Seungwoo Park la prima mostra personale dell’artista sud coreano in Europa,
dal 12 ottobre all’8 novembre 2024-
Lusvardi Art di Milano- Seungwoo Park *1997 Daegu, Corea, è un artista, pittore, scultore e regista. Inaugurazione venerdì 11 ottobre ore 18:00 – 22:00 con Life Performance a partire dalle ore 20:00-
A cura di Alessandro Rauschmann-La mostra unisce per la prima volta in assoluto le varie espressioni artistiche dell’artista quali: Life Performance, Video, Fotogramma, Scultura e Disegno
Seungwoo Park ha sviluppato una pratica di performance unica in cui si concentra sul trascendere i limiti fisici del corpo. L’artista si fa ispirare osservando i movimenti imprevedibili dei pesci. Infatti l’azione delle sue performance è imprevedibile. Con dei movimenti inconsci esplora le complesse interazioni tra realtà e irrealtà. Ciò rivela paradossalmente la sua preoccupazione per il “presente”. Poiché tecnicamente non esiste un istante tra passato e futuro, è il dono dell’artista performativo di rallentare il tempo e indurci a dimenticare per un istante la limitazione dei confini fisici.
Il suo lavoro allude alla deperibilità dell’esistenza e allo stesso tempo ne contempla l’eternità. Incorpora nel suo lavoro l’idea buddista del KARMA e la dottrina di Nietzsche dell’Eterno Ritorno dello stesso.
Nel suo lavoro rifiuta l’approccio dualistico alla vita e alla morte, affrontando invece l’argomento in un modo che riduce il divario tra nascita e morte. Esplora le riflessioni ambivalenti, ma allo stesso tempo intricate, sulla vita come uno stato vivente, respirante, imperfetto e sulla morte come uno stato vuoto, ma completo. Le varie discipline artistiche si fondono nella sua pratica come le sue sculture compaiono nella serie “Photograms” che è un’impronta piatta di una scultura che interpreta poeticamente la luce. Poiché la luce definisce lo spazio, il fotogramma ci mostra l’illusione di un oggetto tridimensionale. La scultura, o meglio un frammento di sé stessa, acquista una qualità estetica che nello spazio non sarebbe visibile.
Mentre i fotogrammi illuminano letteralmente la coerenza tra un corpo astratto e la sua immagine bidimensionale, i disegni figurativi riflettono più uno stato d!animo personale che una ricerca estetica. L’opera “Nati nella notte”, ad esempio, invita a considerare una alternativa alla origine della vita, vista come una zona una zona di transizione in cui si incontrano i propri demoni personali prima di rinascere.
Lusvardi Art is pleased to presents the first solo show of Korean artist Seungwoo Park in Europe. The show unites for the first time ever the various artistic expressions of the artist such as: Life performance, Video, Photogram, sculpture and Drawing.
Opening reception on Friday October 11th 18:00 – 22:00 with a life performance starting at 20:00.
The exhibition is on view from October 12th till November 8th.
Curated by Alessandro Rauschmann
Seungwoo Park *1997 Daegu, Korea, is a Performance Artist, Painter, Sculptor and Filmmaker.
Seungwoo Park developed a unique praxis of performance in which he focuses on transcending the physical limitations of the body.
The artist is inspired by observing the unpredictable movements of fish. In his performances he then let his intuition decide how to move. With unconscious movements he explores the complex interactions between reality and unreality. This paradoxically reveals his preoccupation with the “present”. Since there is technically no instant between past and future, it is the performance artist’s gift to slow down time and intrigue us to forget for an instant the limitation of physical boundaries. His work hints at the perishability of existence while at the same time contemplating its eternity.
He incorporates the Buddhist idea of KARMA and Nietzsche’s doctrine of The Eternal Recurrence of the same into his art practice. He rejects the dualistic approach to life and death, instead he approaches the topic in a way that narrows the gap between birth and decease. Seungwoo explores the ambivalent, yet simultaneously intricate, reflections on life as a living, breathing, imperfect state and death as an empty, yet complete state.
Descrizione del libro di Nicola Guarino-Gli otto racconti che compongono questa raccolta restituiscono un profilo di eleganza alla narrativa contemporanea. Devono questo privilegio a una scrittura pulita, impeccabile nella scelta delle parole e capace di dipingere scenari e sensazioni in pochi essenziali tratti.
Al centro della vicenda, spesso un individuo soltanto: i suoi gesti quotidiani, il suo stare e fare che prendono uguale e giusto tempo nella narrazione, all’interno della quale si dipanano le sfumature personali, i fatti, i non detti e i significati che le cose assumono per ciascuno, viste dall’interno, e per gli altri che vi partecipano da fuori.
E gli spazi: un Sud senza tempo che ci sembra di conoscere da sempre, racchiuso nel dettaglio di una ringhiera di ferro o nei gessi dei soffitti che appaiono “come dune di sale” agli occhi del protagonista. Come se tutta la vita fosse fare due passi nel quartiere, un calcio al pallone, affacciarsi al terrazzino a veder scorrere la propria storia, compresa la sua fine.
