè vuole conservare l’indipendenza relativa al suo stile
l’appellativo “L’ermite de Kervaudu” gli è stato dato a ragion veduta benché non sia riconosciuto come un maestro, il lavoro di Puigaudeau sui giochi di luci è impressionante e la sua polivalenza in materia di stile dà alla sua pittura una ricchezza ed una varietà straordinarie
io incontrai per la prima volta questo pittore, che a me personalmente piace molto, molti, molti anni fa, erano soltanto 70 tele, ma me le sono ricordate per molto tempo
piccola biografia
Il 4 aprile 1864 nasce a Nantes Ferdinand Loyen du Puigaudeau. Molto presto il bambino è affidato a suo zio Henri de Chateaubriant, che lo incoraggia a seguire i suoi doni artistici.
La sua scolarità, molto classica lo conduce in diversi collegi da Parigi a Nizza ma l’anno 1882 segna l’inizio della sua vita d’artista, il giovane decide di formarsi solo, viaggiando in Italia, quindi in Tunisia.
La prima delle sue opere che ci sia pervenuta è datata del 1886, anno in cui decide di recarsi a ponte-Aven, meta ben nota di tutti i pittori dell’Europa. Puigaudeau stringe amicizia con Charles Laval e con Gauguin.
La loro relazione è particolarmente forte e nel 1887 pensano di partire tutti e tre alla volta Panama e della Martinica.
Ahimè Ferdinand, chiamato piccolo da Gauguin non potrà aggiungersi ai suoi amici perchè l’esercito che lo convoca per effettuare il suo servizio militare
Ferdinand du PuigaudeauFerdinand du PuigaudeauFerdinand du PuigaudeauFerdinand du PuigaudeauFerdinand du PuigaudeauFerdinand du PuigaudeauFerdinand du Puigaudeau
Piero Rattalino-CHOPIN: I VALORI TRADITI E RICONQUISTATI-
Prefazione di Domenico De Masi- ZECCHINI Editore Varese
Descrizione del libro di Piero Rattalino con protagonista Chopin -Gli otto saggi qui riuniti risalgono tutti, tranne uno, al 2021 e ai primi mesi del 2022. I tre testi per booklet, la recensione di un disco e una ipotesi didattica che appaiono nella Appendice sono da intendere come esempi, non modelli, di diversi tipi di divulgazione.
Tutti questi scritti affrontano direttamente o indirettamente un tema molto scottante: quale funzione sarà o potrà essere svolta dalla musica dal vivo quando, archiviata la pandemia, si dovranno affrontare i problemi che emergeranno in anni nei quali gli stati, che per proteggere le loro popolazioni hanno contratto enormi debiti, dovranno destinare alla estinzione degli stessi una parte cospicua delle loro risorse. Come se questo non bastasse, alla pandemia si è aggiunto, a complicare ulteriormente i problemi che dovranno essere affrontati, un nuovo conflitto.
La tesi sostenuta dall’Autore è che si dovrà rinunciare alla tradizionale, blanda promozione, e che si dovrà passare a una intensa divulgazione, non soltanto recuperando i vuoti provocati nel pubblico dalla pandemia ma prodigandosi per andare oltre, e cioè per aumentare sensibilmente la platea dei fruitori della musica dal vivo, che in Italia arriva a una bassissima percentuale della popolazione e che in altri paesi presenta un quadro migliore ma non sufficiente per giustificare socialmente il sostegno economico riservato a un settore della cultura che assorbe risorse come elargizioni a fondo perduto invece che aiuti per investimenti.
Questi sono i temi che vengono direttamente o indirettamente dibattuti con analisi di tipo sia teorico che storico che sociologico e scientifico, e con proposte che postulano, senza entrare nel merito, una profonda riorganizzazione di tutto il settore.-
Piero Rattalino-CHOPIN: I VALORI TRADITI E RICONQUISTATI-Prefazione di Domenico De Masi- ZECCHINI Editore Varese-pp. XXVIII+200 – formato cm. 15×21 – Euro 25,00
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Traduzione di Saleh Zaghloul-Disegno di Alex Albadree
Saramago:”Mahmud Darwish è il più grande poeta palestinese”
LE POESIE – Solo una minima parte della sua produzione è stata, fino ad ora, tradotta in italiano (segnaliamo, ad esempio, Una trilogia palestinese, tradotta da R.Ciucani per Feltrinelli). Vi offriamo alcune delle sue poesie.
Mahmud Darwish – Poeta palestinese-Disegno di Alex Albadree
“Passanti tra le parole che passano”
Oh, voi, passanti tra le parole che passano: Prendete i vostri nomi e andatevene. Ritirate le vostre ore dal nostro tempo e andatevene. Prendete pure quanto volete dell’azzurro del mare e della sabbia della memoria. Portate via tutte le foto che volete, per sapere che non riuscirete mai a capire come possa una pietra della nostra terra reggere la volta del cielo.
Oh, voi, passanti tra le parole che passano:
Da voi la spada, e da noi il nostro sangue.
Da voi acciaio e fuoco, da noi la nostra carne.
Da voi un altro carro armato, da noi una pietra.
Da voi bombe a gas e da noi la pioggia.
Sopra di noi c’è lo stesso cielo e la stessa aria sopra di voi. Portate via la vostra parte del nostro sangue e andatevene.
Partecipate pure alla cena di gala e poi però andate via. Sta a noi vigilare sulle rose dei martiri, sta a noi vivere come vogliamo.
Oh, voi, passanti tra le parole che passano:
Come polvere amara passate dove volete ma non passate tra di noi come insetti volanti, perché noi abbiamo da fare in terra nostra, abbiamo il grano da coltivare e da innaffiare con la rugiada dei nostri corpi. E abbiamo qui per voi ciò che non vi piace: una pietra o la vostra vergogna. Portate pure il passato al mercato dell’antiquariato se volete. Ricomponete, se volete, lo scheletro all’upupa su un piatto di porcellana, noi abbiamo per voi ciò che non vi piace: abbiamo il futuro e abbiamo da fare in terra nostra.
Oh, voi, passanti tra le parole che passano:
Seppellite dentro una fossa abbandonata le vostre illusioni e andatevene.
Riportate le lancette del tempo alla legittimità del vitello d’oro o all’ora della musica di una pistola, noi abbiamo qui per voi ciò che non vi piace, andatevene dunque.
E abbiamo ciò che voi non avete: una patria che sanguina e un popolo che sanguina,
una patria adatta all’oblio o alla memoria.
Oh, voi, passanti tra le parole che passano.
