Riccardo Zandonai Musicista (Sacco, Trento, 1883 – Pesaro 1944). Riccardo Zandonai studiò a Rovereto con V. Gianferrari e a Pesaro con P. Mascagni. Esordì (1902) con un poema sinfonico: Il ritorno di Odisseo per soli, coro e orchestra. Scriveva intanto romanze e altri pezzi il cui pregio gli procurò da Ricordi la commissione d’una opera: Il grillo del focolare (1908). Musicista di facile vena, sensibile all’influsso di R. Strauss, di G. Puccini, ecc., scrisse numerose opere e composizioni d’altro genere, tra le quali emergono: Conchita (1911), Melenis (1912), Francesca da Rimini (1914), l’opera più celebre di Z., La via della finestra (1915), Giulietta e Romeo (1921), I cavalieri di Ekebù (1925), Giuliano (1928), Una partita (1933), La farsa amorosa (1933), oltre i lavori sinfonici: Primavera in Val di Sole, e Patria lontana (1914-18), Ballata eroica (1929), Quadri di Segantini (1930), Concerto romantico per violino (1919), Serenata medioevale per violoncello e strumenti (1909), Concerto andaluso per violoncello (1934), e varie liriche per canto e pianoforte e canto e orchestra.
-articolo di Piero TORRIANO scritto per la Rivista PAN n°5 del 1934-
Biografia di Alberto Salietti (Ravenna, 1892 – Chiavari, 1961) è stato un pittore italiano.
Alberto Salietti-Nasce a Ravenna il 15 marzo 1892, figlio e nipote di decoratori murali. Dopo aver iniziato a lavorare con il padre, frequenta fino al 1914 l’Accademia di Brera, ove ha come maestri Cesare Tallone e Mentessi.
Dopo aver partecipato alla Prima guerra mondiale, riprende la sua attività, esponendo dal 1920 alle Biennali di Venezia (nel 1942, ricevendo il Gran Premio per la pittura). Altre esposizioni: l’Internazionale di Barcellona, 1929; l’Internazionale di Budapest, 1936; la Mostra dell’Istituto Carnegie di Pittsburg, 1936; l’Esposizione mondiale di Parigi, 1937; la II e III Quadriennale Roma; la mostra La Bella Italiana, a Milano, nel 1952; il Premio Marzotto, nel 1955 e 1956; il Premio Garzanti nel 1957; il Premio del Comune di Milano nel 1959; la medaglia d’oro a Firenze, al Premio del Fiorino, nel 1961; la XXII Biennale d’Arte alla Permanente di Milano, nel 1961, il premio Bagutta-Vergani.
Salietti è fra i pittori che l’imprenditore Giuseppe Verzocchi contatta per la sua grande raccolta di quadri sul tema del lavoro: Salietti realizza così La vendemmia (1949-1950), quadro che, insieme all’Autoritratto, è oggi conservato nella Collezione Verzocchi, presso la Pinacoteca Civica di Forlì.
È uno dei fondatori del Novecento Italiano, movimento del quale ha ricoperto il ruolo di segretario. I suoi principali soggetti sono paesaggi, ritratti e nature morte. Ha opere in pubbliche gallerie: a Roma (Galleria nazionale d’arte moderna), Firenze, Milano, Torino, Berlino, Zurigo, Monaco, Berna, Montevideo, Cleveland, Mosca, Parigi, Varsavia. Dopo la sua morte, una mostra commemorativa gli venne dedicata a Milano, nel 1964, al Palazzo della Permanente; nel 1967, a Milano, alla Galleria Gian Ferrari; nuovamente alla Gian Ferrari, nel 1969, per le tempere; nel 1970, a La Panchetta di Bari; nel 1971, ancora a Milano, alla Galleria Cortina, per le opere grafiche. Una mostra postuma venne pure organizzata dall’Azienda di Soggiorno e Turismo di Chiavari, nel 1972, a Palazzo Torriglia, con una selezione di opere pittoriche e grafiche.
Biografia di Alberto Salietti (Ravenna, 1892 – Chiavari, 1961) è stato un pittore italiano.
Alberto Salietti-Nasce a Ravenna il 15 marzo 1892, figlio e nipote di decoratori murali. Dopo aver iniziato a lavorare con il padre, frequenta fino al 1914 l’Accademia di Brera, ove ha come maestri Cesare Tallone e Mentessi.
Dopo aver partecipato alla Prima guerra mondiale, riprende la sua attività, esponendo dal 1920 alle Biennali di Venezia (nel 1942, ricevendo il Gran Premio per la pittura). Altre esposizioni: l’Internazionale di Barcellona, 1929; l’Internazionale di Budapest, 1936; la Mostra dell’Istituto Carnegie di Pittsburg, 1936; l’Esposizione mondiale di Parigi, 1937; la II e III Quadriennale Roma; la mostra La Bella Italiana, a Milano, nel 1952; il Premio Marzotto, nel 1955 e 1956; il Premio Garzanti nel 1957; il Premio del Comune di Milano nel 1959; la medaglia d’oro a Firenze, al Premio del Fiorino, nel 1961; la XXII Biennale d’Arte alla Permanente di Milano, nel 1961, il premio Bagutta-Vergani.
Salietti è fra i pittori che l’imprenditore Giuseppe Verzocchi contatta per la sua grande raccolta di quadri sul tema del lavoro: Salietti realizza così La vendemmia (1949-1950), quadro che, insieme all’Autoritratto, è oggi conservato nella Collezione Verzocchi, presso la Pinacoteca Civica di Forlì.
È uno dei fondatori del Novecento Italiano, movimento del quale ha ricoperto il ruolo di segretario. I suoi principali soggetti sono paesaggi, ritratti e nature morte. Ha opere in pubbliche gallerie: a Roma (Galleria nazionale d’arte moderna), Firenze, Milano, Torino, Berlino, Zurigo, Monaco, Berna, Montevideo, Cleveland, Mosca, Parigi, Varsavia. Dopo la sua morte, una mostra commemorativa gli venne dedicata a Milano, nel 1964, al Palazzo della Permanente; nel 1967, a Milano, alla Galleria Gian Ferrari; nuovamente alla Gian Ferrari, nel 1969, per le tempere; nel 1970, a La Panchetta di Bari; nel 1971, ancora a Milano, alla Galleria Cortina, per le opere grafiche. Una mostra postuma venne pure organizzata dall’Azienda di Soggiorno e Turismo di Chiavari, nel 1972, a Palazzo Torriglia, con una selezione di opere pittoriche e grafiche.
Anche quest’anno Lucca sarà il magnifico teatro urbano che ospiterà la terza edizione di Pianeta Terra Festival, diretto da Stefano Mancuso, ideato, progettato e organizzato dagli Editori Laterza e promosso dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Lucca.
La manifestazione si terrà da giovedì 3 a domenica 6 ottobre 2024, in alcuni dei luoghi più suggestivi della città, tra cui: la Chiesa di San Francesco, Palazzo Ducale, L’Orto Botanico e, per la prima volta, la Casa del Boia.
Le comunità naturali sarà il filo rosso che attraverserà gli incontri, i dialoghi, le lectio e gli spettacoli di questa edizione.
Ci siamo chiesti perché tutte le specie viventi, non solo l’uomo, stabiliscono relazioni, costruiscono alleanze, in altri termini fanno comunità? Saremmo indotti a pensare che la scarsità di risorse disponibili porti naturalmente le specie a competere, e che sia proprio la competizione a garantire il benessere degli individui di ciascuna specie. “In barba al senso comune – dice il direttore del Festival, Stefano Mancuso – il vero motore di una comunità è il mutuo appoggio, il sistema più efficiente per garantire la sopravvivenza di tutti. Se ragioniamo in termini di specie, il mutuo appoggio è un’opzione naturale, ancor prima di diventare una scelta morale”.
I tanti ospiti mostreranno come le relazioni fra gli esseri viventi sono incredibilmente più complesse di quanto immaginiamo e sono governate da forze molto diverse dalla semplice competizione. Scopriremo con loro che è la cooperazione il meccanismo attraverso il quale la vita prospera, la forza trainante che decide il destino degli esseri viventi.
IL PROGRAMMA
Durante i quattro giorni di festival, saranno oltre 90 gli eventi che chiameranno a raccolta scienziati, antropologi, filosofi, economisti, scrittori, artisti e innovatori. Vedremo concretamente come opera il mutuo appoggio tra le specie vegetali e animali, come sia il collante per la costruzione di comunità, di alleanze fra le specie, capiremo quali complessità specifiche presentano le comunità umane e quali sono le caratteristiche comportamentali di ciascuna specie. All’interno di questa cornice si discuteranno in modo nuovo temi quali biodiversità, sostenibilità, politiche del cibo, lo stato del nostro Mediterraneo, e molto altro. Con l’osservazione e la conoscenza del modoin cui ogni individuo crea alleanze con gli altri della sua specie e con le altre speciesperimentiamo quel piccolo miracolo che si avvera quando specie diverse, imparando a stare insieme, stringono una relazione. “Pensare alla cooperazione come una delle principali forze che agisce in natura – dice Giuseppe Laterza – può aiutarci molto ad agire per il bene del nostro Pianeta”.
ASSOLI E DIALOGHI
Molti i dialoghi e le lectio in cui autori italiani e internazionali approfondiranno le tematiche centrali del festival: Telmo Pievani metterà alla prova le tante manifestazioni di comportamento altruistico in natura, ponendo la questione se una generosità del tutto disinteressata sia possibile. Andrea Genre spiegherà nel dettaglio il fenomeno della simbiosi in natura – il modo in cui si chiama oggi il mutuo appoggio – e la sua importanza. Laura Crispini, geologa, coordinatrice scientifica in spedizioni nazionali e internazionali in Antartide (l’ultima a bordo della rompighiaccio Laura Bassi), ci porterà alla scoperta di un continente che è anche un laboratorio naturale unico per studiare i fenomeni naturali. Dario Fabbri, uno dei più influenti e originali analisti in Italia, esaminerà la crisi ecologica dal punto vista di una ‘geopolitica umana’, che mette al suo centro la collettività e la sua storia. Grande regolatore climatico e custode di un terzo della biodiversità terrestre, Paolo Pileri ci farà conoscere il suolo, l’ecosistema più fragile e vitale del pianeta. Lo zoologo Maurizio Casiraghi ci farà scoprire la bellezza nascosta e spesso invisibile degli insetti, indispensabili alla biodiversità. Gaia Vince parlerà delle incombenti migrazioni climatiche, di come masse di persone dovranno fuggire, a causa delle alte temperature, da zone costiere e da terre un tempo coltivabili, alla ricerca di nuovi luoghi in cui poter vivere. E ancora: attraverso il grande incendio di Fort McMurray in Canada, John Vaillant ci farà toccare con mano il punto cui siamo giunti a causa del nostro incessante bisogno di energia; Stefano Fenoglio ci farà conoscere i fiumi, la loro importanza e la nostra risalente convivenza con loro, lanciando un allarme riguardo all’abuso che ne facciamo. Emanuela Evangelista e Adriano Favole ci porteranno lontano nella foresta di Tchamba, tra i vulcani di La Rèunion e lungo le ramificazioni liquide dell’Amazzonia mostrando come siamo connessi alla natura selvatica e l’impatto che ha su di noi. Daniela Silvia Pace, esperta di cetacei e di acustica in ambiente marino, ci farà scoprire il linguaggio delle comunità di balene e di delfini. Pur riconoscendo che tutte le specie viventi comunicano, Andrea Moro, mostrerà come la comunicazione umana è la sola in grado di generare significati nuovi attraverso la combinazione delle parole all’interno di una frase. Scopriremo però che non tutte le combinazioni sono possibili e perché. Il neuroscienziato Vittorio Gallese ci parlerà della nostra natura essenzialmente relazionale e ne scopriremo le ragioni. Maria Rescigno mostrerà la stretta connessione tra il nostro cervello e l’intestino, il nostro ‘secondo cervello’. Fabio Ciconte terrà un monologo teatrale arricchito da immagini e video sui retroscena del mercato agroalimentare, soffermandosi sui costi eccessivi delle scelte ecosostenibili. Stefano Liberti mostrerà come il Mediterraneo si è tropicalizzato diventando lo specchio di tutti i nodi problematici della contemporaneità.
Si occuperanno più in particolare della costruzione e delle specificità della comunità umana Roberta De Monticelli e Gustavo Zagrebelsky, che andranno alla radice della costruzione della ‘famiglia umana’ esaminandone le ragioni e cosa la tiene insieme. E ancora: Michela Marzano ci sorprenderà facendoci scoprire che la scommessa sulla fiducia, ciò che ci tiene insieme, è la più grande e straordinaria scommessa umana. Lo storico dell’arte Tomaso Montanari farà vacillare l’individualismo che caratterizza il nostro tempo, smontando il culto rinascimentale del genio. Attraverso l’esame dell’arte anonima, dimostrerà come l’arte, e ogni produzione umana, sia frutto di un lavoro collettivo. Ivano Dionigi mostrerà come solo ritrovando la parola autentica possiamo rinsaldare il legame che tiene insieme e dà senso a una comunità. Maurizio Ferraris e Carola Barbero illustreranno, da un punto di vista filosofico, che un vivere che non comporti il convivere non può essere vita. Mentre lo scrittore Nicola Lagioia cercherà in testi esemplari della storia della letteratura, a partire dall’Iliade, una spiegazione del nostro ‘cuore di tenebra’, quella attitudine distruttiva e autodistruttiva che vediamo da sempre all’opera. Lo psicoanalista Vittorio Lingiardi farà risuonare l’armonia fisiologica-spirituale del corpo e dei suoi organi con la letteratura, la poesia, le immagini e tanto altro. Sull’esperienza dello stupore assoluto che ogni essere umano prova rispetto alla maestà dell’universo si confronteranno il teologo Vito Mancuso e l’astrofisica Ersilia Vaudo Scarpetta. A farci guardare le minute cose del nostro quotidiano facendocene cogliere il loro carattere sacro ci guiderà il paesologo Franco Arminio. Del perduto rispetto della sacralità della montagna parleranno invece Enrico Camanni e l’alpinista Nives Meroi. Non può mancare una riflessione sul luogo in cui si svolge la nostra vita quotidiana, la città, non solo quella italiana ma quelle di tutto il mondo: Francesco Rutelli e Mario Pardini si confronteranno sui cambiamenti indotti dalla crisi climatica, dalle trasformazioni del lavoro e dell’abitare. Una delle massime esperte di etica dell’IA, Francesca Rossi, ci spiegherà come funziona l’intelligenza artificiale e se può esserci alleata o nemica, in generale e, in particolare, nella lotta al cambiamento climatico. Ci si occuperà anche di biomuseologia: Michele Lanzinger e Maurizio Vanni, esperti del settore, illustreranno i modi e gli esempi concreti per ridurre il loro impatto ambientale. Un’altra importante prospettiva porteranno Flavia Carlini, Andrea Grieco e Sofia Pasotto dialogheranno sui modi in cui le giovani generazioni fanno i conti con la crisi climatica, fra attivismo e disillusione, anche attraverso il loro lavoro di informazione e sensibilizzazione in rete.