Biografia dell’autore
Nicola Guarino, nasce nel 1958 ad Avellino, ultimo di una famiglia numerosa che si trasferisce ben presto a Napoli. Qui compie gli studi classici e, in seguito, si laurea in Giurisprudenza alla Federico II. Negli anni del liceo collabora con l’Unità e Paese Sera e poi, per mantenersi durante gli studi universitari, lavora all’ippodromo di Agnano. Diventato avvocato, ha fatto parte del Consiglio nazionale di Legambiente. Appassionato di cinema ha curato diverse rassegne e festival sia a Napoli che a Parigi, città in cui vive dal 2004 e in cui insegna lingua italiana all’Università della Sorbona e a Créteil Paris 12. È tra i fondatori della testata online Altritaliani.net.
La Poetica di Vincenzo Cardarelli -Poesie e opere di Vincenzo Cardarelli, poeta e scrittore appartenente alla corrente letteraria dell’Avanguardia. Successivamente Cardarelli vivrà un ritorno al classicismo rifacendosi ad autori come Leopardi e Pascoli.
Dopo la premessa con «La Ronda» e i suoi ideali risulta più semplice capire quale sia la poetica di Cardarelli, visto che lui è uno dei co-fondatori della rivista letteraria.
Versi discorsivi Cardarelli punta a una poesia dove i versi abbiamo uno svolgimento discorsivo che possa mettere in luce i segreti moti psicologici dell’autore; con armonia, ma sempre con urgenza; con un ritmo implacabile, con uno scopo a rivelarsi subito chiaro.
Una poesia che ragiona, colloquialeUna poesia che ragiona, come un lungo colloquio dell’anima. Colloquiale ma non per ironia come accadeva ai poeti crepuscolari; prosaica ma non per questo meno ricercata e intimamente lirica. Una poesia, quella di Cardarelli, che è discorso sempre in atto, fluente, vivido.
Le parole di Cardarelli Dice di sé stesso il poeta:
«che la mia poesia “discorra” non c’è dubbio. Anzi corre precipitosamente allo scopo, con un ritmo che non ammette divagazioni, non concede indugi, quantunque non sempre in modo graduale e pacifico. Più spesso procede per giustapposizione di idee o d’immagini, per rifrazioni di un medesimo concetto che, accennato fin dalle prime sillabe, si svolge, se mi è permesso di dirlo, come un tema musicale. È la mia maniera di esprimermi».
Il tempo: ossessione ed occasioneLa soggettività di Cardarelli si spande nel tempo perché il tempo è la tela del suo io, come l’autoritratto non potesse mai davvero finire; se non con la morte, ovviamente. E allora il tempo è ossessione ed occasione insieme. Non interessa tanto il tempo storico, quanto il tempo in cui l’io ha modo di scoprire il suo passaggio silenzioso nell’esistenza.
Il brano Idea della morteSi legge nel brano Idea della morte (1918), incluso in Viaggi nel tempo (1920):
«Sono turbato dalla sensazione del tempo come un pericolo assiduo. Il desiderio, spesso spropositato in me, di abbandonarmi, è vinto da una vaga inquietudine senza causa, che urge e mi consiglia di levarmi su, presto, come se ad ogni istante si potesse correre il rischio di perdere tutto il tempo in una volta, tutte le probabilità e le occasioni. […] E mentre noi che ne andiamo, ilari e distratti, per la nostra strada, egli ci cammina dietro, e allorché, trasalendo, ci rivolteremo per guardarlo, ci avrà già passati».
Il tema del tempoIl tema del tempo si lega a quello dell’occasione perduta e dell’infanzia passata inesorabilmente.
Il tema del vagabondaggioC’è anche il tema del vagabondaggio, spiccatamente autobiografico, perché Cardarelli si percepisce come un uomo sempre messo al bando.
La sofferenza permea ma non spezza il rigore espressivo e logico della poesia di Cardarelli che riesce sempre a trovare la giusta armonia e una mai acquietata dolcezza.
Il concetto di «impassibilità»Mengaldo sottolinea il concetto di «impassibilità», come capacità di volgere l’ispirazione «indifferentemente su tutte le cose, come si diffonde la luce». E aggiunge che questa definizione dello stesso poeta «chiarisce benissimo le motivazioni del cosiddetto classicismo cardarelliano, in quanto rifiuto delle salienze espressive e dell’esposizione violenta di singoli particolari in nome di un’equa distribuzione dell’energia stilistica su tutta la superficie del testo…» (Poeti italiani del Novecento, 366).
Vediamo alcune delle poesie più rappresentative di questo poeta, cercando di dare un piccolo commento a ognuna. Non serve la parafrasi perché non si parla più in italiano antico!
Il tema del tempo è molto importante per CardarelliAbbiamo detto che il tema del tempo è di assoluta importanza per Cardarelli. Lo è per tanti poeti, in verità, se non per tutti. Cardarelli ha comunque un modo tutto suo di esprimerlo: ora dolce, ora terribile; ora occasione, ora rimpianto.
