Vladimir Vladimirovič Majakovski, La nuvola in calzoni (1915)
traduzione di Carmelo Bene
Strenuo innovatore,Vladimir Vladimirovič Majakovski, fuse le tendenze ribelli e anarchiche del futurismo con l’attività di tribuno e di agitatore durante la rivoluzione d’Ottobre. La sua opera maggiore prima della rivoluzione è il poema Oblako v štanach (“La nuvola in calzoni”, 1915), in cui il motivo d’amore e quello sociale s’intrecciano in una trama iperbolica, esasperata. Gli stessi accenti ritornano nei poemi Flejta-pozvonočnik (“Il flauto di vertebre”, 1915), Vojna i mir (“La guerra e l’universo”, 1917), Čelovek (“L’uomo”, 1916-17). Le vicende della rivoluzione sono trasposte su un piano biblico nella commedia Misterija-Buff (“Mistero buffo”, 1917) e rivissute come scene di canti epici e di vignette popolari nel poema 150.000.000 (1921), che contrappone in un grottesco duello il gigante russo Ivan e Woodrow Wilson. Al tema d’amore M. tornò nei poemi Ljublju (“Amo”, 1922) e Pro eto (“Di questo”, 1923). La morte di Lenin gli suggerì il poema Vladimir Il´ič Lenin (1924) e il decimo anniversario della rivoluzione l’affresco epico Chorošo! (“Bene!”, 1927). Accanto a queste ampie composizioni, scrisse odi d’intonazione oratoria, versi di propaganda commerciale e politica, poesie satiriche, scenari cinematografici, pantomime, canovacci per scene di circo, commedie come Klop (“La cimice”, 1928) e Banja (“Il bagno a vapore”, 1929). L’influenza di M. sui movimenti artistici russi d’avanguardia fu enorme. M. era stato inizialmente pittore, e della sua attività figurativa, dopo che si era dedicato agli scritti e all’azione politica, sono importanti le ricerche tipografiche e compositive fatte in collab. con A. Rodčenko (pagine della rivista Lef, 1923 segg.).
Intronando l’universo con la possanza della mia voce,
cammino- bello,
ventiduenne.
*
Se volete,
sarò rabbioso a furia di carne,
e, come il cielo mutando i toni,
se volete,
sarò tenero in modo inappuntabile,
non uomo, ma nuvola in calzoni!
*
Voi pensate che sia il delirio della malaria?
Ciò accadde,
accadde a Odessa.
“Verrò alle quattro” – aveva detto Maria.
Le otto.
Le nove.
Le dieci.
*
La dodicesima ora è caduta
Come dal patibolo la testa d’un giustiziato.
*
Sei entrata tu
Tagliente come un “eccomi!”,
tormentando i guanti di camoscio,
hai detto:
“Sapete,
io prendo marito”.
Ebbene, sposatevi.
Che importa.
Mi farò coraggio.
Vedete,sono così tranquillo!
Come il polso
D’un defunto.
Non vi sovviene?
Voi dicevate
“Jack London,
denaro,
amore,
passione,”-
ma io vidi una sola cosa:
vidi in voi una Gioconda
che bisognava rubare!
E vi hanno rubata.
*
Volete stuzzicarmi?
Ricordate!
Perì Pompei
Quando esasperarono il Vesuvio.
Ehi!
Signori!
Dilettanti
di sacrilegi,
di delitti,
di massacri,
avete visto mai
ciò che è più terribile:
il viso mio
quando
io
sono assolutamente tranquillo?
E sento che l’io
Per me è poco:
qualcuno da me si sprigiona ostinato.
Allò!
Chi parla?
Mamma!
Vostro figlio è magnificamente malato!
Mamma!
Ha l’incendio nel cuore.
Dite alle sorelle Ljuda e Olja
Ch’egli non sa più dove salvarsi.
*
Che m’importa di Faust
che in una ridda di razzi
scivola con Mefistofele sul pavimento del cielo!
Io so
che un chiodo del mio stivale
È più raccapricciante della fantasia di Goethe!
*
Me ne infischio se negli Omeri e negli Ovidi
non c’è gente come noi,
butterata e coperta di fuliggine.
Io so
che il sole si offuscherebbe a vedere
le sabbie aurifere delle nostre anime.
Muscoli e nervi sono più sicuri di tutte le preghiere.
Dovremmo impetrare le grazie dal tempo?
Ciascuno
di noi
tiene nelle sue cinque dita
le cinghie motrici dei mondi!
Ciò mi fece salire sul Golgota degli auditori
di Pietrogrado, di Mosca, di Odessa, di Kiev,
e non vi fu uno solo
il quale
non gridasse:
“Crocifiggi,
crocifiggilo!”
*
Io,
dileggiato dall’odierna generazione
come un lungo
aneddoto scabroso,
vedo venire per le montagne del tempo
qualcuno che nessuno vede.
Là dove l’occhio degli uomini si arresta insufficiente,
alla testa di orde affamate
con la corona di spine delle rivoluzioni
avanza l’anno sedici.
Ed io presso di voi sono il suo precursore,
io sono sempre là dove si soffre:
su ogni goccia di liquido lacrimale
ho posto in croce me stesso.
*
… attraverso il suo
occhio lacerato sino all’urlo
si inerpicava, impazzito, Burljuk
e con tenerezza inattesa in un uomo pingue
mi prese e disse
“Bene!”
Bene, quando una gialla blusa
protegge l’anima da tanti sguardi!
*
Ma dal fumo d’un sigaro
come un bicchierino di liquore
si è allungato il viso alticcio di Severjanin.
Come osate chiamarvi poeta
e, mediocre, squittire come una quaglia?
*
Io, che decanto la macchina e l’Inghilterra,
sono forse semplicemente
nel più comune vangelo
il tredicesimo apostolo.
*
Maria! Maria! Maria!
Lasciami entrare, Maria!
Non posso restare in istrada!
Non vuoi?
*
Mi hai lasciato entrare.
Bambina!
Non ti spaurire
se ancora una volta
nell’intemperie del tradimento
mi stringerò a migliaia di vezzose faccine.
“Adoratrici di Majakovskij!”
ma questa è davvero una dinastia
di regine salite al cuore d’un pazzo.
Maria, più vicino!
Con denudata impudenza
O con pavido tremore
Concedimi la florida vaghezza delle tue labbra:
io e il mio cuore non siamo vissuti neppure una volta sino a maggio,
e nella mia vita passata
c’è solo il centesimo aprile.
Maria!
Il poeta canta sonetti
mentre io,
tutto di carne,
uomo tutto,
chiedo semplicemente il tuo corpo,
come i cristiani chiedono
“Dacci oggi
il nostro pane quotidiano”
Maria, concediti!
Maria!
Maria, non vuoi?
Non vuoi?
Ah!
E allora di nuovo,
io prenderò il mio cuore
lo porterò
come un cane
porta
nella sua cuccia
la zampa stritolata dal treno.
*
Mi chinerò
Per dirgli in un orecchio:
Ascoltate, signor Dio!
Onnipossente che hai inventato un paio di braccia
E hai fatto sì che ciascuno
Avesse una sua testa,
perché non hai inventato una maniera
di baciare, baciare e ribaciare
senza tormenti?
Pensavo che tu fossi un grande Dio onnipotente,
e invece sei solo un povero deuccio.
*
Alati furfanti!
Rannicchiatevi in paradiso!
Te, impregnato d’incenso, io squarcerò
di qui sino all’Alaska!
Lasciatemi!
Non mi fermerete.
*
Guardate:
hanno di nuovo decapitato le stelle.
Ehi, voi!
Cielo!
Toglietevi il cappello!
Me ne vado!
Sordo.
L’universo dorme,
poggiando sulla zampa
l’enorme orecchio con zecche di stelle.
Biografia di Vladimir Vladimirovič Majakovski -Poeta, autore drammatico e pittore russo (Bagdadi, od. Majakovskij, presso Kutais, 1893 – Mosca 1930). Grande innovatore, esercitò enorme influenza sui movimenti artistici russi d’avanguardia. Militante nel partito bolscevico, fu inizialmente pittore e fece parte del gruppo dei cubofuturisti; nel 1923 organizzò il LEF (Leuyj Front iskusstv “Fronte di sinistra delle arti”). Tra le opere: i poemi Oblako v štanach (“La nuvola in calzoni”) e Flejta-pozvonočnik (“ll flauto di vertebre”), entrambi del 1915; la commedia Misterija-Buff (“Mistero buffo”, 1917), sulle vicende della Rivoluzione russa; il poema Vladimir Il´ič Lenin (1924).
Vita
Ancora adolescente, svolse intensa attività politica nel partito bolscevico e fu arrestato tre volte. Dedicatosi poi allo studio delle arti figurative, fu espulso (1914) dall’Istituto di pittura, scultura e architettura di Mosca per la sua appartenenza al gruppo dei cubofuturisti. Nel 1913 apparve il suo primo libro, Ja! (“Io!”). Nel dic. 1913 interpretò a Pietroburgo, al teatro Luna Park, la propria tragedia Vladimir Majakovskij. Accolse la rivoluzione con entusiasmo e nel 1923 organizzò il LEF (Levyj Front iskusstv “Fronte di sinistra delle arti”), che raggruppò artisti, poeti, scenografi, registi, filologi vicini al futurismo, e pubblicò la rivista omonima. In quegli anni fu il simbolo di tutto ciò che v’era di moderno e di audace nell’arte sovietica. La campagna condotta contro di lui dalla critica di partito, le delusioni politiche e motivi amorosi lo spinsero al suicidio.
Opere
Strenuo innovatore, fuse le tendenze ribelli e anarchiche del futurismo con l’attività di tribuno e di agitatore durante la rivoluzione d’Ottobre. La sua opera maggiore prima della rivoluzione è il poema Oblako v štanach (“La nuvola in calzoni”, 1915), in cui il motivo d’amore e quello sociale s’intrecciano in una trama iperbolica, esasperata. Gli stessi accenti ritornano nei poemi Flejta-pozvonočnik (“Il flauto di vertebre”, 1915), Vojna i mir (“La guerra e l’universo”, 1917), Čelovek (“L’uomo”, 1916-17). Le vicende della rivoluzione sono trasposte su un piano biblico nella commedia Misterija-Buff (“Mistero buffo”, 1917) e rivissute come scene di canti epici e di vignette popolari nel poema 150.000.000 (1921), che contrappone in un grottesco duello il gigante russo Ivan e Woodrow Wilson. Al tema d’amore M. tornò nei poemi Ljublju (“Amo”, 1922) e Pro eto (“Di questo”, 1923). La morte di Lenin gli suggerì il poema Vladimir Il´ič Lenin (1924) e il decimo anniversario della rivoluzione l’affresco epico Chorošo! (“Bene!”, 1927). Accanto a queste ampie composizioni, scrisse odi d’intonazione oratoria, versi di propaganda commerciale e politica, poesie satiriche, scenari cinematografici, pantomime, canovacci per scene di circo, commedie come Klop (“La cimice”, 1928) e Banja (“Il bagno a vapore”, 1929). L’influenza di M. sui movimenti artistici russi d’avanguardia fu enorme. M. era stato inizialmente pittore, e della sua attività figurativa, dopo che si era dedicato agli scritti e all’azione politica, sono importanti le ricerche tipografiche e compositive fatte in collab. con A. Rodčenko (pagine della rivista Lef, 1923 segg.).
Città di Senigallia, in mostra l’Ottocento dalle raccolte marchigiane-
La città di Senigallia ospita presso Palazzetto Baviera, fino al 30 novembre 2024, l’esposizione intitolata Sguardi sull’Ottocento. Arte Italiana nelle collezioni marchigiane, che presenta una collezione di 60 dipinti provenienti da musei e collezioni private della regione.
Tra le opere esposte, spicca una tavola dipinta ad olio dell’illustre pittore anconetano Francesco Podesti (1800-1895), che un tempo adornava il celebre Palazzo Torlonia di Roma. Questo palazzo, situato in Piazza Venezia, fu demolito nel 1902 per far spazio a nuovi lavori di viabilità. La tavola di Podesti, come spiegato dalla curatrice della mostra Maria Gabriella Mazzocchi, è un modello preparatorio del famoso affresco Il Trionfo di Nettuno, parte della volta della Galleria di Ercole e Lica, dove era esposto il gruppo scultoreo di Antonio Canova. Questo pezzo, miracolosamente sopravvissuto alla demolizione, ha suscitato grande interesse tra i visitatori, evocando immagini di un’epoca perduta e del fasto del Palazzo Torlonia.
La mostra, tuttavia, non si limita a celebrare Podesti e la sua opera. Le quattro sale espositive ospitano una ricca selezione di dipinti che testimoniano la rinascita della pittura ottocentesca marchigiana, riscoperta e valorizzata negli ultimi dieci anni. La curatrice sottolinea che non si tratta solo di una mostra sull’Ottocento marchigiano, ma di una panoramica sulla pittura dell’Ottocento italiana, conservata nei musei e nelle collezioni private della regione.
Un altro pezzo di grande rilievo è un quadro di Francesco Paolo Michetti (1851-1929), che rievoca la profonda amicizia dell’artista con Gabriele d’Annunzio. L’opera, raffigurante due pecore con un ragazzo, rimanda alla famosa poesia “I Pastori” di d’Annunzio: “Settembre, andiamo. È tempo di migrare. Ora in terra d’Abruzzi i miei pastori lascian gli stazzi e vanno verso il mare.”