RAGAZZI E BAMBINI
Gli eventi dedicati ai bambini e alle famiglie si svolgeranno all’interno dell’Orto Botanico e della Biblioteca Agorà. Un programma ricco, fatto di mostre, laboratori, quiz, spettacoli di burattini, letture animate, lezioni interattive con gli scienziati dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale che racconteranno il loro lavoro (dall’ornitologo al biologo marino). Il tutto, a cura dell’associazione Talea APS. Non mancheranno gli eventi laboratoriali dedicati alla cura delle piante e della natura, come l’appuntamento curato da Ecopol.
Anche gli studenti saranno protagonisti di tantissime eventi: dalla premiazione del concorso Usa la testa!, organizzato da Confindustria Toscana Nord in collaborazione con la Scuola Superiore Sant’Anna, a una mattinata a cura dell’Ufficio Scolastico Regionale di Lucca-Massa Carrara, che vedrà i ragazzi salire sul palco e presentare i propri progetti ecologici. Per finire, Fabio Viola, uno dei massimi esperti di gamification in Europa, racconterà agli studenti come possiamo usare i videogame per conoscere e salvaguardare il pianeta.
LECTURES E WORKSHOP
Come sempre, dalle istituzioni in cui si fa ricerca come IMT, la Scuola Superiore Sant’Anna e l’Università di Pisa, arrivano alcune delle idee più brillanti. Gli incontri in programma, rivolti a un pubblico più generale, ne sono l’espressione più diretta. Ennio Bilancini e Massimo Riccaboni faranno un bilancio delle politiche europee sulla riduzione della CO2, cercando di sciogliere il dilemma del suo aumento nonostante le misure adottate; mentre AngeloFacchini e Alessandro Rubino discuteranno del sistema più efficace per misurare la sostenibilità delle nostre città. Di democrazia alimentare discuteranno Giaime Berti e Carmelo Troccoli evidenziando la necessità di promuovere i sistemi locali del cibo attraverso nuove forme di produzione e consumo e nuovi modelli di politiche pubbliche. Tommaso Greco ed Edoardo Chiti evidenzieranno come il diritto, nella sua funzione più propria, salvaguardi lo stato di salute degli ecosistemi, le loro dinamiche cooperative e, soprattutto, come può farsi garante nei confronti delle generazioni future.
Infine, il workshop Cambiamento climatico e design urbano a cura dell’Università di Camerino. Il workshop, riservato agli studenti, con Gherardo Chirici, Roberta Cocci Grifoni, Graziano Marchesani, Federica Ottone e Dajla Riera, partirà dalla raccolta e dall’analisi e di dati ambientali di Lucca per proporre interventi di “natura urbana” che sappiano conciliare le esigenze delle popolazioni residenti con l’introduzione di dispositivi naturali volti ad affrontare gli effetti climatici del riscaldamento globale.
FOCUS
Molte le occasioni di riflessione e approfondimento provenienti dal mondo produttivo e delle istituzioni sul tema della comunità e della sostenibilità. L’evento a cura di Banco BPM vedrà Marco Giorgio Valori, Domenico De Angelis, Cristina Galeotti e Andrea Maestrelli confrontarsi sul ruolo delle banche per uno sviluppo equilibrato di comunità e territori; Francesco Pastore e Rossella Sobrero parleranno del perché la transizione ecologica sia così difficile da comunicare in modo efficace, in un evento a cura di Sofidel. Marcello Bertocchini, Silvio Gentile e Gabriele Susanna dialogheranno su come realizzare una comunità energetica pubblica, in un evento a cura di Green Utility; sul tema della transizione energetica interverranno Francesco Caio e Carlo Cottarelli illustrando costi, rischi e opportunità, in un appuntamento realizzato da EOS IM. Sul tema dell’impatto che le attività umane hanno sulla biodiversità dialogheranno invece Valeria Barbi, Giulio Magni, Alessandro Solazzi,Daniele Valiante, in un appuntamento promosso a cura di Findus. Isabella Malagoli, Gianluca Ruggieri e Valeria Termini si chiederanno se è pensabile un futuro dominato esclusivamente da energie rinnovabili, in un incontro a cura del gruppo Hera. Lorenzo Bardelli e Daniele Fortini si focalizzeranno sul tema del riciclo e del recupero dei rifiuti come servizio fondamentale nelle nostre comunità, in un appuntamento a cura di Retiambiente. Il panel promosso da Ricola ci darà invece occasione di riflettere sui modi di comunicare efficacemente i modelli di sostenibilità; ne parleranno Arianna Izzi, Luca Morari e Giovanni Storti.
Un incontro dedicato al futuro delle città e alle forme di rigenerazione urbana è promosso dalla Rappresentanza in Italia della Commissione Europea e vedrà confrontarsi Serenella Sala e Matteo Trane. L’appuntamento a cura di Confindustria Toscana Nord, con Maura Latini e Francesco Morace, sarà l’occasione per riflettere, sulla base di analisi e ricerche, sulla possibilità di essere consumatori sostenibili. Giuseppe Calabrese, Davide Giannecchini e Sara Vitali si confronteranno infine sull’escursionismo, attività in forte crescita e che coinvolge un numero sempre maggiore di appassionati, in un evento a cura di Camera di Commercio Toscana Nord-Ovest.
Enrico Fontana e Domenico Sturabotti illustreranno il cammino virtuoso verso uno sviluppo sostenibile che molte imprese hanno attivato negli ultimi anni. Francesca Malzani e Tiziano Treu ci spiegheranno come il Green Deal europeo stia rafforzando il legame tra agire economico e diritto del lavoro. Giuseppe Buffon e Giuseppe Lanzi dialogheranno sul tema dell’ecologia integrale, illustrando il progetto Lucensis al servizio della comunità, mentre Silvio Bianchi Martini, Vittorio Coda e Linda Gilli esploreranno l’importanza dei caratteri identitari, della leadership e dei valori nello sviluppo delle imprese e dei territori. E ancora, Enrica Lemmi, Luca Martinelli, Luca Menesini, Emanuele Pellegrini rifletteranno sullo sviluppo sostenibile di borghi, paesi e aree interne e sull’impiego, a tal fine, dei finanziamenti del PNRR. Alberto Brambilla e Massimo Riccaboni discuteranno di come possiamo conciliare la più grande trasformazione ecologica mai conosciuta con la più grande transizione demografica che l’umanità abbia mai sperimentato.
CINEMA, ARTE, MUSICA
Anche quest’anno Pianeta Terra Festival, in collaborazione con Lucca Film Festival e Green Cross Italia, assegna il Green Tree Award, premio rivolto al film europeo più attento e sensibile alle tematiche ambientali. Ecco la cinquina selezionata: Un anno difficile (2023), diretto da Olivier Nakate ed Eric Toledano; Te l’avevo detto (2023), diretto da Ginevra Elkann; Un mondo a parte (2024), diretto da Riccardo Milani; Palazzina Laf (2023), diretto da Michele Riondino; La chimera (2023), diretto da Alice Rohrwacher.
Davide Monteleone, fotografo di fama internazionale, artista visivo, ricercatore e National Geographic Fellow, racconterà, attraverso le sue fotografie, la storia della domanda di materie prime in crescita a causa delle trasformazioni del panorama energetico globale.
Segnaliamo tre concerti: nella serata di apertura, la Sinfonia n.9 di Ludwig Van Beethoven nell’esecuzione dell’Orchestra e coro regionale del Friuli Venezia Giulia con la direzione dei Maestri Filippo Maria Bressan e Cristiano dell’Oste; un altro appuntamento dedicato a Beethoven (Tutti gli uomini si scoprono fratelli ove la tua ala si posa – sonata per violoncello e pianoforte in la maggiore n. 3 op. 69) eseguito da Simone Soldati al pianoforte e Enrico Bronzi al violoncello, a cura dell’Associazione Musicale Lucchese e realizzato grazie a Confagricoltura.
La chiusura vedrà il Maestro Mario Brunello, in un originale spettacolo di parole e musica che vedrà la partecipazione del direttore scientifico Stefano Mancuso.
Infine, Elisabetta Salvatori terrà una lettura di Nina e macchia e altre storie di Pia Pera.
IL TERRITORIO
“La perfetta convergenza – ha dichiarato il presidente della Fondazione CRL Marcello Bertocchini – tra i valori del Festival e la mission della Fondazione è ulteriormente confermata dalla tematica di quest’anno: cooperazione e condivisione sono infatti temi da sempre centrali e la loro ‘declinazione’ sul fronte della sostenibilità rappresenta un punto fermo di ogni strategia futura”.
LA SQUADRA DEL FESTIVAL
Pianeta Terra Festival è ideato, progettato e organizzato dagli Editori Laterza, con la direzione scientifica di Stefano Mancuso, e promosso dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Lucca.
La Città di Lucca e la Rappresentanza in Italia della Commissione europea sono partner istituzionali dell’evento.
La manifestazione è realizzata grazie anche alla compartecipazione della Camera di Commercio Toscana Nord-Ovest / The Lands of Giacomo Puccini e Confindustria Toscana Nord.
Il Festival deve inoltre moltissimo al supporto di numerosi sostenitori: a Banco BPM che è partner dell’evento, a Sofidel, main sponsor, a Confagricoltura, Ecopol, EOS IM, Findus Italia, Green Utility, Gruppo Hera, Retiambiente, Ricola, tutti sponsor del progetto, al supporter Toscotec e al green supporter Giorgio Tesi Group.
Hanno conferito il loro patrocinio la Regione Toscana, la Provincia di Lucca, l’Associazione di Fondazioni e Casse di Risparmio e l’ISPRA – Istituto Superiore per la Protezionee laRicerca Ambientale.
Hanno partecipato attivamente al progetto anche la Scuola IMT Alti Studi di Lucca, la Scuola Superiore Sant’Anna, l’Università di Pisa, l’Ufficio Scolastico Territoriale di Lucca e Massa Carrara, la Fondazione Campus, A11 Venture, l’Arcidiocesi di Lucca, l’Associazione Musicale Lucchese, l’Associazione Talea, la Biblioteca civica Agorà, la Fondazione Giuseppe Pera, Green Cross Italia, il Conservatorio di Musica “Luigi Boccherini”, Lucca Comics&Game, il Lucca Film Festival, Lucense, l’Orto Botanico di Lucca,Photolux Festival e Symbola.
Media partner dell’iniziativa sono Rai Radio 1, Rai Radio 3, Rai News 24, Rai News.it.
Si ringraziano Idrotherm 2000 e Gli Orti di Elisa.
ROMA -Al Museo Storico della Fanteria di Roma il Pittore, ceramista, scultore, il catalano Joan Miró, riconosciuto tra gli artisti più rivoluzionari del XX secolo, sarà protagonista della mostra intitolata Miró – Il costruttore di sogni, al Museo Storico della Fanteria di Roma dal 14 settembre al 23 febbraio 2025. Il progetto, dal carattere antologico, prodotto da Navigare Srl con il patrocinio di Ambasciata di Spagna in Italia; Instituto Cervantes di Roma; Regione Lazio e di Città di Roma, e a cura di Achille Bonito Oliva, Maïthé Vallès-Bled e Vincenzo Sanfo, si compone di una selezione di 140 opere rappresentative dell’arte di Miró, del suo rivoluzionario linguaggio e delle sperimentazioni che hanno caratterizzato circa 60 anni della sua lunga esistenza (1893-1983), lasciando una impronta indelebile nell’arte e nella cultura del nostro tempo. Con una raccolta di opere realizzate tra il 1924 e il 1981, la mostra renderà omaggio alla singolarità del grande artista e alla sua straordinaria attitudine alla libertà, alla sperimentazione e all’ indipendenza da ogni dogma artistico, sociale e culturale. Poco conosciute al grande pubblico, poiché appartenenti a collezionisti privati italiani e francesi, le opere in esposizione saranno presentate in un percorso diviso in 8 aree tematiche: Litografie; Manifesti; Poesia; Ceramiche; Derrière le Miroir; Pittura; Musica; Miró e i suoi amici, ognuna delle quali riferita alle passioni e agli attraversamenti dell’arte di Miró. In particolare, tra le opere che saranno esposte, spiccano numerose litografie curate da stampatori e incisori di eccellenza come Fernand Mourlot, al quale si deve la perfetta e ineguagliabile resa di colore nel procedimento di stampa delle preziose opere grafiche. Saranno presenti, inoltre, anche alcuni esemplari di ceramiche dipinte a mano e le tavole litografiche disegnate per accompagnare i versi di Parler Seul del poeta dadaista Tristan Tzara (1950), oltre ai bellissimi bozzetti per la messa in scena di L’Uccello Luce (1981) di Silvano Bussotti, realizzati in occasione della Biennale di Venezia. L’esposizione sarà arricchita anche da una piccola sezione intitolata Miró e i suoi amici comprendente una decina di opere di Man Ray, Picasso, Dalí, e fotografie di Cohen e Bertrand, oltre che libri e documenti dei poeti Breton, Éluard, Chair, Tzara per evidenziare le diverse connessioni di Miró con il mondo dell’arte e della cultura del tempo. La mostra intende porre all’attenzione del visitatore, in particolare, tre aspetti della creatività artistica del genio catalano nato a Barcellona: la rivoluzione del linguaggio artistico ‒ portato da uno spazio introspettivo a un equilibrio tra astratto e figurativo, tale da realizzare un principio di impossibilità, in cui l’arte supera ogni tipo di confine; la dimensione onirica e lirica ‒ permeata dalla sfrenata libertà di una sensibilità tradotta in colore, materia e segni laddove la razionalità, in un contesto storico in cui le dittature politiche segneranno alcuni dei momenti più bui per la Spagna e per il resto del mondo, tace; e, infine, la tenace capacità di resistenza, in cui la joie de vivre e il fervore espressivo si realizzano in un linguaggio a sé stante, nella dimensione inafferrabile e primitiva dell’io più profondo. Miró – Il costruttore di sogni è una iniziativa culturale di Difesa Servizi S.p.A., co-prodotta da Art Book Web e Diffusione Cultura Srl.