Il tempo: passaggio in cui la realtà si rinnova Il tempo è anche il passaggio in cui la realtà si rinnova. Come se fossimo in un sonetto della corona dei mesi, Cardarelli sceglie di parlarci di febbraio, il mese più corto dell’anno, un mese piccolo e sempre bambino.
Febbraio
Febbraio è sbarazzino.
Non ha i riposi del grande inverno,
ha le punzecchiature,
i dispetti di primavera che nasce.
Dalla bora di febbraio
requie non aspettare.
Questo mese è un ragazzo
fastidioso, irritante
che mette a soqquadro la casa,
rimuove il sangue, annuncia il folle marzo
periglioso e mutante.
L’amore, il tema dei poetiL’amore è il tema dei poeti: quanto è difficile parlarne? Quanto è difficile scriverne? Scommetto che tutti ci abbiamo provato ad esprimere questo sentimento su carta per poi capire che non ne siamo capaci.
Cardarelli innamoratoCompito sopraffino da lasciare ai poeti, che parlano per noi tutti. In questa poesia Cardarelli si accorge di essersi innamorato: se ne accorge dallo sguardo di lei triste e felice a un tempo.
Nella mancanza di lei, come in un provenzale “amore da lontano”, il poeta si agita e pensa a cosa sta accadendo e a come quel sentimento, come un uccellino si sia aggrappato ai rami del suo cuore.
Amore
Come chi gioia e angoscia provi insieme
gli occhi di lei cosí m’hanno lasciato.
Non so pensarci. Eppure mi ritorna
piú e piú insistente all’anima
quel suo fugace sguardo di commiato.
E un dolce tormento mi trattiene
dal prender sonno, ora ch’è notte e s’agita,
nell’aria un che di nuovo.
Occhi di lei, vago tumulto. Amore,
pigro, incredulo amore, piú per tedio
che per gioco intrapreso, ora ti sento
attaccato al mio cuore (debol ramo)
come frutto che geme.
Amore e primavera vanno insieme.
La fine di un amore Gli amori dei poeti di norma finiscono tutti. Ma come è dolce il finire delle cose, a volte, quanto è strano di colpo capire che qualcosa è finito. Sotto i nostri occhi, d’improvviso.
L’addioE qualcosa si spezza in noi e quella vita, quella possibilità, quella promessa di giorni felici svanisce per sempre. Resta solo il ricordo, amaro, poi magari più dolce e sbiadito, come una luce che passa attraverso le tende. In questa poesia l’addio è netto, deciso: «Non mi lasciasti nessuna speranza», dice Cardarelli.
Ed è così che di lei resta solo lo spettro, un compagno silenzioso e fastidioso; quel silenzio è un baratro dove l’assenza sembra chiamare a sé ogni cosa.
Crudele addio
Ti conobbi crudele nel distacco.
Io ti vidi partire
come un soldato che va alla morte
senza pietà per chi resta.
Non mi lasciasti nessuna speranza.
Non avevi, in quel punto,
la forza di guardarmi.
Poi più nulla di te, fuorché il tuo spettro,
assiduo compagno, il tuo silenzio
pauroso come un pozzo senza fondo.
Ed io m’illudo
che tu possa riamarmi.
E non fo che cercarti, non aspetto
che il tuo ritorno,
per vederti mutata, smemorata,
aver noia di me che oserò farti
qualche amoroso e inutile dispetto.
I ricordiNascono ombre smisurate da corpi troppo brevi, perché breve è il loro passaggio nel tempo. I ricordi sono così: uno «strascico di morte».
Nostalgia e rimpiantoCon una metafora truce e dolorosa, Cardarelli ci porta nella dimensione della nostalgiae del rimpianto che l’amore genera in lui. I ricordi sono «fantasmi agitati da un vento funebre», per riprendere l’immagine dello spettro della poesia precedente, cara al poeta.
La donna amata è un ricordo e quindi, implicitamente, uno spettro che si aggira nella memoria del poeta (la parola «trapassata» si usa infatti per i morti).
L’ultimo sussulto della storia, prima del commiato, è nella consapevolezza che il tempo raggiunge ogni cosa e che l’amore è un fuoco che brucia e agita quel tempo, breve, concesso alla vita.
Passato
I ricordi, queste ombre troppo lunghe
del nostro breve corpo,
questo strascico di morte
che noi lasciamo vivendo
i lugubri e durevoli ricordi,
eccoli già apparire:
melanconici e muti
fantasmi agitati da un vento funebre.
E tu non sei più che un ricordo.
Sei trapassata nella mia memoria.
Ora sì, posso dire che
che m’appartieni
e qualche cosa fra di noi è accaduto
irrevocabilmente.
Tutto finì, così rapito!
Precipitoso e lieve
il tempo ci raggiunse.
Di fuggevoli istanti ordì una storia
ben chiusa e triste.
Dovevamo saperlo che l’amore
brucia la vita e fa volare il tempo.
L’Attesa“Attesa” è giustamente una delle poesie più famose di Cardarelli, per dolcezza, malinconia e finanche lieve candore delle immagini. Come nei poemi cavallereschi l’amore è una ricerca attiva o passiva: possiamo andare incontro all’amata come il furioso Orlando di Ariosto o possiamo attendere l’arrivo dell’amata, alla finestra, febbricitanti nell’attesa.