È arrivato il tempo che ve ne andiate,
che dimoriate dove volete ma non da noi.
È tempo che ve ne andiate, che moriate dove volete ma non qui da noi, perché noi abbiamo da fare qui, in terra nostra.
E abbiamo il nostro passato qui e la voce iniziale della vita e abbiamo il presente e il presente e il futuro.
E abbiamo qui la vita e l’aldilà, andate dunque via dalla nostra terra, dalla nostra terraferma, e dal nostro mare, dal nostro grano, dal nostro sale e dalle nostre ferite.
Andate via da ogni cosa, e andate via dai vocaboli della memoria, oh, voi, passanti tra le parole che passano.
Mahmud Darwish – Poeta palestinese-
PENSA AGLI ALTRI
Mentre prepari la tua colazione, pensa agli altri, non dimenticare il cibo delle colombe. Mentre fai le tue guerre, pensa agli altri, non dimenticare coloro che chiedono la pace. Mentre paghi la bolletta dell’acqua, pensa agli altri, coloro che mungono le nuvole. Mentre stai per tornare a casa, casa tua, pensa agli altri, non dimenticare i popoli delle tende. Mentre dormi contando i pianeti , pensa agli altri, coloro che non trovano un posto dove dormire. Mentre liberi te stesso con le metafore, pensa agli altri, coloro che hanno perso il diritto di esprimersi. Mentre pensi agli altri, quelli lontani, pensa a te stesso, e dì: magari fossi una candela in mezzo al buio.
CARTA D’IDENTITA’
Ricordate! Sono un arabo E la mia carta d’identità è la numero cinquantamila Ho otto bambini E il nono arriverà dopo l’estate. V’irriterete?
Ricordate! Sono un arabo, impiegato con gli operai nella cava Ho otto bambini Dalle rocce Ricavo il pane, I vestiti e I libri. Non chiedo la carità alle vostre porte Né mi umilio ai gradini della vostra camera Perciò, sarete irritati?
Ricordate! Sono un arabo, Ho un nome senza titoli E resto paziente nella terra La cui gente è irritata. Le mie radici furono usurpate prima della nascita del tempo prima dell’apertura delle ere prima dei pini, e degli alberi d’olivo E prima che crescesse l’erba. Mio padre… viene dalla stirpe dell’aratro, Non da un ceto privilegiato e mio nonno, era un contadino né ben cresciuto, né ben nato! Mi ha insegnato l’orgoglio del sole Prima di insegnarmi a leggere, e la mia casa è come la guardiola di un sorvegliante fatta di vimini e paglia: siete soddisfatti del mio stato? Ho un nome senza titolo!
Ricordate! Sono un arabo. E voi avete rubato gli orti dei miei antenati E la terra che coltivavo Insieme ai miei figli, Senza lasciarci nulla se non queste rocce, E lo Stato prenderà anche queste, Come si mormora.
Perciò! Segnatelo in cima alla vostra prima pagina: Non odio la gente Né ho mai abusato di alcuno ma se divento affamato La carne dell’usurpatore diverrà il mio cibo. Prestate attenzione! Prestate attenzione! Alla mia collera Ed alla mia fame!
PROFUGO
Hanno incatenato la sua bocca
e legato le sue mani alla pietra dei morti.
Hanno detto: “Assassino!”,
gli hanno tolto il cibo, le vesti, le bandiere
e lo hanno gettato nella cella dei morti.
Hanno detto: “Ladro!”,
lo hanno rifiutato in tutti i porti,
hanno portato via il suo piccolo amore,
poi hanno detto: “Profugo!”.
Tu che hai piedi e mani insanguinati,
la notte è effimera,
né gli anelli delle catene sono indistruttibili,
perché i chicchi della mia spiga che va seccando
riempiranno la valle di grano.
Brevissima Biografia di Mahmoud Darwish
Mahmud Darwish – Poeta palestinese-
POETA STRANIERO IN TERRA PROPRIA – Mahmoud Darwish, scrittore palestinese considerato tra i maggiori poeti del mondo arabo, ha raccontato l’orrore della guerra, dell’oppressione, dell’esilio (al-Birwa, suo villaggio natale, è stato distrutto dalle truppe israeliane durante la Nakba e ora non esiste più, né fisicamente né sulle cartine geografiche). Fuggito in Libano con la famiglia, per scampare alle persecuzioni sioniste, tornò in patria (divenuta terra dello Stato d’Israele) da clandestino, non potendo fare altrimenti. La sua condizione di “alieno” e di “ospite illegale” nel suo stesso paese rappresenterà uno dei capisaldi della sua produzione artistica.
ARRESTI ED ESILIO – Arrestato svariate volte per la sua condizione di illegalità e per aver recitato poesie in pubblico, Mahmoud – che esercitò anche la professione di giornalista – vagò a lungo, non avendo il permesso di vivere nella propria patria: Unione Sovietica, Egitto, Libano, Giordania, Cipro, Francia furono le principali nazioni dove il poeta, esule dalla sua terra, visse e lavorò.
Eletto membro del parlamento dell’Autorità Nazionale Palestinese, poté visitare i suoi parenti solo nel 1996, anno in cui – dopo 26 anni di esilio – ottenne un permesso da Israele. Il poeta si spense a Houston (Texas) il 9 agosto 2008 in seguito a complicazioni post-operatorie. Mahmoud aveva infatti subito diversi interventi al cuore, l’ultimo dei quali gli fu fatale.
Mildred Harnack, l’antinazista ghigliottinata per volere di Hitler
Articolo di Fabio Casalini
Mildred Harnack nacque a Milwaukee, nello stato del Wisconsin negli USA, il 16 settembre 1902 come figlia minore di William C. Fish e Georgina Fish Hesketh.
Frequentò le scuole superiori nella città natale, tranne l’ultimo anno nel quale si recò a Washington D.C. al termine delle scuole si trasferì alla University of Wisconsin dove conseguì una laurea in letteratura nel 1925. L’anno successivo conobbe Arvid Harnack, uno studente tedesco di economia, che si era già laureato in legge all’Università di Amburgo, ed era giunto nel 1926 all’università del Wisconsin grazie a una borsa di studio della Fondazione Rockfeller.
I due ragazzi si sposarono e decisero di trasferirsi a Berlino. Dal 1932 al 1936 Mildred lavorò come insegnante di lingua inglese in una scuola serale. Continuò a studiare conseguendo il dottorato nel 1941 alla Ludwigs-Universität di Gießen.
L’anno successivo inizio a lavorare come docente e traduttrice alla Deutsche Hochschule für Politik, un’università privata di Berlino.