Dal 14 Settembre 2024 al 23 Febbraio 2025
Roma
Luogo: Museo storico della Fanteria
Indirizzo: P.zza Santa Croce in Gerusalemme 7
Orari: dal lunedì al venerdì dalle ore 9:30 alle ore 19:30 Sabato, domenica e festivi dalle ore 9:30 alle ore 20:30 Ultimo ingresso 30 minuti prima dell’orario di chiusura
Costo del biglietto: Intero: 15,00€ – Weekend e festivi Intero: 13,00€ – Feriali Ridotto in biglietteria: 10,00€ – Tutti i giorni: giovani fino ai 14 anni, giornalisti con tesserino, gruppi oltre 10 pax, universitari, convenzioni, over 65, diversamente abili e accompagnatori, personale delle Forze Armate Ridotto scuole: 5,00€ Biglietto Open: 16,00€ – Salta la fila Gratuito: bambini fino ai 5 anni L’audioguida ufficiale è Navibook ed è inclusa nel costo del biglietto
Biografia di Joan Miró -(Barcellona, 1893 – Palma di Maiorca, 1983) è stato uno degli autori più importanti di tutto il Novecento e ha dedicato la sua carriera a una continua sperimentazione artistica. La sua vicenda è stata spesso accostata all’avanguardia surrealista, di cui fece parte dal 1924 al 1929. Tuttavia, Miró si distaccò dal movimento dopo pochi anni, a causa del rigido schematismo imposto dal teorico più importante del sodalizio: André Robert Breton (Tinchebray, 1896 – Parigi, 1966). L’imposizione di uno stile era in netta contrapposizione con la continua sperimentazione sia in ambito tecnico che stilistico di Joan.
L’immaginario artistico di Joan Miró è stato alimentato da influenze di vario genere, a partire da quelle più antiche, per esempio le pitture rupestri primitive, le opere africane e quelle cattoliche catalane. Tra i suoi modelli compaiono anche le pitture dei grandi maestri nordici del XV secolo, come Hieronymus Bosch (’s-Hertogenbosch, 1453 – 1516) e le opere più moderne dell’espressionista Edvard Munch (Løten, 1863 – Oslo, 1944). Eppure, le sue due più grandi fonti di ispirazione furono le opere e le teorie dei suoi compagni surrealisti e quelle del grande maestro Pablo Picasso(Malaga, 1881 – Mougins, 1973). Joan utilizzò questi modelli per creare il suo stile, caratterizzato da un forte spiritualismo e un’incessante ricerca di un linguaggio universalmente comprensibile.
La vita di Joan Miró
Joan Miró i Ferrà nacque a Barcellona dal matrimonio tra l’orefice Miquel Miró Adzerias e Dolores Ferrà i Oromí. Dopo una breve parantesi come impiegato di un ufficio, Miró si iscrisse all’Accademia privata di Francisco Galí (Barcellona, 1880 – 1965) a Barcellona. Quest’ultimo era un maestro innovativo, che aiutò Miró a elaborare i principi base della sua pittura, quali la percezione intuitiva delle forme e una straordinaria sensibilità.
In seguito, Joan si iscrisse alla Libera Accademia di Disegno del Cercle Artístic de Sant Lluc di Barcellona. Nella città catalana, Miró ebbe modo di conoscere altri giovani artisti e le opere di alcuni dei più grandi maestri europei. Una delle occasioni più importanti fu la mostra organizzata a Barcellona nel 1916 dal gallerista francese Ambroise Vollard (Saint-Denis, 1866 – Versailles, 1939), dove furono esposti alcuni dei capolavori di Vincent van Gogh (Zundert, 1853 – Auvers-sur-Oise, 1890) e dell’avanguardia espressionista dei Fauves. Durante la mostra, Il giovane Joan rimase impressionato dall’accentuata espressività delle opere. Sempre in questi anni, Miró entrò in contatto con l’avanguardia artistica Dada, della quale ammirava la volontà di rompere con la tradizione e di avviare una ricerca artistica in continuo mutamento.
Nel 1919 Joan Miró si trasferì per la prima volta a Parigi, dove scoprì un ambiente a metà tra l’innovazione e la tradizione. Infatti, nella capitale francese il giovane catalano passava le giornate a discutere con Pablo Picasso e a studiare i capolavori antichi del Louvre.
L’incontro più importante del soggiorno parigino fu quello con l’avanguardia surrealista e i suoi esponenti. Il rapporto tra il surrealismo e Miró fu molto particolare, perché l’artista catalano non aderì mai completamente al movimento, ma vi rimase sempre affiancato e in parte autonomo. Tra i capisaldi del movimento Joan si appropriò di quello dell’automatismo psichico, ovvero la trascrizione in pittura dei propri pensieri, senza il filtro della ragione. Nel 1925 Joan Miró partecipò alla sua prima mostra surrealista alla Galleria Pierra, che riscontrò un notevole successo.
Tuttavia, a seguito di una serie di scontri ideologici, nel 1929 Miró decise di uscire dal movimento surrealista, anche se non se ne distaccò mai completamente almeno dal punto di vista ideologico.
Il 12 ottobre 1929 Joan Miró sposò Pilar Juncosa a Palma de Maiorca e i due si stabilirono a Parigi, dove l’artista avviò un’importante fase di sperimentazione tecnica. Infatti, in questi anni Joan diede vita a numerosi collage e costruzioni, con le quali avviò l’“assassinio della pittura”, come segno di ribellione nei confronti delle tecniche pittoriche tradizionali. Per “assassinio della pittura” Miró intendeva la volontà di andare oltre la tecnica tradizionale della pittura a olio, per ricerca nuovi metodi di ricerca, in risposta alle esigenze contemporanee.
I primi anni Trenta furono molto fortunati per l’artista catalano, dato che diede alla luce sua figlia María Dolores ed espose in varie gallerie di tutto il mondo, ottenendo un riconoscimento internazionale.
Questo periodo rigoglioso della pittura di Miró venne acquetato dalla situazione storico-politico degli ultimi anni Trenta. In questo periodo, Joan presagiva la sensazione che qualcosa di terribile stesse per accadere e le sue paure si realizzarono nel 1929, quando si instaurò la dittatura di Francisco Franco (Ferrol, 1892 – Madrid, 1975). Il forte turbamento influenzò anche la sua arte, che si vestì di un crudo realismo dai toni acidi, definito dai critici “tragico”, dal quale scaturirono opere inquietanti e cupe.
La guerra lo portò sempre più lontano dalla realtà, spingendolo verso un’evasione dalla quotidianità. Questo senso di estraniazione e il suo continuo sperimentalismo confluirono nella serie delle Costellazioni, che il pittore e storico Roland Algernon Penrose (Londra, 1900 – Chiddingly, 1984) definì “uno degli episodi più brillanti della sua carriera”. Durante la realizzazione di queste composizioni Miró ritornò in Spagna nel 1941, a Montroig, dove poté affinare il suo stile, improntato alla creazione di un linguaggio universale e comune.
A partire dal 1944 Joan Miró iniziò ad approcciarsi a una nuova tecnica artistica, la ceramica, con la quale realizzò le prime in sculture nel 1946. Il catalano aveva già eseguito le costruzioni, ma con questo nuovo materiale ebbe modo di realizzare delle sculture monumentali, caratterizzata da una semplicità formale tipica delle opere primitiviste.
Tra il 1947 e il 1948 Miró si recò per la prima volta negli Stati Uniti dove conobbe il celebre pittore Paul Jackson Pollock (Cody, 1912 – Long Island, 1956), inventore del dripping, e il mercante d’arte Aimé Maeght (Hazebrouck, 1906 – 1981, Saint-Laurent-du-Var), che si iniziò a occupare della vendita delle opere di Miró in Europa.
Tra il 1956 e il 1958 Joan realizzò i due murales in ceramica per la sede centrale dell’Unesco a Parigi, rappresentanti uno il sole, l’altro la luna. Per le due pareti Miró trasse ispirazione dal Park Güell di Antoni Gaudí i Cornet (Reus, 1852 – Barcellona, 1926) a Barcellona e le pitture rupestri della Grotta di Altamira. Per la realizzazione dei murales, dopo un primo progetto fallimentare con delle piastrelle di maiolica, l’artista catalano scelse di adagiare delle piastrelle irregolari per creare uno sfondo, sul quale dipingere le immagini con una scopa di foglie di palma. L’operazione fu molto complicata, ma il risultato finale venne acclamato sia dal grande pubblico che dalle istituzioni, al punto che Miró ricevette il Guggenheim International Award.
Nell’ultima parte della sua vita Joan Miró continuò a dedicarsi alla sperimentazione, passando da una tecnica artistica all’altra. Per esempio, a partire dal 1966 si dedicò alla realizzazione di sculture in bronzo, per le quali ricavava i materiali da fondere da oggetti di scarto, così da poter unire una delle tecniche artistiche più antiche e nobili con l’umiltà di oggetti inutili.
Oltre alle sculture bronzee, l’artista si confrontò con materiali insoliti e iniziò a bruciare o lacerare le tele prime di dipingerle, dimostrando una grande tenacia anche a settantatré anni.
Nel 1968 Joan ricevette la laurea honoris causa dall’Harvard University di Cambridge e furono organizzate numerose mostre per omaggiarlo. Infine, nel 1975 venne inaugurata la Fundació Joan Miró a Barcellona, dove furono raccolti oltre diecimila pezzi. L’artista catalano morì nel 1983 a Palma de Mallorca.
Stile e capolavori di Joan Miró
La formazione di Joan Miró fu caratterizzata dallo studio delle opere d’arte della sua terra d’origine, di quelle dei primitivi, ma anche dei grandi capolavori degli artisti contemporanei.
Durante una prima fase compresa tra il 1917 e il 1923, Joan si dedicò alla realizzazione di opere dal carattere descrittivo e ingenuo. In queste tele è presente il forte rapporto tra l’artista e la storia della sua terra natia, la Catalogna, che da secoli rivendicava l’indipendenza nei confronti della Spagna. I paesaggi catalani e i suoi abitanti diventano i protagonisti delle sue opere e la dimensione popolare si fonde con quella poetica e politica. Lo stile è calligrafico, a tratti perfino descrittivo, come nel caso dell’opera L’Orto e l’asino (1918). In questo dipinto Miró rappresenta un paesaggio tipico delle campagne catalane, in cui i colori caldi e familiari della sua patria si fondono con un immaginario cubista. Infatti, il cielo viene scomposto in varie fasce cromatiche e la disposizione geometrica dei campi dà vita a un mosaico composito e innaturale. Inoltre, Miró sembra preannunciare il mondo favolistico e onirico che poi si scatenerà con l’adesione all’avanguardia surrealista.
Intorno al 1924 Joan Miró si avvicinò all’avanguardia surrealista, che condizionò per sempre il suo stile. Da questo momento le sue opere si colorarono di immagini policrome e fantasiose, in cui i soggetti catalani vennero sostituiti da creature carnevalesche e vivaci. Il manifesto artistico di questa fase è riscontrabile nel dipinto Il Carnevale di Arlecchino (1924). La tela fu realizzata in una fase di estrema povertà della vita di Miró, che lo costrinse a soffrire la fame. Stando ai racconti del pittore la fame e l’isolamento nel suo studio gli causarono numerose allucinazioni, che il pittore cercava di immortalare nelle sue opere, come nel caso del Carnevale di Arlecchino. Nell’opera è rappresentato un interno in cui sono raffigurati numerosissime creature polimorfe, con l’accompagnamento di alcune note musicali. Tra i vari elementi compare anche la scala, uno dei soggetti più ricorrenti nell’immaginario di Miró, che simboleggia la continua sperimentazione artistica. Il protagonista dell’opera è Arlecchino, un personaggio comico tappezzato di colori diversi, che ama fare scherzi. In realtà si tratta dell’autoritratto metaforico dell’autore, che si raffigura come un giocoso padrone di casa pronto ad andarsene dalla festa da lui stesso organizzata, perché annoiato da un’invenzione ormai priva di nuovi spunti creativi.
