Quattro Poesie dalla raccolta MURALES CASTELNUOVESI
di Franco Leggeri
Franco Leggeri Fotoreportage-Castelnuovo di Farfa e i suoi colori-Biblioteca DEA SABINA-Brano da “Murales Castelnuovesi” di Franco Leggeri-Muoversi nelle intuizioni e immergersi nei problemi irrisolti . Era questa l’equazione che sia i bambini e sia i giovani castelnuovesi degli anni ’50 dovevano risolvere in assenza dei media : radio, televisione , giornali e cinema.I media che dovevano essere vitamina e “stimolatori” della fantasia e creatività per le giovani menti castelnuovesi non esistevano ancora per tutti, sino al giorno in cui fu aperta la “scatola magica” della “piccola-grande “ sala cinematografica “su nell’Acchiesola”, ora Aula consigliare .Questa sala fu una prima miniera della fantasia , in Bianco e Nero, per le giovani menti castelnuovesi. Fu il cinema, per la sua capacità di “parlare” ad ogni pubblico : dal proletario, la maggioranza di noi castelnuovesi, sino a quello “aristocratico” .Proprio per il suo linguaggio, il cinema è un luogo comune nel senso di condiviso. Il cinema è allo stesso tempo un formidabile mezzo per la trasmissione, sia di mentalità che di ideologie, sia che si presenti nella forma di documentario e sia come finzione. Con il cinema, molti di noi giovani scoprimmo la grande città e l’esotismo di luoghi lontani. Scoprimmo le melodie delle colonne sonore, la sottolineatura e il clima da suspense che solo la musica e il gioco delle luci sanno evidenziare. Il vento prese “voce” e scoprimmo il canto dei fiumi e del mare. Ho nella memoria una presenza reale dell’attesa per l‘inizio del film, poi il silenzio e le immagini “enormi” proiettate sullo schermo che ci raccontavano una storia . Devo dire che ero affascinato! Ricordo, per esempio ,la “fantasiosa e furbesca” storia di un assalto alla diligenza e gli spari delle “colt”. E così che provai a risolvere l’equazione del paradosso dell’algebra astratta. La fantasia veniva , man mano, trovando i passaggi giusti nelle semplificazioni, tra realtà, finzione ed emozione, sino al coinvolgimento e all’identificazione nei personaggi del film . Fu allora che scoprimmo il Far West ( poi imparammo che il West era l’Ovest delle grandi praterie) e fu così che riuscimmo, in questa “Grande-minuscola sala”, a provare l’emozione di essere partecipi di una avventura sino a scoprire che , alla fine, “arrivava sempre il settimo cavalleria” e tutto aveva un lieto fine.
P.S. “Su nell’Acchiesola” noi “monelli de Castellu” quelli della generazione del dopoguerra abbiamo votato per la prima volta, perché “l’Acchiesola” era adibita, sin dall’800 , a sede di seggio elettorale. E’ qui che per molti Castelnuovesi ebbe inizio la speranza del “biennio rosso” del 1919 -1921 ,con il voto al Partito Socialista Italiano di Filippo Turati . In questa sala fu pronunciato, per la prima volta a Castelnuovo, il voto alla Lista “Falce, Martello e Libro”. Di queste elezioni del 1919 ne ho raccolto e trascritto la testimonianza diretta così come mi è stata raccontata dal nostro compaesano Fiore Tancioni che , assieme ad altri compaesani da me intervistati, ne fu testimone . Ma questa è una storia che tratto in un capitolo del libro “Castenuovo, la riva sinistra del Farfa”.
Franco Leggeri, Castelnuovese
Quattro Poesie dalla raccolta MURALES CASTELNUOVESI
di Franco Leggeri
Se Castelnuovo (Archivio 1981)
Castelnuovo,
Parole meravigliose, se le saprò vestire e dipingere, con le foglie degli ulivi , nella dolcezza della sera.
Castelnuovo, se saprò descrivere, scrivere e incidere, il fascino raffinato dei colori, così come sono tradotti e vissuti nella spiritualità dell’anima.
Non ho un teschio in mano, non ho i dubbi di Amleto, non scriverò i tormenti, i miei dubbi, non sono Shakespeare.
Non trovo statico il legittimo dubbio che vaga , da sempre, nel labirinto di Dedalo.
Castelnuovo, non è il Castello di Elsinore o quello di Dracula. Castelnuovo è, a volte ,un inquieto schema di vie dove si rincorrono i pensieri partoriti da uno spirito notturno per un progetto del bello.
Castelnuovo è un pensiero filtrato, Castelnuovo è potenzialità: non idea, ma sostanza.
Il fuori posto della mia poesia ,Castelnuovo se lo chiami “musica” o “poesia”,
( neanche Cartesio mi aiuta ad uscire dai meandri del nozionismo)
Le ferite aperte sono il suono di una domanda antica, la pericolosa,( gesuitica?), insoddisfazione. Eppure la notte si adagia , sempre, sui tetti e il “genio maligno” fugge, finalmente , dalla mia esistenza.
Conosco la luce di Castelnuovo, Castelnuovo non è la mia “provincia oscura”. Castelnuovo è una divinità ed io ai suoi piedi ho lasciato i miei sogni, i miei sguardi, i miei pensieri, i miei versi.
Castelnuovo: ora non confondo più il buio con la tenebra. Oggi, ora non ho più paura della notte.
Castelnuovo, i colori e l’ideologia.
Questa mattina i colori di Castelnuovo
si disperdono come stelle filanti.
Colori profumati, impercettibili, e nascosti
tra il linguaggio degli ulivi.
E’ questa una mia visione interiorizzata,
ma sempre in cerca di un approdo sicuro.
Si, Castelnuovo non può essere un racconto sommario
ma, come le sequenze chimiche , deve espandersi
in una litania nell’immenso cielo.
Castelnuovo diventa una litania senza amen,
e senza consistenza, un oggetto fantasma
all’interno di una storia inaccessibile
che si frantuma come stelle filanti
nell’intimità di esperienze sofferte e malate
che diventano , esse stesse, oggetti appesi alle pareti del mio io.
Castelnuovo mi tenta ancora al peccato dell’illuminismo,
e così l’ideologia diventa il mio luogo del “niente”,
l’elemento misterioso di una poesia forgiata con i colori della pietra.
Colori castelnuovesi e tristezza ideologica
che sono come i dubbi di Amleto
in cerca di Ofelia che disperde, così tremante, i colori
della sua fragile innocenza.
Piange Castelnuovo in cerca dei colori,
sepolti trai vecchi tronchi deposti a terra ,
terra scura come i sogni svaniti all’alba
di questa poesia, ora diventata logora e affaticata
mentre rincorre il colore di questo giorno
sempre uguale agli altri.
I vecchi libri
I vecchi libri sono come sculture
Di una vita del dopo
Sono ritagli di tempo
E risultati di calcoli per una rotta tracciata
alla ricerca di sentieri che segnano l’anima.
Sentieri solitari e sospesi sulle emozioni
Che si anellano all’interno di un cerchio
Di passione e scrittura.
Ed è così, mentre i gatti si addormentano
Sull’autobiografica di un’oscura psicologa analista,
Che io mi interrogo sui Dialoghi, ormai scheletri, di Platone,
Si, proprio quelli
Che ho sepolto
Nei miei appunti tra i libri, nascosti in alto sugli scaffali.
L’Estate castelnuovese (1978)
Dai campi si leva
Un coro serrato di cicale
Il rosso , taciturno, dei papaveri
Veglia il riposo delle poche parole
di desiderio silenzio.
Poi, la sera ,lo sguardo abbraccia fosforescenti geometrie
Che nascono dall’immobilità della stanchezza.
Ascolto note di avventure eccessive, affogate in follie singolari.
I miei occhi (pallidi) sono sguardi (stanchi) ai margini dei campi.
Ora,
Del giorno, che corre al tramonto, ne dimentico l’alba.
Omaggio a Vittorio De Sica -Il ricordo di Rai Cultura –
A cinquant’anni dalla scomparsa di Vittorio De Sica, Rai Culturaricorda uno dei massini protagonisti del cinema italiano con una programmazione dedicata, in onda mercoledì 13 novembre su Rai Storia. Si inizia alle 8.30 con l’almanacco de “Il giorno e la storia” (in replica alle 11.45, alle 14 e alle 20). Nato nel 1901, Vittorio De Sica esordisce dietro la macchina da presa nel 1939 con “Rose scarlatte”. Ma il suo nome è legato in maniera indissolubile alla grande stagione del Neorealismo. Con “Sciuscià” e “Ladri di biciclette” vince l’Oscar per il miglior film straniero. Dirige Sophia Loren in “La ciociara”, “Ieri, oggi e domani” e “Matrimonio all’italiana”. Con quest’ultimo, è ancora Oscar.
Alle 13.00 è la volta di Vittorio De Sica a “Canzonissima”, lo spettacolo televisivo Rai abbinato alla Lotteria Italia nel quale è stato più volte ospite. In una puntata del novembre 1970 e nella finalissima del 1971/72 è ospite di Raffaella Carrà e Corrado, che prova a dirigere con risultati clamorosi, e poi dà prova di recitazione decantando la poesia di Salvatore di Giacomo “Lassame fa a Dio”, e ritorna a Canzonissima con il figlio Christian, ospiti di Pippo Baudo e Loretta Goggi nel 1972. Alle 13.15 su Rai 3 e alle 20.30 su Rai Storia, poi, Paolo Mieli e lo storico Ermanno Taviani rileggono la figura di De Sica in “Passato e Presente”, tratteggiando il ritratto di un artista completo che ha lasciato una traccia indelebile nel cinema italiano e mondiale. E se la stagione più conosciuta è quella breve e intensissima del neorealismo, Vittorio De Sica ha avuto la capacità di cambiare stile, rinnovandosi completamente, tanto da far dire a Roberto Rossellini che De Sica è forse l’unico regista italiano a possedere così tanti registri espressivi. Una carriera inimitabile segnata da quattro premi Oscar e numerosissimi premi nazionali e internazionali.