I coniugi Harnack erano fortemente avversi al nazismo ed ebbero contatti con diplomatici stranieri per fornire informazioni sulle condizioni politiche ed economiche della Germania nazista. Mildred si relazionava con l’ambasciata degli USA e Arvid con quella dell’URSS. A partire dal 1939-40 presero contatti col circolo di resistenza al nazismo di Harro Schulze-Boysen, dedito soprattutto alla pubblicazione di scritti antifascisti, che sarebbe stato indicato dalla Gestapo come parte del gruppo di spionaggio Rote Kapelle (Orchestra Rossa).
I tentativi di informare le nazioni avversarie della Germania nazista, soprattutto USA e URSS, delle atrocità di Hitler e dei piani nazisti di guerra, erano solo una piccola parte dell’attività di resistenza. La maggior parte degli aderenti alla resistenza antinazista, soprattutto i membri dell’Orchestra Rossa, si dedicava a distribuire volantini, suscitare la disobbedienza civile della popolazione tedesca, aiutare gli oppositori del regime a nascondersi o a fuggire dalla Germania. Tutte queste attività avevano anche lo scopo di innervosire i governanti.
Arvid e Mildred Harnack vennero arrestati il 7 settembre 1942. Arvid Harnack venne condannato a morte il 19 dicembre 1942 dalla corte marziale del Terzo Reich, e giustiziato tre giorni dopo nel carcere di Berlino. Lo stesso giorno di dicembre Mildred fu condannata a sei anni, ma poiché Hitler in persona aveva chiesto la revisione del processo, Mildred venne condannata a morte in appello e ghigliottinata il 16 febbraio 1943.
Dopo l’esecuzione il corpo di Mildred fu stato consegnato al dottor Hermann Stieve, professore di anatomia della Humboldt University, che stava effettuando delle ricerche sugli effetti dello stress, come l’attesa dell’esecuzione e della morte, sul ciclo mestruale. Quando Stieve finì la dissezione consegnò ciò che rimaneva del corpo di Mildred ad una sua amica che fece seppellire i poveri resti nel cimitero di Zehlendorf a Berlino.
Bibliografia
Brysac, Shareen Blair (2000). Resisting Hitler: Mildred Harnack and the Red Orchestra. New York: Oxford University Press
Nelson, Anne (2009). Red Orchestra: The Story of the Berlin Underground and the Circle of Friends Who Resisted Hitler. New York: Random House
Paolo Antonio Paschetto, il “teologo della matita” nato 140 anni fa-Articolo di Elena Ribet –
Paolo Antonio Paschetto il “teologo della matita” nato 140 anni fa
Roma (NEV), 12 febbraio 2025 – Il 12 febbraio di 140 anni fa nasceva Paolo Antonio Paschetto (1885-1963). Artista poliedrico e raffinato, tra Liberty, Art Déco e Art Nouveau, Paschetto è stato definito il “teologo della matita e dell’inchiostro a china”. A chiamarlo così è stato il pastore Martin Ibarra y Pérez in occasione dell’inaugurazione dei restauri delle opere di Paschetto nella Chiesa battista di Teatro Valle a Roma, nel 2022. Precedentemente, nel 1956, era stato il pastore Paolo Sanfilippo a parlare di “teologo e teologia con la matita”, “quadri e disegni che sono libri e trattati teologici”, nella sua monografia di 28 pagine dedicate a Paschetto.
Paolo Paschetto “ha dipinto la sua evoluzione religiosa perché non riusciva a esprimerla con le parole” ha affermato Ibarra nella relazione che ha accompagnato la giornata inaugurale.
Paolo Antonio Paschetto-il “teologo della matita” nato
“Paolo aveva tre anni quando arrivò a Roma e via del Teatro Valle sarà la sua casa fino alla morte prematura del padre, e la chiesa battista sarà la chiesa dove si battezzò e dove servì come diacono e anziano per trentatré anni. Si intercambiavano fecondamente in lui la sua identità di origine valdese con l’affiliazione religiosa battista – ha spiegato ancora il pastore, e ha aggiunto –
Paolo Antonio Paschetto-il “teologo della matita”
Paolo Antonio Paschetto-il “teologo della matita” nato
Paolo Antonio Paschetto-il “teologo della matita”
L’importanza delle vetrate, affreschi e decorazioni di via Teatro Valle è che sono state le prime da lui eseguite per una chiesa battista, poi seguirono le chiese di via Urbana e di Piazza in Lucina, di Civitavecchia, Altamura, di Chiavari (questi ultimi persi) e tante altre chiese dopo anche valdesi e metodiste, la chiesa di Piazza Cavour e quella metodista di via XX settembre a Roma
Sul significato dell’arte di Paschetto hanno già scritto in molti, sempre su aspetti particolari della sua opera, in sei espressioni della sua arte: decorazioni, xilografie, pitture, disegni, vetrate, fregi, ma manca ancora una visione d’insieme e un catalogo completo (che mi sento di invocare come necessario e non rimandabile) della sua opera”.
Paolo Antonio Paschetto il “teologo della matita” nato
Senza ombra di dubbio, ha affermato ancora Martin Ibarra, “la sua opera si configura come quella di un teologo che ha scritto la sua teologia con le molte e svariate forme della sua arte, arte che diventa espressione e interpretazione di istanze bibliche e teologiche”.
Elena Ribet -Giornalista
Il missionario Benjamin R. Lawton, ha ricordato ancora il pastore, definì l’opera di Paschetto – in una serie di articoli in inglese per un giornale battista americano – come il tentativo di dipingere una vita umana, una sorta di autobiografia spirituale. La radice biologica valdese è identificata anche con “luoghi, montagne, valli, chiese e cappelle scarne, alcune abbandonate, villaggi montani valdesi, che dipinse con una sintesi di appena tre colori – bianco, azzurro, verde -, fino alla maturazione della sua fede evangelica battista, ferocemente preoccupato della libertà personale e di quella degli altri”.
Paolo Antonio Paschetto-il “teologo della matita” nato
Nato a Torre Pellice, nelle valli valdesi in provincia di Torino, Paolo Paschetto era figlio di Enrico, pastore valdese poi passato alla chiesa battista, e di Luigia Oggioni, appartenente alla Chiesa evangelica libera italiana. Vicino agli ambienti protestanti valdesi, metodisti e battisti, visse e operò a lungo a Roma, lasciando un segno indelebile nell’arte decorativa e grafica del primo Novecento.
-il “teologo della matita” nato
Lo stemma della Repubblica Italiana, per chi non lo sapesse, fu realizzato proprio da Paolo Paschetto.