La mostra è suddivisa in tre sezioni tematiche: “Dalla pittura di storia all’Unità”, “La poetica del vero” e “I volti e le persone”, ognuna delle quali offre una prospettiva diversa sull’arte del periodo. Gli artisti esposti includono nomi di grande rilievo come Gioacchino Toma, Filippo Palizzi, Raffaele Sernesi, Giuseppe De Nittis, Federico Rossano, Guglielmo Ciardi, Giuseppe Vaccaj, Giulio Gabrielli, Fortunato Duranti, Giacinto Gigante, Vito D’Ancona, Telemaco Signorini, Domenico Morelli, Silvetro Lega, Giovanni Fattori, Giacomo Favretto, Angelo Morbelli, Giovanni Boldini, Vincenzo Irolli, Ettore Tito, e molti altri.
Ingresso intero €. 8,00 – cittadini di età superiore ai 25 anni; ingresso agevolato €. 4,00 – cittadini dell’Unione europea di età compresa tra i 18 e i 25 anni e ai docenti delle scuole statali con incarico a tempo indeterminato; ingresso ridotto €. 6,00 – soci FAI, Touring, Coop Alleanza 3.0, Archeoclub d’Italia, Pro Loco, CNA, AVIS Senigallia, Associazione Albanostra – Cassa Mutua G. Leopardi, e possessori del biglietto di ingresso alla Rocca Roveresca o al Museo Archeologico Statale di Arcevia, special card per soci BCC Fano, turisti ospiti delle strutture alberghiere di Senigallia muniti di apposito riconoscimento; gratuito per tutti i cittadini appartenenti all’Unione Europea, di età inferiore a 18 anni e per gli iscritti alla Libera Università per Adulti di Senigallia.
Esibendo il biglietto di ingresso alla Rocca Roveresca di Senigallia si avrà diritto a un biglietto ridotto per la mostra. Sono disponibili biglietti cumulativi con le altre mostre presenti.
Informazioni sulla mostra
Titolo mostra
Sguardi sull’Ottocento. Arte Italiana nelle collezioni marchigiane
Fonte- Finestre sull’Arte è una testata giornalistica che si occupa di arte antica e contemporanea. Il giornale, nato nel 2017, ha origine dall’omonimo progetto divulgativo che nel 2015 ha ricevuto il Premio Silvia Dell’Orso come miglior progetto italiano di divulgazione storico-artistica. Oggi, Finestre sull’Arte è una delle riviste più seguite del settore, e alla versione online abbina, dal 2019, anche un trimestrale cartaceo. Finestre sull’Arte è edita da Danae Project S.R.L.. Per scrivere alla redazione: posta AT finestresullarte.info.
Pescara-Le 80 tavole dei famosi “Capricci” di Goya
sono riunite al Museo Paparella Treccia Devlet –
La mostra su Francisco Goya al Museo Paparella Treccia Devlet di Pescararesterà aperta al pubblico sino al 13 ottobre 2024.La mostra è curata da Michele Tavola, è caratterizzata dalla rapida successione delle incisioni lungo le pareti delle sale del museo. Durante il percorso il visitatore ha a disposizione una scheda illustrativa che descrive in maniera sintetica ogni opera, permettendo di comprendere ed approfondire le tematiche, i personaggi e gli aspetti più significativi rappresentati dall’artista all’interno delle sue illustrazioni. Oltre ad ospitare mostre temporanee, il museo custodisce una preziosa collezione di antiche maioliche di Castelli, raccolte e studiate in oltre quarant’anni di ricerca dal Processore Raffaele Paparella Treccia. La raccolta custodita all’interno di Villa Urania è composta da 146 esemplari prodotti tra il XVI ed il XIX Secolo, documentando l’evoluzione stilistica della maiolica castellana. Inoltre, il museo conserva prestigiosi dipinti che vanno dal 1400 al 1800.
I “Capricci” di Francisco Goya
La serie completa delle 80 incisioni
a cura di Michele Tavola
dal 27 aprile al 13 ottobre 2024
Augusto Di Luzio–Presidente Fondazione Paparella Treccia
Carissime amiche, carissimi amici,
le attività espositive della Fondazione Museo Paparella Treccia proseguono con le opere di un artista da noi molto amato e che ha segnato la storia dell’arte mondiale producendo opere che hanno determinato il discrimine tra l’arte antica e l’arte moderna: Francisco Goya.
Nel 2013 abbiamo inaugurato la serie di mostre dedicate all’arte dell’incisione proprio con Goya, portando a Pescara la serie delle quaranta stampe de La tauromachia; nel 2023, dieci anni dopo, abbiamo deciso di riprendere il filone esponendo la serie completa di ottanta acqueforti dedicata a I disastri della guerra. Oggi, riportiamo in città Goya con una delle sue opere più celebri e controverse, le ottanta tavole de I capricci.
La mostra, che sarà inaugurata il 27 aprile p.v., è affidata alla cura del noto critico di grafica Michele Tavola, amico e collaboratore di lunga data del nostro Museo, conservatore museale presso le Gallerie dell’Accademia di Venezia.
Quando furono pubblicati, nel 1799, I capricci suscitarono un grande scandalo, considerato che Goya, in essi, mise a nudo tutti i vizi, le contraddizioni e le ingiustizie della società spagnola del tempo, al fine di denunciarne le barbarie.
È il caso di ricordare che Francisco Goya è ritenuto universalmente, insieme con Rembrandt, Tiepolo, Manet, Picasso, Morandi, tra i più grandi incisori della storia dell’arte.
Per il valore internazionale dell’artista in mostra e per il prestigio del curatore dell’evento, ci aspettiamo una numerosa partecipazione di pubblico e in particolar modo ci auguriamo il coinvolgimento dei giovani.
È importante ricordare che durante la visita alle opere di Goya si avrà la possibilità di ammirare la prestigiosa collezione di 151 esemplari di antiche maioliche di Castelli, prodotte tra il 1500 e il 1800, realizzate dai più grandi e famosi autori, fra i quali Francesco e Carlo Antonio Grue, quest’ultimo ritenuto universalmente il campione della Maiolica barocca castellana.
Tutte le informazioni relative alla mostra potrete trovarle prossimamente sul nostro sito.
In attesa di incontrarvi in Museo, invio i miei più cordiali saluti.
Augusto Di Luzio–Presidente Fondazione Paparella Treccia
Il Museo Paparella Treccia Devlet di Pescara
Il Museo è ospitato in una villa ottocentesca in stile eclettico sita nel cuore di Pescara, di fronte alla centralissima Piazza della Rinascita. Al suo interno è custodita la Collezione Paparella Treccia Devlet, frutto di 40 anni di ricerca e di studi del Professore Raffaele Paparella Treccia il quale ha donato la collezione e la villa a una fondazione intitolata a lui e a sua moglie Margherita Devlet. La raccolta è composta da 151 selezionati capolavori della maiolica artistica di Castelli, ordinati secondo un criterio cronologico, opera dei maggiori maestri castellani attivi tra il XVI e il XIX secolo, fra cui Francesco Grue (1618-1673), il figlio Carlo Antonio (1655-1723) e il nipote Francesco Antonio Saverio (1686-1746), nonché i principali esponenti delle famiglie Gentili, Cappelletti e Fuina. La decorazione delle ceramiche documenta il passaggio dallo stile “compendiario”, caratterizzato da un’essenzialità di elementi, a quello “istoriato” in cui ricorrono scene allegoriche, mitologiche, venatorie e belliche. Tra le opere di maggior pregio si segnalano la più completa testimonianza di un servito alle armi di età barocca, costituito da 19 esemplari con lo stemma del committente, eseguito nella bottega di Francesco Grue e famosi lavori di Carlo Antonio Grue, tra i quali il più antico esemplare castellano di zuppiera, e due pregevoli vasi da consolle prodotti per l’Imperatore Leopoldo I d’Austria, successivamente passati ai Savoia. Il Museo conserva anche prestigiosi dipinti ad olio, tra cui una Natività quattrocentesca, un autoritratto datato 1711 di Pietro Santi Bambocci e un acquerello su carta di Pio Joris, artista romano, del 1800. La Fondazione Paparella è impegnata a diffondere la conoscenza della maiolica di Castelli e, con le attività culturali e didattiche, a promuovere l’amore e l’interesse per l’Arte in genere.
Il Museo Paparella Treccia attualmente ospita, oltre alla collezione permanente di antiche maioliche di Castelli, anche la mostra temporanea dedicata alla serie completa delle ottanta incisioni dei Capricci di Francisco Goya, mostra curata dal critico d’arte Michele Tavola, che resterà aperta al pubblico sino al 13 ottobre 2024.
The Paparella Treccia Museum currently hosts, in addition to the permanent collection of ancient Castelli majolica, the temporary exhibition dedicated to the complete series of eighty engravings of the Capricci by Francisco Goya, an exhibition curated by the art critic Michele Tavola, which will remain open to the public until to 13 October 2024.
Il museo è aperto al pubblico dal martedì alla domenica dalle ore 9:30 alle 12:30 e dalle ore 16:30 alle 19:30.
Biglietto intero: € 7,00
Biglietto ridotto: € 5,00 (under 18, studenti, over 65, gruppi superiori alle 15 persone, soci ARCI, accompagnatori disabili, docenti di ogni ordine e grado)
Ingresso gratuito per bambini fino a 8 anni e per persone con disabilità certificata superiore al 74%.
Possibilità di visita guidata su prenotazione, 3 euro a persona oltre il costo del biglietto.
Per info: tel. 085 4223426 / +39 3756684180
e-mail: fondazionepaparella@gmail.com
*Museo Paparella – Viale Regina Margherita, 1 – 65122 PESCARA -Tel. e Fax 085 4223426 –
The museum is open from Tuesday to Sunday from 9.30am to 12.30pm and from 4.30pm to 7.30pm.
Full ticket: €7.00
Reduced ticket: €5.00 (under 18, students, over 65, groups of over 15 people, ARCI members, disabled companions, teachers of all levels)
Free entry: for children up to 8 years old and for people with certified disabilities greater than 74%.
Possibility of guided tour by reservation, 3 euros per person in addition to the cost of the ticket.
*
The Museum Paparella Treccia Devlet is in Nineteenth century house situated in the heart of Pescara, on the corner of the central square Piazza della Rinascita (Piazza Salotto). Inside, there is the precious and ancient ceramic collection of Castelli, the result of 40 years of research and study by Professor Raffaele Paparella Treccia, a famous orthopaedist, who donated his collection and his house to the Foundation, inaugurated in 1997, and named by him and his wife Margaret Devlet. Castelli, a small village in the province of Teramo, located near to the Gran Sasso Mountain, it has been over the centuries one of the largest centers for the ceramic productions. Its ceramics have crossed the borders of Abruzzo and Italy until to become, especially in the Sixteenth and Seventeenth centuries, the most popular and precious ceramics, also in the main European courts. The collection exhibited in the Museum consists of 151 selected masterpieces of the ceramic art of Castelli, the work of the great Castelli masters active between the Sixteenth and Nineteenth centuries, including Francesco Grue, his son Carlo Antonio Grue, his grandson Francesco Antonio Saverio and others such as Gentili, Cappelletti and Fuina, ordered chronologically, and exposed in the main rooms of the museum. The collection documents the transition from general “compendiario”, which defines white style, characterized by extreme simplicity of the elements (XVI century), until to the Baroque where are recurring historical scenes, religious and mythological (XVII and XVIII centuries), and finally with the Neoclassical and Rococò (XVIII and XIX centuries). The Museum also preserves prestigious oil paintings, including a fifteenth-century Nativity, a self-portrait (oil on canvas) dated 1711 by Pietro Santi Bambocci and a watercolour on paper by Pio Joris, roman artist, 1800. The Paparella Foundation is committed to spreading the knowledge of the majolica of Castelli, cultural and educational activities, to increase love and interest for Art.
Roma-In Arte, Maddalena in scena al Festival Dance Screen in the Land,
Mandala Dance Company, in scena sino al 10 ottobre 2024-
Roma-In prima nazionale al Festival Dance Screen in the Land, Mandala Dance Company, compagnia diretta da Paola Sorressa, presenta dall’1 al 10 ottobre alle ore 19:30, presso l’Antica Fornace di Antonio Canova di Roma, In Arte, Maddalena, uno spettacolo di danza contemporanea e proiezioni video: un racconto avvolgente messo in scena da sette performer e ispirato alla enigmatica figura della Maddalena, alla iconografia della carnalità e del pentimento rappresentata nell’arte durante i secoli, che nella danza trova una forma liberatoria.
In Arte Maddalena è il terzo “capitolo” di una trilogia ideata e diretta da Fiorenza D’Alessandro e Laura Fusco, e in questo spettacolo si insiste sul numero sette nel suo valore alchemico e simbolico: sette corpi che si muovono nello spazio interpretando i sette stigma che marchiano la donna: i “demoni” dai quali la libera Gesù ma che stigmatizzano, appunto, il femminile, e le “virtù” salvifiche che si rivelano essere altre gabbie. E qui le sette danzatrici (Sofia Andretto, Virginia Andretto, Maria Concetta Borgese, Ginevra Campanelli, Ilaria Maciocci, Doris Quehaja, Paola Sorressa, Alessia Stocchi, Martina Valente) rendono visibile il racconto con il corpo e con le immagini in sette coreografie coordinate da Paola Sorressa, sette ambientazioni diverse sia naturali che digitali (il disegno delle luci è di Luca Bevilacqua e Alessandro Turella, visual designer Paul Harden, la scenografia interna di Franz Prati), sette i ritratti ispirati ad altrettante opere d’arte dei grandi Maestri che hanno rappresentato la Maddalena e che qui trovano una forma contemporanea, in un passaggio di testimone con la storia.