Amore e solitudineL’amore ha un modo tutto suo di disattendere l’una e l’altra dinamica. Se cerchiamo, non troviamo. Se aspettiamo, non arriva. E allora l’amore si fa compagno della solitudine, intensa esplorazione dell’altro dentro di noi.
È un’assenza che si colma di senso. L’assenza della donna amata brilla tumultuosa come una stella. Come un temporale che, eccolo, è lì, pronto a scrosciare con impeto, ma poi se ne va verso altri luoghi.
L’amore è tutto. Saffo lo definiva dolce-amara bestia. Cardarelli lo vorrebbe coprire di fiori, ma anche di insulti.
Attesa
Oggi che t’aspettavo
non sei venuta.
E la tua assenza so quel che mi dice,
la tua assenza che tumultuava
nel vuoto che hai lasciato,
come una stella.
Dice che non vuoi amarmi.
Quale un estivo temporale
s’annuncia e poi s’allontana,
così ti sei negata alla mia sete.
L’amore, sul nascere,
ha di questi improvvisi pentimenti.
Silenziosamente
ci siamo intesi.
Amore, amore, come sempre,
vorrei coprirti di fiori e d’insulti.
AMICIZIA
Noi non ci conosciamo. Penso ai giorni
che, perduti nel tempo, c’incontrammo,
alla nostra incresciosa intimità.
Ci siamo sempre lasciati
senza salutarci,
con pentimenti e scuse da lontano.
Ci siam rispettati al passo,
bestie caute,
cacciatori affinati,
a sostenere faticosamente
la nostra parte di estranei.
Ritrosie disperanti,
pause vertiginose e insormontabili,
dicevan, nelle nostre confidenze,
il contatto evitato e il vano incanto.
Qualcosa ci è sempre rimasto,
amaro vanto
di non ceduto ai nostri abbandoni,
qualcosa ci è sempre mancato.
ATTESA
Oggi che t’aspettavo non sei venuta.
E la tua assenza so quel che mi dice,
la tua assenza che tumultuava,
nel vuoto che hai lascito,
come una stella.
Dice che non vuoi amarmi.
Quale un estivo temporale
S’annuncia e poi s’allontana,
cosi’ ti sei negata alla mia sete.
L’amore, sul nascere, ha di quest improvvisi pentimenti.
Silenziosamente ci siamo intesi.
Amore, Amore, come sempre,
vorrei coprirti di fiori e d’insulti.
GABBIANI
Non so dove i gabbiani abbiano il nido,
ove trovino pace.
Io son come loro
in perpetuo volo.
La vita la sfioro
com’essi l’acqua ad acciuffare il cibo.
E come forse anch’essi amo la quiete,
la gran quiete marina,
ma il mio destino è vivere
balenando in burrasca.
PASSATO
I ricordi, queste ombre troppo lunghe
del nostro breve corpo,
questo strascico di morte
che noi lasciamo vivendo
i lugubri e durevoli ricordi,
eccoli già apparire:
melanconici e muti
fantasmi agitati da un vento funebre.
E tu non sei più che un ricordo.
Sei trapassata nella mia memoria.
Ora sì, posso dire che
che m’appartieni
e qualche cosa fra di noi è accaduto
irrevocabilmente.
Tutto finì, così rapito!
Precipitoso e lieve
il tempo ci raggiunse.
Di fuggevoli istanti ordì una storia
ben chiusa e triste.
Dovevamo saperlo che l’amore
brucia la vita e fa volare il tempo.
SERA DI LIGURIA
Lenta e rosata sale su dal mare
la sera di Liguria, perdizione
di cuori amanti e di cose lontane.
Indugiano le coppie nei giardini,
s’accendon le finestre ad una ad una
come tanti teatri.
Sepolto nella bruma il mare odora.
Le chiese sulla riva paion navi
che stanno per salpare.
SCHERZO
Il bosco di primavera
ha un’anima,una voce.
è il canto del cucù
pieno d’aria,
che pare soffiato in un flauto.
Dentro il richiamo lieve
più che l’eco ingannevole,
noi ce ne andiamo illusi:
Il castagno è verde tenero.
Sono stillanti persino
le antiche ginestre.
Attorno ai tronchi ombrosi,
fra giochi di sole,
danzano le amadriali.
PRIMAVERA
Oggi la primavera
é un vino effervescente.
Spumeggia il primo verde
sui grandi olmi fioriti a ciuffi:
Verdi persiane squillano
su rosse facciate
che il chiaro allegro vento
di marzo pulisce:
Tutto è color di prato.
Anche l’edera è illusa,
la borraccina è più verde
sui vecchi tronchi immemori
che non hanno stagione.
Scossa da un fiato immenso
la città vive un giorno
d’umori campestri.
Ebbra la primavera
corre nel sangue.
PASSAGGIO NOTTURNO
Giace lassù la mia infanzia.
Lassù in quella collina
ch’io riveggo di notte,
passando in ferrovia,
segnata di vive luci.
Odor di stoppie bruciate
m’investe alla stazione.