Illustratore, grafico, pittore, Paschetto fu un artista eclettico, capace di spaziare dagli oli agli acquerelli, dalle xilografie alle incisioni, fino alle decorazioni murali e alle vetrate artistiche. Le sue opere sono caratterizzate da una forte componente decorativa e simbolica. Fu autore di illustrazioni per le riviste evangeliche dell’epoca, come “Bilychnis” e “Conscientia”, e realizzò importanti interventi decorativi in edifici di culto tra il 1910 e il 1924. Tra questi spiccano, oltre alle decorazioni della chiesa battista di Roma in via del Teatro Valle (rosone, vetrate, disegni parietali e lampadari), i cartoni per le vetrate artistiche del tempio valdese in piazza Cavour e della chiesa metodista di via XX Settembre, sempre a Roma. Le vetrate furono realizzate da Cesare Picchiarini, uno dei più celebri maestri vetrai italiani.
La sua versatilità artistica lo portò a operare in diversi ambiti: fu decoratore, grafico, sensibile pittore di paesaggio, realizzatore di vetrate policrome, illustratore di libri e riviste, nonché disegnatore di réclame e francobolli. Il suo talento si espresse anche nell’insegnamento: fino al 1949 fu docente di ornato presso l’Istituto delle Belle Arti, contribuendo alla formazione di nuove generazioni di artisti. Paolo Antonio Paschetto fu inoltre tra i fondatori della S.A.C.A. (Società Anonima Cultori d’Arte).
La Chiesa evangelica battista di via del Teatro Valle. Il restauro
Paolo Antonio Paschetto-il “teologo della matita” nato 140 anni fa
La Chiesa evangelica battista di via del Teatro Valle a Roma è membro dell’Unione cristiana evangelica battista d’Italia (UCEBI). Il pastore titolare attuale è Simone Caccamo.
Il restauro del 2022 ha riguardato la conservazione e il recupero degli apparati decorativi, fra cui dipinti murali, stucchi su fondo dorato e vetrate artistiche. Il progetto, condotto dalla restauratrice dei Beni Culturali e Storica dell’arte Valeria De Angelis, con la restauratrice dei Beni Culturali Paola Graziani, sotto la direzione di Paolo Ganzerli, ha richiesto un’approfondita indagine storico-artistica e diagnostica. L’intervento, nel rispetto delle tecniche originali, ha coinvolto diverse figure professionali, restituendo alla chiesa l’armonia cromatica e materica dei suoi elementi decorativi. Tra le principali criticità emerse: distacchi e decoesione della pellicola pittorica, sub-efflorescenze saline, lacune negli intonaci, alterazioni delle lamine. Sono state eseguite, fra l’altro, operazioni di consolidamento delle superfici, iniezione per stabilizzare gli intonaci, pulitura approfondita e integrazione di parti mancanti. Nell’equipe del restauro anche l’R&C Art laboratorio di ricerca, diagnostica e consulenza per i Beni Culturali (per le analisi chimiche di laboratorio), il Fisico per i Beni Culturali Giuseppe Fabretti (per l’indagine termografica) e l’arch. Maria Cristina Lapenna, funzionario responsabile Rione VIII Sant’Eustachio, Soprintendenza Speciale Archeologia, Belle Arti e Paesaggio di Roma, MIC.
Per approfondire la figura di Paolo Paschetto, consulta:
La pagina sulla prima mostra monografica su Paolo Paschetto a Villa Torlonia in occasione dei 50 anni dalla morte del pittore (2015).
Il saggio “La bellezza temperata dalla severità” di Daniela Fonti: fonti
GALLERIA FOTOGRAFICA (Immagini tratte da wikimedia, dal sito della Fondazione centro culturale valdese, dal sito dei musei villa Torlonia e di Italia Liberty e collezione privata).
Fonte-Agenzia stampa NEV– Notizie EvangelicheServizio stampa della Federazione delle chiese evangeliche in Italia via Firenze 38, I-00184 Roma
tel. (+39) 06 4825 120 – (+39) 06 483 768
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Dai canti antichi allo splendore della poesia di corte (VIII-XII secolo)-cura di Edoardo Gerlini-MARSILIO Editori-
-DESCRIZIONE-del’Antologia della Poesia giapponese – a cura di Edoardo Gerlini-Marsilio Editori–Fin dai primi contatti con l’Occidente la poesia giapponese non ha smesso di colpire l’immaginazione degli europei per via delle sue peculiari caratteristiche come la brevità dei componimenti, il costante riferimento agli elementi naturali, la particolare importanza data alla calligrafia, la sostanziale assenza di rima compensata dalla scelta di strutture ritmiche e prosodiche estremamente durature: caratteristiche queste spesso fraintese o deformate da una visione tipicamente orientalista ed eurocentrica di stampo novecentesco. Questo inedito progetto editoriale in tre volumi, corrispondenti al periodo antico (fino al 1185), periodo medievale (fino al 1868) e periodo moderno (fino alla fine del secolo scorso), si propone di selezionare e presentare sotto una nuova luce versi, canti e liriche prodotti in Giappone nell’arco di più di diciotto secoli. Un ricco apparato critico e il testo a fronte rendono questa antologia un prezioso strumento di studio e riferimento sia per l’esperto di culture dell’Asia orientale che per il semplice appassionato di poesia e letteratura mondiale.
Il primo volume dell’Antologia, Dai canti antichi allo splendore della poesia di corte (VIII-XII secolo), raccoglie più di trecento componimenti scaturiti dal pennello di circa un centinaio tra i più rappresentativi poeti dei periodi Nara (710-794) e Heian (794-1185). Le venti sezioni che compongono il volume corrispondono alle più importanti raccolte e antologie compilate nei primi secoli della storia della letteratura giapponese, come il Man’yōshū, il Kokinshū, il Kaifūsō, ma anche opere mai tradotte in italiano come il Kudai waka o lo Honch ō monzui. Canti religiosi, struggenti poesie d’amore, elaborati giochi di parole e artifici retorici che diventeranno modello imprescindibile per tutta la successiva storia letteraria dell’arcipelago. Un’attenzione particolare è stata inoltre dedicata alla poesia in cinese composta da giapponesi, che rappresenta l’altra faccia di questa tradizione poetica, spesso sconosciuta al lettore europeo.