Lo spettacolo è quindi un percorso liberatorio, attraverso la danza, la visione e la musica originale di Francesco Ziello, per riconnettere arte e vita, l’esistenza della donna e l’energia creativa che si espande oltre la scena. Figura enigmatica, e più volte travisata nelle varie epoche, Maddalena è stata emblema di carnalità e pentimento, di fedeltà e di sofferenza, di sapienza e santità. In Arte, Maddalena unisce idealmente luoghi distanti nel tempo e nello spazio, tra realtà e fantasia, per tracciare una mappa della complessità del mondo femminile in cui ciascuna Maddalena, presentata insieme al suo corredo iconografico, esoterico e simbolico, rappresenta uno stigma/stereotipo e anche il suo superamento: sette diversi racconti che traggono ispirazione dalle rappresentazioni della Maddalena nell’arte di tutti i tempi, ma anche da tutti quei personaggi della storia, della letteratura, della mitologia e della favolistica che si offrono all’immaginazione quali ritratti emblematici dell’universo femminile. Il numero sette, carico di spiritualità e di misticismo, legato alla ricerca della verità e alla comprensione del reale, ispira tutto il progetto: sette sono le Opere d’Arte a cui si ispirano le sette coreografie; sette gli stigma (i “demoni” e le “virtù”) narrati dalle interpreti; sette le ambientazioni, tra naturali e digitali, in cui saranno realizzate le performance; sette i ritratti che al termine si sostituiranno alle opere dei Maestri per traghettare le Maddalene nella contemporaneità, costruendo un ponte ideale con la storia, una sorta di passaggio di testimone.
La resistenza di Aldo Braibanti –Storia di un partigiano vero, un combattente disposto a morire per la sua gente. Uno che ha avuto meriti infiniti per la cultura del suo Paese e che ha patito la galera fascista non meno della galera democristiana.
Articolo di Francesco Simoncini
Pensare alla resistenza da questo cubicolo di stanzetta è ostico. La Resistenza è davvero un’esplosione architettonica di spazi e dolori e lancinanti vittorie. È un estendersi fino ai limiti estremi della propria coscienza, oppure un tuffo nell’angustia del fratricidio. Torniamo a questa stanzetta. Penso ad un resistente di prima categoria come fu Aldo Braibanti. Arrestato due volte, una delle quali a Villa Triste, a Firenze, tra le grinfie di quel criminale di guerra che fu Mario Carità. Torturato e poi rilasciato tornò ad impegnarsi nella resistenza con Giustizia e Libertà, segnato nella mente e nel corpo. Si laureò in filosofia: fu studioso di Spinoza e Giordano Bruno. Passò poi in forze al PCI.
Dopo la guerra fu attivo funzionario comunista, responsabile del settore giovanile, mi pare. Poi lasciò tutto, scrisse una lettera al Comitato Centrale in cui dichiarava la propria inadeguatezza al ruolo di funzionario. Si dedicò alla ceramica e alle formiche. Come Nabokov fece scienza della passione per le farfalle così lui fece per le formiche. Ne divenne studioso accanito. Mirmecologia, si chiama così quella scienza. La ceramica non fu che un aspetto della versatilità del suo ingegno vocato all’arte. Non sto qui a dire della sua produzione artistica, filmica, drammaturgica, letteraria in senso ampio. Fu amico e collaboratore di Carmelo Bene, per dirne solo uno: perché in effetti fu conosciuto e apprezzatissimo da tutta l’intellettualità italiana del dopoguerra.
Nel 1964, nel novembre, Braibanti viene arrestato. Perché, secondo l’accusa, ha plagiato un giovane ventiquattrenne, Giovanni Sanfratello. Chi muove l’accusa è il padre del giovane, che si appella ad una legge fascista, vecchia di più di trent’anni, all’epoca: legge che verrà abrogata nell’ottantuno, con sentenza della Corte Costituzionale. Ma nel sessantaquattro è purtroppo ancora in vigore. Quella costituita da Braibanti e da Sanfratello è una coppia omosessuale come quelle che oggi si incontrano molto frequentemente, e a parte i cromagnon fascisti, nessuno può commentare alcunché. Vivono insieme, come è normale che sia per una coppia. Si tratta di un quarantenne e di un venticinquenne. Non siamo fuori dalla norma, se norma ci può essere. Ma Braibanti sarà condannato a nove anni di galera, poi ridotti a sei in appello, poi ulteriormente ridotti a due per il suo passato da partigiano. Solo gli intellettuali scenderanno in campo per lui: Umberto Eco, Pier Paolo Pasolini, Alberto Moravia, Elsa Morante, Marco Bellocchio – a onor del vero anche il Partito Radicale di Marco Pannella si farà sentire. Marco Pannella ne ricaverà anche un processo per calunnia.
Piace qui ricordare che Sanfratello, nonostante i ripetuti elettroshock a cui sarà sottoposto (più di venti), chiuso in manicomio, non riconoscerà mai di essere stato plagiato; tra le misure assurde che saranno adottate nei suoi confronti c’è il divieto assoluto di leggere libri che abbiano meno di cento anni, per dire. Dopo aver scontato la condanna, Aldo Braibanti si ritirerà sempre più in sé stesso. Non smetterà di produrre capolavori di cui qui non è il caso di parlare. Morirà indigente, protetto dai quindicimila euro di reddito garantiti dalla Legge Bacchelli, a 91 anni, nel 2014.
Ho cercato di raccontare la storia di un partigiano vero, un combattente disposto a morire per la sua gente. Uno che ha avuto meriti infiniti per la cultura del suo Paese e che ha patito la galera fascista non meno della galera democristiana. Il venticinque aprile del quarantacinque non finì niente. Perché i soliti fascisti ricoprirono le stesse cariche di prima. Giudici, Prefetti, Militari, Giornalisti, Prelati, Politici. E quel che è peggio, il fascismo continuò ad essere pane quotidiano della cultura – tutta – di questo irriconoscente Paese.
Siamo tutti Aldo Braibanti.
Aldo Braibanti (Fiorenzuola d’Arda, 17 settembre 1922 – Castell’Arquato, 6 aprile 2014) è stato uno scrittore, sceneggiatore e drammaturgo italiano. Intellettuale, partigiano antifascista e poeta, nella sua vita si è occupato di arte, cinema, politica, teatro e letteratura, oltre ad essere un esperto mirmecologo.
Articolo di Francesco SIMONCINI-Fonte Ass. La Città Futura- Via dei Lucani 11, Roma | Direttore Resp. Adriana Bernardeschi-
Descrizione -Prima, donna. Margaret Bourke-White, il volume che ripercorre le vicende e il lavoro di una delle figure più rappresentative ed emblematiche del fotogiornalismo internazionale. Una donna che, con le sue immagini, le sue parole e tutta la sua vita, è stata in grado di creare un personaggio forte e invidiabile costruendo il mito attraente di se stessa.
Pioniera dell’informazione e dell’immagine, Margaret Bourke-White ha esplorato ogni aspetto della fotografia: dalle prime immagini dedicate al mondo dell’industria e ai progetti corporate, fino ai grandi reportage per le testate più importanti come Fortune e Life; dalle cronache visive del secondo conflitto mondiale, ai celebri ritratti di Stalin prima e poi di Gandhi (conosciuto durante il reportage sulla nascita della nuova India e ritratto poco prima della sua morte); dal Sud Africa dell’apartheid, all’America dei conflitti razziali fino al brivido delle visioni aeree del continente americano. E a un certo punto sarà Margaret Bourke-White stessa che accetta di porsi davanti e non dietro all’obiettivo, diventando a sua volta il soggetto di un reportage in cui il collega Alfred Eisenstadt documenta la lotta della fotografa contro il morbo di Parkinson, malattia che la porterà alla morte. Una battaglia in cui non avrà paura di mostrarsi debole e invecchiata, nonostante un’eleganza e un buon gusto a cui non rinuncerà mai, confermandosi ancora una volta la prima in tutto.
“Se ti trovi a trecento metri di altezza, fingi che siano solo tre, rilassati e lavora con calma”, era il motto di Margaret Bourke-White. Il libro pubblicato da Contrasto ne ripercorre i molti primati, raccontati lungo un doppio binario. Attraverso undici capitoli, che corrispondono ad altrettante fasi della vita della fotografa, la potenza delle immagini si accosta a quella della forte voce di Margaret Bourke-White. È infatti lei che, in prima persona, scrive e racconta il suo lavoro, le avventure vissute, le sfide vinte. Una scrittura visiva, che completa e arricchisce la storia di ogni sua memorabile fotografia.
Ecco gli 11 capitoli tematici:
– L’incanto delle acciaierie mostra i primi lavori industriali di Margaret, da quando nel 1928 apre un suo studio fotografico a Cleveland;
– La sezione Conca di polvere documenta invece il lavoro sociale realizzato dalla fotografa negli anni della Grande Depressione nel Sud degli USA;
– LIFE si concentra invece sulla lunga collaborazione di Bourke-White con la leggendaria rivista americana. Per LIFE Bourke-White realizzerà la copertina e i reportage del primo numero e tanti altri ancora lungo tutta la sua vita;
– Sguardi sulla Russia inquadra il periodo in cui Margaret Bourke-White documentò le fasi del piano quinquennale in Unione Sovetica fino ad arrivare a realizzare anni dopo – quando già era scoppiata la Seconda guerra mondiale – il ritratto di Stalin in esclusiva per LIFE;
– La sezione Sul fronte dimenticato documenta gli anni della guerra, quando per lei fu disegnata la prima divisa militare per una donna corrispondente di guerra. Sono gli anni in cui Bourke-White, al seguito dell’esercito USA sarà in Nord Africa, Italia e Germania;
– La sezione Nei Campi testimonia l’orrore al momento della liberazione del Campo di concentramento di Buchenwald( 1945) quando, come ha dichiarato la fotografa, “per lavorare dovevo coprire la mia anima con un velo”;
–L’India raccoglie il lungo reportage compiuto dalla fotografa al momento dell’indipendenza dell’India e della sua separazione con il Pakistan. Tra le altre immagini, in mostra anche il celebre ritratto del Mahatma intento a filare all’arcolaio;
– Sud Africa è la documentazione del grande paese africano durante l’Apartheid;
– Voci del Sud bianco è il lavoro a colori del 1956 dedicato al tema del segregazionismo del Sud degli USA in un paese in trasformazione;
– In alto e a casa raccoglie alcune tra le più significative immagini aeree realizzate dalla fotografa nel corso della sua vita;
– Il percorso termina con La mia misteriosa malattia, una serie di immagini che documentano la sua ultima, strenua lotta, quello contro il morbo di Parkinson di cui manifesta i primi sintomi nel 1952 e contro cui combatterà con determinazione. In questo caso, è lei il soggetto del reportage, realizzato dal collega Alfred Eisenstaedt che ne testimonia la forza, la determinazione ma anche la fragilità.
A conclusione di questo percorso biografico, accanto al testo della curatrice del volume Alessandra Mauro, chiude il libro un monologo di Concita De Gregorio. Attraverso esso, come in un lungo flusso di coscienza, è sempre la voce di Margaret Bourke-White che mette il punto sulla propria storia per raccontare la sua ricerca della “misura del fuoco”, mostrando quella capacità visionaria e insieme narrativa in grado di comporre le “storie” fotografiche dense e folgoranti che sono arrivate fino a noi.
I fotografi vivono tutto molto velocemente; l’esperienza ci insegna ad affinare il più possibile la nostra abilità, ad afferrare al volo i tratti salienti, i punti forti di una situazione. Quel momento perfetto e denso di significato, essenziale da catturare, spesso è il più effimero e le possibilità di approfondimento sono rare. Scrivere un libro è il mio modo di digerire le esperienze che vivo.
Margaret Bourke-White
Kit di 8 cartoline di Margaret Bourke-White Dimensioni: 12x17cm-
Soggetti: Ritratto Margaret Bourke-White Montana 1936 Diga Fort Peck Gandhi con l’arcolaio In volo su Manhattan La fila per il pane Il funerale di Gandhi New York
Soggetti: Ritratto Margaret Bourke-White Montana 1936 Diga Fort Peck Gandhi con l’arcolaio In volo su Manhattan La fila per il pane Il funerale di Gandhi New York
Articolo di Hilda Girardet -Cinquanta anni fa “Com – Nuovi Tempi”
Articolo di Hilda Girardet-4 ottobre 2024-Confronti celebra in questi giorni i cinquant’anni della fusione dei due settimanali Nuovi Tempi e Com. Il 6 ottobre 1974 il pastore valdese Giorgio Girardet, fondatore nel 1967 e direttore di Nuovi Tempi, e dom Giovanni Franzoni, direttore del cattolico Com – ex abate benedettino della Basilica di San Paolo Fuori Le Mura e sospeso a divinis per le sue posizioni a favore dell’obiezione di coscienza e poi del divorzio – misero a segno una operazione che ha dell’incredibile, rinunciando entrambi al proprio giornale per costituirne uno comune. Una operazione che tra l’altro intercettò un bisogno reale, visto che si passò in breve dai 5/6000 ai 30.000 abbonati!