Antico e sparso odore
simile a molte voci che mi chiamino.
Ma il treno fugge. Io vo non so dove.
M’è compagno un amico
che non si desta neppure.
Nessuno pensa o immagina
che cosa sia per me
questa materna terra ch’io sorvolo
come un ignoto, come un traditore.
AUTUNNO
Autunno. Già lo sentimmo venire
nel vento d’agosto,
nelle piogge di settembre
torrenziali e piangenti
e un brivido percorse la terra
che ora, nuda e triste,
accoglie un sole smarrito.
Ora che passa e declina,
in quest’autunno che incede
con lentezza indicibile,
il miglior tempo della nostra vita
e lungamente ci dice addio.
ABBANDONO
Volata sei, fuggita
come una colomba
e ti sei persa là, verso oriente.
Ma son rimasti i luoghi che ti videro
E l’ore dei nostri incontri.
Ore deserte,
luoghi per me divenuti un sepolcro
a cui faccio la guardia.
ALLA MORTE
Morire sì,
non essere aggrediti dalla morte.
Morire persuasi
che un siffatto viaggio sia il migliore.
E in quell’ultimo istante essere allegri
come quando si contano i minuti
dell’orologio della stazione
e ognuno vale un secolo.
Poi che la morte è la sposa fedele
che subentra all’amante traditrice,
non vogliamo riceverla da intrusa,
né fuggire con lei.
Troppo volte partimmo
senza commiato!
Sul punto di varcare
in un attimo il tempo,
quando pur la memoria
di noi s’involerà,
lasciaci, o Morte, dire al mondo addio,
concedici ancora un indugio.
L’immane passo non sia
precipitoso.
Al pensier della morte repentina
il sangue mi si gela.
Morte non mi ghermire
ma da lontano annunciati
e da amica mi prendi
come l’estrema delle mie abitudini.
BALLATA
Ecco la casa ov’io vidi la luce
e la chiesa lì accanto,
dove fui battezzato.
Consolanti evidenze!
Qui antiche donne vivono, mai sazie
di ricordare.
E narrano una storia
ch’io so a memoria e non vorrei sapere.
Narrano la mia storia famigliare.
Dicono che una notte,
col cuore fasciato
di crudeltà e d’ira fredda,
un uomo fece guasto
senza pietà nei suoi affetti più sacri,
disperse una famiglia appena in fiore.
E la casa natale era al mattino
tranquilla e disertata
come se visitata
l’avessero le streghe.
Il tempo come un ciclone
spazzò da questi luoghi
le care immagini.
Di ciò che fu non rimane
che un tacito agitarsi
di memorie e di ombre.
Ma quelle voci ch’io dico
sono implacabili e vive.
Lamentose quale un funebre canto,
alla pietà l’invettiva alternando,
mi rammentano come, ancora in fasce,
m’abbia poco la sorte vezzeggiato.
SERA DI GAVINANA
Ecco la sera e spiove
sul toscano Appennino.
Con lo scender che fa le nubi a valle,
prese a lembi qua e là
come ragne fra gli alberi intricate,
si colorano i monti di viola.
Dolce vagare allora
per chi s’affanna il giorno
ed in se stesso, incredulo, si torce.
Viene dai borghi, qui sotto, in faccende,
un vociar lieto e folto in cui si sente
il giorno che declina
e il riposo imminente.
Vi si mischia il pulsare, il batter secco
ed alto del camion sullo stradone
bianco che varca i monti.
E tutto quanto a sera,
grilli, campane, fonti,
a concerto e preghiera,
trema nell’aria sgombra.
Ma come più rifulge,
nell’ora che non ha un’altra luce,
il manto dei tuoi fianchi ampi, Appennino.
Sui tuoi prati che salgono a gironi,
questo liquido verde, che rispunta
fra gl’inganni del sole ad ogni acquata,
al vento trascolora, e mi rapisce,
per l’inquieto cammino,
sì che teneramente fa star muta
l’anima vagabonda.
ESTIVA
Distesa estate,
stagione dei densi climi
dei grandi mattini
dell’albe senza rumore –
ci si risveglia come in un acquario –
dei giorni identici, astrali,
stagione la meno dolente
d’oscuramenti e di crisi,
felicità degli spazi,
nessuna promessa terrena
può dare pace al mio cuore
quanto la certezza di sole
che dal tuo cielo trabocca,
stagione estrema, che cadi
prostrata in riposi enormi,
dai oro ai più vasti sogni,
stagione che porti la luce
a distendere il tempo
di là dai confini del giorno,
e sembri mettere a volte
nell’ordine che procede
qualche cadenza dell’indugio eterno.
AUTUNNO VENEZIANO
L’alito freddo e umido m’assale
di Venezia autunnale,
Adesso che l’estate,
sudaticcia e sciroccosa,
d’incanto se n’è andata,
una rigida luna settembrina
risplende, piena di funesti presagi,
sulla città d’acque e di pietre
che rivela il suo volto di medusa
contagiosa e malefica.
Morto è il silenzio dei canali fetidi,
sotto la luna acquosa,
in ciascuno dei quali
par che dorma il cadavere d’Ofelia:
tombe sparse di fiori
marci e d’altre immondizie vegetali,
dove passa sciacquando
il fantasma del gondoliere.