A seguire – alle 13.30 su Rai Storia – in “Stasera: Gina Lollobrigida”, programma con la regia di Antonello Falqui, Vittorio De Sica e Gina Lollobrigida si cimentano in uno sketch nel quale replicano la celebre scena dell’episodio “il processo di Frine” di “Altri Tempi” (1952) di Alessandro Blasetti nel quale De Sica è un distratto avvocato d’ufficio di una procace cittadina, interpretata da Gina Lollobrigida. Nella versione televisiva del 1969, si ironizza sull’eccessiva sensualità dell’attrice per gli standard della TV dell’epoca, e l’avvocato dell’accusa è interpretato da Riccardo Garrone. Alle 17.30 è in scena “Vittorio De Sica: autoritratto”, nel quale Vittorio De Sica, dal teatro Eliseo, racconta la sua vita di attore e regista e incontra alcune figure importanti per la sua carriera come Emma Gramatica, Sergio Tofano e Cesare Zavattini, in un documentario per la TV firmato da Giulio Macchi, pioniere della divulgazione scientifica in Rai con “Orizzonti della scienza e della tecnica”.
Btografia di Vittorio De Sica-Regista e attore teatrale e cinematografico, nato a Sora il 7 luglio 1901 e morto a Neuilly-sur-Seine (Île-de-France) il 13 novembre 1974. Grande autore del cinema italiano fu anche interprete di spiccata personalità e presenza scenica. Dotato di una capacità istintiva nel cogliere il lato amabile e ironico, come quello malinconico e a volte tragico, della realtà quotidiana, D. S. possedette la rara capacità di sdoppiarsi dapprima tra il teatro e il cinema, e poi tra una carriera di attore, versatile e adattabile, e di regista cinematografico; nei suoi film emerge una sensibilità straordinaria nel saper trasferire l’osservazione minuta della realtà nelle maglie di racconti strutturati su un sentimento di forte solidarietà umana. Apparso come attore in quasi duecento film, seppe realizzare, anche in quelli di minore qualità, una perfetta combinazione tra eleganza gestuale e vocale e un suo personale tratto istrionico. Valorizzato da Mario Camerini, a partire da Gli uomini, che mascalzoni… (1932), nella cosiddetta pentalogia piccolo-borghese, da questo regista D. S. acquisì i fondamenti dell’arte e della tecnica cinematografica che seppe fare suoi raffinandoli con profonda sensibilità e spessore umano. Si inserì autorevolmente nella storia del cinema con Sciuscià (1946) e Ladri di biciclette (1948), entrambi premiati con l’Oscar come migliori film stranieri rispettivamente nel 1948 e nel 1950, rivelando con lucida partecipazione l’amara realtà postbellica di un Paese materialmente e moralmente dilaniato. Grazie anche al contributo determinante dello scrittore e sceneggiatore Cesare Zavattini, che lavorò con lui in quasi tutti i suoi film, D. S. raggiunse la massima maturità artistica ed espressiva negli anni Quaranta, quando contribuì in maniera determinante alla nascita di una nuova cultura cinematografica, il Neorealismo.
Figlio di un assicuratore napoletano, dopo un’infanzia trascorsa a Napoli D. S. si diplomò in ragioneria, ma già nel 1917 aveva ricoperto il piccolo ruolo di G. Clemenceau ragazzo nel film Il processo Clemenceau di Alfredo De Antoni. Con l’attrice-regista T. Pavlova, ricca dell’esperienza della scena russa, D. S. tra il 1924 e il 1926 passò al professionismo teatrale, recitando poi da attore giovane nella compagnia Almirante-Rissone-Tofano (1927-1929). In questo periodo si cimentò saltuariamente anche sullo schermo in due film di Mario Almirante, La bellezza del mondo (1927) e La compagnia dei matti (1928). Deviò quindi verso il teatro popolare, entrando nel 1931 nella compagnia di teatro leggero e di rivista diretta da Mario Mattoli, in cui riportò grande successo anche per le canzoni interpretate; fu in quel periodo che D. S. definì il suo profilo di attore brillante e di fine dicitore e chansonnier. Dal 1932 intraprese in maniera costante anche la carriera d’attore cinematografico, interpretando da protagonista due film che confermarono la sua versatilità. In primo luogo Due cuori felici, di Baldassarre Negroni, film brillante con couplets cantati e una struttura da operetta, che non si allontanava di molto dagli spettacoli di rivista. Ma fu in Gli uomini, che mascalzoni… di Camerini, sceneggiato da quest’ultimo con Aldo De Benedetti e Mario Soldati, in cui D. S. canta la celebre canzone di C.A. Bixio Parlami d’amore Mariù, che espresse al meglio il suo stile, qui pienamente valorizzato, e rivelò il suo talento recitativo, trovando il giusto equilibrio nel disegnare un personaggio (l’autista Bruno) dall’animo semplice e il comportamento scanzonato, sullo sfondo di una Milano già industrializzata. Il film venne presentato alla prima Mostra del cinema di Venezia, consolidando il successo dell’attore. Dopo Un cattivo soggetto (1933), per la regia di Carlo Ludovico Bragaglia, e alcuni film di scarso rilievo, D. S. diede vita alla compagnia Tofano-Rissone-De Sica. In questo periodo avvenne anche l’incontro con due autori italiani, Aldo De Benedetti e Gherardo Gherardi, che segnò l’inizio di un felice e lungo sodalizio artistico. Nel 1935 fu di nuovo insieme a Camerini in Darò un milione, cui aveva collaborato, per il soggetto e la sceneggiatura, anche Zavattini. D. S. vi interpreta Gold, un milionario che, annoiato della sua vita abituale, decide di vivere una giornata diversa travestendosi da poveraccio ed entrando in contatto con un mondo molto lontano dal suo. Nella seconda metà degli anni Trenta continuò a intercalare cinema e teatro. Ma due film ancora di Camerini precisarono la sua figura di attore dal tratto amabilmente ironico: Il signor Max (1937) e Grandi magazzini (1939). In Il signor Max D. S. impersona il giornalaio Gianni, aspirante a un ruolo mondano, che durante un viaggio viene scambiato per un conte da un gruppo di nobili, e di conseguenza si trova a vivere due vite parallele. A questo film, da lui reinterpretato venti anni dopo nell’adattamento di Giorgio Bianchi (1957; Il conte Max) con Alberto Sordi nel suo ruolo del 1937, è stato dedicato un altro remake (Il conte Max, 1991) realizzato dal figlio Christian (n. Roma 1951), anch’egli regista e attore. In Grandi magazzini D. S. riveste il ruolo di un personaggio molto vicino al protagonista di Gli uomini, che mascalzoni…: ancora un autista, anch’egli di nome Bruno, che ha premura di difendere la povera commessa di un grande magazzino, ingiustamente accusata di furto. In questo stesso anno avvenne il primo incontro diretto tra D. S. e Zavattini, durante il quale il regista acquistò dallo scrittore il soggetto intitolato Diamo a tutti un cavallo a dondolo, da cui, dopo diversi rimaneggiamenti dello stesso Zavattini, sarebbe nata la sceneggiatura di Miracolo a Milano (1951). Non soddisfatto dei traguardi raggiunti e di essere definito lo ‘Chevalier italiano’, D. S. fu quasi sul punto di tornare in via definitiva al teatro quando, nel 1940, gli si aprì inaspettatamente la porta della regia cinematografica. L’esordio avvenne senza troppo clamore, con la trasposizione cinematografica del suo maggior successo teatrale, Due dozzine di rose scarlatte di A. De Benedetti, portato sulle scene dalla formazione De Sica-Rissone-Melnati al Teatro Argentina di Roma nel 1936. Il film, dal titolo Rose scarlatte, ebbe come coregista Giuseppe Amato; D. S. si limitò a dirigere con dedizione gli attori, tralasciando ancora i movimenti di macchina e la fotografia. A Maddalena zero in condotta (1940), che molto deve al brio dello stile cameriniano, seguì nel 1941 Teresa Venerdì, alla cui sceneggiatura collaborò, non accreditato, anche Zavattini. Il film, seppure ancora molto vicino allo stile di Camerini, evidenzia cambiamenti che si rintracciano nella particolare cura del montaggio, nell’elaborare un’atmosfera brillante non priva di riflessioni a sfondo sociale e in una propensione a evadere dalle convenzioni del cinema italiano di quel periodo. Durante la guerra D. S. riprese il teatro fino al 1942, nella nuova compagnia Tofano-Rissone-De Sica, portando sulle scene prevalentemente drammi di U. Betti (I nostri sogni, Il paese delle vacanze) e testi pirandelliani (Ma non è una cosa seria, Liolà). Dopo Un garibaldino al convento (1942), una divertita rievocazione storica, D. S. diresse I bambini ci guardano (1944) che segnò il passaggio deciso all’osservazione acuta dei sentimenti umani e della loro radice sociale. Il film, tratto dal romanzo Pricò di C.G. Viola e alla cui sceneggiatura Zavattini partecipò per la prima volta ufficialmente, rappresenta un’anticipazione di quella poetica che di lì a poco D. S. avrebbe progressivamente sviluppato e ampliato. Nel dramma interiore e nello sguardo del piccolo Pricò si legge la crudeltà e la durezza di quello stesso mondo piccolo-borghese che fino ad allora il regista si era limitato solo a rappresentare in maniera frivola e superficia-le. D. S., così, cambiò radicalmente e definitivamente la prospettiva del proprio cinema, precorrendo Sciuscià nello studio della condizione del bambino, vittima dell’egoismo e dell’incomprensione degli adulti. Il suo stile si fece più essenziale rintracciando negli esterni, nelle strade, nelle piazze, nel paesaggio urbano, una verità lontana dalle convenzioni dei teatri di posa. Durante uno dei suoi ritorni teatrali diresse la compagnia Isa Miranda, di cui (1944) va ricordata la messinscena di Tovarich di J. Deval; recitò quindi (1945), diretto da Alessandro Blasetti, nel dramma Il tempo e la famiglia Conway di J.B. Priestley. Nel 1946 formò la compagnia Effe De Sica-Gioi-Besozzi, l’ultima di cui fu capocomico. Della sua attività teatrale di quegli anni va ricordata soprattutto la partecipazione, proprio nel 1946, a Il matrimonio di Figaro di P.