La decisione della fusione venne presa in pochi mesi, anche se secondo le prassi dell’epoca ebbe diversi passaggi: decine e decine di assemblee dei lettori, consultazioni pubbliche e degli organi proprietari, dibattiti e discussioni anche accese. Lo scopo dichiarato era di far confluire e dare voce al “movimento” che aveva visto la partecipazione di gruppi di protestanti “marginali”, redattori e lettori di Nuovi Tempi, e cattolici di base o “del dissenso” come erano chiamati allora.
Un’operazione ecumenica? In parte lo fu, ma secondo modalità e intenti peculiari. Certo non fu un ecumenismo “istituzionale”: non si trattò di far dialogare due realtà ecclesiali mettendo a confronto questioni dogmatiche e pratiche di fede alla ricerca di un terreno comune. Neppure si trattò da parte evangelica della volontà di far conoscere il protestantesimo a un Paese cattolico, ancora fortemente integrista e confessionale. Se fu ecumenismo lo fu in un senso diverso. Così lo spiegava Nuovi Tempi (19/5/1974): «… il dato confessionale (…) viene fortemente relativizzato perché ciascuno è posto dall’evangelo di fronte alla necessità di superare la propria storia e riconoscere le cose nuove che il Signore prepara per il suo popolo. Non era del resto questo lo spirito originario dell’ecumenismo? … un movimento in cui tutte le chiese riconoscevano di doversi convertire e non le une alle altre ma tutte al Signore».
La creazione di un unico settimanale fu una conseguenza, lo “sbocco naturale” si disse allora, delle esperienze in cui cattolici e evangelici si erano trovati come credenti fianco a fianco a percorrere un cammino comune all’interno delle lotte e in solidarietà con gli oppressi. Ribadendo che lo scopo del giornale è «riconoscere i segni del Signore che viene in mezzo agli eventi contraddittori del presente», Girardet scriveva il 6 ottobre: «Il giornale nasce dunque come un segno di speranza. Quella salvezza o “liberazione” che Gesù ha compiuto nella sua morte e risurrezione e che l’evangelo annuncia, noi la viviamo già oggi, mentre si realizza nella storia (parzialmente, ma in modo reale) nelle lotte che in tutto il mondo i popoli oppressi e le classi sfruttate combattono per costruire una società più umana»”
Il linguaggio, forse desueto, esprimeva la volontà di essere presenti all’interno della società, inseriti nelle sue lotte per la giustizia e i diritti civili e sociali. È difficile per chi non l’ha vissuto rendersi conto di quegli anni, spesso schiacciati nel ricordo dal peso dei successivi anni di piombo… difficile immaginare la tensione ma anche le speranze che mossero alla partecipazione migliaia e migliaia di studenti, operai, insegnanti, donne, intellettuali, artisti, ecc.
Furono anni tumultuosi, ricchi di creatività e novità radicali, immaginazione, discussioni, battaglie ideologiche, scontri ideali, a volte materiali; anni conflittuali che generarono reazioni e controreazioni anche cruente: solo nel 1974 ci furono due tentativi di colpo di stato e due attentati fascisti: a maggio quello di piazza della Loggia e ad agosto l’Italicus. Un decennio, a dalla fine degli anni ’60, che trasformò in profondità la società italiana in tutti i suoi ambiti inclusi quelli ecclesiastici.
Mentre i protestanti, dopo anni di dibattiti sul nodo fede e politica, stavano lavorando alla costituzione della Federazione delle chiese evangeliche (la prima fu quella giovanile, la Fgei), in ambito cattolico la Chiesa di Roma uscita dal Vaticano II registrò sommovimenti profondi e mobilitazioni di grandi entità: già nel ’69-70 con l’Isolotto prendevano vita le prime Comunità di base. Nel ’72, dalla crisi de Il Regno, nasceva il settimanale Com; mentre circa duemila preti davano vita al Movimento del 7 novembre (che terrà la sua prima assemblea nell’Aula Magna della Facoltà valdese di Teologia a Roma). Il 1973 sarà l’anno di una ulteriore diffusione del “dissenso” cattolico, delle sue comunità che si diedero una struttura di collegamento e del coordinamento delle riviste cattoliche e protestanti (Idoc, Testimonianze,Nuovi Tempi,Com, Gioventù Evangelica, ecc.) (https://patrimonio.archivioluce.com/luce-web/detail/IL5000085090/2/la-diffusione-comunita-evangeliche-movimento-7-novembre-3.html&).
Su un versante più “politico” il 1973 segnò l’infrangersi dell’unità del mondo cattolico incarnato dalla Democrazia cristiana: un colpo decisivo venne dalla vittoria del “no” del referendum sul divorzio del maggio ’74 (vero terreno di esperienze condivise tra protestanti e cattolici), seguito il 21 settembre dalla nascita dei Cristiani per il Socialismo. Quattro mesi dopo nascerà COM Nuovi Tempi!
Certo 50 anni sono tanti, troppe le cose cambiate per rintracciare parallelismi, analogie o somiglianze. Non esiste più il “movimento”, finita la lotta di classe, chiusi gli orizzonti, negata qualsiasi possibilità di alternativa al quadro economico e politico attuale: difficilissimo coltivare la speranza in un mondo più giusto, tanto che perfino riconoscere i “segni dei tempi” appare utopistico. Eppure, anche oggi come allora le vittime delle guerre e delle tante ingiustizie richiedono ascolto, solidarietà, vicinanza e un annuncio che – come recita la Confessione di fedediAccra pronunciata tutti insieme nel culto di apertura del sinodo valdese-metodista di quest’anno – sappia porsi con coraggio a fianco degli oppressi nella prospettiva della giustizia e della pace.
Fonte-Riforma.it- Il quotidiano on-line delle chiese evangeliche battiste, metodiste e valdesi in Italia.
nelle incisioni , affreschi , dipinti e foto dal 1500 sino al 1900-
Ricerca e pubblicazione a cura Franco Leggeri per l’Associazione DEA SABINA
Ratto delle Sabine-Autore: Poussin Nicolas (1594-1665)
Descrizione: La stampa rappresenta il momento più drammatico del Ratto delle Sabine. La scena si svolge in un contesto urbano dove, sullo sfondo, fanno da quinta un tempio e diversi edifici cittadini ripresi nella classica prospettiva centrale. A sinistra, su di un piedistallo, davanti a due uomini togati, si trova Romolo, ripreso in una teatrale posa plastica, con la corona che gli cinge il capo e la mano sinistra elevata chiusa a pugno intorno a un lembo del suo mantello. È intento a impartire ordini mentre intorno a lui si concretizza la violenza, con uomini e donne che lottano e fuggono. Nella parte inferiore, al di sotto dell’immagine, si trova un’iscrizione in caratteri capitali e corsivi che funge da didascalia all’immagine stessa.
Notizie storico-critiche: La stampa di traduzione fa parte di una serie di incisioni che illustrano la storia delle origini di Roma sulla base delle fonti storiche di Plutarco (Vite Parallele, Vita di Romolo) e di Tito Livio (Storia di Roma dalla fondazione). In particolare lo storico latino Tito Livio, nato nel 59 a. C. e morto nel 17 d. C. a Padova, dedica tutta la sua vita alla stesura di un’unica colossale opera storiografica “Ab Urbe condita libri”, che inizia dopo il 27 a. C. e viene pubblicata in successione per gruppi di libri; l’ultimo volume esce dopo la morte di Augusto, avvenuta il 14 d.C. L’intenzione dell’autore era quella di coprire l’intera storia di Roma dalle origini fino all’età contemporanea, ma la narrazione si ferma con il libro CXLII, che giunge fino alla morte di Druso (9 a.C.). La data della fondazione di Roma è stata fissata dallo Storico Latino Varrone sulla base dei calcoli effettuati dall’astrologo Lucio Taruzio. Il soggetto della presente stampa è preso da un famoso dipinto di Poussin del 1637/ 1638, oggi conservato al Louvre, che il veneto Angelo Biasioli incide utilizzando la raffinata tecnica dell’acquatinta per restituire i passaggi tonali e chiaroscurali dell’animata scena mitica, nella quale la classicità è esaltata sia nelle architetture che nei costumi. Biasioli lavora soprattutto a Milano per diversi editori; questa tiratura, eseguita proprio a Milano dall’editore Luigi Valeriano Pozzi, è presumibilmente eseguita tra il 1820, quando i rami di buona parte della serie sono già stati tirati dall’editore romano Scudellari (1819), ed il 1824, quando la serie compare sul Giornale di Letteratura, Scienze ed Arti (tomo XXXIV, aprile maggio giugno 1824) come edite dal milanese Pozzi.
Collocazione
Provincia di Cremona
Ente sanitario proprietario: A.S.S.T. di Crema
Compilazione: Casarin, Renata (2009)
Aggiornamento: Uva, Cristina (2012)-
Descrizione
Autore: Poussin Nicolas (1594-1665), inventore; Sala Vitale (1803-1835), disegnatore; Biasioli Angelo (1790-1830), incisore; Pozzi Luigi Valeriano (notizie 1800 ca.-1808), editore
Cronologia: post 1820 – ante 1824
Tipologia: disegno
Materia e tecnica: carta/ acquaforte; carta/ acquatinta
Misure: 565 mm x 480 mm (parte incisa); 66 cm x 58 cm (cornice)
Ratto delle Sabine-Autore: Conti Primo (1900-1988)-Studio per il ratto delle sabine
Descrizione
Identificazione: Studio per il ratto delle sabine
Autore: Conti, Primo (1900-1988)
Cronologia: 1924
Tipologia: disegno
Materia e tecnica: carta/ grafite
Misure: 279 mm x 212 mm
Descrizione: matita di grafite su carta
Notizie storico-critiche:A cavallo tra la fine degli anni Dieci e gli inizi del decennio successivo, nell’opera di Primo Conti si osserva una svolta poetica che condurrà la pittura dell’artista fiorentino lontano dall’aggressione futurista, per assorbire gradualmente, invece, un sintetismo formale di carattere purista, tipico della corrente novecentista, ma scevro da quella retorica compositiva per cui quest’ultima si contraddistingue. Tra le più grandi e articolate composizioni di figure del pittore, il “Ratto delle sabine”, presentato alla “III Esposizione Internazionale di Roma”, si concretizza per una fortissima novità espressiva lontana dagli archetipi novecenteschi. Il dipinto infatti è definito da Enrico Crispolti come un’opera “furiana”, nel quale “la “sospensione” malinconica, la sottile insinuazione di malaise psichico avviene smussando cromaticamente la nettezza del plasticismo purista, introducendo spiazzamenti asimmetrici, e ritmi di profili continuamente ondulati e curvilinei, ma mai in senso d’ispirazione geometrica” (E. Crispoldi, Primo Conti: catalogo retrospettivo per le mostre tenute in occasione dei sessanta anni di lavoro dell’artista, Firenze 1971). In alcune lettera indirizzate all’amico Pavolini, Conti racconta le vicende che hanno contrassegnato la realizzazione dell’opera. Il 29 ottobre 1924, fa sapere, “esporrò a Roma insieme al Trittico e a qualche ritratto, un Ratto delle Sabine del quale non possiedo altro che qualche disegno” e nuovamente allo stesso il 13 novembre scrive “stò ultimando i disegni per il Ratto delle Sabine”, e ancora annuncia la fine del lavoro con una lettera del 14 gennaio 1925 “fra qualche ora, forse, metterò l’ultima pennellata e la firma alle Sabine”, e la stessa sera conclude con una cartolina dicendo “Le Sabine vivono ormai di luce propria” (Calvesi, in Primo Conti 1911-1980, Firenze 1980). Tra i numerosi bozzetti preparatori di cui l’artista parla nelle lettere a Pavolini, due disegni firmati e datati “P. Conti / 1924” sono conservati presso la Fondazione dedicata al pittore a Fiesole, mentre un altro bozzetto, firmato e datato come i precedenti, è custodito presso le Raccolte Civiche del Gabinetto di Disegni del Castello Sforzesco dal 1932, dopo essere stato donato dall’autore stesso alle raccolte pubbliche milanesi. Il disegno raffigurante la parte sinistra del dipinto, così come l’opera a olio o i disegni della fondazione (i quali descrivono invece la parte destra e la parte centrale del quadro, attraverso linee più abbozzate e veloci e senza rifinitura o forti contrasti chiaroscurali) è contraddistinto da una composizione ottenuta mediante il serrato incastro volumetrico dei corpi che si affollano, contorcendosi attraverso un energico dinamismo, inedito fino a questo momento nelle opere del pittore. Confrontando il dipinto con il disegno in questione, si osservano piccole differenze nella raffigurazione dei personaggi e di alcuni particolari. Nel disegno è infatti assente la donna in secondo piano sulla destra tra le quatto figure o i due lembi di panneggio accanto alla donna accovacciato a terra. Ancora, nel disegno il piccolo omino in basso che sembra scappare in primo piano, nel dipinto diventa un carnefice ed è posto stavolta sullo sfondo. Il disegno milanese, probabilmente uno degli ultimi realizzati dall’artista, è caratterizzato da un fitto chiaroscuro eseguito con matita dura tramite linee oblique parallele, le quali invadono tutta la composizione risultando più marcate e fitte tra le giunture dei vari corpi che si accostano tra di loro.