Nella fase successiva alla parziale adesione al movimento surrealista, Miró studiò delle nuove forme di rappresentazione, per andare oltre i modelli consolidati. La pittura di questa fase si svuotò dell’elemento figurativo, lasciando ampio spazio a sfondi monocromatici e a figure stilizzate, talvolta accompagnate da scritte. Uno dei più grandi capolavori di questo periodo fu il Ritratto di Madame K. (1924), in cui il dato figurativo sembra scomporsi e stilizzarsi.
Il periodo seguente la scomposizione dei soggetti pittorici fu quello della sperimentazione delle opere polimateriche, composte di materiali inusuali. Si trattava di composizioni realizzate con oggetti in grado di riecheggiare un determinato soggetto mediante una serie di allusioni sensoriali o metaforiche. Per esempio, nella serie delle Ballerine spagnole non compaiono mai figure o silhouette che richiamano le danzatrici. Tuttavia, l’essenza delle ballerine è suggerita da elementi delle composizioni, come la piccola immagine di una scarpetta ricavata da un giornale o una leggerissima piuma.
Dopo una prima fase di turbamento, dovuta alle vicende belliche che scossero tutta Europa, Joan Miró riuscì a ritrovare uno stato di quiete, che lo portò all’esecuzione della serie delle Costellazioni. Si tratta di ventitré tempere su carta, realizzate tra il 1940 e il 1941, in cui l’artista dialoga con i corpi celesti, che fin da bambino lo appassionarono. In mezzo alle rappresentazioni varie costellazioni compaiono alcuni dei soggetti tipici dell’immaginario di Miró, come gli arabeschi, le donne, le note musicali, gli uccelli e le scale. Tra le ventitré opere è degna di nota una delle ultime tempere eseguite da Joan: L’Uccello meraviglioso rivela l’ignoto a una coppia di amanti. In questo capolavoro l’artista collega le varie figure tramite una linea sottilissima, che accentua il collegamento intrinseco tra ogni immagine, comprese quelle all’apparenza meno importanti.
Alla fine della sua carriera, Miró rimase affascinato dalla cultura giapponese, che conobbe mediante delle mostre realizzate a Tokyo e a Kyoto. In particolare, ciò che impressionò Joan fu la scoperta dell’estrema vicinanza tra la sua poetica e l’haiku (dei brevi componimenti giapponesi dal significato molto profondo). Un parallelismo tra queste poesie e la sua arte è riscontrabile nel dipinto L’oro dell’azzurro (1967), in cui una grande macchia blu viene equilibrata da altre nere più piccole, su un luminoso sfondo dorato. In questa opera la scoperta della cultura giapponese si fonde con alcuni dei simboli tipici dell’arte di Miró, come le costellazioni e la sua passione per la musica.
Joan Miró fu uno degli artisti europei più importanti del Novecento e dedicò la sua vita alla sperimentazione di nuove tecniche e alla ricerca di un linguaggio universale, immediatamente comprensibile da tutti.
Fonte della Biografia Finestre sull’Arte è una testata giornalistica che si occupa di arte antica e contemporanea. Il giornale, nato nel 2017, ha origine dall’omonimo progetto divulgativo che nel 2015 ha ricevuto il Premio Silvia Dell’Orso come miglior progetto italiano di divulgazione storico-artistica. Oggi, Finestre sull’Arte è una delle riviste più seguite del settore, e alla versione online abbina, dal 2019, anche un trimestrale cartaceo. Finestre sull’Arte è edita da Danae Project S.R.L.. Per scrivere alla redazione: posta AT finestresullarte.info.
pubblicate dalla Rivista «Atelier»-Nota di Pietro Barbera
Ilaria Palomba, scrittrice, poetessa, studiosa di filosofia, ha pubblicato i romanzi Fatti male (Gaffi; tradotto in tedesco per Aufbau-Verlag), Homo homini virus (Meridiano Zero; Premio Carver 2015), Una volta l’estate (Meridiano Zero), Disturbi di luminosità (Gaffi), Brama (Perrone), Vuoto (Les Flâneurs; presentato al premio Strega 2023 e vincitore del premio Oscar del Libro 2023); le sillogi Mancanza (Augh!), Deserto (premio Profumi di poesia 2018), Città metafisiche (Ensemble), Microcosmi (Ensemble; premio Semeria casinò di Sanremo 2021; premio Virginia Woolf al premio Nabokov 2022), Scisma (Les Flâneurs, settembre 2024), ; il saggio Io Sono un’opera d’arte, viaggio nel mondo della performance art (Dal Sud). Ha scritto per La Gazzetta del Mezzogiorno, Minima et Moralia, Pangea, Il Foglio, Succedeoggi. Ha fondato il blog letterario Suite italiana, collabora con le riviste La Fionda, Le città delle donne, Inverso, Versolibero.
«Io sono l’onorata e la disprezzata». Sulla poesia di Ilaria Palomba-Nota di Pietro Barbera
Avendo avuto l’opportunità di leggere in anteprima la nuova silloge della poetessa Ilaria Palomba, mi consento qualche osservazione, spunto critico, trasalimento, in piena libertà.
Il poemetto è abbagliante: le immagini si susseguono di giorno in giorno, di stanza in stanza, in piena terribile nudità, senza simbolismi eccessivi, né orpelli, né caricature. Non si ravvisa maniera qui. Si trafigge (e ci si trafigge) dritto per dritto, e ciò nonostante mantenendo sempre un’ammirevole compostezza formale, scevra da sbavature.
“Cos’è la dignità? Sono rimasta nel mezzo – immobile – nella vastità di nessuno”, scrive Palomba. Scisma certo parla (anche) di suicidio, ma non è, a mio parere, un diario poetico di un’esperienza personale. Questo è un punto di tema, di contenuto, che considero assai dirimente: NON è il diario poetico di un’esperienza suicidaria che si dipana secondo il classico mitologema Morte/Rinascita. Infatti la poetessa non è “rinata”, ma è stata “restituita”, quasi suo malgrado. Perché non è stata lasciata andare via? Dio, il Caso? “Devi restare, creatura infelice/nella bolgia della mente/nella frattura del mondo/del tuo mondo/nell’avversione al corpo/al nulla caduco /al nulla vacuo/all’immobilita/alla paralisi”. Palomba attraversa la suprema seduzione della Caduta che la consegnerebbe alla sottrazione radicale, alla dissoluzione dell’ego ed estinzione d’ogni conflitto (“essere cielo”), ed invece si trova restituita, ma smembrata, lacerata, nell’angusta immobilità di un letto d’ospedale, per tanti mesi, dove protagoniste sono la stanza, le infermiere, le pareti con le loro voci, i persecutori interni mai sazi. E il cielo sì riappare, ma scorto, perlopiù immaginato, dalla finestra di quella stanza. E sono tutti i cieli del mondo, condensati dalla colpa e dalla nostalgia: “cosa ho fatto al mio corpo?”. Domanda che la attanaglia senza tregua. E allora Scisma, ma anche crepa, crepaccio, ferita, frattura, lacerazione: tutti sostantivi che rimandano ad un’irredimibile separazione (dal sé di prima, “Non avrai più nome. Rinuncia al tuo nome”, dall’amato, dalla vita di prima). Ma il”volo”; non è pieno, è cavo, appartiene al regno dell’indicibile. E la Poetessa si ritrova non già corpo vivo e animato, ma Korpen, “nuda materia plasmabile”; per usare le sue parole, a guardare le “enormi fauci dell’ospedale”; che “masticano i corpi”; dei convenuti a giudizio. Ma il suicidio si rivela ancora epifenomeno: il più profondo tema sotteso a tutta la silloge é la lettera”s”. Si, proprio una singola lettera: quella s anteposta che porta Oltre sempre (sconfinare, smarginare, sbordare, sradicare, sgretolare), e l’estremo pericolo insito in questo cammino, la necessità di praticarlo con un controllo, con una funzione coscienziale liminale che permetta di “dissipare senza dissiparsi”, citando ancora l’Autrice. Tutto questo ha presentato un conto salatissimo (“Il volo cavo/il prezzo della furia”): la necessità di affrontare quotidianamente il non accettato, il corpo, i nuovi limiti imposti. Prezzo della Colpa: esito paradossale, feroce nemesi per chi avrebbe voluto sempre “slimitare”;. Palomba infatti prova struggente nostalgia per il corpo e la vita che precede lo Scisma, ma anche per l’ospedale e financo per la “pazzia”, per la libertà dell’infinito sbordare: costretta a vivere nell’ “altrimenti”; sorto dalla restituzione, indossando nuove maschere che rendano praticabile una vita in sé sempre impossibile. L’Appello si palesa a Dio e al mondo alla fine del giorno 73: “alta marea è vicina e forte è la buriana/Ancorate la nave!”. Il rischio supremo é avviluppato al proprio destino di sconfinatrice ed esploratrice di abissi (i propri in primis): ma parrebbe profilarsi anche un’altra via all’agognata dissoluzione, forse la rinuncia al mondo (che resta senza possibilità di Verità), forse l’estatica contemplazione del muto mistero che tutto sovrasta. Riuscirà Ilaria Palomba a “rinunciare al suo nome”? E, soprattutto, veramente lo vorrà? Leggere “Scisma” significa farsi attraversare dal “Pericolo” di artaudiana memoria, sondare (senza per forza abbracciare) costituenti antropologiche annidate nell’interiorità di ciascuno; parallelamente però richiede al lettore un’ineludibile disponibilità, un abbandono, un eclissarsi di difese in una temporanea epochè.
Pietro Barbera-
Pietro Barbera, quarantaseienne libero di stato, privo di precedenti letterari e di altra natura, vive a Novara e vi lavora svolgendo la professione di assistente a-sociale. Ha alle spalle studi sociologici e la frequenza del Master in “Death Studies; the End of Life” presso l’Università degli Studi di Padova, nel cui contesto la poetessa e indologa Laura Liberale, durante un seminario, l’ha sollecitato a dedicarsi con maggiore impegno alla scrittura. Burocrazie del Dolore, edito da Giuliano Ladolfi Editore 2024, ne è l’opera prima.
Poesie di Ilaria Palomba
Da “Scisma” (Les Flâneurs, 2024)
Giorno 11
Le infermiere aprono la finestra
il mattino trabocca di lacrime
violaceo azzurrato l’albore tuona –
Schubert copre la nudità dei corpi
avvizziti gremiti di piaghe.
Al mattino il Colosseo Quadrato
sporge nel tramestio di nubi.
Al mattino penso al mio corpo
alla fine del sogno
alla fine dei giochi
un corpo disabitato – l’anima
anela prega piange –
tentativo di uscirne.
Devi restare, creatura infelice,
nella bolgia della mente
nella frattura del mondo
del tuo mondo
nell’avversione al corpo
al nulla caduco
al nulla vacuo
all’immobilità
alla paralisi.
*
Giorno 17
Valium. Litio. Clozapina. Lyrica. Polveri mefitiche lassative. Più di dieci farmaci. La pillola per il fegato: in rianimazione avevo il fegato perforato, l’arteria epatica pronta a deflagrare. Ventotto trasfusioni. È abbastanza come anestesia? Tornati nelle stanze dormiamo tutto il giorno per vivere una vita che non sia questa, per dimenticare il dolore, per inventare un fuori. Dimentica la successione del ricordo, cancella la persona, non esiste il prima. Infettate le pareti; sporche di merda le lenzuola. Cos’è la dignità? Sono rimasta nel mezzo – immobile – nella vastità di nessuno.
*
Giorno 26
Qui è la ghiera del persecutore interno,
non hai rivali fuori da te stessa.
L’uomo illuminato dal demonio
parla la lingua delle bestie:
Qui si smarrisce la coscienza.
Qui si aprono i multipli.
Vuoi vivere o morire?
Rinuncia al tuo nome, o la vita o il tuo nome.
Guarda, guardalo. Anche lui è qui.
Sono tutti qui. Aspettano.
Siamo qui per pulire.
*
Giorno 29
Non voglio essere salva
per restare nell’ombra.
Adesso, sai, non ricordo
il volo cavo,
il prezzo della furia.
Nuda materia plasmabile.
Proteggi le ossa,
allontana la bestia.
Si schiude la ferita, sangue e buio
giacere sgraziata all’esistenza,
crebbe in te la ferita, restò nuda,
avrebbe martellato l’osso sacro,
avrei guardato tutto l’angelico
suppurare in infero, smarginare.
*
Giorno 49
La vecchia nella mia stanza ha un mieloma, è peggiorata. Siamo una moltitudine di solitudini. Li ho guardati qualche volta negli occhi. Erano i restituiti. Veniva l’uomo della stanza accanto a portarmi il cornetto. Lo chiamo F. Diceva: Come sei finita dentro il tumulto? L’ospedale aveva enormi fauci e masticava i nostri corpi. Trovare la forza di portare a termine il pensiero.
Come sei finita?
Un pensiero fecondo mentre muovo la gamba cattiva. Dovrò occuparmi di tutto ciò che ho lasciato. Nulla si può sospendere se non l’attesa. Dovrò occuparmi dell’ottusità.
*
Giorno 54
È rimasto qualcosa di umano in te?
Quanto ancora dovrai attendere?
E la tua smania, chi saprà estirparla?
Una pietà maldestra ti apre all’ascolto
ma un giudizio feroce ti ottunde il pensiero.
Non puoi più seguire i desideri,
Imparerai ogni cosa di nuovo
e sarà un po’ diversa.
Avrai un altro nome.