O notti veneziane,
senza canto di galli,
senza voci di fontane,
tetre notti lagunari
cui nessun tenero bisbiglio anima,
case torve, gelose,
a picco sui canali,
dormenti senza respiro,
io v’ho sul cuore adesso più che mai.
Qui non i venti impetuosi e funebri
del settembre montanino,
non odor di vendemmia, non lavacri
di piogge lacrimose,
non fragore di foglie che cadono.
Un ciuffo d’erba che ingiallisce e muore
su un davanzale
è tutto l’autunno veneziano.
Così a Venezia le stagioni delirano.
Pei suoi campi di marmo e i suoi canali
non son che luci smarrite,
luci che sognano la buona terra
odorosa e fruttifera.
Solo il naufragio invernale conviene
a questa città che non vive,
che non fiorisce,
se non quale una nave in fondo al mare.
ILLUSA GIOVENTU’
O gioventù, innocenza, illusioni,
tempo senza peccato, secol d’oro!
Poi che trascorsi siete
si costuma rimpiangervi
quale un perduto bene.
Io so che foste un male.
So che non foco, ma ghiaccio eravate,
o mie candide fedi giovanili,
sotto il cui manto vissi
come un tronco sepolto nella neve:
tronco verde, muscoso,
ricco di linfa e sterile.
Ora che , esausto e roso,
sciolto da voi percorsi in un baleno
le mie fiorenti stagioni
e sparso a terra vedo
il poco frutto che han dato,
ora che la mia sorte ho conosciuta,
qual essa sia non chiedo. Così rapida
fugge la vita che ogni sorte è buona
per tanto breve giornata.
Solo di voi mi dolgo, primi inganni.
AUTUNNO
Autunno. Già lo sentimmo venire
nel vento d’agosto,
nelle piogge di settembre
torrenziali e piangenti
e un brivido percorse la terra
che ora, nuda e triste,
accoglie un sole smarrito.
Ora che passa e declina,
in quest’autunno che incede
con lentezza indicibile,
il miglior tempo della nostra vita
e lungamente ci dice addio.
OTTOBRE
Un tempo, era d’estate,
era a quel fuoco, a quegli ardori,
che si destava la mia fantasia.
Inclino adesso all’autunno
dal colore che inebria,
amo la stanca stagione
che ha già vendemmiato.
Niente più mi somiglia,
nulla più mi consola,
di quest’aria che odora
di mosto e di vino,
di questo vecchio sole ottobrino
che splende sulla vigne saccheggiate.
Sole d’autunno inatteso,
che splendi come in un di là,
con tenera perdizione
e vagabonda felicità,
tu ci trovi fiaccati,
vòlti al peggio e la morte nell’anima.
Ecco perché ci piaci,
vago sole superstite
che non sai dirci addio,
tornando ogni mattina
come un nuovo miracolo,
tanto più bello quanto più t’inoltri
e sei lì per spirare.
E di queste incredibili giornate
vai componendo la tua stagione
ch’è tutta una dolcissima agonia.
ADOLESCENTE
Su te, vergine adolescente,
sta come un’ombra sacra.
Nulla è più misterioso
e adorabile e proprio
della tua carne spogliata.
Ma ti recludi nell’attenta veste
e abiti lontano
con la tua grazia
dove non sai chi ti raggiungerà.
Certo non io. Se ti veggo passare
a tanta regale distanza,
con la chioma sciolta
e tutta la persona astata,
la vertigine mi si porta via.
Sei l’imporosa e liscia creatura
cui preme nel suo respiro
l’oscuro gaudio della carne che appena
sopporta la sua pienezza.
Nel sangue, che ha diffusioni
di fiamma sulla tua faccia,
il cosmo fa le sue risa
come nell’occhio nero della rondine.
La tua pupilla è bruciata
dal sole che dentro vi sta.
La tua bocca è serrata.
Non sanno le mani tue bianche
il sudore umiliante dei contatti.
E penso come il tuo corpo
difficoltoso e vago
fa disperare l’amore
nel cuor dell’uomo!
Pure qualcuno ti disfiorerà,
bocca di sorgiva.
Qualcuno che non lo saprà,
un pescatore di spugne,
avrà questa perla rara.
Gli sarà grazia e fortuna
il non averti cercata
e non sapere chi sei
e non poterti godere
con la sottile coscienza
che offende il geloso Iddio.
Oh sì, l’animale sarà
abbastanza ignaro
per non morire prima di toccarti.
E tutto è così.
Tu anche non sai chi sei.
E prendere ti lascerai,
ma per vedere come il gioco è fatto,
per ridere un poco insieme.
Come fiamma si perde nella luce,
al tocco della realtà
i misteri che tu prometti
si disciolgono in nulla.
Inconsumata passerà
tanta gioia!
Tu ti darai, tu ti perderai,
per il capriccio che non indovina
mai, col primo che ti piacerà.
Ama il tempo lo scherzo
che lo seconda,
non il cauto volere che indugia.