Ratto delle Sabine-l’Affresco raffigura un episodio mitico delle origini di Roma
Descrizione
Ambito culturale: Ambito comasco
Cronologia: post 1615 – ante 1630
Tipologia: pertinenze decorative
Materia e tecnica: affresco finito a secco
Misure: 170 cm x 13 cm x 120 cm
Descrizione: L’affresco, realizzato sulla parete destra del salone, è presentato illusionisticamente come un quadro racchiuso in una cornice di legno e fissato alla parete. Raffigura un episodio mitico delle origini di Roma, il cosiddetto Ratto delle Sabine, ordinato da Romolo per supplire alla carenza di donne dei romani. L’anonimo pittore raffigura il rapimento delle mogli e delle figlie dei Sabini, un’antica popolazione del Lazio, messo in atto dai soldati romani che le avevano attirate con l’inganno nella loro città. Una particolarità dell’affresco è costituita dall’ambientazione della scena, che si svolge in una città di Roma trasfigurata dalla fantasia, dove il richiamo all’architettura antica, rappresentata dal tempio circolare a sinistra, più vicino alle architetture rinascimentali di Bramante che agli edifici classici, si affianca a una sfilata di edifici moderni, molto simili a quelli che si potevano vedere nella Como di primo Seicento. Anche il paesaggio d’acque,con barche cariche di merci, più che al fiume Tevere sembra ispirarsi a una veduta marina o, addirittura, al lago di Como su cui si affaccia la villa dei Gallio.
Notizie storico-critiche:L’affresco con il Ratto delle Sabine fa parte della decorazione del salone centrale di villa Gallia, edificata a partire dal 1614. Non conosciamo il nome dell’artista che eseguì questo affresco e la datazione esatta del suo intervento, che molto verosimilmente fu commissionato dall’abate Marco Gallio, cui si deve la costruzione dell’edificio. Come altre scene del salone, anche questa è un omaggio diretto alla storia di Roma, città in cui Marco Gallio aveva vissuto a lungo a fianco del potente zio cardinale Tolomeo, artefice della fortuna della famiglia.
Ratto delle Sabine-disegno probabilmente preparatorio per una scena teatrale-
seconda metà del XVII secolo
Descrizione
Ambito culturale: ambito veneto
Cronologia: ca. 1750 – ca. 1799
Tipologia: disegno
Materia e tecnica: carta/ matita/ penna/ inchiostro/ acquerellatura
Misure: 495 mm. x 397 mm.
Descrizione: Matita, penna, inchiostro nero, acquerello grigio, acquerelli colorati su carta bianca. Filigrana intera: forma di aquila stilizzata che regge due lance e, sotto, in lettere capitali, “LAF”.
Notizie storico-critiche:Il disegno, probabilmente preparatorio per una scena teatrale, non reca alcuna attribuzione: per il tratto leggero, frammentato e luminoso, per l’acquerellatura di delicata policromia, è probabilmente da assegnare ad un artista veneto, attivo nella seconda metà del XVII secolo.
Collezione: Collezione di disegni di Riccardo Lampugnani del Museo Poldi Pezzoli
Ratto delle Sabine-Autore: Ricchi Pietro detto Lucchese (attr.) (1606/ 1675)
Descrizione
Autore: Ricchi Pietro detto Lucchese (attr.) (1606/ 1675)
Cronologia: post 1600 – ante 1699
Tipologia: pittura
Materia e tecnica: olio su tela
Misure: 90,5 cm x 66,8 cm
Descrizione: In primo piano a destra un soldato afferra una giovane donna, mentre dietro di lui un altro sta già sollevando la preda; in secondo piano la scena è stipata di donne e soldati con insegne militari, picche, vessilli.
Collezione: Collezione dei dipinti dal XII al XVI secolo dei Civici Musei d’Arte e Storia di Brescia
Collocazione-Brescia (BS), Musei Civici di Arte e Storia. Pinacoteca Tosio Martinengo
Compilazione: Basta, C. (1991)
Aggiornamento: Giuffredi, L. (2003)
Ratto delle Sabine-Milano- Museo Martinitt e Stelline
Descrizione
Cronologia: post 1725 – ante 1775
Tipologia: pittura
Materia e tecnica: tela/ pittura a olio
Misure: 228 cm x 177 cm
Collocazione
Milano (MI), Museo Martinitt e Stelline
Compilazione: Amaglio, Silvia (2013)
Ratto delle Sabine-Cremona (CR), Museo Civico Ala Ponzone
Ratto delle Sabine
Descrizione
Ambito culturale: ambito neoclassico
Cronologia: ca. 1800 – ca. 1815
Tipologia: disegno
Materia e tecnica: matita nera su carta bianca
Misure: 288 mm x 204 mm
Collocazione
Cremona (CR), Museo Civico Ala Ponzone
Compilazione: Iato, V. (2001)
Aggiornamento: Bora, G. ()
Ratto delle Sabine-Autore: Pistrucci Filippo (sec. XIX), inventore / incisore-
Misure: 185 mm x 115 mm (parte incisa); 181 mm x 125 mm (parte figurata); 191 mm x 140 mm (Impronta)
Collocazione
Monza (MB), Musei Civici di Monza
Compilazione: Marchesi, Ilaria (2010)
Ratto delle Sabine-Autore: Aquila Pietro (1640/ 1692), incisore
Ratto delle Sabine
Descrizione
Autore: Aquila Pietro (1640/ 1692), incisore / disegnatore; Berrettini Pietro detto Pietro da Cortona (1596/ 1669), inventore
Cronologia: ca. 1670 – ante 1692
Oggetto: stampa smarginata
Soggetto: storia
Materia e tecnica: acquaforte
Misure: 613 mm x 418 mm (parte incisa)
Collezione: Fondo Calcografico Antico e Moderno della Fondazione Biblioteca Morcelli-Pinacoteca Repossi
Collocazione
Chiari (BS), Pinacoteca Repossi
Compilazione: Brambilla, Lia (2003); Scorsetti, Monica (2003)-
Ratto delle Sabine Autore: Biasioli Angelo (1790/ 1830)
Descrizione
Identificazione: Ratto delle Sabine
Autore: Biasioli Angelo (1790/ 1830), incisore
Cronologia: post 1790 – ante 1830
Oggetto: stampa
Soggetto: storia
Materia e tecnica: acquatinta
Misure: 181 mm. x 114 mm. (Parte figurata); 195 mm. x 135 mm. (Parte incisa)
Collocazione
Monza (MB), Musei Civici di Monza
Compilazione: Fumagalli, Monica (2005)
Ratto delle Sabine-Bartoli Pietro Santi; Caldara Polidoro detto Polidoro da Caravaggio
Descrizione
Autore: Bartoli Pietro Santi (1635/ 1700), incisore; Caldara Polidoro detto Polidoro da Caravaggio (1499-1500/ 1543), inventore
Ambito culturale: Scuola romana
Cronologia: post 1650 – ante 1699
Oggetto: stampa
Soggetto: storia
Materia e tecnica: acquaforte
Misure: 386 mm x 122 mm (inciso); 392 mm x 158 mm (foglio)
Collocazione
Brescia (BS), Musei Civici di Arte e Storia. Pinacoteca Tosio Martinengo
Compilazione: Menta, L. (1999)
Aggiornamento: D’Adda, R. (2002)
Scultura – Ratto delle Sabine – Giambologna – Firenze – Loggia dei Lanzi
Descrizione
Autore: Non identificato, fotografo principale
Luogo e data della ripresa: Firenze (FI), Italia, 1890 – 1899
Materia/tecnica: albumina/carta
Misure: 30 x 40
Collocazione: Milano (MI), Regione Lombardia, fondo Scrocchi, SCR_4_STABC_TQ
Classificazione
Genere: foto d’arte
Soggetto: arte
Compilazione: Truzzi, Stefania (2005)
Aggiornamento: Casone, Laura (2006)
Pietro da Cortona – Ratto delle Sabine – Dipinto – Olio su tela – Roma – Palazzo del Campidoglio – Galleria Capitolina – Sala Pietro da Cortona
Pietro da Cortona – Ratto delle Sabine – Dipinto – Olio su tela – Roma – Palazzo del Campidoglio – Galleria Capitolina – Sala Pietro da Cortona
Anderson Domenico
Descrizione
Autore: Anderson Domenico (1854/ 1938), fotografo principale
Luogo e data della ripresa: Roma (RM), 1855-1919
Materia/tecnica: albumina/carta
Misure: n.d.
Collocazione: Milano (MI), Raccolte storiche dell’Accademia di Brera, fondo Fondo Frizzoni, Fototeca storica – Armadio Frizzoni – FF 302
Classificazione
Compilazione: Lapesa, C. (2008)-
Dipinto – “Ratto delle Sabine”
Fotografia dello Studio Calzolari (studio) (1882/1996)
Dipinto – “Ratto delle Sabine” (?)
Foto Studio Calzolari (studio)
Descrizione
Autore: Studio Calzolari (studio) (1882/1996), fotografo principale
Luogo e data della ripresa: Mantova (MN), Italia, XX
Materia/tecnica: gelatina bromuro d’argento/vetro
Misure: n.d.
Note: Dipinto, olio su tela, raffigurante ratto delle Sabine (?).
Collocazione: Mantova (MN), Archivio di Stato di Mantova, fondo Archivio fotografico Calzolari, ASMn, Archivio Calzolari
Classificazione
Genere: da attribuire
Compilazione: Previti, Serena (2008)
Milano – Stazione Centrale – Atrio biglietti – scalone di accesso alla galleria di testa // persone, fregio “Ratto delle Sabine” Cfr: FM AB 23/a, FM AB 23/b, FM AB 31, FM AB 33/a, FM AB 33/b
Milano – Stazione Centrale – Atrio biglietti – scalone di accesso alla galleria di testa // persone, fregio “Ratto delle Sabine” Cfr: FM AB 23/a, FM AB 23/b, FM AB 31, FM AB 33/a, FM AB 33/b
Paoletti, Antonio
Descrizione
Autore: Paoletti, Antonio (1881/ 1943)
Luogo e data della ripresa: Milano (MI), Italia
Materia/tecnica: gelatina a sviluppo
Misure: n.d.
Note: Milano – Stazione Centrale – Atrio biglietti – scalone di accesso alla galleria di testa // persone, fregio “Ratto delle Sabine” Cfr: FM AB 23/a, FM AB 23/b, FM AB 31, FM AB 33/a, FM AB 33/b
Collocazione: Milano (MI), Raccolte Grafiche e Fotografiche del Castello Sforzesco. Civico Archivio Fotografico, fondo Foto Milano, FM APL 22
Classificazione
Compilazione: Paoli, Silvia (2013)
Firenze – Piazza della Signoria – Scultura – Ratto delle Sabine – Giambologna – Loggia dei Lanzi
Firenze – Piazza della Signoria – Scultura – Ratto delle Sabine – Giambologna – Loggia dei Lanzi
Descrizione
Autore: Non identificato, fotografo principale
Luogo e data della ripresa: Firenze (FI), Italia, 1920 – 1930
Materia/tecnica: gelatina bromuro d’argento/carta
Misure: 18 x 24
Collocazione: Milano (MI), Regione Lombardia, fondo Scrocchi, SCR_82_ST_DV
Classificazione
Genere: architettura
Soggetto: città
Compilazione: Tonti, Stella (2007)
Leggende di Roma – Ratto delle Sabine (in alto) – Caio Muzio pone la mano destra sul braciere davanti a Porsenna (in Basso) – Disegno
Leggende di Roma – Ratto delle Sabine (in alto) – Caio Muzio pone la mano destra sul braciere davanti a Porsenna (in Basso) – Disegno
Fotografo non identificato
Descrizione
Autore: Fotografo non identificato (notizie), fotografo principale
Luogo e data della ripresa: 1855-1919
Materia/tecnica: albumina/carta
Misure: n.d.
Note: La fotografia riprende il foglio sul quale sono riportati i due disegni.
Collocazione: Milano (MI), Raccolte storiche dell’Accademia di Brera, fondo Fondo Frizzoni, Fototeca storica – Armadio Frizzoni – FF 1513
Classificazione
Compilazione: Lapesa, C. (2009)
Gruppo scultoreo – Marmo – Ratto delle Sabine – 1574-1580 – Giambologna – Firenze – Piazza della Signoria – Loggia della Signoria o dei Lanzi
Gruppo scultoreo – Marmo – Ratto delle Sabine – 1574-1580 – Giambologna – Firenze – Piazza della Signoria – Loggia della Signoria o dei Lanzi
Fotografo-Non identificato
Descrizione
Autore: Non identificato, fotografo principale
Luogo e data della ripresa: Firenze (FI), Italia, 1860 – 1880
Materia/tecnica: albumina/carta
Misure: n.d.