Edoardo Gerlini
Edoardo Gerlini -Ricercatore-Università Ca’ Foscari di Venezia
SSD-LINGUE E LETTERATURE DEL GIAPPONE E DELLA COREA [L-OR/22]
Struttura-Dipartimento di Studi sull’Asia e sull’Africa Mediterranea Sito web struttura: https://www.unive.it/dsaam Sede: Palazzo Vendramin-Research Institute for Digital and Cultural Heritage
-L’antica poesia giapponese ci parla quasi in italiano –
Antologia della poesia giapponese
Articolo di Daniele Abbiati
FONTE Articolo-IL GIORNALE ON LINE S.R.L.
Una lingua profondamente diversa dalla nostra ma in cui ritroviamo Petrarca, Leopardi, Merini…
Articolo di Daniele Abbiati–La lingua giapponese non è soltanto figlia della lingua cinese, ne è anche allieva. Un’allieva fedele, solerte e molto, molto paziente, perché cominciò a studiare un secolo prima della nascita di Cristo e finì (anche se, come sappiamo, non si finisce mai di imparare…) al termine del XIX secolo, quando si poté dire che i giapponesi parlavano e scrivevano secondo un autentico (e autoctono e autonomo) «canone giapponese». Anche noi, qui in Europa, abbiamo dovuto sudare per costruirci l’italiano, il francese, lo spagnolo e via, appunto, discorrendo. Ma il nostro corso di studi è stato molto più accelerato, decisamente più breve di una laurea breve, in confronto a quello dei giapponesi. Per due motivi. Da un lato i maestri latini avevano già acquisito, in centinaia e centinaia di anni, il patrimonio culturale di altri maestri, quelli greci, cucinandolo da par loro. Dall’altro… ma a questo punto è meglio cedere la parola a chi ha facoltà di parlare: «mentre con un alfabeto fonetico come quello latino siamo teoricamente in grado, una volta apprese le convenzioni ortografiche e fonetiche basilari, di pronunciare correttamente anche parole di una lingua che non conosciamo, con i sinogrammi è praticamente impossibile conoscere con totale certezza la pronuncia di un carattere che non abbiamo mai visto, ed è di conseguenza molto difficile risalire esattamente al tipo di pronuncia legata a un determinato carattere in una certa area o contesto storico». Lo spiega Edoardo Gerlini, docente di Lingua giapponese classica all’Università Ca’ Foscari di Venezia. Insomma, a noi studenti europei l’alfabeto fonetico latino ha dato una grossissima mano, mentre dall’altra parte del mondo i nostri omologhi giapponesi hanno dovuto vedersela con quella sorta di rebus spaccameningi dei sinogrammi.
Gerlini ha curato per Marsilio il primo volume di un progetto editoriale inedito (e non soltanto perché contiene anche testi giapponesi mai tradotti in italiano): Antologia della poesia giapponese. I. Dai canti antichi allo splendore della poesia di corte (VIII-XII secolo). Nell’Introduzione al volume, cui ne seguiranno due, fino a giungere ai nostri giorni, Gerlini dice molte cose che noi occidentali mediamente acculturati non potremmo immaginarci, portandoci oltre le porte di Tannhäuser (guarda caso, ecco un altro poeta, per quanto tedesco) che si aprono su un lontanissimo universo linguistico. Per esempio si dice che in Giappone il bilinguismo paritetico è proseguito fino agli inizi del Novecento; che i giapponesi lentamente si affrancarono dalla dittatura dei sinogrammi dotandosi dell’alfabeto fonetico dei katakana, molto più semplice da leggere e quindi da diffondere; che fu la scrittura onnade, cioè «per mano di donna», divergendo da quella otokode, cioè «per mano di uomo», a emancipare le lettere giapponesi. Così, seguendo la lezione del prof Gerlini, il lettore/studente completamente digiuno di sinologia e rimasto fermo alla fascinazione fluttuante di qualche haiku, quindi al XVII secolo, quando la lingua giapponese già si reggeva sulle proprie gambe, un po’ si preoccupa, aspettandosi una materia oscura e impenetrabile.
E sbaglia, perché fin dalle prime pagine dell’antologia che presenta i testi in giapponese e in italiano, scopre (vale a dire: ricorda) che, al netto degli artifici retorici, pur importantissimi e caratterizzanti ogni lingua, l’anima della Poesia distillata dai traduttori parla un solo idioma in tutto il mondo. Per tutte le poesie vale la definizione che di quella giapponese diede, fra IX e X secolo, il poeta e funzionario di corte Ki no Tsurayuki: «ha come seme il cuore dell’uomo, che si tramuta, ecco, in innumerevoli foglie di parola». Prendiamo ad esempio un canto shintoista: «Dai remoti tempi/ delle auguste divinità,/ le foglie di bambù nano/ prendendo in mano, dicono,/ si cantava e si danzava». Ma questo è Platone, quando nel Fedone riporta il detto dei preposti ai Misteri: «i portatori di ferule sono molti, ma i Bacchi sono pochi»… E prendiamo questi versi di Kasa no Iratsume dal Man’yoshu, la più antica antologia di poesia giapponese: «Come candida rugiada/ sull’erbe all’ombra della sera/ nella mia dimora/ che sembra svanire, vano/ è forse il mio rimembrarti». Non sentiamo un’aria petrarchesca, in quel «rimembrarti»? Eccola qui, Sonetto CCXXXI. «E ‘l rimembrare et l’aspettar m’accora». E Mansei che scrive: «Il mondo umano/ a che cosa compararlo?/ A una nave che vogando/ lascia il porto all’alba/ senza tracce dietro di sé…» ci suona vicino al giovane e senile Leopardi come in questo Pensiero XXXIX: «Però parmi che i vecchi sieno alla condizion di quelli che partendosi dal porto tengon gli occhi in terra, e par loro che la nave stia ferma e la riva si parta». E ancora qui, in queste sinestesie: «Freddo il suono delle foglie che cadono…», oppure «La fredda voce del grillo, soffiata qui dal vento…», echeggia Foscolo: «mentr’io sentia dai crin d’oro commosse/ spirar d’ambrosia l’aure innamorate». L’amore, certo, e per giunta proprio quello cortese, sbocciato dalle parti dell’imperatore di turno, l’amore che trabocca per Minamoto no Yoshi: «Un corso d’acqua montana/ tra gli alberi/ freme nascosto, impetuoso/ il mio amore,/ e più non riesco oramai ad arginarlo», parallelo a quello di Alda Merini: «Ruscello vivo è l’amore che corre/ nei giardini dei poeti/ e genera rose, e genera pioggia e pianto».
Dunque, fra raccolte imperiali, sillogi personali, collezioni che escono dalla comfort zone dei palazzi nobiliari per scendere fino a sfiorare i sentimenti del volgo, questa antologia dell’antica poesia giapponese ci conforta. Mostrandoci un’altra, eccelsa interpretazione di uno spartito che è anche il nostro.