*
Giorno 73
Nella lontananza dell’idrogeno
il cloro si annoia. Tu con me
aderendo fino alla fine, foglia,
non ti annoi, se l’albero si
scuote e ti strappa via. Io
foglia non mi arrendo se
tu vita mi strappi via. Io,
nella lontananza di questo
reparto, dopo aver gettato
la spugna, risalgo alla vita
stessa. Che sia il barbaglio
di questo sole, sradicamento,
il suicidio non conosce
retrovie, non ho visto il
mio corpo cadere ma
ho sentito cantare un
coro soave. Dove siete,
sorelle? Io vi chiamo
dal letto diciotto, della
stanza numero quattro
dell’unità spinale. Venite,
nel giardino, dove possiamo
camminare, zoppicando.
Era l’alta marea in me
a gettare scompiglio,
era l’altra, colei che
non voglio, e non sono.
Ognuno nel fondo è
un altro. Riprendere
il timone, ancorare la
nave. Dentro un tormento
cui non sono pronta,
l’alta marea è vicina
e forte è la buriana.
Ancorate la nave!
*
Inediti
Se io non fossi l’acerbo sventrato
ma il verbo dell’oltre,
se non avessi macchiate le vesti
di sangue,
se io non portassi in grembo i segni
del mare,
se fossi limpida come il mare
che bagna i tormenti,
se fossi limpida come il mare
che bagna i suoi campi,
se conoscessi il preludio e il perdono,
se una pietà abitasse il corpo,
se una pietà venisse a strapparmi dal
gesto,
se avessi occhi di madre e non sguardo
furioso di figlia,
se io fossi foglia e non magnolia,
se io potessi scombuiare e svanire,
se io potessi smarrire il senno e svenire,
se solo potessi annientarmi e obliare,
se non vedessi gli occhi e gli sguardi,
se non fossero forbici le mani
e gli occhi pugnali,
se non scimitarre le bocche
o gherigli,
e se potessi non rispondere
all’ingiuria col pianto,
ma con l’incanto di chi conosce la fine,
ma con la voce che risale il perdono,
ma con la voce del perdono accolto,
ma con l’avvento di una pietà smarrita,
ma con la memoria di una vita arresa,
non patirei le mani, gli occhi, gl’inganni.
La mente vacilla, il suono del ricordo
annerisce i palmi, oscura le mani.
Io mi rivolsi al cielo e lui mi vinse,
mi rivolsi al mare e l’abisso mi tagliò
in porzioni sottili più e più volte.
alla città fantasma
*
Se tu tornassi io ti accoglierei
nelle mie braccia, ti accoglierei
viva e morta, ti accoglierei,
tu nemesi, tu cieco, tu traudito,
sei il seme dell’uomo e della donna,
il sangue e il giogo e la caduta,
il cervello raccolto dalle membra,
sei la via verso il vuoto,
l’aspersione del fianco,
anima mundi e anima immundi,
sei sangue del mio sangue,
sei cuore del mio cuore,
sei ventre sventrato,
sei la parola smembrata nel vizio,
sei il santo cui votai il crollo,
l’unico biancore del precipizio,
sei tenebra e luce,
accecato e ritornante,
sei l’immondo amante,
sei catena di ruggine rappresa,
sei la mia intera discesa
tra i palazzi crepati della terra,
qui batte il sole e ragliano i cani,
qui siamo all’ora dell’orizzonte vermiglio,
e le case bucate hanno finestre di occhi,
e io fui tua moglie e tu mio figlio,
e fosti il padre e la madre e la conchiglia,
fioritura nera di crisalide estinta,
io sono la tua nemesi spuria,
impara il tempo del mio tempo,
l’arte feroce dello smembramento,
– io sono l’onorata e la disprezzata
io sono la prostituta e la santa
io sono la sposa e la vergine
io sono la prima e l’ultima –
Iside cieca sul fondo
della tua stirpe brunita,
sono la menade e il sacrificio,
e tutte le guerre furono arrese
alla grazia della tua immensa sparizione.
a Iside
*
La notte prima della crocifissione
guardammo le frane e la terra,
guardammo l’algore dell’uomo,
nessuno seppe chiedere perdono.
Perché sono tornata a te adesso?
Per sconquassare la ruggine
nelle mani o per non sapere,
non ho coscienza delle piaghe,
nell’altissimo cercare l’uomo,
la via baluginante nella gioia,
alla ferita succede l’abbandono.
a Gesù Cristo
La rivista «Atelier»
La rivista «Atelier» ha periodicità trimestrale (marzo, giugno, settembre, dicembre) e si occupa di letteratura contemporanea. Ha due redazioni: una che lavora per la rivista cartacea trimestrale e una che cura il sito Online e i suoi contenuti. Il nome (in origine “laboratorio dove si lavora il legno”) allude a un luogo di confronto e impegno operativo, aperto alla realtà. Si è distinta in questi anni, conquistandosi un posto preminente fra i periodici militanti, per il rigore critico e l’accurato scandaglio delle voci contemporanee. In particolare, si è resa levatrice di una generazione di poeti (si veda, per esempio, la pubblicazione dell’antologia L’Opera comune, la prima antologia dedicata ai poeti nati negli anni Settanta, cui hanno fatto seguito molte pubblicazioni analoghe). Si ricordano anche diversi numeri monografici: un Omaggio alla poesia contemporanea con i poeti italiani delle ultime generazioni (n. 10), gli atti di un convegno che ha radunato “la generazione dei nati negli anni Settanta” (La responsabilità della poesia, n. 24), un omaggio alla poesia europea con testi di poeti giovani e interventi di autori già affermati (Giovane poesia europea, n. 30), un’antologia di racconti di scrittori italiani emergenti (Racconti italiani, n. 38), un numero dedicato al tema “Poesia e conoscenza” (Che ne sanno i poeti?, n. 50).
Direttore generale e responsabile: Giuliano Ladolfi Coordinatore delle redazioni: Luca Ariano
Redazione Online
Direttore editoriale: Giovanni Ibello Caporedattrice: Valentina Furlotti Redazione: Giovanna Rosadini, Gisella Blanco, Lucrezia Lombardo, Sarah Talita Silvestri, Massimo D’Arcangelo, Piero Toto, Emanuele Canzaniello, Giovanni Di Benedetto. Collaboratori ed ex collaboratori: Michele Bordoni, Gerardo Masuccio, Antonio Fiori, Matteo Pupillo, Giulio Maffii, Daniele Costantini, Francesca Coppola, Mario Famularo, Paola Mancinelli
Redazione Cartaceo
Direttore: Giovanna Rosadini Redazione: Mario Famularo, Giulio Greco, Alessio Zanichelli, Mattia Tarantino, Giuseppe Carracchia, Carlo Ragliani, Eleonora Rimolo.
Irena Sendler: Eroina della Resistenza ai nazisti in Europa
Irena Sendler, nata nel 1910 e morta nel 2008, è stata una delle più grandi eroine della Resistenza ai nazisti in Europa. Donna libera, socialista, ha salvato più di 2.500 bambini ebrei durante l’occupazione tedesca della Polonia.
“La ragazza dei fiori di vetro” è la sua biografia di Tilar J. Mazzeo (Piemme) che racconta la sua straordinaria vita. Il libro è ricco di dettagli anche sulla Polonia in quegli anni. Sendler è il cognome assunto col matrimonio. Lei si chiamava Krzyzanowska, nata a Otwock , cittadina polacca abitata da moltissimi ebrei. Suo padre, medico, morì di tifo, e le locali comunità ebraiche che consideravano il dottore un loro benefattore, le offrirono le spese dell’Università.
Irena nel periodo tra le due guerre mondiali combattè l’antisemitismo che regnava nelle università polacche. Si innamorò di due uomini: il primo Mieczyslaw Sendler che sposò, il secondo Adam Celniker che amò, sposò successivamente e che venne rinchiuso nel ghetto di Varsavia perché ebreo.
Come assistente sociale riuscì a lavorare nel ghetto relazionando ai tedeschi che temevano l’epidemia di tifo e le insurrezioni. Quando diventò palese che nel 1942 i nazisti volevano deportare l’intera popolazione del ghetto nel campo di sterminio di Treblinka, Irena decise di far uscire dal campo almeno i bambini nascondendoli in sacchi di iuta, nelle cassette di attrezzi… Non era sola in questa operazione. Oltre all’organizzazione Zegota, guidata dal socialista Jan Grobelny, personaggi di destra, cattolici, persone che con “scopo salvifico” pensavano di salvare i bambini, battezzarli, e sottrarli al “perfido giudaismo”. Fu grazie a Sendler, che annotò scrupolosamente i nomi dei piccoli che alla fine della guerra vennero restituiti alla loro identità.
Dopo la guerra divorziò dal marito e sposò Adam tornato dalla prigionia. Morto Adam nel 1961, risposò il suo primo marito Mieczyslaw. Il che è anche una risposta a chi si chiede se è possibile amare due uomini contemporaneamente e durante il corso della propria vita se si riesca a tenerli legati a sé.
Nel 1965 le fu conferita dagli israeliani la medaglia di Giusta tra le nazioni.
Piero Barbareschi-L’ULTIMA COPIA–Un viaggio musicale nell’Europa del Settecento-
Zecchini Editore-Varese
Descrizione- Un viaggio musicale nell’Europa del Settecento-Autunno 1772. Un anziano copista musicale, Agostino Busetto, è costretto a fermarsi in una locanda di montagna durante il viaggio di ritorno verso Venezia, sua città natale. In un lungo dialogo con il proprietario ripercorre le tappe della sua vita e della sua carriera, consentendo al lettore di scoprire ed immergersi nell’affascinante mondo musicale dell’Europa del XVIII secolo.
Escludendo il protagonista tutti i personaggi sono reali e le vicende realmente avvenute nella cronologia descritta nella narrazione. Oltre a nomi celeberrimi come Bach, Haendel, Vivaldi, Porpora, Galuppi, Goldoni, Farinelli, che insieme a molti altri Busetto avrà la fortuna di incontrare, un altro personaggio realmente esistito compare inaspettato durante la narrazione condizionando la vita e le azioni del copista: Jan Dismas Zelenka. Autore ancor oggi troppo poco valorizzato, rappresenta con la sua musica straordinaria e la vita ammantata da un alone di mistero un tipico esempio di un musicista geniale che non riuscì a dominare e contrastare gli spietati meccanismi che, allora come oggi, regolavano e condizionavano la carriera e la fama degli artisti, nel suo caso esasperati a tal punto da provocare un totale ed ancora oggi inspiegabile oblio per quasi duecento anni.
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– Matilde SERAO Le più belle pagine scelte da Alberto Consiglio -Treves Editore Milano1934-
Articolo di Giulio MARZOT scritto per la Rivista PAN n°12 del 1935-
Breve biografia di Matilde Serao nasce a Patrasso, in Grecia, il 7 marzo del 1856. Matilde Serao,Scrittrice di prestigio, tra le più prolifiche di sempre della letteratura italiana, con oltre settanta opere al suo attivo, è passata alla storia anche per essere stata la prima donna italiana a fondare e dirigere un giornale. Al suo nome infatti, si lega quell’intenso momento di rinnovamento del giornalismo italiano che segna il passaggio dall’Ottocento al Novecento, ossia da un modo di fare informazione ancora tutto sommato artigianale, ad un altro tipo più efficace e impegnato, oltre che tecnologicamente avanzato. La città nella quale lavorò più intensamente e con risultati migliori è Napoli, dopo l’iniziale esperienza romana. La rubrica “I mosconi”, prima chiamata “Api, vespe e mosconi”, inventata proprio da lei sul foglio di Edoardo Scarfoglio, “Il Mattino”, è senza ombra di dubbio una delle trovate più acute e di prestigio della storia del giornalismo italiano.
Trascorre i primi anni della sua vita in Grecia, assorbendo però la cultura italiana di suo padre, Francesco Serao, avvocato e giornalista antiborbonico mandato in esilio negli anni tumultuosi dell’Unificazione. Sua madre, Paolina Borely, è invece una nobile greca, appartenente però ad una famiglia ormai in declino .Con l’Unità d’Italia la famiglia Serao ritorna in patria, prima a Ventaroli, vicino Carinola, e poi a Napoli, dove Matild-e compie i propri studi, per quanto in modo del tutto singolare. Il rientro in patria in realtà è datato 1860: le voci di un’imminente vittoria contro i Borboni hanno raggiunto anche il padre della piccola Matilde, che dal 1848, anno del suo allontanamento forzato, si guadagna da vivere come insegnante in terra greca.
Dal 1861, Francesco Serao inizia la sua attività di giornalista per “Il Pungolo”, foglio d’ispirazione liberale e molto apprezzato dal popolo napoletano. Pur nelle ristrettezze economiche nelle quali si trovano a vivere, che impediscono alla futura scrittrice di compiere studi scolastici ordinari, la giovanissima Serao frequenta e apprezza sin dagli anni dell’infanzia e della prima adolescenza l’ambiente che più le sarà familiare: quello della redazione di un giornale.
All’età di quindici anni, dopo essersi data da fare negli studi soprattutto da autodidatta si presenta in qualità di semplice uditrice alla Scuola Normale “Eleonora Pimentel Fonseca”, in Piazza del Gesù, a Napoli. Sono anni di svolta per lei e l’anno dopo, infatti, nel 1872, Matilde abiura la confessione ortodossa, trasmessale dalla madre, e si converte al cattolicesimo. Nell’arco di poco tempo allora, ottiene anche il diploma di maestra, pur continuando ad aiutare le finanze della famiglia. Vince, infatti, un concorso come ausiliaria ai Telegrafi di Stato: professione che la impegna per ben quattro anni, nei quali però matura in lei definitivamente l’amore per la letteratura e per l’impegno giornalistico. Nel 1878, dopo aver scritto qualche articolo per il Giornale di Napoli, spesso con lo pseudonimo di “Tuffolina”, a ventidue anni porta a termine la sua prima novella, dal titolo “Opale”. Questa viene pubblicata dal Corriere del Mattino. Nel 1882 allora, si trasferisce a Roma, dove prende parte all’avventura editoriale del “Capitan Fracassa”, trattando con disinvoltura argomenti diversi, dalla cronaca rosa alla critica letteraria. In questo periodo, il suo pseudonimo è “Ciquita”.