-A. de Beaumarchais, per la regia di Luchino Visconti. Mentre, al cinema, offrì interpretazioni misurate, talvolta drammatiche, in tre film: il primo di Gennaro Righelli, Abbasso la ricchezza! (1946), accanto ad Anna Magnani; il secondo, Natale al campo 119 (1947) di Pietro Francisci, dove è un nobile napoletano; il terzo, Cuore (1948) di Duilio Coletti, che gli valse il Nastro d’argento come miglior attore per l’intensa interpretazione del maestro Perboni. In La porta del cielo (1945), sceneggiato con Zavattini, l’allontanamento del regista dai canoni precedenti appare irreversibile. Girato, con un’avventurosa lavorazione, nel periodo dell’occupazione tedesca a Roma, il film segue, con una minuzia di osservazione che valorizza espressivamente il dato patetico, le storie di un gruppo di malati in viaggio verso il santuario di Loreto per chiedere il miracolo della guarigione, che però non avverrà. Ma fu con Sciuscià che D. S. consegnò alla storia del cinema un capolavoro del Neorealismo, ispirandosi alla storia di due giovanissimi lustrascarpe da lui realmente incontrati. Il film, sceneggiato da Zavattini, Adolfo Franci, Giulio Cesare Viola e Sergio Amidei, alterna la crudeltà delle situazioni a squarci e fughe nel sogno, e segue la vita dei due ragazzi (Franco Interlenghi e Rinaldo Smordoni) fino al drammatico tentativo di fuga dal carcere minorile, che conduce alla morte di uno dei due. Con semplicità e sotto tono D. S. svela una realtà dilaniata dalla guerra, utilizzando il senso tragico dell’azione per un atto d’accusa contro il sistema giudiziario e carcerario minorile. A partire da questo film e nella sua fase neorealista, D. S. adottò la pratica di ricorrere a interpreti presi dalla strada, dimostrando un’attitudine particolare nel renderli aderenti alla resa di verità del film. Nel 1948 uscì la sua opera più famosa e più premiata, Ladri di biciclette, dal romanzo di L. Bartolini, sceneggiata ancora una volta da Zavattini (con Oreste Biancoli, Suso Cecchi d’Amico, A. Franci, G. Gherardi, Gerardo Guerrieri) e interpretata da attori non professionisti. È un racconto immerso nella realtà delle strade e dei quartieri della Roma segnata dalla guerra, in cui campeggia la disperazione di un disoccupato al quale, trovato finalmente un posto di attacchino, rubano la bicicletta, strumento essenziale per il lavoro. Dall’affannoso deambulare del protagonista (Lamberto Maggiorani) accompagnato dal figlioletto (Enzo Stajola), spaurito e partecipe del dolore del padre, dalla ostile indifferenza e dalla desolazione che li circondano emerge il quadro di una condizione umana e sociale filmato con accorta pietas. Il film riscosse un enorme successo in tutto il mondo. Con Miracolo a Milano, premiato nel 1951 con la Palma d’oro al Festival di Cannes, D. S. non ottenne invece il successo commerciale sperato. Con la sceneggiatura che Zavattini aveva ricavato dal suo romanzo Totò il buono (rimaneggiamento del suo vecchio soggetto Diamo a tutti un cavallo a dondolo), D. S. modellò la sua poesia del quotidiano sull’affettuosa descrizione delle miserie di una baraccopoli, mediante uno stile trasognato e funambolico. L’anno successivo, con Umberto D. il regista pervenne a un’asciuttezza livida e rigorosa, a uno stile scarno, ma accorato che penetra nelle pieghe della solitudine della desolata e umiliata vecchiaia del protagonista, un modesto pensionato (Carlo Battisti). Queste prove restano le più alte della sua opera registica, anche se per le polemiche sullo ‘sciorinamento dei panni sporchi’ di un’Italia piegata dalla guerra, D. S. fu osteggiato dagli ambienti politici di una certa Italia benpensante. Nel frattempo continuava le sue interpretazioni, disegnando caratteri e ruoli in cui il mestiere consumato si mescolava a dosi di garbata ironia. Lasciarono una traccia durevole, fra gli altri: Buongiorno, elefante! (1952) di Gianni Franciolini, in cui impersona il maestro Garetti, imbarazzato dall’ingombrante regalo di un elefante; di Blasetti, nel 1952, Altri tempi (Zibaldone n. 1), in cui è un tronfio ed esilarante avvocato napoletano nel processo a una moderna Frine (Gina Lollobrigida), e, nel 1954, Tempi nostri (Zibaldone n. 2), dove rappresenta la crepuscolare figura di un conte decaduto costretto a lavorare come comparsa cinematografica. Il ritorno alla regia avvenne con Stazione Termini (1953), irrisolta coproduzione con gli Stati Uniti, incerta tra sentimentalismo e ambizioni spettacolari.Con L’oro di Napoli (1954), dai racconti di G. Marotta, soprattutto negli episodi Il funeralino e I giocatori, D. S. raggiunse un notevole risultato espressivo grazie alla sua tipica sensibilità nel racconto dell’infanzia e mediante il ritratto icastico delle miserie e dell’umanità dei napoletani. Dopo aver interpretato il galante maresciallo in un classico del neorealismo rosa che avrà seguiti e imitazioni, Pane, amore e fantasia (1953) di Luigi Comencini, nel 1956 D. S. ritornò alla regia con Il tetto, opera dotata di una certa sottigliezza descrittiva, sul problema della casa e della coabitazione. Con La ciociara (1960), tratto dal romanzo di A. Moravia, realizzò un film che possiede un ampio respiro narrativo quando descrive lo strazio di una madre umiliata dagli oltraggi della guerra (interpretazione che valse un Oscar a Sophia Loren), e accenna pudicamente alla malinconica vocazione alla morte di un intellettuale antifascista. Da attore D. S. aveva ricoperto nel 1959 la parte più importante del suo ultimo scorcio di carriera, diretto da Roberto Rossellini in Il generale Della Rovere, in cui è il doppiogiochista Giovanni Bertone prima povero imbroglione, via via coinvolto dalla tragedia della guerra, infine travolto dalla volontà di tener fede, paradossalmente sino alla morte, al ruolo interpretato. Nella regia di Il giudizio universale (1961) D. S. seppe incastonare in un surreale mosaico ambientato a Napoli una coralità che riprendeva la sua vena descrittiva migliore. I film successivi rientrano in schemi più convenzionali, quelli della commedia sentimentale o della satira sociale (Il boom, 1963; Matrimonio all’italiana, 1964, da Filumena Marturano di Eduardo De Filippo), ma alcuni contengono icastiche notazioni di costume, come La riffa, episodio di Boccaccio ’70 (1962; film a più mani diretto anche da Federico Fellini, Luchino Visconti e Mario Monicelli) o Ieri oggi domani (1963, Oscar per il miglior film straniero nel 1965) che consacrò il sodalizio di D. S. con la coppia Sophia Loren-Marcello Mastroianni, e in cui l’episodio di Adelina, dovuto al soggetto di E. De Filippo, è un sapido apologo sull’arte di arrangiarsi, o come Un mondo nuovo, noto anche come Un monde nouveau (1966), che si regge su una delicatezza di tocco che tratteggia bene le atmosfere psicologiche.
Nel suo ultimo periodo registico D. S. si piegò per lo più alle ragioni industriali, anche con coproduzioni interpretate da famosi attori stranieri, da Peter Sellers a Shirley MacLaine (Caccia alla volpe, 1966; Sette volte donna, 1967; Amanti, 1968; I girasoli, 1970; Lo chiameremo Andrea, 1972 furono melodrammi e commedie sentimentali di gusto convenzionale e ambizioni spettacolari). Accanto alle apparizioni televisiva nel Pinocchio (1972) di Comencini nel ruolo del giudice, e cinematografica in Il delitto Matteotti (1973) di Florestano Vancini, due regie furono rilevanti. In primo luogo quella di Il giardino dei Finzi Contini, dal romanzo di G. Bassani (1970, Orso d’oro al Festival di Berlino nel 1971; Oscar per il miglior film straniero nel 1972), per il quale il figlio Manuel (n. Roma 1949) compose la colonna sonora, e in cui è evidente tutta l’abilità di D. S. nella direzione degli attori e nel dare colore e psicologia ad ambienti sociali, sentimenti umani, dissidi sentimentali. L’altra opera, Una breve vacanza (1973), è la storia di un’operaia calabrese, divisa tra la malattia e la voglia di vivere ed evadere dalle ossessioni familiari. In essa D. S. accentuò una vena intimista e ritrovò l’afflato, il concreto senso della solidarietà, il racconto umano delle cose, propri dei suoi primi capolavori. Nel 1967 aveva ottenuto la cittadinanza francese, anche per poter divorziare da Giuditta Rissone (da cui aveva avuto la figlia Emi) e sposare l’attrice spagnola Maria Mercader, conosciuta sul set di Un garibaldino al convento e sua compagna per la vita. Il viaggio (1974), ultimo film diretto da D. S., ancora interpretato da Sophia Loren, è un racconto, di derivazione pirandelliana, dove il percorso malinconico di una donna, tra amore e morte, suggella, quasi come un presagio, la fine dell’itinerario artistico e umano del regista.
Bibliografia
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Mercader, La mia vita con Vittorio De Sica, Milano 1978.
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Darreta, Vittorio De Sica: a guide to references and resources, Boston 1983.
Bolzoni, Quando De Sica era Mister Brown, Torino 1984.
De Sica. Autore, regista, attore, a cura di L. Miccichè, Venezia 1992.
Governi, A.M. Bianchi, Vittorio De Sica: Parlami d’amore Mariù, Roma 1993.
SPAGNA-Fotoreportage -Parco Nazionale della Sierra de Guadarrama
Il Parco Nazionale della Sierra de Guadarrama è situato a nord di Madrid, capitale della Spagna.La catena montuosa del Guadarrama domina il parco. Forma il tratto principale orientale del Sistema Central – l’ammasso di catene montuose che attraversa il centro della penisola iberica. La catena montuosa del Guadarrama è salita due volte – la prima volta circa 380 milioni di anni fa, la seconda circa 80 milioni di anni fa. Dopo questa seconda spinta verso l’alto, la catena montuosa ha iniziato a erodere nuovamente, creando il sistema dei corsi d’acqua della montagna. Inoltre, l’episodio glaciale e interglaciale durante il Periodo Quaternario ha portato alla formazione dei ghiacciai nell’area e ai processi periglaciali. Sono questi eventi di erosione che forniscono l’attuale topografia della catena montuosa Guadarrama, come il massiccio Peñalara. Situata sulle pendici meridionali delle montagne Guadarrama, La Pedriza è una particolare caratteristica montuosa unica della penisola iberica – una collezione di rocce e dirupi dalla forma sorprendente.
Sette diverse specie di lucertola vivono nel parco – una di queste è la rara lucertola da muro di Guadarrama.