Così la fanciullezza
fa ruzzolare il mondo
e il saggio non è che un fanciullo
che si duole di essere cresciuto.
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BIOGRAFIA DI VINCENZO CARDARELLI:
1887 – Vincenzo Cardarelli (il suo vero nome ra Nazareno) nasce a Corneto Tarquinia (Viterbo) il primo maggio. Da giovane pratica diversi mestieri e studia in modo irregolare.
1905 – È l’anno della morte del padre. Abbandona il paese natale, al quale fu per sempre legato da un rapporto di odio e amore, a causa dell’infanzia infelice e solitaria che vi aveva trascorso, lui afflitto da una menomazione al braccio sinistro spesso veniva affidato alla carità e alla cura di estranei.
1906 – Giunge a Roma, privo di una regolare istruzione, in cerca di fortuna; si accosta agli ambienti socialisti iniziando una attività giornalistica che lo porterà alla redazione dell’Avanti!. Inizia la relazione amorosa con la scrittrice Sibilla Aleramo, che si esaurirà nel 1912. Intanto prosegue nelle sue intense seppure disordinate letture e, abbandonate le velleità socialiste, entra in contatto con gli ambienti culturali che gravitano attorno alle principali riviste: nel 1911 invia alla Voce prezzoliniana uno studio su Charles Pégluy e inizia una assidua collaborazione al “Marzocco”.
Pubblica anche lo scritto Metodo Estetico e le prime poesie sparse. Particolarmente significativa è, in questa fase, il sodalizio con Riccardo Bacchelli, mentre fallisce il progetto a lungo vagheggiato di dare vita a una nuova rivista. Nella capitale collabora, prima del conflitto mondiale, a numerose riviste: Il Marzocco, La Voce, Lirica ed è tra i fondatori de La Ronda.
La Civita, Corneto, Roma, le memorie della sua infanzia solitaria e della sua focosa gioventù, sono i temi essenziali di un’opera che pur senza essere abbondante costituisce un alto e raro esempio di coerenza e di coscienza artistica.
Ma sarebbe difficile, e probabilmente arbitrario voler isolare nella sua produzione questo o quel titolo di una singola opera, perché Cardarelli è soprattutto il creatore di uno stile. A tale esigenza massima egli subordina, quando era in vita, ogni altra ambizione e ogni ricerca di un successo facile ed effimero.
1916 – Esce Prologhi, una raccolta di brevissime prose. Nel medesimo anno collabora alla Voce di Giuseppe De Robertis, maturando via via quelle convinzioni di un ritorno all’ordine e alla tradizione da cui nascerà nel 1919 l’esperienza decisiva della Ronda. Della rivista Cardarelli fu fra i più strenui ispiratori, dirigendola fino al 1923, quando cessò definitivamente le pubblicazioni.
1929 – Vince il Premio letterario Bagutta per il libro Il sole a picco
Io nacqui forestiero in Maremma, di padre marchigiano, e crebbi come un esiliato, assaporando con commozione tristezze e indefinibili nostalgie. Non mi ricordo la mia famiglia, né la casa dove son nato, esposta a mare, nel punto più alto del paese, buttata giù in una notte come dall’urto di un ciclone, quando io avevo due anni appena.
Sono venuto a conoscere mio padre un giorno che, nientedimeno, aveva sposato, e io soffiavo nel fornello a tutto andare, con una ventola nuova nuova. Ci fu un tempo ch’io vissi sotto la protezione d’un angelo custode e non ne ho altro ricordo se non che ero un ragazzo come tutti gli altri, curato, ben vestito e corretto con severità ed amore. Il destino, dopo avermi tolto la madre mi aveva regalato in compenso una matrigna, tutta d’oro, dal cuore alle mani. Me la aveva portata da lontano, parlava un dialetto settentrionale.
Tutta questa felicità durò poco, tre anni appena. Un dopo pranzo, che tornavo dalla scuola, passando davanti alla camera dove la mia cara madre giaceva malata e mentre son lì per entrare (ma già mi aveva sorpreso il lenzuolo che le avevano tirato fin sopra il capo) due braccia mi sollevarono e mi deposero nella camera accanto, dove una sorella della morta stava, in quel momento, levandosi di letto, dopo aver trascorso la notte vicino a lei. Erano quelle di mio padre.
Da allora la mia esistenza si complicò. I confini della mia famiglia si confusero e si dispersero. Non potendo badare a me, mio padre si vide costretto a collocarmi ora qui ora là, a dozzina. Conobbi altre case, dove fui accolto e trattato quasi in qualità di parente, attesa la mia facilità a familiarizzare. Il mondo mi allevò. […]
Per farla corta, mio padre pretendeva che io diventassi nient’altro che un buon commerciante, alla sua maniera. Ecco la ragione vera per cui non volle che studiassi e fece, senz’accorgersene, la mia rovina. […]
A sedici anni, cioè un anno avanti che mio padre morisse, ero già lontano da lui e dal mio paese. […]
Per vivere, nei primi anni, dovetti fare i mestieri più vari: addetto a vigilare l’andamento delle sveglie in un deposito d’orologi; ammanuense nello studio d’un bisbetico avvocato piemontese e socialista; impiegato nella segreteria della Federazione metallurgica; contabile; infine giornalista.