Collocazione: Milano (MI), Raccolte Grafiche e Fotografiche del Castello Sforzesco. Civico Archivio Fotografico, fondo Vedute Italia, VI H 218
Classificazione
Genere: foto d’arte
Soggetto: arte
Compilazione: Ossola, Margherita (2016)
Il ratto delle Sabine-Biasioli Angelo
Il ratto delle Sabine- Biasioli Angelo-Descrizione
Identificazione: Ratto delle Sabine
Autore: Biasioli Angelo (1790/ 1830), incisore
Cronologia: post 1790 – ante 1830
Oggetto: stampa smarginata
Soggetto: storia
Materia e tecnica: acquatinta
Misure: 180 mm. x 113 mm. (Parte figurata); 186 mm. x 127 mm. (Parte incisa)
Collocazione
Monza (MB), Musei Civici di Monza
Compilazione: Fumagalli, Monica (2005)
Ratto delle Sabine-Autore: Caraglio Giacomo (1500/ 1570), incisore
Descrizione
Identificazione: Ratto delle Sabine
Autore: Caraglio Giacomo (1500/ 1570), incisore
Cronologia: ca. 1527
Oggetto: stampa smarginata
Soggetto: storia
Materia e tecnica: bulino
Misure: 508 mm x 360 mm (parte incisa)
Notizie storico-critiche:Malgrado questa stampa sia tradizionalmente intitolata “Il ratto delle Sabine”, Archer sottolinea che quello che è stato rappresentato non è il ratto vero e proprio, bensì un episodio successivo raccontato da Livio e da Plutarco, ovvero il tentativo di riscatto dei Sabini che raggiunsero Roma e combatterono nel Foro, mentre le donne Sabine intervennero per chiedere il mantenimento della pace. La figura femminile raffigurata seduta su un asino sarebbe la dea Vesta, presso il cui tempio avvenne la lotta. Questa incisione fu l’ultimo lavoro del Caraglio, che la lasciò incompiuta. Essa venne completata da un incisore anonimo, dallo stile più duro e più largo rispetto al Caraglio. Bartsch testimonia che l’invenzione è da attribuire a Baccio Bandinelli; Vasari invece l’attribuiva a Rosso Fiorentino. Il timbro al verso dell’esemplare qui catalogato indica che questo foglio fece parte della collezione di Heinrich Buttstaedt, pittore, fotografo collezionista e mercante d’arte nato a Gouda e morto a Berlino nel 1876. Entrò a far parte del Fondo Calcografico della Pinacoteca Repossi tramite il legato Cavalli.
Collezione:Fondo Calcografico Antico e Moderno della Fondazione Biblioteca Morcelli-Pinacoteca Repossi
Ratto delle sabine
Caladara Polidoro detto Polidoro da Caravaggio; Alberti Cherubino
Descrizione
Autore: Caladara Polidoro detto Polidoro da Caravaggio (1499-1500/ 1543), inventore; Alberti Cherubino (1553/ 1615), incisore
Cronologia: post 1553 – ante 1615
Oggetto: stampa smarginata
Soggetto: mitologia
Materia e tecnica: bulino
Misure: 200 mm. x 103 mm. (Parte figurata)
Collocazione
Monza (MB), Musei Civici di Monza
Compilazione: Ruiu, Daniela (2004)
Ratto delle Sabine-Polidoro da Caravaggio; Le Blon, Jakob Christof (attribuito)
Descrizione
Autore: Polidoro da Caravaggio (1500 ca.-1543), inventore; Le Blon, Jakob Christof (attribuito) (1667/1670-1741), incisore
Cronologia: post 1667 – ante 1741
Oggetto: stampa tagliata
Soggetto: storia
Materia e tecnica: bulino
Misure: 449 mm x 167 mm (Parte figurata); 449 mm x 167 mm (Parte incisa)
Cleonice Tomassetti-Capradosso di Petrella Salto (Rieti)
massacrata dai nazifascisti nell’eccidio di Fondotoce (oggi Verbania Cusio Ossola), il 20 giugno 1944.
Pubblicazione parziale dalla Ricerca storica di Franco Leggeri per ANPI Comitato antifascista della Sabina
Fonte- DONNE E UOMINI DELLA RESISTENZA-
Cleonice Tomassetti, detta Nice, donna di straordinarie scelte, che da un paesino del Lazio
la portano a Roma e poi a Milano, fino a quella ultima scelta che la condurrà alla morte: unirsi ai combattenti per la libertà.
Tra di loro, lei appare, sotto un cartello, tenuto da due giovani: “Sono questi i liberatori d’Italia oppure sono i banditi?”.
Sembra essere lei a guidarli, nel viaggio da Intra a Fondotoce, dove verrà fucilata a soli 33 anni il 20 giugno 1944 con altri 42 giovani partigiani.
Donne e Uomini della Resistenza in Sabina.
Ricerca storica a cura di Franco Leggeri per ANPI Comitato antifascista della Sabina.
Capradosso di Petrella Salto -La storia di Nice, Cleonice Tomassetti, staffetta partigiana di Capradosso fucilata a Fondotoce di Verbania Cusio Ossola il 20 giugno 1944.Cleonice Tomassetti non era una maestra di scuola, non era una staffetta, non aveva un marito tra i partigiani. Non fece neppure in tempo a combattere la guerra di liberazione. Era una donna che aveva fatto la propria scelta spontaneamente. Non amo la parola “martire”, ma se c’è una martire – cioè una testimone – della Resistenza italiana, è Cleonice Tomassetti.
LA STORIA-
Era il 20 giugno del 1944 quando la giovane staffetta reatina, incinta di quattro mesi, venne massacrata nell’eccidio di Fondotoce (oggi Verbania Cusio Ossola). Unica donna del gruppo di 43 partigiani catturati dai nazifascisti nel corso dei rastrellamenti effettuati nei giorni precedenti. Era una maestra che aveva lasciato la sua terra per insegnare a Milano, quando nell’aprile del ’44 decide di seguire il suo compagno nella resistenza in Val d’Ossola, per compiere le missioni assegnatole.
Era la sola donna del gruppo di 43 partigiani fucilati dai nazifascisti a Fondotoce. Nella foto allegata, è presente in prima fila, proprio sotto il cartello sul quale gli aguzzini, in modo provocatorio hanno messo la scritta “Sono questi i liberatori/ d’Italia/ oppure sono i banditi?”, visibilmente rassegnata al suo destino. Le donne di Novrego, provincia di Milano, vedendo Cleonice con le vesti strappate dalle botte e sevizie subite, le avevano offerto un abito nuovo, un omaggio alla salvaguardia della dignità anche se destinata a compiere l’ultimo viaggio. Dal racconto di un sopravvissuto, l’avvocato e magistrato Emilio Liguori pare che ai propri aguzzini, poco prima di essere condotta alla fucilazione, la Tomassetti abbia detto loro: “Se volete mortificare il mio corpo è superfluo il farlo, esso è già annientato. Se invece volete uccidere il mio spirito, quello non lo domerete mai”.
La fotografia del corteo la ritrae in prima fila. Sono 42 uomini e una donna che vanno a morire. I nazifascisti li fanno sfilare sul lungolago di Intra. Davanti hanno messo i due prigionieri più alti, che reggono un cartello: “Sono questi i liberatori d’Italia oppure sono i banditi?”. Lei è in mezzo, sotto la scritta. È vestita con cura, quasi con eleganza: scarpe nere con il tacco, maglia chiara, gonna scura, un cappello bianco, una borsa stretta al grembo. Ma non sono i suoi vestiti. Fino a poche ore prima indossava stracci coperti di sangue. Le mogli di altri prigionieri le hanno portato qualcosa da mettersi, per andare incontro alla fine con dignità.
Fuori dal paese li fanno salire su un camion per il trasporto del bestiame. Ma li fanno scendere al paese successivo, Pallanza, per mostrarli agli abitanti. Poi di nuovo un tratto in camion, e un’altra sfilata, a Suna. Infine l’ultima tappa, Fondotoce, dove vengono fucilati al crocevia subito fuori il paese.
Nel loro libro di memorie, Il Monterosa è sceso a Milano, Pietro Secchia e Cino Moscatelli la chiamano Cleonice Tommasetti e scrivono che è una maestra di scuola, staffetta partigiana, incinta di quattro mesi del marito, anche lui salito in montagna. È la versione che si ritrova in tutte le opere in cui la donna di Fondotoce viene citata. Fino a quando nel 1981 un altro partigiano, Nino Chiovini, pubblicherà una sua inchiesta (ora ristampata da una piccola casa editrice di Verbania, la Tararà), che restituisce alla vittima la sua storia e la sua identità, a cominciare dal nome.
Penultima di sei fratelli, Cleonice nasce il 4 novembre 1911 a Petrella Salto, nella frazione di Capradosso. Il suo nome significa “gloriosa nella vittoria”. Petrella è un villaggio sulle montagne tra il Lazio e l’Abruzzo, passato alla storia perché lassù visse segregata Beatrice Cenci (1577-1599), la ragazza che con i fratelli uccise il padre che la violentava e fu per questo decapitata a Castel Sant’Angelo, davanti a una folla in tumulto. Anche Cleonice ha un padre che la tormenta. Famiglia contadina, un piccolo podere, più pietra che terra. La madre muore, il fratello Aldovino e la sorella Pierina vanno a Roma a cercare lavoro. Lei è una ragazza molto intelligente, ma deve abbandonare la scuola per lavorare a casa e nei campi. A 16 anni resta incinta. Cleonice fugge dalla violenza paterna e si rifugia a Roma dalla sorella, ma il bambino nasce morto. Trova lavoro come cameriera.
A 22 anni lascia anche Roma e arriva a Milano, dove lavora come commessa e cameriera. Conosce un assicuratore, Mario Nobili, che ha lasciato la moglie dopo aver scoperto che lei lo tradiva con un sacerdote. Nobili è antifascista. Si incontra con un gruppo di amici che condividono le sue idee: si vedono a Milano in Galleria. Ci sono Melina Mistretta, proprietaria di una pensione in via Santa Radegonda, dove Cleonice è stata a lavorare, Piero Paci, violinista, e un sarto, Eugenio Dalle Crode. La sua testimonianza è importante, perché è nella sua bottega che matura il destino di Cleonice Tomassetti, che a Milano chiamano la Nice.
(1vedi nota a fondo pagina)-
Eugenio è zoppo, detesta i fascisti e nel ’24 brucia in pubblico una copia del loro giornale, “L’eco del Piave”; le camicie nere lo costringono a marciare per il paese, saltellando sulla sua unica gamba, con il gagliardetto nero in mano. A Milano diventa amico di Mario Nobili e poi di Cleonice Tomassetti.
“Ai primi del ’44 il mio amico Mario Nobili fu ricoverato all’ospedale con la meningite: dopo pochi giorni morì. Aveva 36 anni. Dopo la morte di Mario, Nice veniva quasi tutti i giorni nella mia sartoria a lavorare qualche ora. Un giorno del mese di giugno del ’44 passò da me a provare un vestito Sergio Ciribi, il figlio maggiore di una famiglia di miei vecchi clienti. Era presente la Nice. A un certo punto Sergio mi disse: “Sa, signor Eugenio, che hanno chiamato la mia classe, il primo semestre del ’26? È sul giornale di oggi. Ma io non mi presento – continuò, conoscendo le mie idee antifasciste -, vado in montagna con i partigiani”. Sergio non aveva ancora finito di parlare, che la Nice disse: “Allora ci vengo anch’io”. Lei, le decisioni le prendeva così, all’improvviso. Sergio in principio disse che non era possibile, che dove sarebbe andato non era posto per donne, ma lei insistette […].Partirono qualche giorno più tardi”.
Sergio Ciribi e Giorgio Guerreschi decidono di unirsi alla formazione Valdossola. Con loro c’è Cleonice Tomassetti. E c’è Edvige Ciribi, la madre di Sergio, che non vuole lasciarlo viaggiare da solo e ha portato anche l’altro figlio quindicenne, Giancarlo.
Il rischio è pazzesco, perché anche i tedeschi stanno andando a cercare i partigiani. L’11 giugno è cominciato un grande rastrellamento; ma la Nice e gli altri non lo sanno. Arrivano in treno a Laveno, prendono il battello per Intra, poi si incamminano a piedi. Sergio e Giorgio credono di riconoscere il sentiero che sale in Val Grande, Nice li segue, la madre di Sergio torna indietro. Non lo rivedrà più. “Non seppi nulla fino alla fine della guerra – ha raccontato Edvige Ciribi -.
Sergio, Giorgio e Nice risalgono la valle a piedi. Camminano per tutto il giorno, fino a quando non arrivano in una baita isolata, dove accendono il fuoco e passano la notte, mentre fuori infuria un temporale. Al mattino Nice si accorge di avere una zecca conficcata in una gamba, i ragazzi gliela tolgono. Appoggiato a una parete c’è un fucile, collegato con un filo a una bomba, che per un soffio non esplode. Si sente sparare in lontananza, poi si vedono i primi tedeschi: è il rastrellamento che avanza.
I tre fanno appena in tempo a nascondere il fucile e a concordare una versione comune: scartata l’idea di inventare storie improbabili, decidono di confessare; sono in montagna a cercare i partigiani per unirsi a loro, ma non li hanno ancora trovati. I tedeschi e le SS italiane li prendono subito a calci e pugni; poi cominciano gli interrogatori. Ha raccontato Giorgio Guerreschi: “Noi dicemmo, come d’accordo, la verità, ma capimmo subito che non eravamo creduti. Allora la donna, che ci vedeva come ragazzini, disse che noi non avevamo colpa, che era stata lei a convincerci a salire in montagna. “Sono ancora ragazzi, la colpa è soltanto mia” aggiunse. (…) a un certo punto cominciò a inveire in romanesco contro di lui, mandandolo a quel paese. Era una donna decisa. Ci misero tutti e tre contro un muro della baita e piazzarono un mitragliatore che lasciò partire una lunga raffica sopra le nostre teste; era chiaro che volevano terrorizzarci con una finta fucilazione”.