Poiché il parco non è lontano da Madrid, è fortemente frequentato da appassionati di escursioni tutto l’anno. La rete di sentieri, strade e servizi pubblici è ben sviluppata. E poiché l’area è rimasta in gran parte non colpita dalle attività umane, il parco è un rifugio eccezionale per la biodiversità. Si può sperimentare un gran numero di avvoltoi grifoni e la zona ospita almeno 100 coppie di avvoltoi grifoni da riproduzione. È anche la sede dello stambecco spagnolo.
Per saperne di più nella nostra Guida al Parco Nazionale, Europa, che puoi acquistare qui:
L’Aquila la mostra fotografica di Ilaria Di Giustili :”La Venere”
L’Aquila la mostra fotograficaLa Venere, di Ilaria Di Giustili: una mostra che si muove tra immagini e poesia, con un contributo di testi di Stefania Macchione e frammenti poetici di Carmela de Felice, con il con il Patrocinio del Comune dell’Aquila.
Il progetto fotografico La Venere, di Ilaria Di Giustili, arriva a L’Aquila dopo una lunga gestazione, che l’ha vista esposta a Roma in una edizione precedente, con altra forma: un percorso di crescita personale oltre che visivo della fotografa l’ha riportata negli anni sul tema della Donna, della sua relazione con sé stessa e con il mondo che la circonda.
Venere, dea dell’amore, è intesa come simbolo di tutte le donne attraverso una serie di scatti che la rappresentano in tutte le sue età e declinazioni spirituali.
La mostra si divide in tre sezioni, la prima dedicata al lato oscuro della Donna archetipo di bellezza e forza, anche – e diremmo soprattutto – quando è fragile e sottoposta a tensioni e violenze fisiche e psicologiche: scatti che vedono i corpi femminili quasi prigionieri delle cornici, allegorie appunto di uno spazio troppo stretto per muoversi nel quale le donne sono rinchiuse, ma non di rado si rinchiudono anche da sole.
La seconda sezione, dal titolo La Venere svelata, vede invece donne immerse in clima di tenerezza e di dolcezza, di relazioni familiari, di complicità, di generazioni che dialogano, da “album di famiglia”
Infine, nella terza sezione, gli abbracci, i baci e la sensualità, con presenze maschili anche nelle fotografie.
Stampe di grandi dimensioni e pannelli con i testi poetici animano il bellissimo sotterraneo del Palazzetto dei Nobili, quasi un labirinto di ambienti misteriosi nei quali l’allestimento guida per mano i visitatori in un viaggio nell’animo della Donna.
Un viaggio che prende maggior valore per essere esposto nel mese di Novembre, ormai dedicato in particolare alla sensibilizzazione contro la violenza sulle donne.
La mostra si propone animata, ogni settimana, da eventi diversi: reading poetici e intermezzi musicali dal vivo più un importante incontro con Salute Donna ODV che si occupa di prevenzione e lotta ai tumori.
· Programma
Opening: sabato 9 novembre ore 17.00
Presentazione con la curatrice Penelope Filacchione presidente dell’Associazione Artsharing Roma – ETS; reading poetico di Carmela de Felice, performance musicale live Dora Ruggiero e Simona Rossi (violino) Clara Gizzi (arpa)
venerdì 15 novembre ore 17:00 Incontro con Salute Donna ODV Associazione per la prevenzione e lotta ai tumori, con la partecipazione dell’Ass. Ersilia Lancia e con visita guidata alla mostra.
venerdì 22 novembre ore 18:00: Serata conclusiva: la poetessa, giornalista, editrice Alessandra Prospero e lo scrittore e regista Federico Del Monaco leggono “Colpa di Alfredo?” di/con Carmela de Felice, performance musicale live Dora Ruggiero e Simona Rossi (violino) Clara Gizzi (arpa), con visita guidata alla mostra.
Nasceva l’11 novembre 1929 Hans Magnum Enzensberger, poeta, traduttore, editore e autore tedesco. Nato in Baviera, aveva solo 15 anni quando il Terzo Reich crollò. Dopo aver studiato letteratura, filosofia e lingua tedesca nelle università di Erlangen, Friburgo e Amburgo, Enzensberger conseguì il dottorato alla Sorbona di Parigi.
Enzensberger scrisse sia in inglese che in tedesco. Oltre ai romanzi, pubblicò più di cinque volumi di poesie, tra cui raccolte per bambini. Il poeta Charles Simic elogiò la vasta portata della scrittura di Enzensberger in questo modo: «Hans Enzensberger ha la più vasta gamma di argomenti, impiega una varietà di stili… quasi tutte le sue poesie, siano esse liriche, drammatiche o narrative, hanno una qualità polemica».
Venne considerato come una delle figure fondanti della letteratura della Repubblica Federale Tedesca e fu uno dei principali autori del Gruppo 47, partecipando, nel 1968, al Movimento studentesco della Germania occidentale. Tra i suoi vari riconoscimenti e onorificenze ricordiamo il Premio Georg Büchner, il Premio Heinrich-Böll e il Premio Principe delle Asturie del 2002. Nel 2009 ricevette il prestigioso premio Griffin Poetry Lifetime Recognition Award.
Enzensberger scrisse molte delle sue poesie in tono sarcastico e ironico. Ne è un esempio, la poesia Middle Class Blues, composta da varie tipicità della vita della classe media, con la frase “non possiamo lamentarci” ripetuta più volte e si conclude con “cosa aspettiamo ancora”.
Qui la poesia in una traduzione di A. M. Giachino:
Non possiamo lamentarci. Abbiamo da fare. Siamo sazi. Mangiamo.
Cresce l’erba, il prodotto sociale, l’unghia delle dita, il passato.
Le strade sono vuote. Le chiusure sono perfette. Le sirene tacciono. Questo passa.
I morti hanno fatto il loro testamento. La pioggia è cessata. La guerra non è stata dichiarata. Questo non è urgente.
Noi mangiamo l’erba. Noi mangiamo il prodotto sociale. Noi mangiamo le unghie. Noi mangiamo il passato.
Non abbiamo nulla da nascondere. Non abbiamo nulla da perdere. Non abbiamo nulla da dire. Abbiamo.
L’orologio è caricato. La vita è regolata. I piatti sono lavati. L’ultimo autobus sta passando.
È vuoto.
Non possiamo lamentarci.
Cosa aspettiamo ancora?
da “Poesia Tedesca del Novecento”, Rizzoli.
Molte delle poesie di Hans Enzensberger presentano questi temi di disordini civili su questioni economiche e di classe.
Ne è un esempio anche Divisione del lavoro:
Che la stragrande maggioranza della stragrande maggioranza non capisca pressoché nulla, per es. poesia, diritti d’opzione, numeri pseudoprimi, e mettici perfino i massimi sistemi – è piú che comprensibile!
La stragrande maggioranza ha tutt’altre preoccupazioni, imperturbabile si tiene ai figli e alle mutue, letto soldi pop sport, a tutto ciò di cui la minima minoranza non vuol sapere nulla.
Dove andremmo a finire coi nostri cervellini se tutti pensassero su tutto?
Solo di quando in quando, in certe interminabili sere, un’occhiata dall’altra parte, alla finestra illuminata dove vivono altri, e la vaga sensazione di essersi persi qualcosa.
da “Piú leggeri dell’aria”, Einaudi. Traduzione di Anna Maria Carpi.
Il lavoro di Enzensberger del 1974 L’industria della coscienza sulla letteratura, la politica e i media diede origine al termine “industria della coscienza”, che identifica i meccanismi attraverso i quali la mente umana è riprodotta come un prodotto sociale. I principali tra questi meccanismi sono le istituzioni di mass media e educazione. Secondo Enzensberger, l’industria della mente non produce nulla di specifico; piuttosto, la sua attività principale è quella di perpetuare l’attuale ordine di dominio dell’uomo sull’uomo. Hans elabora l’industria della coscienza in quanto si applica alle arti in un più ampio sistema di produzione, distribuzione e consumo. Il porta coinvolge specificamente i musei come produttori di percezione estetica che non riconoscono il loro intellettuale, politico e autorità morale: «Piuttosto che sponsorizzare una consapevolezza intelligente e critica, i musei tendono quindi a favorire la pacificazione».
Sebbene principalmente poeta e saggista, Hans Enzensberger si avventurò anche nel teatro, nel cinema, nell’opera, nel dramma radiofonico, nel reportage e nella traduzione. Il suo lavoro fu tradotto in oltre 40 lingue.
Nel 2000 inventò e collaborò alla costruzione di una macchina che compone automaticamente poesie (Der LandsbergerPoesieautomat) Questo dispositivo fu usato durante il Mondiale di calcio del 2006 per commentare i giochi. «Se non sai scrivere poesie meglio della macchina, faresti meglio a lasciar perdere», disse.
First things first
In fondo non abbiamo niente da obiettare a purgatorio, reincarnazione, paradiso. Se cosí dev’essere, prego! Al momento tuttavia abbiamo altre priorità.
Della toilette del gatto, del conto in banca e delle insostenibili condizioni del mondo dobbiamo assolutamente occuparci, già a prescindere da internet e dalle notizie sul livello delle acque.
Certe volte non sappiamo piú dove a forza di problemi sbattere la testa. Intanto c’è sempre qualcuno che muore, e di continuo qualcuno che nasce.
Non si arriva mai sul serio a fare delle riflessioni sulla propria immortalità. Prima bisogna gettare un occhio all’agenda, alle scadenze,
il resto si vedrà.
da “Piú leggeri dell’aria”, Einaudi. Traduzione di Anna Maria Carpi.
Enzensberger Hans Magnus
Hans Magnum Enzensberger, poeta, traduttore, editore e autore tedesco-Scrittore tedesco (Kaufbeuren, Allgäu, 1929 – Monaco di Baviera 2022). Autore anticonformista e versatile (romanziere, autore di testi teatrali, radiofonici ecc.), è stato tra gli animatori del Gruppo 47 ed è una delle figure più interessanti della letteratura tedesca del secondo dopoguerra. I suoi scritti, in particolare i saggi, sono permeati da un profondo pessimismo e denunciano causticamente le storture e le debolezze della società contemporanea.