Ad aprirle le porte della narrativa italiana a tutti gli effetti è “Fantasia”, pubblicato nel 1883 e, non a caso, aspramente criticato proprio dall’uomo che ben presto diventerà suo marito, Edoardo Scarfoglio. Il giornalista, animatore culturale e versato poeta, commenta in modo molto negativo l’opera della Serao, stroncando di fatto, sul giornale letterario “Il libro Don Chisciotte”, l’allora giovane scrittrice. Tuttavia, il loro incontro segna anche l’inizio di una delle vicende d’amore più tormentate e turbolente della storia della letteratura e del giornalismo italiano.
Già nel 1885 i due si sposano, forti dell’esperienza giornalistica che condividono in quei mesi al “Corriere di Roma”, altro foglio molto importante in questo periodo, fondato proprio dallo stesso Scarfoglio. Intanto la Serao non rinuncia né al suo ruolo di madre né a quello di scrittrice. Nascono Antonio, Carlo, Paolo e Michele, dall’unione con Scarfoglio, ma vedono la luce anche “Il ventre di Napoli”, nel 1884, “La conquista di Roma”, del 1885, “Il romanzo della fanciulla”, del 1886, e il libro che Benedetto Croce non esita a definire “il romanzo del giornalismo italiano”, ossia “Vita e avventure di Riccardo Joanna”, pubblicato nel 1887.
È un momento florido dal punto di vista letterario questo che vive la scrittrice, e la letteratura nazionale se ne avvarrà sempre, aumentando la sua fama nel corso degli anni e soprattutto dopo la sua morte.
Tra “Il paese di cuccagna” e “La virtù di Cecchina” però, datati rispettivamente 1891 e 1906, opere non meno importanti delle summenzionate per quanto minori, si colloca l’idillio e la fine tragica della relazione tra la Serao e suo marito. I due infatti, chiuso il foglio romano, si recano a Napoli, dove danno vita al “Corriere di Napoli”. Il foglio ha problemi economici ma segna una svolta nel panorama meridionale, almeno dal punto di vista della libertà di informazione. Sulle pagine dirette dalla scrittrice poi, quelle culturali, compaiono firme illustri, come quelle di Giosuè Carducci e Gabriele D’Annunzio.
L’esperienza dura poco ma permette ai due compagni di vita e di lavoro di dare vita, nel 1891, al ben noto “Il Mattino”, che vede Scarfoglio come direttore e la Serao come co-direttrice. Da questo momento però, all’ascesa del foglio partenopeo fa da contraltare la caduta della coppia, soprattutto a causa del marito dell’autrice. Scarfoglio, infatti, è un uomo poco tranquillo sul piano sentimentale.
Nell’estate del 1892 conosce Gabrielle Bessard, una cantante di teatro. Tra loro nasce una relazione, per giunta agevolata dalla fuga, a causa di un litigio, della Serao, la quale si reca da sola in villeggiatura, presso una località della Val d’Aosta. Passano due anni e Gabrielle rimane incinta. Scarfoglio allora la abbandona, e torna dalla moglie. Ma il 29 agosto del 1894 la Bessard si presenta sulla porta della casa di Scarfoglio e della Serao e, dopo aver posato a terra la piccola figlioletta nata dalla loro unione, si spara un colpo mortale alla tempia.
Matilde Serao, nonostante il clamore suscitato dalla notizia comparsa su tutti i giornali, non esita a prendersi cura dalla piccola Paolina, decidendo di allevarla comunque. Tuttavia, esasperata dai comportamenti del marito, decide di lasciarlo e di lasciare, con lui, anche quella che è la sua vera creatura, il quotidiano “Il Mattino”.
Il giornale, come se non bastasse, rimane coinvolto anche nello scandalo dell’amministrazione Sulmonte che finisce per tirare dentro, tra polemiche e calunnie, anche la stessa scrittrice, accusata di aver goduto di certi privilegi economici in cambio di favori. Scarfoglio coglie la palla al balzo e se la difende, sua moglie, lo fa solo ed esclusivamente con il doppio fine di umiliarla e di salvare la propria reputazione. Tra il 1902 e il 1903, l’abbandono del giornale è ufficiale: la Serao è disoccupata a tutti gli effetti.
Nello stesso periodo però entra nella sua vita un altro giornalista, l’avvocato Giuseppe Natale. Con questi allora, senza perdersi d’animo, Matilde fonda e dirige, unica nella storia del giornalismo italiano, il giornale “Il Giorno”, diretta emanazione delle sue idee politiche e culturali. Dall’unione con Natale, Nasce anche Eleonora, di lì a poco, chiamata così dalla scrittrice per dimostrare il suo affetto per l’attrice Eleonora Duse. Il giornale, più pacato del concorrente “Mattino”, ottiene un buon successo di vendite.
Nel 1917, morto Scarfoglio, Matilde Serao sposa Giuseppe Natale, ufficializzando così la loro unione sotto ogni punto di vista, per giunta solo qualche anno prima della morte di lui. Nel 1926, l’autrice riceve la candidatura a premio Nobel per la Letteratura, che verrà poi assegnato a Grazia Deledda, altra grande voce della letteratura italiana al femminile.
Il 25 luglio del 1927, all’età di 71 anni, Matilde Serao muore a Napoli, sulla sua scrivania, durante l’ennesimo momento di scrittura della sua esistenza. Di lei si ricorda il carattere profondamente sanguigno, sottolineato da una grande napoletanità. Nella città di Napoli era considerata un personaggio tanto popolare che si dice che quando passava in carrozzella, i monelli gridavano a gran voce: “Sta panno a signurì!” (Sta passando la signora!). Sebbene non avesse basi culturali tali da raggiungere un’importante profondità linguistica fu senza dubbio una grande figura nel campo del giornalismo: va ricordata in tal senso la sua idea, creativa e precorritrice, di trovare nuovi abbonati ai suoi giornali attraverso concorsi e cadeaux di varia natura.
Articolo di Giulio MARZOT scritto per la Rivista PAN n°12 del 1935-
Biografia di Matilde Serao- Patrasso 1856 – Napoli 1927-
Matilde Serao nasce a Patrasso, in Grecia, il 7 marzo del 1856.Scrittrice di prestigio, tra le più prolifiche di sempre della letteratura italiana, con oltre settanta opere al suo attivo, è passata alla storia anche per essere stata la prima donna italiana a fondare e dirigere un giornale. Al suo nome infatti, si lega quell’intenso momento di rinnovamento del giornalismo italiano che segna il passaggio dall’Ottocento al Novecento, ossia da un modo di fare informazione ancora tutto sommato artigianale, ad un altro tipo più efficace e impegnato, oltre che tecnologicamente avanzato. La città nella quale lavorò più intensamente e con risultati migliori è Napoli, dopo l’iniziale esperienza romana. La rubrica “I mosconi”, prima chiamata “Api, vespe e mosconi”, inventata proprio da lei sul foglio di Edoardo Scarfoglio, “Il Mattino”, è senza ombra di dubbio una delle trovate più acute e di prestigio della storia del giornalismo italiano.
Trascorre i primi anni della sua vita in Grecia, assorbendo però la cultura italiana di suo padre, Francesco Serao, avvocato e giornalista antiborbonico mandato in esilio negli anni tumultuosi dell’Unificazione. Sua madre, Paolina Borely, è invece una nobile greca, appartenente però ad una famiglia ormai in declino .Con l’Unità d’Italia la famiglia Serao ritorna in patria, prima a Ventaroli, vicino Carinola, e poi a Napoli, dove Matild-e compie i propri studi, per quanto in modo del tutto singolare. Il rientro in patria in realtà è datato 1860: le voci di un’imminente vittoria contro i Borboni hanno raggiunto anche il padre della piccola Matilde, che dal 1848, anno del suo allontanamento forzato, si guadagna da vivere come insegnante in terra greca.
Dal 1861, Francesco Serao inizia la sua attività di giornalista per “Il Pungolo”, foglio d’ispirazione liberale e molto apprezzato dal popolo napoletano. Pur nelle ristrettezze economiche nelle quali si trovano a vivere, che impediscono alla futura scrittrice di compiere studi scolastici ordinari, la giovanissima Serao frequenta e apprezza sin dagli anni dell’infanzia e della prima adolescenza l’ambiente che più le sarà familiare: quello della redazione di un giornale.
All’età di quindici anni, dopo essersi data da fare negli studi soprattutto da autodidatta si presenta in qualità di semplice uditrice alla Scuola Normale “Eleonora Pimentel Fonseca”, in Piazza del Gesù, a Napoli. Sono anni di svolta per lei e l’anno dopo, infatti, nel 1872, Matilde abiura la confessione ortodossa, trasmessale dalla madre, e si converte al cattolicesimo. Nell’arco di poco tempo allora, ottiene anche il diploma di maestra, pur continuando ad aiutare le finanze della famiglia. Vince, infatti, un concorso come ausiliaria ai Telegrafi di Stato: professione che la impegna per ben quattro anni, nei quali però matura in lei definitivamente l’amore per la letteratura e per l’impegno giornalistico. Nel 1878, dopo aver scritto qualche articolo per il Giornale di Napoli, spesso con lo pseudonimo di “Tuffolina”, a ventidue anni porta a termine la sua prima novella, dal titolo “Opale”. Questa viene pubblicata dal Corriere del Mattino. Nel 1882 allora, si trasferisce a Roma, dove prende parte all’avventura editoriale del “Capitan Fracassa”, trattando con disinvoltura argomenti diversi, dalla cronaca rosa alla critica letteraria. In questo periodo, il suo pseudonimo è “Ciquita”.
Ad aprirle le porte della narrativa italiana a tutti gli effetti è “Fantasia”, pubblicato nel 1883 e, non a caso, aspramente criticato proprio dall’uomo che ben presto diventerà suo marito, Edoardo Scarfoglio. Il giornalista, animatore culturale e versato poeta, commenta in modo molto negativo l’opera della Serao, stroncando di fatto, sul giornale letterario “Il libro Don Chisciotte”, l’allora giovane scrittrice. Tuttavia, il loro incontro segna anche l’inizio di una delle vicende d’amore più tormentate e turbolente della storia della letteratura e del giornalismo italiano.
Già nel 1885 i due si sposano, forti dell’esperienza giornalistica che condividono in quei mesi al “Corriere di Roma”, altro foglio molto importante in questo periodo, fondato proprio dallo stesso Scarfoglio. Intanto la Serao non rinuncia né al suo ruolo di madre né a quello di scrittrice. Nascono Antonio, Carlo, Paolo e Michele, dall’unione con Scarfoglio, ma vedono la luce anche “Il ventre di Napoli”, nel 1884, “La conquista di Roma”, del 1885, “Il romanzo della fanciulla”, del 1886, e il libro che Benedetto Croce non esita a definire “il romanzo del giornalismo italiano”, ossia “Vita e avventure di Riccardo Joanna”, pubblicato nel 1887.
È un momento florido dal punto di vista letterario questo che vive la scrittrice, e la letteratura nazionale se ne avvarrà sempre, aumentando la sua fama nel corso degli anni e soprattutto dopo la sua morte.
Tra “Il paese di cuccagna” e “La virtù di Cecchina” però, datati rispettivamente 1891 e 1906, opere non meno importanti delle summenzionate per quanto minori, si colloca l’idillio e la fine tragica della relazione tra la Serao e suo marito. I due infatti, chiuso il foglio romano, si recano a Napoli, dove danno vita al “Corriere di Napoli”. Il foglio ha problemi economici ma segna una svolta nel panorama meridionale, almeno dal punto di vista della libertà di informazione. Sulle pagine dirette dalla scrittrice poi, quelle culturali, compaiono firme illustri, come quelle di Giosuè Carducci e Gabriele D’Annunzio.
L’esperienza dura poco ma permette ai due compagni di vita e di lavoro di dare vita, nel 1891, al ben noto “Il Mattino”, che vede Scarfoglio come direttore e la Serao come co-direttrice. Da questo momento però, all’ascesa del foglio partenopeo fa da contraltare la caduta della coppia, soprattutto a causa del marito dell’autrice. Scarfoglio, infatti, è un uomo poco tranquillo sul piano sentimentale.
Nell’estate del 1892 conosce Gabrielle Bessard, una cantante di teatro. Tra loro nasce una relazione, per giunta agevolata dalla fuga, a causa di un litigio, della Serao, la quale si reca da sola in villeggiatura, presso una località della Val d’Aosta. Passano due anni e Gabrielle rimane incinta. Scarfoglio allora la abbandona, e torna dalla moglie. Ma il 29 agosto del 1894 la Bessard si presenta sulla porta della casa di Scarfoglio e della Serao e, dopo aver posato a terra la piccola figlioletta nata dalla loro unione, si spara un colpo mortale alla tempia.
Matilde Serao, nonostante il clamore suscitato dalla notizia comparsa su tutti i giornali, non esita a prendersi cura dalla piccola Paolina, decidendo di allevarla comunque. Tuttavia, esasperata dai comportamenti del marito, decide di lasciarlo e di lasciare, con lui, anche quella che è la sua vera creatura, il quotidiano “Il Mattino”.
Il giornale, come se non bastasse, rimane coinvolto anche nello scandalo dell’amministrazione Sulmonte che finisce per tirare dentro, tra polemiche e calunnie, anche la stessa scrittrice, accusata di aver goduto di certi privilegi economici in cambio di favori. Scarfoglio coglie la palla al balzo e se la difende, sua moglie, lo fa solo ed esclusivamente con il doppio fine di umiliarla e di salvare la propria reputazione. Tra il 1902 e il 1903, l’abbandono del giornale è ufficiale: la Serao è disoccupata a tutti gli effetti.