Il 1 gennaio 1900 nasce PAOLA BORBONI, LA SIGNORINA TERRIBILE DEL TEATRO ITALIANO
Tratto dal libro di MUSINI DANIELA- Le Magnifiche-33 donne che hanno fatto la storia d’Italia
Editore Piemme
MUSINI DANIELA- Le Magnifiche-33 donne che hanno fatto la storia d’Italia
Fu un’anticipatrice lungimirante in molte cose, Paola Borboni, oltre che attrice dotata di talento superlativo: fu la prima ad esibirsi in Teatro a seno nudo, la prima monologhista italiana, in quel lontano 1954, e probabilmente l’unica a calcare ancora i palcoscenici alla veneranda età di 93 anni e per di più con un’opera di Pirandello, mica pizza e fichi.<<Sono la prima attrice del Novecento>> amava ripetere con malizia e aveva ragione: era nata infatti il 1 gennaio del 1900 a Golese di Parma; quindi sicuramente la prima anagraficamente parlando, ma non solo. Non sarà stata forse la più grande della sua epoca (quando lei muoveva i primi passi c’erano ancora Eleonora Duse che giganteggiava e l’odiata Marta Abba che le aveva rubato la scena nella compagnia teatrale e nel cuore di Pirandello), ma sicuramente è stata la più spregiudicata e versatile. I suoi genitori avevano pensato per lei ad un mestiere quieto e tranquillo, da brava ragazza: maestra, ad esempio, ma si sa, le brave ragazze vanno in Paradiso, le altre dappertutto e soprattutto se la spassano un mondo. E Paolina (all’anagrafe) Borboni “brava ragazza” non fu mai, ma la vita se la godette tanto. Ma tanto tanto. Per cominciare, a sedici anni mollò la scuola, che aveva frequentato di mala voglia, per seguire la sua aspirazione più grande: fare l’attrice. Nel 1916 era considerato un mestiere poco edificante per una signorina di buona famiglia qual era, ma lei dei giudizi altrui se ne infischiava allegramente (e lo farà per tutta la vita) e quindi a Milano dove la famiglia si era trasferita dal parmense, frequenta l’Accademia dei Filodrammatici della città meneghina sotto la guida di Teresa Valvassura.
PAOLA BORBONI
È avvantaggiata in questo dal fatto che il padre Giuseppe è un impresario teatrale specializzato in allestimenti di opere liriche e conosce bene l’ambiente teatrale della città, ma la sua non fu una strada spianata, ma un percorso costruito con talento, arguzia, spregiudicatezza, intelligenza e carattere di ferro. La madre, Gemma Paris, ricchissima ereditiera di Parma, aveva investito il suo ingente patrimonio nell’attività del marito perché amava la Cultura e l’ambiente teatrale ma nonostante ciò non fu entusiasta all’inizio di avere una figlia attrice. Provò a dissuaderla, ma Paola era e sarà sempre un osso duro e non ci fu verso di farle cambiare idea. Giovane com’è e birichina come appare, le mettono alle costole allora un’austera governante che ha da subito vita difficile accanto a quella ragazzina turbolenta, esuberante e civetta. E infatti la signora resiste pochi mesi e se ne va sbattendo la porta. Paola tira un sospiro di sollievo: è libera finalmente da controlli e divieti dai quali si sentiva soffocare e che non tollererà mai nella sua lunghissima vita. Dopo un debutto a Lodi nella commedia “Il fiore della vita” dei fratelli Quintero, per lei a sedici anni c’è la grande occasione che arriva in maniera inaspettata: come spesso accade a Teatro o nell’Opera Lirica, la protagonista femminile della compagnia di Alfredo De Santis si ammala e lei, che è l’attrice giovane, la sostituisce nel “Dio della vendetta” di Shalomon Asch. Riscuote un successo personale eclatante e da quel momento non si ferma più. Affianca la grande Irma Gramatica (che aveva soffiato la parte di Mila di Codra nella dannunziana “La figlia di Iorio” nientemeno che alla Duse) in vari allestimenti, poi è una splendida Anna Page nelle “Allegre comari di Windsor” di Shakespeare e per nove anni sarà primattrice accanto a Armando Falconi con cui mette in scena ben trenta commedie italiane e francesi. Nel frattempo è cresciuta sia attorialmente che fisicamente: è diventata bella e sensualissima, ha affilato la sua ironia e incrementato la volitività, ha consolidato la testardaggine e potenziato la trasgressione. È audace e nel contempo raffinata, è provocante ma mai volgare, è allusiva e talvolta impudica ma sempre con classe. Gli spettatori, soprattutto quelli maschili, vanno in sollucchero quando lei appare sulla scena con tutta la sua insinuante e consapevole carica erotica. Nel 1925, mentre il Fascismo esalta la donna quale angelo del focolare e premia le mamme prolifiche, lei ha l’ardire di sfidare la censura andando in scena a seno nudo nello spettacolo teatrale “Alga Marina” di Carlo Veneziani. Doveva rappresentare una sirena che esce dall’acqua e quando tutti, vedendola seminuda, gridarono allo scandalo, lei replicò con la verve briosa e polemica che la connotava: <<Ipocriti che non siete altro! Se faccio la sirena, me lo dite come potrei uscire dall’acqua tutta vestita? Che forse le sirene vanno in giro protette da uno scafandro?>>
PAOLA BORBONI
Quello spettacolo scatenò un elettrizzante putiferio, con il pubblico che quasi faceva a botte per accaparrarsi un posto in prima fila e che la felice penna di Orio Vergani raccontò così: <<Le repliche di quella commedia mobilitirano più binocoli di quanti ne fossero stati usati in mezzo secolo di prove ippiche a San Siro.>> Seni nudi in scena in Italia non se n’erano visti se non di sfuggita in qualche malandrino teatrucolo di periferia che ospitava scalcinate compagnie di avanspettacolo con le soubrettine disposte a tutto pur di attirare gli spettatori. Intanto il padre muore prematuramente e la madre si ritrova oberata da debiti. Paola è costretta a lavorare a ritmi serrati e ad accettare anche ruoli che più che mettere in luce le sue enormi capacità attoriali, mirano ad evidenziare il suo innegabile sex-appeal. Ma a lei sta bene tutto ciò: è egocentrica ed esibizionista, ama le sfide e i riflettori, ha un seno perfetto e un corpo che è un invito al peccato e li esibisce con gusto e malizia in “Diana al bagno”, in cui appare nuda, velata appena da una tunica trasparente e gode degli sguardi accesi degli uomini in platea che l’applaudono freneticamente. <<Mi divertivo a fare un po’ di chiasso, madre natura mi aveva dato la bellezza. E, allora, perché non farne partecipe il pubblico?>> I ruoli che le affidano nei primi tempi appartengono ai cliché della commedia sofisticata: <<Dovevo fare la cocotte, la rubamariti, l’amante>> ricorderà lei da anziana, non senza una punta di civettuolo compiacimento. Voci (maligne?) la vogliono in quel periodo amante fugace di Mussolini, dal quale era andata a perorare una causa e dal quale era uscita un filino scarmigliata. Comunque sia nel 1929 è così famosa che viene invitata a bordo della corazzata Giulio Cesare con una delegazione del Parlamento Italiano. A proposito di politica: lei, trasgressiva, ironica e audace anche nel linguaggio, ammoniva sempre le giovani attrici delle sue compagnie: <<Le mutande sono come i governi. C’è sempre qualcuno che li vuole far cadere.>> Quanto a lei le portava sempre rosse, quando le portava. Corteggiatissima e disincantata quanto basta, sapeva tenere a bada gli uomini e quando vedeva una sua giovane allieva corteggiata da qualche marpione, soleva ammonirla: <<Ricordati carina, che anche nel migliore degli uomini sonnecchia sempre una canaglia.>> Lei ne aveva incontrati di tipi così, hai voglia!