Opere
Ancora adolescente patì la dura esperienza della guerra a cui partecipò nel 1944-45. La sua poesia (Verteidigung der Wölfe, 1957; Landessprache, 1960; Blindenschrift, 1964; Gedichte 1955-70, 1971; Mausoleum, 1975, trad. it. 1979; Der Untergang der Titanic, 1978, trad. it. 1980), pur risentendo molto dell’insegnamento brechtiano, non vede tuttavia un mezzo di salvezza per l’uomo e si presenta come denuncia spietata di tutte le storture e debolezze della società di oggi. Essa si distingue per l’originalità dell’espressione volutamente antipoetica e provocatoria, ricorrendo sia ai mezzi più facili di rottura (abolizione delle maiuscole, introduzione del gergo commerciale, rottura sintattica, ecc.), sia alla più raffinata demitizzazione della letteratura “bella” nell’uso profanante della citazione. Lo stesso carattere aggressivo e accusatore si rivela nei saggi più strettamente letterari, in cui E., nella ricerca dell'”artista radicale” (Clemens Brentanos Poetik, 1961), denuncia ogni debolezza o inattualità del fenomeno letterario. Molto importante la sua attività giornalistica, sviluppatasi soprattutto su Kursbuch e su Trans-Atlantik, battagliere riviste da lui create rispettivamente nel 1965 e nel 1980, nonché la sua opera saggistica, sempre a contatto con l’attualità senza però mai ridurvisi: Einzelheiten (1962; trad. it. Questioni di dettaglio, 1965); Politik und Verbrechen (1964; trad. it. 1979); Deutschland, Deutschland unter anderem (1967); Das Verhör von Habana (1970; trad. it. 1971); Der kurze Sommer der Anarchie (sotto forma di romanzo, 1972; trad. it. 1973); Palaver. Politische Überlegungen (1974; trad. it. 1976); Ach, Europa! (1987; trad. it. 1989). Del 1995 è la raccolta di poesie Kiosk. Neue Gedichte (trad. it. 2013), mentre sono stati pubblicati nel 1997 ZichZack (trad. it. 1999) e il fortunato Der Zahlenteufel (trad. it. 1997), tra l’apologo e la fiaba, in cui la matematica diventa, per un alunno che non ne è attratto, un mondo quasi magico. Ha poi scritto, tra l’altro: Esterhazy. Eine Hasengeschichte (con I. Dische, 1998; trad. it. 2002); Die Elixiere der Wissenschaft (2002; trad. it. 2004), in cui racconta storie, vere e mitologiche, che orbitano intorno alla scienza; Schreckens Männer. Versuch über den radikalen Verlierer (2006; trad. it. 2007); Josefine und Ich. Eine Erzählung (2006; trad. it. 2010); Hammerstein oder der Eigensinn: eine deutsche Geschichte (2008; trad. it. 2008); la raccolta di poesie Rebus (2009); i saggi Fortuna und Kalkül. Zwei mathematische Belustigungen (2009), Meine Lieblings-Flops, gefolgt von einem Ideen-Magazin (2010; trad. it. 2012) e Sanftes Monster Brüssel oder Die Entmündigung Europas (2011). Tra i suoi lavori più recenti occorre ancora citare Tumult (2014; trad. it. 2016) e Immer das Geld! (2015; trad. it. Parli sempre di soldi!, 2017).
Fonte- Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani
Roma Capitale-Gabriele Lavia va in scena al Teatro Argentina con Re Lear di William Shakespeare-
Roma Capitale al Teatro Argentina va in scena Gabriele Lavia, tra i più grandi maestri del teatro italiano, torna al Teatro Argentina con uno dei ruoli più rappresentativi della drammaturgia shakespeariana: Re Lear di William Shakespeare. In scena con lui un cast imponente, per indagare la fragilità del potere, la follia e la devastazione delle passioni umane.
Re Lear dal 26 novembre – 22 dicembre 2024
di William Shakespeare
traduzione di Angelo Dallagiacoma e Luigi Lunari
regia Gabriele Lavia e con Gabriele Lavia
e con Luca Lazzareschi, Mauro Mandolini, Andrea Nicolini, Federica Di Martino, Silvia Siravo, Giuseppe Benvegna, Ian Gualdani, Giovanni Arezzo, Jacopo Venturiero, Beatrice Ceccherini, Eleonora Bernazza, Gianluca Scaccia, Jacopo Carta, Lorenzo Volpe
Lo spettacolo
Re Lear è una storia di “perdite”.
Perdita della ragione, perdita del Regno, perdita della fraternità.
Non resta che vivere in una tempesta. Ma la tempesta di Lear è la tempesta della sua mente. La tempesta della mente dell’umanità, la morte dell’uomo che ha abbandonato il suo Essere. Ed ora vive il suo non-Essere nella Tempesta della mente, nella Tempesta che lo travolge. E tutti sono travolti. Tranne colui che più degli altri ha sofferto e può “essere-Re” della sofferenza come percorso di conoscenza. Gabriele Lavia
Crediti
scene Alessandro Camera
costumi Andrea Viotti
luci Giuseppe Filipponio
musiche Antonio Di Pofi
suono Riccardo Benassi
assistenti alla regia Matteo Tarasco, Enrico Torzillo
assistente alle scene Michela Mantegazza
assistente ai costumi Giulia Rovetto
suggeritore Nicolò Ayroldi
foto di scena Tommaso Le Pera
produzione Teatro di Roma – Teatro Nazionale, Effimera s.r.l, LAC – Lugano Arte e Cultura
Info e orari
prima, martedì, venerdì, mercoledì 27 novembre e giovedì 12 dicembre ore 20.00
mercoledì e sabato ore 19.00
giovedì e domenica ore 17.00
lunedì riposo
INFO BIGLIETTERIA
Teatro Argentina – Largo di Torre Argentina
Biglietteria aperta dal lunedì al sabato dalle ore 11.00 alle ore 19.00 e la domenica tre ore prima dell’inizio dello spettacolo. In assenza di spettacolo la domenica la biglietteria resterà chiusa. (biglietteria@teatrodiroma.net – tel. 06 684000311/314)
Nella biglietteria è sempre possibile acquistare i biglietti per tutti gli spettacoli del Teatro di Roma in programmazione.
La biglietteria, come consuetudine, si dedicherà da un’ora prima dell’inizio degli spettacoli alla sola vendita dei biglietti degli spettacoli in scena. La biglietteria è dotata di terminale POS.
Biografia di Gabriele Lavia
Nasce a Milano da genitori siciliani, ma cresce a Torino, dove il padre — dipendente del Banco di Sicilia — era stato trasferito per lavoro dopo il breve lasso di tempo trascorso nel capoluogo lombardo.[1] Figura tra le più rappresentative del teatro italiano degli ultimi quarant’anni, debutta come attore teatrale nel 1963 dopo il diploma all’Accademia nazionale d’arte drammatica. Si rivela al grande pubblico recitando nello sceneggiato televisivoMarco Visconti (con Raf Vallone e Pamela Villoresi), per la regia di Anton Giulio Majano, nella parte di Ottorino Visconti. Ha preso altresì parte allo sceneggiato Aut Aut – Cronaca di una rapina (1976), interpretando un rapinatore protagonista di un colpo a una banca.
Misakh Metzarents, l’eterno talento della poesia armena
– Pangea-Rivista avventuriera di cultura & idee
Il Poeta armeno Misakh Metzarents -Ogni paese si rispecchia nel bambino d’oro, l’infante che divora tutti i doni nell’arco di una stagione, il poeta perpetuamente giovane, che svanisce, in un lascito di nostalgia, dissipato dalle sue ispirazioni. Che sia Thomas Chatterton o John Keats, Novalis o Antonia Pozzi, Rimbaud – che muore alla poesia poco più che ventenne – o Shelley o Sergej Esenin, poeti dai tratti sempre inediti, vigorosi di una solitudine del sangue, tra il capriccio e l’estasi. Stagliati in teca, questi poeti dalla giovinezza infinita, a monito, moneta di scambio per popoli dalla creatività disseccata, sempre troppo precoci, cioè troppo ingenui. Tanto al di là da trovarteli sotto al letto, coi coltellini in tasca.
Per l’Armenia, il poeta per sempre bambino, rovinato da una tragedia che diventa lirica, si chiama Misakh Metzarents. Nato nel gennaio del 1886, è stato di recente onorato con un francobollo celebrativo, quasi che, addentellato, pronto per l’affrancatura, il poeta sia più potente e prono alla patria, nella zona franca di chi può tutto e nulla. La vita di Metzarents è priva di eventi clamorosi, di ornamenti che diano al profilo onore di leggenda: tutto, in lui, è lotta con il male, la tisi, che comincia ad agguantarlo quattordicenne. Nel 1902, dopo gli studi presso il collegio di Merzifon, il ragazzo si trasferisce a Costantinopoli: si orienta alla poesia, pronto a recintare in verbi i singoli sintagmi dell’anima, con talento da paesaggista.
Il ragazzo, roso dall’infermità, amante della poesia simbolista francese, muore nell’estate del 1908, a 22 anni. L’anno prima, riesce a pubblicare due raccolti di versi, Tziatzan (“Arcobaleno”) e Nor Tagher (“Odi nuove”), accolte con stupore: c’è chi, in questi versi devoti e ‘moderni’, rintraccia una specie di eversione. Con delicata furia, Misakh porta la poesia armena nella modernità; devoto a Gregorio di Narek, il grande monaco-poeta armeno vissuto intorno al Mille, scrive salmi di irrequieta limpidezza. Ecco, ad esempio, alcuni versi da Madre di Dio:
“Ecco mi accingo ad arrampicarmi sul monticello del mio dolore;
dissipa tu le nuvole dalla via di madreperla dei sogni…
Nella notte discende ancora il ruscello di luce,
una goccia di latte della tua santità divenuta un mare;
e vedi, o Madre di Dio, ecco sto diventando bambino!
e vedi, sto diventando bambino in mezzo alla notte,
in cui sentii discendere la divina voce,
che echeggiava per la mia anima permeata da Dio”.
Nel volumeLa mistica cristiana (Mondadori, 2020), Boghos Levon Zekiyan installa Misakh Metzarents tra gli ultimi protagonisti della Mistica armena: “Anima di una sensibilità assai delicata ed elevata, di una religiosità consapevole e profonda, è autore di composizioni che, oltre all’altissimo valore poetico, sono intrise di un vissuto religioso così singolare e originale da rasentare lo spessore di un’esperienza mistica vera e propria”.
In Metzarents le immagini liriche sembrano acqua tra le dita, riflessi che danno l’idea di un falò, chiostri in assedio, il tempo in un elmo: tutto è trasfigurato dalla disciplina della solitudine, da una riservatezza senza riserve, una preparazione all’addio in danza, potremmo dire, avvento di contrari venti. D’altronde è questo il genio dei poeti morti giovani: si giunge all’appuntamento con loro in ritardo di un secolo; la giacca sull’attaccapanni sembra appartenergli, la riconosci dai polsi e dai bottoni, ma è preparata per te, perché non ti turbi il tormento, il freddo di un oggi con le chele.