Si scende a piedi verso il lago, poi la notte ci si stende per terra su teli mimetici. Prosegue la testimonianza di Guerreschi: “La Nice fu assegnata a un giaciglio, con un ufficiale. Durante la notte, da quella parte, vennero rumori come di colluttazione; immaginai che qualcuno stava tentando di farle violenza. Sia per la distanza dal punto in cui si trovava, sia per il mio stato di prostrazione, non posso affermare niente di preciso, ma quell’impressione mi è rimasta in mente. Il mattino successivo intercettai alcune occhiate allusive tra i soldati”.
Lungo la strada il reparto incontra un partigiano ferito, con un proiettile nella coscia: lo finiscono con una raffica di mitra. I prigionieri subiscono altre torture: le SS vogliono sapere dove sono i compagni. Assicurano una corda a un albero, la avvolgono attorno al collo di Nice, che viene sollevata da terra, più volte; quando sta per svenire, le gettano addosso un secchio d’acqua; poi ricominciano. Ma lei non può raccontare cose che non sa. Allora la colpiscono sulla schiena con un bastone. Alla fine Cleonice Tomassetti e Sergio Ciribi vengono chiusi nelle cantine di Villa Caramora, una casa ottocentesca sul lungolago di Intra, insieme con decine di partigiani e di sospetti catturati nel rastrellamento. Tra loro c’è un medico antifascista. Il suo nome è Emilio Liguori. Dopo un mese di carcere a Torino sarà liberato e scriverà di getto un memoriale, Quando la morte non ti vuole, che è anche l’unica testimonianza della breve e dolorosa prigionia di Cleonice.
“La scena che si presentò al mio sguardo, dopo l’ingresso in cantina di tanti disgraziati, fu delle più penose alle quali io abbia mai assistito. Penso che un branco di lupi famelici, quando capita in mezzo a un gregge di pecore, usi verso le proprie vittime una ferocia meno accesa, meno sadica di quella dei soldati tedeschi verso i poveri partigiani rastrellati in Val Grande. I pugni, le pedate, i colpi di calcio di moschetto, le nerbate non si contavano più. Era una vera gragnuola che si abbatteva inesorabile su dei miseri corpi già grondanti sangue, su dei visi già tumefatti. Gli aguzzini sembravano presi nel turbine di un sadico furore. Notai che tra i partigiani vi era una donna, di statura media, di colorito bruno, sui venticinque anni. Anche a costei non furono risparmiati i maltrattamenti, anzi, starei per dire che la dose delle angherie sia stata nei suoi confronti maggiore. Mi parve che, quando arrivava il suo turno, il nerbo si abbassasse sulle sue spalle con maggior furore e più violenti fossero i calci che la raggiungevano da ogni parte. Eppure la coraggiosa donna non solo incassò ogni colpo senza emettere un grido ma, calma e serena, faceva coraggio agli altri giovani, malconci da quella furia bestiale”.
Verso le cinque del pomeriggio si sentono arrivare soldati e automezzi. I guardiani si preparano. Alcuni si sistemano la divisa, altri si tolgono la mimetica e restano in camicia e pantaloncini marroni. Qualcuno verifica il funzionamento dell’arma. Tutti si pettinano, poi controllano nello specchietto che hanno con sé che la riga dei capelli sia in ordine: saranno scattate delle fotografie. Annota il medico prigioniero: “Mi pareva di essere stato portato nei camerini degli artisti, prima che essi diano inizio alla rappresentazione”. La donna fu colpita atrocemente da più di uno schiaffo e da uno sputo sul viso. Non si scompose; incassò impassibile, e poi fiera, con aria ispirata, quasi trasumanata, disse parole che per mio conto la rendono degna di essere paragonata a una donna spartana, o meglio ancora a un’eroina del nostro Risorgimento: “Se percuotendomi volete mortificare il mio corpo, è superfluo il farlo; esso è già annientato. Se invece volete uccidere il mio spirito, vi dico che la vostra è opera vana; quello non lo domerete mai”. Poi, rivolta ai compagni: “Ragazzi, viva l’Italia, viva la libertà per tutti!” gridò con voce squillante. Anima grande! So (per avermelo confidato un poliziotto, un bolzanese che accompagnò il triste corteo fino al luogo dove avvenne l’esecuzione e vi assistette) che, durante tutto il tragitto di circa cinque chilometri da Intra a Fondotoce, essa continuò a conservare una calma e una serenità incredibile in una donna: e tale calma e tale serenità seppe, per virtù dell’esempio, comunicare agli altri suoi compagni di sventura. Avanzò per prima verso i carnefici, guardandoli fieramente negli occhi. Le sue ultime parole furono: “Viva l’Italia!”. Come lei morirono sotto le raffiche delle mitragliatrici i suoi quarantadue compagni. Ignoro il nome di questa donna, ma farò di tutto, quando tempi migliori e maggior libertà me lo consentiranno, per conoscerlo e additarlo alla pubblica ammirazione”.
Il racconto del dottor Liguori è un documento eccezionale, ma contiene due errori.
Non ci si deve stupire che sia stata una donna a trasmettere calma e serenità a 42 uomini destinati alla morte; e non tutti i compagni di Cleonice Tomassetti spirarono sotto i colpi del plotone d’esecuzione. Uno di loro, Carlo Suzzi, ferito, sopravvisse per miracolo, tornò a unirsi ai partigiani della divisione “Valdossola”, scelse il nome di battaglia “Quarantatré”; e poté testimoniare come la Nice si comportò.
Prima i tedeschi mettono i condannati in fila con la faccia verso il lago, armeggiano alle loro spalle, sparano in aria per simulare l’esecuzione. Poi li caricano sui camion, ma a ogni raggruppamento di case li fanno sfilare col cartello. Si arriva così a Fondotoce. Neppure il prete può avvicinarsi. Tutti devono sdraiarsi per terra, e tre alla volta passano sotto le raffiche del plotone. Nice è la prima a morire. Ha raccontato Carlo Suzzi, il superstite: “Bisognava vedere il coraggio di questa ragazza, che durante il percorso ripeteva a tutti: “Mostriamo a questi signori come noi sappiamo morire”. E lei per prima è caduta da eroe”.
“Ero in contatto con il Cln di Milano – scrive ancora Edvige Ciribi -. Quando c’era un’esumazione venivo avvertita; fui presente al disseppellimento dei fucilati di Baveno, poi in un altro luogo. Quando esumarono quelli di Fondotoce, ero là: riconobbi subito mio figlio dai capelli cortissimi, perché in prigione a Como era stato rasato a zero. Aveva la fronte squarciata. Conservo ancora alcuni ritagli dei vestiti che indossava. Avevo saputo che tra i fucilati c’era una donna. Quando vidi il cadavere, non feci fatica a riconoscerlo per quello della signorina Nice. Decidemmo di portare a Milano la salma di nostro figlio e quella della signorina. Erano morti nello stesso luogo; che riposassero insieme. Furono sepolti nel cimitero di Greco, poi furono trasferiti al cimitero Monumentale, nel campo della gloria”.
Cleonice Tomassetti non era una maestra di scuola, non era una staffetta, non aveva un marito tra i partigiani. Non fece neppure in tempo a combattere la guerra di liberazione. Era una donna che aveva fatto la propria scelta spontaneamente. Non amo la parola “martire”, ma se c’è una martire – cioè una testimone – della Resistenza italiana, è Cleonice Tomassetti.
Nota 1. “Sono nato a Susegana, in provincia di Treviso – ha raccontato Eugenio Dalle Crode -. Nell’autunno del 1917 abitavo a Nervesa, sulla riva destra del Piave. Gli austriaci avevano sfondato a Caporetto e si avvicinavano al fiume. La gente fuggiva; un giorno partì anche la mia famiglia; tutto il paese, anzi. Eravamo sulla strada per Montebelluna; nel cielo passò un aereo, che si abbassò e sganciò alcune bombe su di noi: una scheggia mi colpì alla gamba destra, che mi dovettero amputare sopra il ginocchio. Avevo soltanto otto anni. Quando fui in età di lavoro imparai il mestiere del sarto: è un lavoro che si può fare anche con una gamba sola”.
La foto a colori allegata al post è stata elaborata da Julius Backman Jääskeläinen giovane Architetto svedese che fra l’altro è abilissimo nel trasformare a colori le immagini storiche, generalmente in bianco e nero.
La Casa della Resistenza di Fondotoce ha scritto a Julius Backman Jääskeläinen chiedendogli di sottoporre alla colorazione l’immagine dei nostri martiri, ritratti il 20 giugno 1944 prima della loro barbara fucilazione.
Ecco il sorprendente risultato!
Vedere i loro volti, i loro abiti, le divise militari e l’ambiente circostante a colori crea una emozione unica, ci fa avvicinare a quel terribile istante, ci rende vivida e tragica la loro sorte.
“La storia è accaduta a colori”, così come a colori furono visti i nostri poveri martiri da pochi testimoni e che oggi grazie a Julius, anche a noi è data la possibilità, attraverso un ipotetico viaggio nel tempo, di avvicinarci così tanto a loro e alla loro sofferenza.
La Casa della Resistenza di Fondotoce sorge entro un parco di 16.000 mq. adiacente al luogo in cui il 20 giugno 1944 furono fucilati dai nazifascisti 43 partigiani e copre una superficie di circa 1.600 mq.
-Ricerca storica ia cura di Franco Leggeri-
Poesia di Franco Leggeri.
Pensiero per Nice –Cleonice Tomassetti-
Petrella Salto (Rieti) 1911 – Uccisa dai nazifascisti-Fondotoce (Verbania) 1944
NICE/ROSSO SABINA e L’età nuda dell’anima.
Nice, tu ,come Gramsci , hai odiato gli indifferenti.
Nice differente dall’indifferenza
Hai respirato Gramsci
Nice hai inciso le note libere della tua voce
Tra la Rocca di Petrella
Dove indugia la dolcezza della nebbia.
Nice aspettavi la luna rossa,
tu che conoscevi solo quella nera.
Nice hai contato, con rabbia, pazientemente,
mille lune per un’alba di libertà
Nice hai spaccato il gelo della fonte
Dove hai bagnato il pane
E bevuto l’acqua ,
Nice hai corso a perdifiato tra i castagni
e i chiaroscuri paralleli all’alba.
Nice hai quasi, finalmente, raggiunto le braccia della libertà
Mentre il tuo sogno metteva radici
in una terra lontana,
dove la luna brucia le onde del lago,
ma uno sguardo freddo ha ucciso
le trame dolci dei tuoi capelli.
Nice ora sei libera dalle maglie della catena,
vola Nice, vola in alto , lontano dalla terra brulla,
terra rossa del tuo sangue .
Nice, ti prego, corrodi la notte con i tuoi occhi e libera il tuo grido di libertà.
Nice ho raccolto, una ad una, le tue lacrime per dissetare il seme di una Italia libera.
-Ricerca storica ia cura di Franco Leggeri-
Cleonice Tomassetti-Nata a Capradosso di Petrella Salto (Rieti) il 4 novembre 1911-Era la sola donna del gruppo di 43 partigiani, fucilati dai nazifascisti (soltanto uno di loro, Carlo Suzzi, si salvò), a Fondotoce.
La Tomassetti è stata solennemente ricordata nel 2010 a Capradosso, nella ricorrenza della strage, dai suoi compaesani, che si sono ripromessi di celebrarne ancora il sacrificio, in occasione del centenario della nascita.
Cleonice durante gli anni della Seconda guerra mondiale abitava a Milano, dove si era trasferita dal Reatino per fare la maestra.
Quando il suo compagno era passato nella Resistenza aveva deciso di raggiungerlo e, nell’aprile del 1944 la giovane donna era entrata come staffetta nella stessa formazione partigiana.
Pochi mesi di impegno contro i nazifasciti, poi a Novegro (MI), dove la ragazza era in missione, la cattura da parte dei tedeschi e il suo trasferimento, prima nell’asilo infantile di Malesco e poi a Intra, a Villa Calamora.
Ore di maltrattamenti e di pestaggi per tutti coloro che i tedeschi hanno rastrellato e, con l’aiuto dei repubblichini, ristretto negli scantinati di Malesco e Intra.
Anche su “Nice”, che è incinta di quattro mesi, si accaniscono (come testimonierà poi l’avvocato e magistrato Emilio Liguori), i suoi aguzzini.
Sarà lei che, al fianco del tenente Ezio Rizzato, aprirà la colonna che, a piedi (fiancheggiata dai nazisti), si fermerà soltanto a Fondotoce, dove i tedeschi hanno deciso di dare una lezione ai “banditi” e alla popolazione che li aiuta (e che continuerà ad aiutarli), anche se sono arrivati da Intra a Fondotoce portando un grande cartello dove era scritto “Sono questi i liberatori/ D’ITALIA/ oppure sono i banditi?”
Cleonice sarà con Rizzato tra i primi che, a gruppi di tre, saranno fucilati dai tedeschi.