Nello stesso periodo però entra nella sua vita un altro giornalista, l’avvocato Giuseppe Natale. Con questi allora, senza perdersi d’animo, Matilde fonda e dirige, unica nella storia del giornalismo italiano, il giornale “Il Giorno”, diretta emanazione delle sue idee politiche e culturali. Dall’unione con Natale, Nasce anche Eleonora, di lì a poco, chiamata così dalla scrittrice per dimostrare il suo affetto per l’attrice Eleonora Duse. Il giornale, più pacato del concorrente “Mattino”, ottiene un buon successo di vendite.
Nel 1917, morto Scarfoglio, Matilde Serao sposa Giuseppe Natale, ufficializzando così la loro unione sotto ogni punto di vista, per giunta solo qualche anno prima della morte di lui. Nel 1926, l’autrice riceve la candidatura a premio Nobel per la Letteratura, che verrà poi assegnato a Grazia Deledda, altra grande voce della letteratura italiana al femminile.
Il 25 luglio del 1927, all’età di 71 anni, Matilde Serao muore a Napoli, sulla sua scrivania, durante l’ennesimo momento di scrittura della sua esistenza. Di lei si ricorda il carattere profondamente sanguigno, sottolineato da una grande napoletanità. Nella città di Napoli era considerata un personaggio tanto popolare che si dice che quando passava in carrozzella, i monelli gridavano a gran voce: “Sta panno a signurì!” (Sta passando la signora!). Sebbene non avesse basi culturali tali da raggiungere un’importante profondità linguistica fu senza dubbio una grande figura nel campo del giornalismo: va ricordata in tal senso la sua idea, creativa e precorritrice, di trovare nuovi abbonati ai suoi giornali attraverso concorsi e cadeaux di varia natura.
Nota di Mary Liguori :”Dipinti ad olio dell’artista russo Georgy Kurasov : Cubismo e geometria del corpo, cubismo, l’arte mescolata con la scultura, . Georgy Kurasov è nato nel 1958 in URSS, in quella che era allora Leningrado. Vive e lavora nello stesso posto, . Gli americani vedono Georgy Kurasov come un artista russo, i russi come un artista americano, per i pittori lui è uno scultore, gli scultori sono sicuri che è un pittore, lui cerca solo di essere se stesso, di non essere come nessun altro”. Nota di Mary Liguori
L’artista russo Georgy Kurasov ha uno stile particolare nel realizzare i suoi dipinti di donne pieni di colore e movimento. Quasi tendente all’astrattismo e con qualche indiretta influenza cubista. Un risultato estetico frutto di un percorso artistico del tutto unico. Georgy infatti si forma dapprima come scultore, ma poi esplora il campo della pittura e lo fa aderendo alla filosofia ed estetica del neo-costruttivismo. Il movimento che enfatizza la geometria non ortodossa, linee libere di intersecarsi e dare vita a nuove situazioni di volta in volta. Un approccio che distorce i corpi dei suoi soggetti e li restituisce in modo frammentato. In proporzioni surreali, ma anche ricche di vita e colori.
Biography Georgy Kurasov was born in 1958 in the USSR, in what was then Leningrad. He still lives and works in the same place, but now the country is Russia and the city is called St Petersburg. Without any effort on his part whatsoever, Georgy seems to have emigrated from one surreal country to another.
His native city was irrational from the very moment of its foundation. Situated on the same latitude as the southern shores of Alaska, on the swampy delta of the River Neva where no one had ever settled before, this new capital city grew up on the very edge of a monstrous empire.
Here on the totally flat surface carved across by rivers, streams and canals, European architects laid out, like images on a canvas, straight avenues, streets and squares, they built Greco-Roman porticoes and Baroque palazzi, erected sculptures and fountains, amidst something akin to permafrost where half the year is dominated by ice and frost and the other half by damp and rain.
It is hard to find a more artificial – more artistic – city.
Georgy spent his childhood on the Petrograd Side, to the north of the city, in a tiny little flat with windows that looked out onto an even tinier courtyard. As far as he recalls, he modelled things in plasticine and drew resting on the vast wooden windowsills. Not so much aesthetic pastimes as compensations for the grey minimalism of everyday life, the absence of light and bright colours.
At thirteen years old his mother put him in the art school attached to the Academy of Arts. At the interview it was politely explained that there was nothing for Georgy in the painting department since he had a total lack of feeling for colour. So they suggested Georgy Kurasov join the sculpture class.
In some way he was pleased, since all the painted images they showed him seemed terribly boring, and Georgy had great interest in form.
That was when he began his professional training.
In 1977 Georgy Kurasov entered the sculpture department of the Academy of Arts.
He spent six years in the vast studio of a building erected during the time of Catherine the Great, in the late 18th century. Those gloomy, narrow, incredibly high vaulted corridors, the vast, cold, grimy studios, everything was inhabited by the ghosts of long dead masters of ages past, whose influence was far more real than the insignificant apologists of Socialist Realism and of Marxist-Leninist aesthetics. The Academy was a solid amalgamation of temple to and prison of the arts.
Yet those years in the Academy were the best years of his life. Nearly all Georgy’s friends and colleagues date from those years.
The circles he moved in were intellectual, talented, young – which meant free, with the exception of the one or two informers that were simply an obligatory element of life in those years and did little to alter the overall picture.
It was then that Georgy met his wonderful Zina, who was later to occupy nearly all his space, both physical, in his life, and creative, in his works.
Almost immediately after his diploma Georgy Kurasov was called up for army service, but even there he was armed not with a rifle but with paints, since he was lucky enough to be appointed Court Artist to his general.
In 1984 Georgy Kurasov was at last demobbed. He was free.
Over the next few years he took part in all kinds of exhibitions and competitions in order to score the Brownie points necessary to gain membership of the Union of Artists, since that was more or less the only way of being allocated a separate studio.
It was not the easiest of times. In order to take part in exhibitions you had to have something to display. And in order to create that something to display, you had to have a place in which to create it. Georgy had nowhere.
At last, however, he managed to join the happy ranks of members of the Union of Artists, was allocated his tiny studio, and thought he was at the very peak of happiness. All around him the country was in turmoil, at the very heights of Gorbachev’s ‘perestroika’, people passionately quenching their thirst for information whilst battling with a hunger of somewhat more concrete physical nature caused by food shortages.
Things were now rather difficult for artists, particularly as far as sculpture was concerned. Sculpture, as is well known, is an art form for either rich or totalitarian states. The totalitarian state had ceased to exist but it had not become rich.
Georgy Kurasov started to paint, but it soon became clear that selling his pictures for any acceptable price was going to be impossible, and so he had to feed his family by producing small pastels which Georgy sold through small galleries dealing mainly in souvenirs for foreign tourists.
In 1991 the Soviet Union collapsed. By that time Kurasov had put together a large body of paintings, but had absolutely no idea what he was going to do with them. The future looked bleak.
Then in 1993 his works were first exhibited in the USA. Since then, Georgy Kurasov have exhibited and sold his paintings exclusively in North America.
It is many years since he dropped out of the world of sculpture in Russia, and he never formed part of the world of painting there. Kurasov knows there are plenty of people who, noting the absence of his works at Russian exhibitions, think he has emigrated.
Americans see Georgy Kurasov as a Russian artist, Russians as an American artist. Painters think he is a sculptor. Sculptors are sure he is a painter.
And when Georgy Kurasov thinks of it, he rather like this borderline existence. Perhaps it what makes it possible to be himself, to be unlike anyone else.
GEORGY KURASOV 1958 URSS – ATTIVO a SAN PIETROBURGO
Fin da sempre si dedicò all’arte della pittura, dopo un’adolescenza burrascosa e difficile, per mantenere la sua famiglia iniziò a lavorare come artista. Fino a che nel 1993 ci fu la svolta vera e propria, perché le sue opere vennero esposte negli Stato Uniti, da quel momento in poi espose le sue opere solo ed esclusivamente nel Nord America.
All’interno dei suoi dipinti sono racchiusi diversi stili, tanto che lo fanno sembrare un artista russo, ma talvolta americano, taluni pensano sia uno scultore, altri che sia un pittore, a causa della sua formazione e dei suoi interessi per il mondo dell’arte e della cultura.
Il suo soggetto prediletto è la donna, il modo con cui le rappresenta è di totale rispetto, donando ad ognuna una sensualità elevata.
Bernardino MOLINARI in concerto al Teatro AUGUSTEO di ROMA- 9 marzo 1924
Programma di sala originale completo
Biografia di Bernardino MOLINARI– (Nacque a Roma l’11 apr. 1880 – ivi 1952)da Giovanni e Maria Stozzi.Dotato di precoce talento musicale – H. Wolf diede un giudizio lusinghiero su una fuga bachiana eseguita dal M. a soli dieci anni (Mucci, p. 17) –, entrò nel 1896 al liceo musicale di S. Cecilia, studiando armonia e organo con R. Renzi e composizione con S. Falchi. Si diplomò nel 1902, affrontando già durante gli studi i primi concerti.
Nel 1908 venne inaugurata a Roma la grande sala dell’Augusteo, destinata a diventare la sede storica dell’orchestra di S. Cecilia: quattro anni dopo, il trentaduenne M. – che si era rivelato prezioso elemento già dal 1909, preparando l’orchestra per l’attesissimo concerto che avrebbe diretto R. Strauss – ne divenne il direttore artistico e stabile. Prendeva così avvio una lunga stagione, destinata a durare fino al 1944, di fondamentale importanza per l’educazione musicale del pubblico romano: in perfetta intesa con il conte Enrico di San Martino, presidente dell’Accademia di S. Cecilia, il M. avviò un capillare lavoro di riappropriazione della cultura sinfonica, messa in disparte da un secolo di predominio operistico, da intendersi come altra grande tradizione musicale italiana, parallela a quella melodrammatica.
Grazie ai concerti da lui diretti, approdarono per la prima volta a Roma e in Italia molti nuovi capolavori di C. Debussy, I. Stravinskij, A. Honegger. Il M. si fece inoltre promotore di una nuova scuola sinfonica italiana: una fitta schiera di nomi dove spiccavano O. Respighi, R. Zandonai, G.F. Malipiero, A. Casella, il giovane G. Petrassi e, prima delle leggi razziali del 1938, M. Castelnuovo Tedesco.
Con tale repertorio non fu sempre facile conquistare il pubblico: burrascosa, per esempio, fu l’accoglienza del concerto (5 febbr. 1922) ove furono presentati i Tre canti d’amore di F. Mantica, le Impressioni pagane di V. Davico e il Concerto gregoriano di Respighi. Una correzione di rotta (dalle serate di sole novità italiane si passò ai concerti misti, ma sempre, se possibile, con una pagina di autore italiano contemporaneo) e importanti iniziative parallele all’attività concertistica (la costituzione, nel 1929, di una commissione di lettura per le partiture inedite) rinforzarono però il sogno del M. di una scuola sinfonica italiana.
D’altronde con gli anni la politica culturale di B. Mussolini tese a privilegiare il sinfonismo rispetto al vecchio mondo del melodramma, vedendo nell’orchestra sinfonica una metafora della compatta disciplina di massa; né il M. mancò di svolgere, quale membro del Direttorio del sindacato nazionale dei musicisti, un ruolo – del tutto informale – di consulente musicale del duce.
Non meno impegnato fu come rielaboratore di partiture. Tra le numerose trascrizioni sono da citare (incise anche in disco): L’isle joyeuse di Debussy (trascritta per pianoforte e orchestrata dal M.), Moto perpetuo di N. Paganini (esteso dal violino solista alla massa dei primi violini) e Le quattro stagioni di A. Vivaldi (riadattate per un’orchestra «allargata»). Il M. fu attivo anche sotto il profilo didattico: nel 1936 varò presso l’Accademia di S. Cecilia un corso di perfezionamento in direzione d’orchestra, destinato a trasformarsi tre anni dopo in cattedra ufficiale. Ne uscirono allievi come F. Molinari Pradelli, O. Ziino e G. Gavazzeni; ma già in precedenza il M. aveva dato il proprio contributo alla formazione delle nuove leve, utilizzando e valorizzando – quale suo maestro sostituto all’Augusteo – M. Rossi, destinato di lì a poco a un’importante carriera. Il M. fu un vero personaggio pubblico, noto per il suo carattere talvolta irascibile (si accaniva in un interminabile numero di prove, esasperando gli strumentisti) e animatore di riunioni – il mercoledì e la domenica, dopo i concerti all’Augusteo – che convogliavano grandi menti di ogni campo artistico.
Il 16 febbr. 1933, per il venticinquesimo anno dell’Augusteo, il M. diresse un trionfale concerto, dal programma identico a quello diretto da G. Martucci nel 1908 per l’inaugurazione.
Ma alla sala restavano solo tre anni di vita: costruita sulle rovine del mausoleo di Augusto, fu demolita – in ottemperanza alla visione urbanistica neoimperiale del regime – nel maggio 1936, per rendere più visibili le vestigia antiche e isolarle dagli edifici circostanti. Dalla stagione 1936-37, e fino al 1946, la sede sarebbe stata il teatro Adriano. Per ironia della sorte, solo nel 1937 l’orchestra di S. Cecilia fu formalizzata come «stabile»: l’unica orchestra sinfonica stabile italiana.
A fronte dei concerti romani non meno importanti furono le presenze del M. all’estero, sia con i complessi ceciliani sia con le orchestre del posto (reiterata la collaborazione con la Filarmonica Ceca a Praga). Importanti poi, nell’ambito dell’asse Roma-Berlino, i concerti in Germania nella stagione 1940-41.