Veglia domenicale
Della sera che lentamente fugge è gioiosa la luce purpurea.
Fili d’oro avvolti nella nebbia di velluto dell’incenso,
frange azzurre, l’arcobaleno, voci fluttuanti, una mistica rosa,
lacrime di luce dei ceri che nella quiete si consumano.
La mia anima, assetata d’incenso, s’imbeve dell’attimo quieto,
mentre oscillano i turiboli dagli occhi oro fuoco.
Un torpore d’incanto mi lascia là immobile,
sento il bacio del tulle di zaffiro che l’animo mi avvolge.
Tinte di ametista ungono le volute dell’incenso,
m’inginocchio al mistero le braccia incrociate,
e attendo che spunti dalla mia anima la domenica di luce.
Tutto di smeraldo e di rubino è ora il sogno delle fiaccole,
dagli archi, dall’altare spuntano luce e risa,
adagio la mia anima in questo meraviglioso sogno si tuffa.
Della sera che lentamente fugge, è gioiosa la luce purpurea.
Traduzione di Boghos Levon Zekiyan
*
La sera
Come una ragazza che cammina sotto i pini
che va dove soffia la brezza serale
presso un bosco di melograni in fiore
la sera passa, il giorno si allontana.
Cade la sera come un fiore appassito
in varie sfumature di blu, cammina,
muore lentamente, si piega,
fragile stame di speranza, luce che fluttua infima.
Poi è buio: come la mia anima, incassata
nella solitudine, che fermenta nell’oscurità –
la lampa dei sogni si è sbriciolata, tempo fa,
abbandonando lo spirito sotto la pioggia –
cerca una casa.
*
Canto d’amore
Il vento ha sentimento sufficiente
per illuminare i fiori
piccole torce di luce.
Questa notte la festa illumina le strade
dolce è il balsamo, dolce hashish
nel vento – ne divento ebbro.
Come baci i fiori riempiono il tempo
con petali e semi – tutto è in eccesso
tutto è nel delirio
ma a me manca il solo bacio che desidero.
*
Se potessi conservare qualcosa
terrei quest’ora come un pezzo di me;
distillerei questa singola ora
come fosse un’essenza;
se potessi scegliere, vorrei
che questa singola ora
diventasse tutta la mia vita –
confuso e benedetto,
potrei scrivere per sempre
di questa singola ora con te
e lucidare nel suo lavacro
la mia esistenza, purificato
finalmente di tutto.
*
L’acqua scorre
Barba d’argento sul fiume
che sbatte contro le rocce sterili:
sboccia nel golfo dove l’acqua
è calda e il sole è un nascituro.
I montanari si arrampicano oltre
il villaggio dai ponti sospesi.
Nel cortile del monastero anche
gli alberi si chinano in preghiera.
Il silenzio inghiotte le lacrime del mattino:
questo è il momento in cui bagnano gli orti
e i novizi restano in piedi, in piena luce.
Le chiuse vengono aperte, le vanghe
incurvano il corpo serpentino delle acque.
Le pale girano senza fermarsi, come richiami:
una ragazza intona una canzone – un giorno
si scoprirà donna. La terra mette una mano
sulla bocca del fiume, che chiacchiera ancora:
soltanto lo stolto si lamenta in anticipo
del suo futuro.
*
Delirio
Buio costruito ad arte dalla strega: sono
in delirio – è Amore che mi crolla sul corpo –
un frutto fatato innesta nell’anima
ricordi che voglio dimenticare.
Le luci si spengono ma io amo
la tenebra che fa germinare agonia:
il dolore è largo, è un lago, ed espelle
il mio cuore – berrò il nero calice della vita triste.
È troppo buio e non posso più sognare:
smetto di vogare intorno ai miei amori.
Gli occhi hanno unghie, lampi d’alba
ed è lì che le mie pene, selvagge, si consumano.
*
Le api
I miei desideri sono api:
scavano cinture d’oro
fanno piovere
i loro favi, volano, sciamano,
ronzano, riempiono il sentiero,
strappano il velo della nebbia
ricamato e trasparente
ovunque portano il sole.
Misakh Metzarents
Fonte-Pangea-Rivista avventuriera di cultura & idee
Misak Metsarents or Medzarents (Armenian: ; 18 January 1886 – 5 July 1908) was a leading Armenianneo-romantic poet.
Biography
Misak Metsarents was born Misak Metsadourian in the village of Pingian [hy], near Agn in the Vilayet of Kharpert. In 1886, he moved with his family to Sepastia, where he attended the Aramian School. Until 1902, he attended the Anatolia Boarding School in Marzvan, which was run by American missionaries. From 1902 to 1905, he attended the Central School in Constantinople. However, tuberculosis forced him to leave his education, and he later died from the ailment July 5, 1908, at the age of 22.[1]
Poetry
Metsarents began writing in 1901, with his first verses published in 1903. He also collaborated with many Armenian publications such as “Masis”, “Hanragitak”, “Eastern Press”, “Light”, “Courier”, “Manzumei Efkiar”, “Buzandion”.[2] Much of his poetry discussed the despair of his inevitable mortality.
Legacy
The poet enriched Armenian poetry with his lyrical and genuine masterpieces, although Metsarents only managed to publish two volumes of poetry in his lifetime: “Dziadzan” (Rainbow) (1907) and “Nor dagher” (1907). He was commemorated in 2012 by his portrait appearing on an Armenian postal stamp.[3]
Nazionale e internazionale nei Quaderni del carcere
Gramsci rigetta l’interpretazione meccanicista del marxismo secondo la quale dal cosmopolitismo preborghese si potrebbe giungere all’internazionalismo solo passando attraversando la tappa intermedia del nazionalismo; in presenza di una cultura cosmopolita tale passaggio sarebbe, in effetti, anacronistico, antistorico e persino contrario alla cultura nazionale.
Articolo di Renato Caputo -Come fa notare Antonio Gramsci, gli Stati subalterni non sono in grado di portare avanti una politica autonoma sul piano internazionale e finiscono, così, per divenire pedine delle grandi potenze [1]. Più in generale, ogni analisi della politica di un paese non potrà, dunque, prescindere dai rapporti delle forze internazionali, ovvero dalla posizione occupata in un sistema egemonico che rende più o meno effettuale l’indipendenza e la sovranità nazionale. Sebbene la struttura sociale di un paese determini la sua posizione nel contesto internazionale, quest’ultima reagirà a sua volta “sulla vita economica immediata di una nazione” (13, 2: 1562). Perciò, come osserva Gramsci, la “differenza di processo nel manifestarsi dello stesso sviluppo storico nei diversi paesi è da legare non solo alle diverse combinazioni dei rapporti interni alla vita delle diverse nazioni, ma anche ai diversi rapporti internazionali” (19, 24: 2033).
Nei paesi internazionalmente subordinati la classe dominante tenderà a sfruttare tale situazione dando a credere “tecnicamente impossibile” (13, 2: 1562) ogni rivolgimento strutturale. Dunque, come osserva Gramsci, al contrario di quanto l’ideologia dominante vuol dare a intendere, non è il partito internazionalista a subordinare le esigenze nazionali alla politica sovranazionale, ma piuttosto “il partito più nazionalistico, che, in realtà, più che rappresentare le forze vitali del proprio paese, ne rappresenta la subordinazione e l’asservimento economico alle nazioni o a un gruppo di nazioni egemoniche” (ivi, 1562-563).
Del resto, uno sviluppo determinato da direttive internazionali, che non muova dalla soluzione dei bisogni nazionali, costituisce un ostacolo allo sviluppo del paese poiché è funzionale “a creare l’equilibrio di attività e di branche di attività non di una comunità nazionale” (3, 118: 386), ma di un mercato internazionale subordinato agli interessi delle potenze dominanti. La condizione di subalternità di uno Stato non fa che accentuarne la condizione “di arretratezza e di stagnazione” (13, 13: 1574). Persino un grande fenomeno culturale sviluppato sul terreno nazionale, come per esempio il Rinascimento, finisce per essere in tale caso fonte di progresso all’estero dove “è vivo [nelle coscienze] dove ha creato correnti nuove di cultura e di vita, dove è stato operante in profondità”, piuttosto che in patria “dove è stato soffocato senza residuo altro che retorico e verbale e dove quindi è diventato oggetto di «mera erudizione», di curiosità estrinseca” (3, 144: 401).
La debolezza sul piano internazionale può divenire uno strumento di egemonia della classe dominante che la utilizza per frenare ogni intervento attivo sul piano politico delle forze nazional-popolari (cfr. 19, 24: 2034) [2]. L’ideologia dei ceti dominanti nei paesi subalterni tenderà a giustificare come “«originalità nazionale»” tale condizione di sovranità limitata e di arretratezza “semifeudale” (13, 13: 1575), facendo credere “tecnicamente impossibile” (13, 2: 1562) ogni rivolgimento strutturale.
Al contrario le forze progressiste, secondo Gramsci, dovranno favorire l’assunzione delle più avanzate forme di governo sviluppate a livello internazionale [3], quale unica strada, come via maestra per condurre un paese subalterno a una effettiva indipendenza nazionale. Del resto, a parere di Gramsci, il consolidarsi del processo rivoluzionario in un paese può contribuire a creare condizioni internazionali favorevoli che possono contribuire all’espansione della Rivoluzione in paesi in cui le forze progressive sono “scarse e insufficienti di per sé (tuttavia ad altissimo potenziale perché rappresentano l’avvenire del loro paese)” (14, 68: 1730).