La donna fu colpita atrocemente da più di uno schiaffo e da uno sputo sul viso. Non si scompose; incassò impassibile, e poi fiera, con aria ispirata, quasi trasumanata, disse parole che per mio conto la rendono degna di essere paragonata a una donna spartana, o meglio ancora a un’eroina del nostro Risorgimento:
“Se percuotendomi volete mortificare il mio corpo, è superfluo il farlo; esso è già annientato. Se invece volete uccidere il mio spirito, vi dico che la vostra è opera vana; quello non lo domerete mai”. Poi, rivolta ai compagni: “Ragazzi, viva l’Italia, viva la libertà per tutti!” gridò con voce squillante. Anima grande!
Al grido si uniranno i suoi compagni Giovanni Alberti, Carlo Antonio Beretta, Angelo Bizzozero, Emillio Bonalumi, Luigi Brioschi, Luigi Brown, Dante Capuzzo, Sergio Ciribì, Giuseppe Cocco, Adriano Marco Corna, Achille Fabbro, Olivo Favaron, Angelo Freguglia, Franco Ghiringhelli, Cosimo Guarnieri, Franco Marchetti, Arturo Merzagora, Rodolfo Pellicella, Giuseppe Perraro, Marino Rosa, Aldo Cesare Rossi, Carlo Sacchi, Renzo Villa, Giovanni Volpati e altri quattordici che all’esumazione non poterono essere identificati.
Carlo Suzzi, Da alcuni decenni si era trasferito a vivere in Thailandia. Fu l’unico sopravvissuto dell’eccidio nazifascista del 20 giugno 1944 a Fondotoce, noto come la strage dei 42 Martiri. L’essere sopravvissuto alla fucilazione gli valse il soprannome di “43”, nome di battaglia che portò combattendo nella divisione partigiana Valdossola
Sul sacrificio di Cleonice e dei suoi compagni a Fondotoce, Nino Chiovini ha scritto un libro; i martiri sono ricordati anche con un “sentiero Chiovini”.
Fonte-da DONNE E UOMINI DELLA RESISTENZA-immagini Cleonice Tomassetti- il macabrio corteo con Cleonice unica donna – e in primo piano – lapide in memoria dell eccidio-
Pubblicazioni: numerose pubblicazioni di lezioni e temi riguardanti la pace editi dall’associazione Primalpe
La Scuola di pace di Boves è un’istituzione senza fini di lucro, voluta, deliberata dall’amministrazione comunale di Boves ed è un luogo dove si insegna la pace
Il Teatrino al forno del pane “Giorgio Buridan” (UILT, Unione Italiana Libero Teatro) che presenta
lo spettacolo CLEONICE di Maria Silvia Caffari, venerdì 9 febbraio ore 21 all’Auditorium Borelli.
Cleonice Tomassetti, detta Nice, donna di straordinarie scelte, che da un paesino del Lazio
la portano a Roma e poi a Milano, fino a quella ultima scelta che la condurrà alla morte: unirsi ai combattenti per la libertà.
Tra di loro, lei appare, sotto un cartello, tenuto da due giovani: “Sono questi i liberatori d’Italia oppure sono i banditi?”.
Sembra essere lei a guidarli, nel viaggio da Intra a Fondotoce, dove verrà fucilata a soli 33 anni il 20 giugno 1944 con altri 42 giovani partigiani.
Teatro Comunale Francesco Ramarini la Stagione Teatrale 2024-2025-
A Monterotondo la Stagione Teatrale verrà inaugurata al Teatro Comunale Francesco Ramarini SABATO 9 NOVEMBRE, alle ore 21.00, da “AFFOGO”. Scritto e diretto da Dino Lopardo, con Mario Russo, Alfredo Tortorelli, lo spettacolo è stato finalista In-Box 24-25 ed ha vinto il premio di Drammaturgia “SuiGeneris” al Torino Fringe Festival. La produzione di Gommalacca Teatro indaga su come la violenza, celata nell’animo umano sin dall’adolescenza, possa spazzare via i nostri sogni. Un’indagine scenica che ruota intorno a diversi temi: solitudine, genere, rapporti familiari, società corrotta, bullismo.
SABATO 7 DICEMBRE, alle ore 21.00, Claudio Greg Gregori e Fabio Troiano saranno “GLI INSOSPETTABILI”. Il testo teatrale di Shaffer da cui furono tratte, secondariamente, anche due importanti opere cinematografiche, mette al centro della vicenda il gioco e la sfida tra due uomini che hanno in comune l’apparente amore per la stessa donna.
Un testo ironico e pieno di fascino, portato in scena da due interpreti di talento indiscusso e grande umanità e con la regia del bravissimo Fabrizio Coniglio, in una produzione di Teatro e società srl.
Un viaggio nella malattia dell’uomo moderno, che in nome del culto esclusivo di sé, sta addirittura arrivando a privarsi del sentimento più nobile e grande che possa esistere: l’amore. Tutto questo raccontato col sorriso, con l’ironia e con un grande gioco teatrale, che l’autore, Shaffer, ci regala in questa sua avvincente pièce.
SABATO 18 GENNAIO 2025, alle ore 21.00, Giselda Volodi ci accompagnerà in una pièce ispirata a “Il racconto di Sonečka” di Marina Cvetaeva: “COME LO ZUCCHERO DURANTE LA RIVOLUZIONE”.
La produzione di Avamposti umani racconta di come sia difficile trovare la propria identità quando questa non ha mai potuto manifestarsi apertamente nella nostra vita. Come fare, quindi? Non resta che attingere ad altre vite – o presunte tali – o all’Altra Vita.
Un filo del racconto esilissimo si dipana partendo dalla figura di una donna reclusa, colpevole di voler amare e di voler vivere.
DOMENICA 2 FEBBRAIO, alle ore 18.30, Paola Minaccioni è “ELENA LA MATTA”.
In scena con lei, Valerio Guaraldi e Claudio Giusti, per la regia di Giancarlo Nicoletti.
Fra documento storico, emozione e ironia, Paola Minaccioni torna a teatro con una grande prova d’attrice, vestendo i panni di un’antieroina del Novecento: Elena Di Porto, la “matta” del ghetto ebraico di Roma. Una storia vera tutta al femminile che si trasforma in uno spettacolo coinvolgente e di grande impatto emotivo. Il 16 Ottobre 1943 le SS naziste rastrellano il ghetto di Roma, deportando ad Auschwitz oltre 1000 ebrei della comunità romana. Fra questi c’è una donna, Elena Di Porto, che fino alla sera prima ha provato ad avvertire gli abitanti del ghetto del pericolo imminente. Nessuno, però, le ha dato retta, perché Elena è la “pazza” del quartiere ebraico, per l’appunto detta “la matta di Piazza Giudìa”. Paola Minaccioni presta corpo e voce alla figura di Elena Di Porto in un monologo scritto da Elisabetta Fiorito e con le musiche dal vivo originali di Valerio Guaraldi. A ottant’anni da quella triste ricorrenza, lo spettacolo è un emozionante viaggio nell’Italia della Seconda guerra mondiale, delle leggi razziali, della paura ma anche della speranza e della solidarietà. Una straordinaria prova d’attrice fra dramma e comicità di una della più apprezzate interpreti del panorama italiano.
SABATO 22 MARZO, ore 21.00, sarà l’ora de “Lapocalisse”: un reading di Valerio Aprea con monologhi scritti per lui da Makkox, per una produzione di Elastica.
L’apocalisse è imminente. L’apocalisse è prossima. L’apocalisse è inevitabile. Ma siamo proprio sicuri? Davvero non c’è un barlume di speranza? Un minimo spiraglio di possibile intervento per scongiurare un destino che sembra ineluttabile? E se sì, a quali condizioni? Attraverso quali ostacoli? Siamo ancora in tempo per correggere la rotta? Ma poi, soprattutto, la vogliamo davvero correggere questo rotta?
INFO: Tel. 06 906 1490 www.icmcomune.it
Al “Ramarini” la nona stagione teatrale comunale
Al via la tradizionale Stagione di prosa ufficiale del teatro Francesco Ramarini, giunta quest’anno alla sua nona edizione. Organizzata dall’Assessorato alla Cultura e dalla Fondazione ICM, la rassegna è allestita come sempre in collaborazione con l’ATCL, l’Associazione Teatrale fra i Comuni del Lazio, ed è sostenuta dal Ministero dei Beni e delle Attività culturali e dalla Regione Lazio.
I cinque spettacoli (vedi scheda allegate al comunicato ndr) in cui si articola la stagione sono:
9 novembre ore 21.00: “AFFOGO” con Mario Russo e Alfredo Tortorelli.
7 dicembre ore 21.00: “GLI INSOSPETTABILI”, con Claudio “Greg” Gregori e Fabio Troiano. 18 gennaio ore 21.00: “COME LO ZUCCHERO DURANTE LA RIVOLUZIONE”, con Giselda Volodi. 2 febbraio ore 18.30: “ELENA, LA MATTA”, con Paola Minaccioni.
22 marzo ore 21.00: “LAPOCALISSE” con Valerio Aprea..
Abbonamenti (5 spettacoli a 85 €) in vendita presso il botteghino del teatro venerdì 11 (orario 16:00 – 20:00), sabato 12 (orario 09:00 – 13:00 / 16:00 – 19:00) e domenica 13 ottobre (orario 09:00 – 12:00) e, online, dalle ore 10:00 del 14 ottobre fino al 20 Ottobre tramite il circuito tickettando.it.
Biglietti dei singoli spettacoli (25 €) in vendita da lunedì 21 ottobre online tramite il circuito tickettando.it, presso la Biblioteca comunale “P. Angelani” (piazza don Minzoni snc) nei giorni e nei seguenti orari: lunedì e mercoledì 16:00 – 19:00, sabato 10:00 – 12:00 e, presso il botteghino del teatro, il giorno dello spettacolo fino a due ore prima dell’inizio.
Gli abbonamenti e i biglietti sono cedibili a terzi ma non rimborsabili. Ulteriori info: 06.90.61.490, www.icmcomune.it.
«Sono orgogliosa di presentare la nuova stagione ufficiale del Ramarini – dichiara l’assessora alla Cultura Alessandra Clementini – e di proporre un cartellone di qualità, in linea con la consolidata tradizione che abbina commedie brillanti a spettacoli di riflessione su tematiche sociali. Sottolineo come il costo degli spettacoli, pressoché inalterato da anni, resta estremamente contenuto, nella certezza che uno degli obiettivi fondamentali da ricercare sempre sia quello di consentire a chiunque l’accesso alla fruizione culturale e alle occasioni di crescita individuale che questa assicura. Per lo stesso motivo abbiamo predisposto forme di gratuità da riservare, in occasione di ogni spettacolo, a persone seguite dai nostri Servizi sociali. Mi auguro che la risposta del pubblico sia appassionata come ogni anno e che la valorizzazione del nostro teatro, uno dei pochissimi in Italia ad essere gestito in house, prosegua nel solco di un percorso che lo renda sempre più conosciuto ed apprezzato anche al di fuori del contesto territoriale».
«Molto tempo è già passato dalle prime edizioni, quelle che ebbi il piacere e l’onore di lanciare al tempo in cui ero assessore – aggiunge il sindaco Riccardo Varone – ed è motivo d’orgoglio constatare come la storia del nostro teatro sia ormai costellata di passaggi prestigiosi, nomi di artisti e produzioni che esprimono un altissimo livello culturale e professionale. Soprattutto sono orgoglioso perché, anno dopo anno, il Comune non smette di lavorare per avvicinare un pubblico sempre più vasto alla grandezza e alla bellezza del teatro e al valore che questo riveste non solo in termini culturali ma anche etici e sociali».
«Una stagione teatrale, questa che abbiamo il piacere di presentare – afferma il presidente della Fondazione ICM Pietro Oddo – che punta da un lato a fidelizzare il nostro pubblico e dall’altro ad allargare la partecipazione a nuovi spettatori, perché crediamo fermamente che il teatro sia uno strumento di crescita personale, aggregazione e condivisione».
«L’auspicio è quello di connettere negli spazi del teatro Ramarini le risorse del territorio con le esperienze artistiche della scena nazionale – afferma la direttrice artistica di ATCL Isabella Di Cola – lavoriamo affinché la realtà eretina riscatti un posto d’onore nella promozione culturale teatrale dell’intera regione. La prosa sarà forza trainante di una stagione dall’anima poliedrica, dinamica, che coniuga contenuti e leggerezza, tradizione e innovazione con un unico comune denominatore: l’alto profilo artistico. Un cartellone che vuole rappresentare le buone pratiche di una società resiliente, di un nuovo modo di fare cultura, di una presenza “fisica” nei luoghi affinché siano propensi alla partecipazione e all’ascolto».
«Il teatro è soprattutto occasione di crescita culturale di una collettività, un momento di incontro, di condivisione, di riflessione, di suggestione, strumento per interpretare il vivere contemporaneo – afferma l’amministratore delegato di ATCL Luca Fornari – il ringraziamento di ATCL va come sempre al Comune di Monterotondo ed alla fondazione ICM, che permette il funzionamento del Teatro, al MiC ed alla Regione Lazio che finanziano le attività, agli artisti programmati ma soprattutto al pubblico, che rende possibile tutto questo e che sono certo saprà rispondere, come sempre, con passione e affetto».
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