All’indomani della liberazione di Roma, il M. venne duramente contestato nel corso di due serate all’Adriano. Il 9 luglio un suo concerto offrì «il destro […] di inscenare una manifestazione ostile […]. Il pubblico fischiava; alcuni ufficiali americani si fecero largo tra la folla inferocita ed andarono a stringere la mano al Maestro» (Il Tempo, 11 luglio 1944, p. 2). Peggio, però, le cose andarono nel concerto del 12 luglio: dalla galleria piovvero volantini intitolati «Fuori Molinari!», in cui si leggeva «come il fascista Molinari trattasse con rozzi metodi dittatoriali gli orchestrali» e che «si invita ogni spettatore di buon senso a manifestare energicamente il proprio dissenso». La prima parte del concerto fu portata a termine, ma la seconda – era prevista la sinfonia n. 9 di L. van Beethoven – non poté avere luogo perché il soprano solista, Liana Cortini, comunicò nell’intervallo la sua volontà di non cantare per «protesta contro il maltrattamento che il M° Molinari faceva agli interpreti» (Fiorda, p. 71). Alla fine «fischi ed urla lo costrinsero a ritirarsi» (Il Tempo, 13 luglio, p. 2). Il giorno dopo, sempre nel Tempo, apparve una lettera della Cortini, da molti ritenuta complice dei contestatori, dove il soprano ribadiva le proprie ragioni.
L’incidente all’Adriano segnò duramente il M., che si sarebbe riaffacciato su un podio romano solo con l’orchestra del teatro dell’Opera, con due edizioni di Norma di V. Bellini: prima nel gennaio 1946, poi nel luglio dello stesso anno, alle Terme di Caracalla. Furono le ultime apparizioni di una carriera ormai conclusa: incapace di farsi una ragione delle numerose epurazioni di quei mesi (che oltre al M. coinvolsero, per breve periodo, pure Enrico di San Martino), indifferente ai tentativi degli accademici di S. Cecilia di assicurargli una riabilitazione morale (venne eletto vicepresidente), sempre più chiuso in se stesso, il M. morì a Roma il 25 dic. 1952.
Se gli estimatori del M. furono molti, da Debussy (con cui ebbe un fitto scambio epistolare) a Stravinskij, non mancò chi scorse dei limiti nel concertatore: lo stesso altissimo numero di prove potrebbe essere indice di insicurezza, più che di scrupolo professionale (D’Amico). Il librettista e critico musicale E. Mucci, autore nel 1941 di una biografia del M., parlò anche di un’evoluzione del suo approccio interpretativo: più infuocato nella prima parte della carriera, più misurato poi. La documentazione discografica è comunque troppo sguarnita per una disamina della sua arte. Pesa pure, ai fini di un giudizio complessivo, la scarsa frequentazione del genere operistico: oltre a Norma, solo Aida di G. Verdi (di cui il M., sulla scia di A. Toscanini, recuperò la sinfonia disconosciuta dall’autore), Manon Lescaut di G. Puccini e, in ambito francese, Werther di J. Massenet e Romeo e Giulietta di Ch. Gounod, oltre a Oedipus rex (per il M. una logica coda delle frequentazioni con lo Stravinskij sinfonico).
Fonti e Bibl.: Necr., in M. Labroca, Ricordo di B. M., in Rassegna musicale, gennaio 1953, pp. 38 s.; E. Mucci, B. M., Lanciano 1941; Il Tempo, Roma, comunicati redazionali, 11, 13 e 14 luglio 1944, p. 2; G. Boni, B. M., in S. Cecilia, dicembre 1962, p. 5; R. Rossellini, B. M., ibid., pp. 6 s.; N. Fiorda, Arte beghe e bizze di Toscanini, Roma 1969, pp. 69-71; G. Barigazzi, La Scala racconta, Milano 1984, p. 279; F. Nicolodi, Musica e musicisti nel ventennio fascista, Fiesole 1984, pp. 94, 139, 294 s., 300 s., 348, 351, 413; H. Sachs, Musica e regime, Milano 1995, pp. 42 s., 115 s., 128, 175, 202 s., 211 s., 216, 247, 310; F. D’Amico, Un ragazzino all’Augusteo, a cura di F. Serpa, Torino 1991, pp. 235 s.; S. Biguzzi, L’orchestra del duce, Torino 2003, p. 124; Diz. encicl. univ. della musica e dei musicisti, Le biografie, V, p. 134.
Fonte -Enciclopedia TRECCANI on line-
Biografia di Bernardino MOLINARI– (Nacque a Roma l’11 apr. 1880 – ivi 1952)da Giovanni e Maria Stozzi.Dotato di precoce talento musicale – H. Wolf diede un giudizio lusinghiero su una fuga bachiana eseguita dal M. a soli dieci anni (Mucci, p. 17) –, entrò nel 1896 al liceo musicale di S. Cecilia, studiando armonia e organo con R. Renzi e composizione con S. Falchi. Si diplomò nel 1902, affrontando già durante gli studi i primi concerti.
Nel 1908 venne inaugurata a Roma la grande sala dell’Augusteo, destinata a diventare la sede storica dell’orchestra di S. Cecilia: quattro anni dopo, il trentaduenne M. – che si era rivelato prezioso elemento già dal 1909, preparando l’orchestra per l’attesissimo concerto che avrebbe diretto R. Strauss – ne divenne il direttore artistico e stabile. Prendeva così avvio una lunga stagione, destinata a durare fino al 1944, di fondamentale importanza per l’educazione musicale del pubblico romano: in perfetta intesa con il conte Enrico di San Martino, presidente dell’Accademia di S. Cecilia, il M. avviò un capillare lavoro di riappropriazione della cultura sinfonica, messa in disparte da un secolo di predominio operistico, da intendersi come altra grande tradizione musicale italiana, parallela a quella melodrammatica.
Grazie ai concerti da lui diretti, approdarono per la prima volta a Roma e in Italia molti nuovi capolavori di C. Debussy, I. Stravinskij, A. Honegger. Il M. si fece inoltre promotore di una nuova scuola sinfonica italiana: una fitta schiera di nomi dove spiccavano O. Respighi, R. Zandonai, G.F. Malipiero, A. Casella, il giovane G. Petrassi e, prima delle leggi razziali del 1938, M. Castelnuovo Tedesco.
Con tale repertorio non fu sempre facile conquistare il pubblico: burrascosa, per esempio, fu l’accoglienza del concerto (5 febbr. 1922) ove furono presentati i Tre canti d’amore di F. Mantica, le Impressioni pagane di V. Davico e il Concerto gregoriano di Respighi. Una correzione di rotta (dalle serate di sole novità italiane si passò ai concerti misti, ma sempre, se possibile, con una pagina di autore italiano contemporaneo) e importanti iniziative parallele all’attività concertistica (la costituzione, nel 1929, di una commissione di lettura per le partiture inedite) rinforzarono però il sogno del M. di una scuola sinfonica italiana.
D’altronde con gli anni la politica culturale di B. Mussolini tese a privilegiare il sinfonismo rispetto al vecchio mondo del melodramma, vedendo nell’orchestra sinfonica una metafora della compatta disciplina di massa; né il M. mancò di svolgere, quale membro del Direttorio del sindacato nazionale dei musicisti, un ruolo – del tutto informale – di consulente musicale del duce.
Non meno impegnato fu come rielaboratore di partiture. Tra le numerose trascrizioni sono da citare (incise anche in disco): L’isle joyeuse di Debussy (trascritta per pianoforte e orchestrata dal M.), Moto perpetuo di N. Paganini (esteso dal violino solista alla massa dei primi violini) e Le quattro stagioni di A. Vivaldi (riadattate per un’orchestra «allargata»). Il M. fu attivo anche sotto il profilo didattico: nel 1936 varò presso l’Accademia di S. Cecilia un corso di perfezionamento in direzione d’orchestra, destinato a trasformarsi tre anni dopo in cattedra ufficiale. Ne uscirono allievi come F. Molinari Pradelli, O. Ziino e G. Gavazzeni; ma già in precedenza il M. aveva dato il proprio contributo alla formazione delle nuove leve, utilizzando e valorizzando – quale suo maestro sostituto all’Augusteo – M. Rossi, destinato di lì a poco a un’importante carriera. Il M. fu un vero personaggio pubblico, noto per il suo carattere talvolta irascibile (si accaniva in un interminabile numero di prove, esasperando gli strumentisti) e animatore di riunioni – il mercoledì e la domenica, dopo i concerti all’Augusteo – che convogliavano grandi menti di ogni campo artistico.
Il 16 febbr. 1933, per il venticinquesimo anno dell’Augusteo, il M. diresse un trionfale concerto, dal programma identico a quello diretto da G. Martucci nel 1908 per l’inaugurazione.
Ma alla sala restavano solo tre anni di vita: costruita sulle rovine del mausoleo di Augusto, fu demolita – in ottemperanza alla visione urbanistica neoimperiale del regime – nel maggio 1936, per rendere più visibili le vestigia antiche e isolarle dagli edifici circostanti. Dalla stagione 1936-37, e fino al 1946, la sede sarebbe stata il teatro Adriano. Per ironia della sorte, solo nel 1937 l’orchestra di S. Cecilia fu formalizzata come «stabile»: l’unica orchestra sinfonica stabile italiana.
A fronte dei concerti romani non meno importanti furono le presenze del M. all’estero, sia con i complessi ceciliani sia con le orchestre del posto (reiterata la collaborazione con la Filarmonica Ceca a Praga). Importanti poi, nell’ambito dell’asse Roma-Berlino, i concerti in Germania nella stagione 1940-41.
All’indomani della liberazione di Roma, il M. venne duramente contestato nel corso di due serate all’Adriano. Il 9 luglio un suo concerto offrì «il destro […] di inscenare una manifestazione ostile […]. Il pubblico fischiava; alcuni ufficiali americani si fecero largo tra la folla inferocita ed andarono a stringere la mano al Maestro» (Il Tempo, 11 luglio 1944, p. 2). Peggio, però, le cose andarono nel concerto del 12 luglio: dalla galleria piovvero volantini intitolati «Fuori Molinari!», in cui si leggeva «come il fascista Molinari trattasse con rozzi metodi dittatoriali gli orchestrali» e che «si invita ogni spettatore di buon senso a manifestare energicamente il proprio dissenso». La prima parte del concerto fu portata a termine, ma la seconda – era prevista la sinfonia n. 9 di L. van Beethoven – non poté avere luogo perché il soprano solista, Liana Cortini, comunicò nell’intervallo la sua volontà di non cantare per «protesta contro il maltrattamento che il M° Molinari faceva agli interpreti» (Fiorda, p. 71). Alla fine «fischi ed urla lo costrinsero a ritirarsi» (Il Tempo, 13 luglio, p. 2). Il giorno dopo, sempre nel Tempo, apparve una lettera della Cortini, da molti ritenuta complice dei contestatori, dove il soprano ribadiva le proprie ragioni.
L’incidente all’Adriano segnò duramente il M., che si sarebbe riaffacciato su un podio romano solo con l’orchestra del teatro dell’Opera, con due edizioni di Norma di V. Bellini: prima nel gennaio 1946, poi nel luglio dello stesso anno, alle Terme di Caracalla. Furono le ultime apparizioni di una carriera ormai conclusa: incapace di farsi una ragione delle numerose epurazioni di quei mesi (che oltre al M. coinvolsero, per breve periodo, pure Enrico di San Martino), indifferente ai tentativi degli accademici di S. Cecilia di assicurargli una riabilitazione morale (venne eletto vicepresidente), sempre più chiuso in se stesso, il M. morì a Roma il 25 dic. 1952.
Se gli estimatori del M. furono molti, da Debussy (con cui ebbe un fitto scambio epistolare) a Stravinskij, non mancò chi scorse dei limiti nel concertatore: lo stesso altissimo numero di prove potrebbe essere indice di insicurezza, più che di scrupolo professionale (D’Amico). Il librettista e critico musicale E. Mucci, autore nel 1941 di una biografia del M., parlò anche di un’evoluzione del suo approccio interpretativo: più infuocato nella prima parte della carriera, più misurato poi. La documentazione discografica è comunque troppo sguarnita per una disamina della sua arte. Pesa pure, ai fini di un giudizio complessivo, la scarsa frequentazione del genere operistico: oltre a Norma, solo Aida di G. Verdi (di cui il M., sulla scia di A. Toscanini, recuperò la sinfonia disconosciuta dall’autore), Manon Lescaut di G. Puccini e, in ambito francese, Werther di J. Massenet e Romeo e Giulietta di Ch. Gounod, oltre a Oedipus rex (per il M. una logica coda delle frequentazioni con lo Stravinskij sinfonico).
Fonti e Bibl.: Necr., in M. Labroca, Ricordo di B. M., in Rassegna musicale, gennaio 1953, pp. 38 s.; E. Mucci, B. M., Lanciano 1941; Il Tempo, Roma, comunicati redazionali, 11, 13 e 14 luglio 1944, p. 2; G. Boni, B. M., in S. Cecilia, dicembre 1962, p. 5; R. Rossellini, B. M., ibid., pp. 6 s.; N. Fiorda, Arte beghe e bizze di Toscanini, Roma 1969, pp. 69-71; G. Barigazzi, La Scala racconta, Milano 1984, p. 279; F. Nicolodi, Musica e musicisti nel ventennio fascista, Fiesole 1984, pp. 94, 139, 294 s., 300 s., 348, 351, 413; H. Sachs, Musica e regime, Milano 1995, pp. 42 s., 115 s., 128, 175, 202 s., 211 s., 216, 247, 310; F. D’Amico, Un ragazzino all’Augusteo, a cura di F. Serpa, Torino 1991, pp. 235 s.; S. Biguzzi, L’orchestra del duce, Torino 2003, p. 124; Diz. encicl. univ. della musica e dei musicisti, Le biografie, V, p. 134.
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