D’altra parte la stessa possibilità di un profondo mutamento delle condizioni storico-politiche nazionali è strettamente dipendente dall’“equilibrio delle forze internazionali” (6, 78: 746). A seconda delle fasi storiche esse possono essere di freno o di decisivo supporto alle forze progressive nazionali. È, dunque, indispensabile disporre d’una “forza permanentemente organizzata” in grado di “inserirsi efficacemente nelle congiunture internazionali favorevoli” (13, 17: 1589). Per esempio, mentre l’arretratezza italiana era in parte dovuta all’essere divenuta terra di conflitto di potenze internazionali, la Rivoluzione francese e le guerre napoleoniche hanno un ruolo decisivo per il nascere della nazione, consentendo il sorgere dell’“interesse politico e nazionale alla piccola borghesia e ai piccoli intellettuali” (ibidem). In altri termini, il Risorgimento italiano sarebbe impensabile senza “i fattori internazionali e specialmente la Rivoluzione francese” che, logorando le forze regressive, “potenziano per contraccolpo le forze nazionali in se stesse scarse e insufficienti” (19, 3: 1972). È la trasformazione del contesto internazionale che è al fondamento e permette di comprendere il “processo di formazione delle condizioni e dei rapporti internazionali che permetteranno all’Italia di riunirsi in nazione” (19, 2: 1963). Tuttavia, se nella realizzazione di un evento storico come il Risorgimento “tra l’elemento nazionale e quello internazionale dell’evento, è l’internazionale che ha contato di più” (3, 38: 316) il nuovo Stato sarà privo di autonomia politica sul piano internazionale. La mancata partecipazione popolare al Risorgimento rende “meschina” la vita politica italiana sino al novecento e indebolisce “la posizione internazionale del nuovo Stato, privo di effettiva autonomia perché minato all’interno dal Papato e dalla passività malevola delle grandi masse” (19, 28: 2054).
Così mentre nelle nazioni in cui vi è stato uno sviluppo organico delle energie nazionali, si proiettano all’esterno in “funzione di irradiazione internazionale e cosmopolita”, ossia in funzione dell’espansione dell’egemonia e del proprio dominio imperialistico, i paesi privi di un tale sviluppo si proiettano all’esterno attraverso un’emigrazione “che non refluisce sulla base nazionale per potenziarla” (12, 1, 1524-525), ma concorre a render impossibile il costituirsi d’una coscienza nazionale e di una salda base nazionale.
Il ruolo subordinato a livello internazionale produrrà l’emigrazione della forza lavoro manuale e degli intellettuali verso le nazioni dominanti, il che rappresenta secondo Gramsci “una critica reale” (2, 137: 272) alla debolezza nazionale della classe alla classe dominante, incapace di adempiere alla propria funzione di direzione nazionale. Ciò ha fatto sì che tanto gli intellettuali, “rappresentanti la tecnica e la capacità direttiva”, siano andati ad arricchire nazioni straniere col loro contributo, sia che la forza-lavoro nazionale sia andata “ad aumentare il plusvalore dei capitalismi stranieri”, in modo che “questi elementi sono andati perduti in grandissima parte, incorporandosi nelle nazionalità straniere in funzione subalterna” (3, 117: 385).
Gramsci rigetta l’interpretazione meccanicista del marxismo secondo la quale dal cosmopolitismo preborghese si potrebbe passare all’internazionalismo solo attraversando la tappa intermedia del nazionalismo. In presenza di una cultura cosmopolita tale passaggio sarebbe infatti “anacronistico e antistorico” (9, 127, 1190) e persino contrario alla cultura nazionale [4]. Tanto che Gramsci considera il nazionalismo, in un paese come l’Italia, un’“escrescenza anacronistica” nella sua storia, “di gente che ha la testa volta all’indietro come i dannati di Dante” (ibidem). Al contrario la missione di civiltà del popolo italiano “è nella ripresa del cosmopolitismo romano e medioevale, ma nella sua forma più moderna e avanzata” (ibidem).
Note:
[1] Come avviene spesso, Gramsci si serve di esempi tratti dalla storia nazionale e dal principale pensatore politico italiano: “bisogna ricordare che il Machiavelli sentiva che non era Stato il Comune o la Repubblica e la signoria comunale, perché mancava loro con il vasto territorio una popolazione tale da essere la base di una forza militare che permettesse una politica internazionale autonoma: egli sentiva che in Italia, col Papato, permaneva una situazione di non-Stato e che essa sarebbe durata finché anche la religione non fosse diventata «politica» dello Stato e non più politica del Papa per impedire la formazione di forti Stati in Italia intervenendo nella vita interna dei popoli da lui non dominati temporalmente per interessi che non erano quelli degli Stati e perciò erano perturbatori e disgregatori” Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, edizione critica a cura di Valentino Gerratana, Einaudi, Torino 1977, p. 658. D’ora in poi citeremo quest’opera fra parentesi tonde direttamente nel testo, indicando il quaderno, il paragrafo e il numero di pagina di questa edizione.
[2] Interessante quanto osserva Gramsci sull’importanza del piano internazionale nel risorgimento italiano: “i rapporti internazionali hanno certo avuto una grande importanza nel determinare la linea di sviluppo del Risorgimento italiano, ma essi sono stati esagerati dal partito moderato e da Cavour a scopo di partito. È notevole, a questo proposito, il fatto di Cavour che teme come il fuoco l’iniziativa garibaldina prima della spedizione di Quarto e del passaggio dello Stretto, per le complicazioni internazionali che poteva creare e poi è spinto egli stesso dall’entusiasmo creato dai Mille nell’opinione europea fino a vedere come fattibile una immediata nuova guerra contro l’Austria” (19, 24: 2034).
[3] Come osserva Gramsci: “una ideologia, nata in un paese più sviluppato, si diffonde in paesi meno sviluppati, incidendo nel gioco locale delle combinazioni” (13, 17: 1585).
[4] Come osserva Gramsci a tal proposito: “che il moto nazionale dovesse reagire contro le tradizioni e dare luogo a un nazionalismo da intellettuali può essere spiegato, ma non è una reazione organico-popolare. Del resto, anche nel Risorgimento, Mazzini-Gioberti cercano di innestare il moto nazionale nella tradizione cosmopolita, di creare il mito di una missione dell’Italia rinata in una nuova Cosmopoli europea e mondiale, ma è un mito puramente verbale e cartaceo, retorico, fondato sul passato e non sulle condizioni del presente, già esistenti o in processo di sviluppo. Perché un fatto si è prodotto nel passato non significa che si produca nel presente e nell’avvenire; le condizioni di una espansione italiana nel presente e per l’avvenire non esistono e non appare che siano in processo di formazione. L’espansione moderna è di origine capitalistico-finanziaria. L’elemento «uomo», nel presente italiano, o è uomo-capitale o è uomo-lavoro. L’espansione italiana è dell’uomo-lavoro non dell’uomo-capitale e l’intellettuale che rappresenta l’uomo-lavoro non è quello tradizionale, gonfio di retorica e di ricordi meccanici del passato” (9, 127: 1190-191).
Fonte -Ass. La Città Futura-Articolo di Renato Caputo
-Claribel Alegrìa poetessa e scrittrice nicaraguense-
Claribel Isabel Alegría Vides, nota semplicemente come Claribel Alegría (12 maggio 1924 – 25 gennaio 2018), era una poetessa, giornalista e scrittrice nicaraguense autrice anche di alcuni saggi, considerata con la connazionale Gioconda Belli la maggiore esponente della letteratura del Centro America. Nata a Estelí, una piccola città del Nicaragua, crebbe tuttavia a Santa Ana, nel Salvador. Nel 1943 si trasferì negli Stati Uniti per studiare e nel 1948 ricevette il B.A. (Bachelor of Arts), cioè la laurea, in Filosofia e Letteratura alla prestigiosa George Washington University di Washington.Tornata in patria, legandosi al Fronte Sandinista di Liberazione Nazionale, d’ispirazione marxista, fu coinvolta nelle proteste nonviolente contro la dittatura del Presidente Anastasio Somoza Debayle. Nel 1979 Somoza cadde e il Fronte prese il potere in Nicaragua, ma Alegría, che nel frattempo aveva iniziato la propria carriera di poetessa, scrittrice, giornalista e saggista, decise di tornarvi solo nel 1985. Attualmente viveva nella capitale Managua. Scrittrice popolare in tutta l’America Latina, riflette uno stile che, a differenza di molti autori americani o europei, non è ripiegato su una lunga tradizione letteraria. Identificata come un’autrice della generación comprometida, poetessa severa e critica, a volte pessimista, in un classico umore mutevole come mutevole è la situazione politica del Centro America, Claribel Alegría usava nelle sue poesie il linguaggio comune, del popolo, e spesso una sua composizione non supera la decina di versi. Ha scritto anche romanzi, racconti e storie per bambini. Nel 1978 ha ricevuto a Cuba il Premio “Casa de las Américas”, il più prestigioso riconoscimento letterario del Centro America, e il “Neustadt International”.
Cuando me mates / muerte / tu te habiás evaporado / para siempre / yo / saltaré sobre mi cuerpo / y seguiré viviendo” (Quando mi ucciderai / morte / tu evaporerai / per sempre / io /
salterò sul mio corpo / e continuerò a vivere“
Quel bacio
Quel bacio di ieri mi ha
aperto la porta
e tutti i ricordi
che credevo fossero fantasmi
si sono ostinati
a mordermi.
La voce del ruscello
Torno verso il mare
è lì che nacqui
mi accolse una roccia
quando saltai sulla terra.
Scendo piano
mi trattengo nel muschio
tra i fiori selvatici
scendo a cercare il fiume
che mi riporti al mare.
Il mio vicino
il torrente
non sa che io esisto
brama
salta
riempie canali
scoppia
anche lui cerca il fiume
dissolversi nel fiume
che mi riporti al mare
perché il mare ci aspetta
perché il mare è la culla
perché siamo il mare.
Io sono un gabbiano
Sono un gabbiano
solitario
con l’ala spezzata
faccio un solco nella sabbia.
Inconfondibile
è la voce
che mi insegue
che non si scolla da me
che tesse insonnie.
Come la pioggia
cade
come il vento
solo questa voce ascolto
mi possiede
lascia cadere avanzi di pane
e fugge via.
(da ‘Voci‘, Samuele Editore, 2015 – Traduzione di Zingonia Zingone)
Claribel Alegría
Cos’è poesia?Ce lo ricorda Claribel Alegría
Di: Mattia Cavadini
Capita a volte, invero raramente, di imbattersi in una successione di frasi o versi di una bellezza e potenza inaudite. Penso ad alcune poesie di Rilke, qualche verso del Montale di Xenia, alcune figurazioni dantesche, brevi illuminazioni rimbaudiane, l’incanto di Wordsworth o i sassolini naif che Walser lascia cadere nel suo camminare in prosa.
Questo catalogo è inviolabile, emana una luce abbacinante, e non sopporta volgarizzazioni. In esso entrano pochi nomi, per cui quando capita di imbattersi in nuovi cristalli verbali che possano essere annoverati nel catalogo, ecco che si sobbalza sulla sedia, si freme, si sorride e si piange di commozione. È quanto mi è successo ultimamente, leggendo la prima parte del poema Amore senza fine (edizioni Fili d’Aquilone) di Claribel Alegría, poetessa nicarguense di cui ignoravo l’esistenza.