PAOLA BORBONI
Fu corteggiata persino dal più irresistibile dei seduttori: Gabriele d’Annunzio, al quale disse di no per un antico rispetto nei confronti della sua collega Eleonora Duse (anche se il rapporto tra i due era finito da un pezzo) ma soprattutto per non far parte di quella vendemmia della carne che ogni notte andava in scena al Vittoriale. Non era tipa lei da confondersi con le clarisse e le badesse di passaggio che movimentavano le insonni notti dell’Imaginifico. Non fu mai una comparsa, ma sempre protagonista. Della scena e della vita: <<Ero bella, molto. Ero intelligente, molto. Avevo talento, molto. Ho dato molto fastidio>>, soleva ripetere. Nonostante in molti, infastiditi dalla sua bravura e dal suo mordace temperamento, le remassero contro 1935 diventa capocomico della Compagnia Pirandelliana e mette in scena ben diciassette opere del drammaturgo siciliano, riuscendo a dosare mirabilmente i chiaroscuri della sua voce e a dare vita alle vibrazioni dell’anima di personaggi indimenticabili, come l’inquieta Silia Gala de “Il gioco delle parti”, ma anche quello disperato di Donna Anna Luna ne “La vita che ti diedi” che lui aveva scritto espressamente per Eleonora Duse, ma che la grande Tragica non volle poi interpretare. Paola adorava Pirandello: <<Era bellissimo. Ai miei occhi era un uomo bellissimo. Elegante, assolutamente elegante, naturalmente elegante.>> Chissà, se lui non fosse stato perso per quel demonio di donna che fu Marta Abba, forse loro due avrebbero costituito una coppia magnifica. Si erano incontrati nel foyer del Teatro Quirino; lei indossava un abito blu, di una sfumatura particolare detta blu Nattier (dal nome di un pittore del Settecento, un colorista straordinario che aveva creato quella particolare nuance) e lui l’aveva omaggiata con un <<Che donna elegante!>>. Diventa quindi una delle più intense interpreti pirandelliane, ma la sua versatilità la porta anche ad apparire nei filmetti sexy degli anni Settanta: lo fa per soldi e perché la diverte far arricciare il naso ai critici teatrali che non le perdonavano quelle scivolate goliardiche. Il cinema in realtà non l’attrae più di tanto (anche se ha girato oltre 70 film dal 1918 al 1990) ma dice sì a Pietro Germi per il suo “Gelosia”, a Fellini che la vuole nel suo capolavoro “I vitelloni” e a Manfredi per quel gioiello che fu “Per grazia ricevuta”, e a Dino Risi che le riserva uno dei ruoli più divertenti della sua carriera nel film “Sesso matto” del 1973, in cui lei appare per quel che è: una vegliarda di settantatré anni concupita da un immenso Giancarlo Giannini il quale, animato da impulsi erotici geriatrici, trascura e tradisce la sua carnalissima moglie (una Laura Antonelli di stordente sensualità) perché invaghito di lei (in realtà, si scoprirà alla fine, il vero oggetto del desiderio era la di lei madre novantenne). Ma il Teatro resta e resterà fino alla fine il suo vero amore: <<Il cinema è un’operazione commerciale e l’attore resta sempre un po’ marionetta. Mentre il Teatro è vita, è come mangiare, dormire, amare>>
PAOLA BORBONI
E sulle tavole del palcoscenico costruisce una carriera leggendaria passando con disinvoltura da Sofocle a Marco Praga, da Rosso San Secondo a d’Annunzio, da Diego Fabbri a George Bernard Shaw, da Garcia Lorca a Ugo Betti, Giuseppe Dessì. Ci furono allestimenti che fecero epoca come quando dà vita ad una immensa Elettra nella “Orestiade” di Eschilo accanto ad un’icona come Maria Melato, o quando appare nelle vesti della Clitemnestra alfieriana in un allestimento memorabile accanto a Ruggero Ruggeri, Gasmann, Rina Morelli e Mastroianni o quando fornirà una magistrale interpretazione ne “L’anima buona di Sezuan” di Bertold Brecht per la regia di Strehler. È poliedrica e aperta alle novità (sarà lei, con intelligente lungimiranza, a imporre Pinter in Italia) interpretando ardui autori come Ionesco e Beckett. Non si risparmia, ha energia ed entusiasmo e calca il palcoscenico in tutta la sua prismatica bellezza, in tutte le sue istrioniche forme: commedia, dramma, cabaret, operetta. È superlativa in tutti i ruoli, una primadonna nata, un vero animale da palcoscenico. Dal 1954 al 1968 stupisce il pubblico con un suo personale one woman show: portare in scena sette recital, formati da cinque monologhi ciascuno, che lei inscrive in un ambizioso progetto teatrale di madri, zitelle e donne sole al tramonto, dove, prima e sola in Italia, interpreta una serie di testi di autori italiani tra cui Bacchelli, Alvaro, Savinio, Buzzati e l’immancabile Pirandello. Riuscirà a metterne in scena solo cinque dei sette programmati, con un successo incredibile corredato da premi e riconoscimenti prestigiosi. Per rinforzare la memoria, scrive e riscrive le battute del copione su un foglio: <<venti, trenta volte, così non le dimentico più>>, fedele ad un metodo utilizzato dai grandi attori dell’Ottocento, come ad esempio Ruggiero Ruggieri, dal fisico statuario e dalla voce stentorea, grande interprete dei drammi dannunziani, con il quale recitò spesso a Teatro.
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Ci fu un altro memorabile compagno di scena che divenne anche compagno di vita, Salvo Randone, più giovane di lei di sei anni, ma più saggio e ponderato di lei che rimarrà una capricciosa, irresistibile bambina anche a novant’anni. Restano insieme per molti anni e si lasceranno malamente quando lui, chiamato in qualità di primo attore da Paolo Grassi, abbandona di colpo la compagnia teatrale e approda al Piccolo Teatro di Milano. Paola non glielo perdonerà. Sa essere rancorosa, caustica e anche vendicativa, all’occorrenza. Ha un brutto carattere, dicono i colleghi: autoritaria, perfida, velenosa, aggressiva, persino antipatica. Lei lo sa e non fa nulla per cambiare. Le sue liti sono leggendarie, le sue battute al vetriolo, le sue invettive taglienti. Ne hanno fatto le spese molti attori, ma l’alterco più clamorosa avvenne con Rascel con cui nel 1968 al Sistina di Roma Paola è in scena nella commedia musicale “Venti zecchini d’oro” scritta da Pasquale Festa Campanile per la regia di Zeffirelli. Fra lei e il piccoletto non corre buon sangue; sono entrambi polemici e puntigliosi e gli attriti sono quotidiani. Per fargli dispetto, conoscendo la puntualità e la professionalità di Rascel, arrivava sempre con un regale ritardo, portandolo all’esasperazione. Una culmine di una vibrante discussione Rascel, inviperito, le gridò: <<Vecchia! Sei vecchia! Vecchia!>> e lei, acuminata come un ago: <<Sono vecchia, sì, ma sono stata giovane e bella. Tu alto, mai!>>
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Sempre al Sistina nel 1972 applausi per lei a scena aperta nelle vesti di Cecilia Patterson in “Ciao Rudy” accanto ad Alberto Lionello, Mita Medici e Giusi Raspani Dandolo. Anno memorabile quel 1972: mette in atto uno dei suoi coup de théâtre meglio riusciti: sposa Bruno Villaraggio, in arte Bruno Vilar, uno sconosciuto artista (mimo, poeta e pittore) di trent’anni anni, ossia quarantadue meno di lei. Al matrimonio lei appare vezzosa e maliziosa, lui intimidito e innamoratissmo. La pubblica opinione irride e deride, le riviste di gossip raggiungono tirature record grazie a questa coppia sbilenca in cui lei, intelligente e autoironica, lo presenta in pubblico non come marito, ma come il mio futuro vedovo. Ma il destino è bislacco e le riserva un’atroce messa in scena: il 23 giugno 1978 lei e il marito sono in viaggio. Ad un tratto lo schianto, esiziale: Bruno muore, lei, a settantotto anni riemerge dalla carcassa accartocciata dell’auto, malconcia, ma pervicacemente viva. Ha varie fratture, ma sopravvive, seppure con il cuore che le scoppia dal dolore. <<Io l’ho sposato perché mi chiudesse gli occhi. La cosa orrenda è che poi è morto lui e io non finirò mai di piangerlo>> racconterà in un’intervista. È distrutta dentro, ma riemerge, ancora una volta, grazie al Teatro. Dopo quell’incidente rimarrà claudicante per sempre, ma non demorde. Sarah Bernhardt in fondo aveva continuato a recitare con una gamba amputata, figuriamoci se lei si arrende per una zoppìa seppure vistosa. E pazienza se dovrà usare le stampelle anche quando è in scena: non se ne vergogna, non le occulta, anzi, le riveste di stoffe damascate e sgargianti, per stupire, come sempre.
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La televisione l’acclama e a “Portobello”, l’indimenticato programma condotto dall’inarrivabile Enzo Tortora, riesce persino a far parlare il pappagallo, da sempre chiuso in un ostinato mutismo, nonostante centinaia di ospiti, anche illustri, c’abbiano provato. Arriva lei, elegantissima come sempre con il suo amato turbante e l’occhio birbante di sempre e quel dispettoso pappagallo la prende in simpatia e le risponde: anche lui, insomma, si inchina alla regina delle scene Paola Borboni. A ottant’anni si innamora, corrisposta di un uomo di quaranta: il regista Fabio Battistini. La vita insomma continuava per lei anche a quella veneranda età fra tenerezze, interviste, comparsate, ricordi e palcoscenico. Sì, ancora il palcoscenico. A 93 anni va in scena per l’ultima volta con il suo amato Pirandello: “Il berretto a sonagli” e poi l’anno si ritira in una casa di riposo a Bodio Lomnago vicino Varese. Ma in fondo non lascia del tutto le scene, non ne è capace: nelle malinconiche sere dell’ultima stagione della sua vita reciterà ancora per gli adoranti ospiti di quel ricovero e li delizierà citando le sue celebri battute, <<posso andare d’accordo con un cattivo, con un cretino no>> o la risposta famosissima che diede ad un’impertinente quanto sciocca giornalista, <<Signora, i denti sono suoi?>> <<Certo cara, li ho pagati>>), o raccontando gli aneddoti più divertenti della sua vita.
PAOLA BORBONI
Uno lo ripeteva spesso e ne rideva anche lei, ossia quella volta che Salvo Randone, una notte in cui erano in viaggio in treno insieme, e lei aveva la luna di traverso e non la finiva più di rompere gli zebedei, esasperato, approfittò di un rallentamento del treno per buttarsi giù, senza valigia, senza meta, in piena campagna. Quando le chiedevano quali fossero le doti indispensabili per essere vincenti in quel mestiere che lei portò avanti per ben 76 anni, rispondeva con un sorriso: <<Per fare l’attrice ci vuole fascino, morbidezza, attrazione fisica, morale e psichica. Ma ci vuole anche molta generosità per essere una e cento persone. E poi molta fantasia.>> Il sipario si chiuse definitivamente per lei il 9 aprile 1995. Sul prato dell’ospizio, in quella giornata piena di sole, ci fu una danza policroma di farfalle e di petali.
MUSINI DANIELA- Le Magnifiche-33 donne che hanno fatto la storia d’Italia
Daniela Musini-Tratto dal mio libro Le Magnifiche-33 donne che hanno fatto la storia d’Italia (Piemme) Ps: Sereno e luminoso 2023 a tutti Voi
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