E allora mi sono domandato: come è possibile che determinati autori riescano a generare cristalli verbali così potenti? La sensazione è che questi momenti poetici non appartengano a colui o colei che li ha generati. Essi sembrano piuttosto superare non solo l’autore ma anche la realtà in cui sono nati. Sono, questi cristalli, l’indizio di ciò che può essere fatto senza che l’autore possa rivendicarne il dominio o la paternità. Ma allora, se non è l’autore che parla in questi momenti ieratici, chi sta parlando? Leggendo la sezione La soglia del poema di Claribel Alegría ho avuto la sensazione (come per gli altri cristalli verbali) che i suoi versi custodissero il fiato di una bocca ignota, fossero il riflesso immateriale in cui si specchiano i segreti del mondo.
n questi cristalli verbali si ha la sensazione che lo scrittore non scriva, ma che sia scritto. O meglio, che scriva parole ricevute, parole che provengono da un altro. Non a caso Rimbaud diceva: C’est faux de dire: Je pense; on devrait dire: On me pense. Stessa cosa ribadiva Jung a proposito del pensiero primitivo: La mentalità primitiva si distingue da quella civilizzata soprattutto per il fatto che non si pensa “coscientemente”, ma i pensieri semplicemente “affiorano”. Il primitivo non può dire che pensa, bensì che “in lui si pensa”.
Purtroppo nel mondo odierno questo tipo di scrittura non esiste più. Gli scrittori oggi sembrano poco disposti a farsi da parte e a lasciare che sia l’altro a scrivere al proprio posto. Eppure, come suggeriva Barthes, scrivereimplica necessariamente tacere: scrivere è in un certo modo “farsi muto come un morto”, diventare uno cui non è consentita l’ultima replica; scrivere è dal primo momento offrire all’altro quest’ultima replica. In altre parole: solo facendo olocausto di sé e delle cose stabilite, lo scrittore può servire una realtà sconosciuta ed invisibile (rovina di ciò che egli conosce e meraviglia di ciò che ignora). Solo cercando ciò che si perde, ciò che è al di là dei propri confini, è possibile essere messaggeri dell’infinito.
Perdendosi, il poeta si scopre radunatore di miti, eco dello spirto. Dante lo sapeva bene, quando invocava: entra nel petto mio, e spira tue o quando ribadiva: Amor che ditta dentro. Stessa cosa diceva Platone, allorché affermava che per bocca dei poeti, privati del senno e della volontà, parlava la divintà. Peccato che tale scrittura sia andata scomparendo e grazie a Claribel Alegría per avermi ricordato ciò che è Poesia: la trascrizione di cristalli verbali ricevuti dal cielo, e, in assenza di questi messaggi, il silenzio.
Claribel Alegría- La poesia è puro amore
Di: Gianni Beretta
Resisterà la poesia in un mondo caotico, sempre più razionale e virtuale, piegato al dio denaro? Per Claribel Alegría, tra i magigiori poeti latinoamericani, assolutamente sì. Per lei, che ci ha lasciti il 25 gennaio 2018, la poesia era qualcosa di antecedente il linguaggio: da quando esiste l’homo sapiens, quando una mamma coccola e canta per il suo bambino, fa poesia; la poesia è nel profondo dell’essere umano, che scriva o no. Il 14 novembre 2017 Claribel ha ricevuto dalle mani della regina emerita Sofia di Spagna la massima onorificenza per la Poesia Iberoamericana 2017 (l’equivalente del Miguel de Cervantes per la letteratura), onorificenza attribuitale dalla prestigiosa Università di Salamanca (che in passato aveva insignito poeti del calibro di Álvaro Mutis, Juan Gelman e María Victoria Atencia).
Nata il 12 maggio 1924 in Nicaragua, da madre salvadoregna e padre nicaraguense, Claribel Alegría trascorre la sua infanzia e adolescenza in El Salvador. Per poi andare a studiare lettere e filosofia alla George Washington University.
Claribel Alegría incomincia a scrivere poesie molto presto, a 14 anni, ispirata dalla lettura di un grande vate: il ceco Rainer Maria Rilke. E il suo primo maestro (severo e rigoroso, dice di lui con gratitudine) è il poeta spagnolo e nobel per la letteratura Juan Ramon Jimenez.
La sua è una poetica eminentemente lirica, in un istmo centroamericano fecondo in quanto a narrativa e poesia, avendo dato i natali a grandi letterati come Rubén Darío (in Nicaragua), Miguel Ángel Asturias (in Guatemala) e Roque Dalton (in El Salvador).
Claribel fin dall’inizio pone al centro della sua opera l’amore, nelle sue diverse manifestazioni, a immagine del suo profondo amore verso la vita intera. La sua poesia non si arresta, infatti, di fronte al negativo ma si dispone con lo stesso amore e con la stessa partecipazione sia alla gioia che al dolore, sia alla nascita che al tramonto, sia alla presenza che all’assenza.
La Rivoluzione Cubana del 1959 le apre gli occhi sulla realtà sociale dei paesi centroamericani, allora oppressi sotto il giogo di dittature oligarchico-militari. La forza della rivoluzione le dimostra che la cogenza storica e sociale (che a prima vista potrebbe sembrare ineluttabile e priva di futuro) può essere cambiata. Cominciai a scrivere oltre il mio ombelico, afferma Claribel, che ciononostante preferisce tenersi alla larga dal poema politico e di denuncia (e, più in generale, dalla letteratura impegnata): la poesiaè scrivere e riscrivere al meglio un poema;non deve fare compromessi né essere al servizio di nessuno. E, a coloro che ritengono che i suoi sarebbero talvolta versi politici, risponde: la mia poesia è puro amore verso la mia gente.
Claribel ha scritto pure diverse novelle insieme al suo compagno di vita: Darwin Flakoll, detto Bud, suo coetaneo, determinante nella sua opera e ispirazione poetica. Insieme hanno vissuto a Città del Messico, Santiago del Cile, Buenos Aires, Montevideo e Parigi. Per poi ritirarsi a Mayorca, a fianco dell’abitazione dello scrittore Robert Graves.
Julio Cortázar, Mario Benedetti, Eduardo Galeano, Vargas Llosa, Carlos Fuentes fra gli altri, erano di casa da loro nell’isola. Così come erano altrettanto di casa a Managua quando Claribel e Bud si trasferirono definitivamente in Nicaragua nel 1982, in piena Rivoluzione Popolare Sandinista.
Con Bud (scomparso nel 1995) aveva un rapporto che, se possibile, veniva prima dei sentimenti che nutrivano verso i loro quattro figli. Mi chiedono spesso, afferma Claribel, quale sia il segreto per un amore duraturo. Rispondo che oltre all’amore ci deve essere una grande amicizia. Senza amicizia l’amore appassisce. Per Claribel Alegría dunque l’amore “eterno” esiste, e lei ha avuto il privilegio di viverlo.
La parola è un’ossessione per Claribel, che considera la poesia un esercizio ben più arduo della prosa: ho passato notti insonni per trovare la parola giusta di un verso. Claribel Alegría ha pubblicato una ventina di libri di poesie, fra cui: Variaciones en clave de mí, Sobrevivo, Umbrales, Saudade, Soltando amarras… In italiano sono stati tradotti Alterità (Incontri Editrice 2012) e Voci (Samuele Editore 2015), oltre alla novella Ceneri d’Izalco (Incontri Editrice 2011) scritta nel 1966 con il marito Darwin Flakoll. E il poemaAmore senza finededicato al suo Bud: sessantuno pagine fitte di versi dove Claribel compie un dolce e misterioso viaggio nell’aldilà, un viaggio che supera il tempo e la morte.
Un mito greco, nella Mitologia, attribuisce ad Atena la creazione del primo Olivo che sorse nell’Acropoli a protezione della città di Atene.
La leggenda racconta che Poseidone ed Atena, disputandosi la sovranità dell’Attica, si sfidarono a chi avesse offerto il più bel dono al Popolo. Poseidone, colpendo con il suo tridente il suolo, fece sorgere il cavallo più potente e rapido, in grado di vincere tutte le battaglie ; Atena, colpendo la roccia con la sua lancia , fece nascere dalla terra il primo albero di Olivo per illuminare la notte, per medicare le ferite e per offrire nutrimento alla popolazione.
Zeus scelse l’invenzione più pacifica ed Atena divenne Dea di Atene. Un figlio di Poseidone cercò di sradicare l’albero creato da Atena, ma non vi riuscì, anzi si ferì nel commettere il gesto sacrilego e morì. Al British Museum di Londra si può ammirare una scultura del frontone occidentale del Partenone, dove l’artista Fidia ha rappresentato questo episodio mitologico. Secondo una leggenda riferita da Plinio e da Cicerone, sembrerebbe che sia stato Aristeno lo scopritore dell’Olivo e l’inventore del modo di estrarre l’olio all’Epoca fenicia. Lo stesso Plinio, invece, su altri suoi scritti, parlando dell’Italia, racconta che l’Olivo fu introdotto da Tarquinio Prisco quinto Re di Roma, questa ipotesi è la più verosimile visto che le più antiche tracce archeologiche finora raccolte sull’olivicoltura in Etruria risalirebbero al VII sec. a.C., descrivendo ben 15 metodi di coltivazione di questa pianta, che, ai suoi tempi, rappresentava già la base di importanti attività economiche e commerciali. L’olivicoltura era molto diffusa al tempo di Omero; l’Iliade e l’Odissea narrano spesso dell’Olivo e del suo Olio. A Roma l’Olivo era dedicato a Minerva e a Giove. I Romani, pur nella loro praticità di considerare l’Olio d’Oliva come merce da esigere dai vinti, da commerciare, da consumare, mutuarono dai Greci alcuni aspetti simbolici dell’olivo. Onoravano i Cittadini illustri con corone di fronde di Olivo; così pure gli sposi il giorno delle nozze e della loro prima notte nunziale; ed infine i morti venivano inghirlandati per significare di essere dei vincitori nelle lotte della vita umana. Nell’area islamica molte leggende fanno riferimento all’Olivo e al suo prodotto; tra le tante storie si vuole ricordare quella di Alì Babà ed i suoi 40 ladroni nascosti negli otri che dovevano contenere Olio di Oliva.
Il quadro allegato rappresenta Dispute de Minerve et de Neptune, (1748)-Louvre,Parigi-
“… e Atena ottenne di governare sull’Attica, poiché aveva fatto a quella terra il dono migliore, quello dell’ulivo……”
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