1948 – “Villa Tarantola” vince il Premio Strega per la prosa.
1959 – Muore il 18 giugno nell’Ospedale del Policlinico di Roma. Egli riposa ora nel cimitero di Tarquinia, di fronte alla Civita etrusca secondo la volontà espressa nel testamento. La Civita etrusca, che il poeta ha così di frequente evocato nelle sue poesie e nelle sue prose, aveva ai suoi occhi più il valore di un simbolo morale che non di un tema autobiografico: era stato il faro che lo aveva guidato durante la sua avventurosa navigazione tra gli scogli dell’esistenza. Visse nella povertà e nella solitudine, e morì a settantadue anni ancora più povero e più solo.
LE OPERE
Narrativa e Poesia:
• Prologhi, Milano, 1916;
• Viaggi nel tempo, Firenze, 1920;
• Terra genitrice, Roma,1935;
• Favole e memorie, Milano, 1925;
• II sole a picco, Bologna, 1928; Premio Bagutta 1929
• Prologhi viaggi, favole, Lanciano, 1929;
• Giorni in piena, Roma, 1934;
• Poesie, Roma, 1936 ristampa accresciuta, Roma, 1942;
• Rimorsi, Roma, 1944;
• Lettere non spedite, Roma, 1946;
• Poesie nuove, Venezia, 1946;
• Solitario in Arcadia, Milano, 1947;
• Villa Tarantola, Milano, 1948;Premio Strega
• Poesie, Milano, 1949;
• Invettiva ed altre poesie disperse, Milano, 1964;
• Autunno, sei vecchio, rassegnati, a cura di C. Martìgnoni, Lecce, 1988;
• Opere complete, a cura di G. Raimondi, Milano, 1962;
• Opere, a cura di C. Martignoni, Milano, 1981.
I prologhi
In quasi tutte le prose e le poesie contenute nella raccolta, le parole usate da Cardarelli sono lineari. Il mondo rappresentato è un mondo intellettuale, senza mistero. I temi che affiorano più spesso, oltre a quelli dell’addio, del distacco, della solitudine, dello sgombero, sono la morte (“Angosce letargiche le quali sono state i miei anticipi di morte”), l’anima (“Sento che il tempo cade e fa rumore nell’anima mia”), la purità (“Io sono grato al male per gli obblighi di purità che mi ha posti”), la carne (“Perché io ho ecceduto nella carne fino all’ironia”).
I viaggi nel tempo
Fin dalle prime prose e liriche, si avvertono i fremiti precorritori di un mutamento radicale e di un trapasso di paesaggio oltre che di clima. La composizione delle liriche coincide con il ritorno dello scrittore a Roma, dopo i suoi vagabondaggi in Italia e all’estero. L’ansia, l’inquietudine che avevano dominato la gioventù di Cardarelli e nelle quali si doveva ravvisare l’origine delle sue molteplici e disordinate esperienze umane e culturali, si placano via via a contatto con Roma, la città dei suoi sogni, la circe mondiale, la reggia favolosa che i papi costruirono a consolazione dei derelitti.
Settembre a Venezia, Autunno Veneziano
Autunno, Ottobre
Liguria, Sera di Liguria
Questi tre gruppi di liriche hanno molti punti in comune. Si compongono ognuno di una lirica breve, simile ad un “mottetto” musicale, alla quale si contrappone una poesia più elaborata, maggiormente orchestrata, una “sonata” o un canto a più voci. Ma l’elemento di partenza è lo stesso: una stagione, una città, un ricordo, un’emozione. Nelle prime due liriche di argomento veneziano il poeta traduce in note musicali le sensazioni suscitate nel suo animo dal trapasso dall’estate all’autunno.
LO STILE
Nel 1919, ormai affermatosi negli ambienti letterari della capitale, Cardarelli fondò la rivista La Battaglia, dalle cui pagine cominciò a combattere quella che sarebbe stata la lunga battaglia letteraria della sua vita: la restaurazione del classicismo, inteso come severa disciplina.
La restaurazione cardelliana muove dalla riscoperta e dalla rivalutazione dell’opera di Leopardi. Cardarelli, da mente acuta di critico quale era, si era accorto che l’operazione di fondo da realizzare per riportare la poesia nel suo alveo e nei suoi giusti limiti era quella di ricreare lo stile, senza il quale, i contenuti non possono che produrre oratoria. Il suo limite consiste forse nell’aver identificato lo stile con quello di una tradizione ben determinata, il suo merito sta invece nell’aver restituito alla lingua, vergini e brillanti come nuovi, parole e modi di dire consumati dal cattivo uso, sbiaditi dalla genericità dei contesti e praticamente privi della loro significazione.
Ad un ideale di classica compostezza, di perfezione stilistica e di limpidezza formale restò fedele in tutto l’arco della sua produzione: versi prima dispersi in alcuni volumi di prose e poi raccolti in Poesie nelle tre edizioni del 1936, 1942 e 1958. E’ una poesia ragionata, nella quale il discorso si sviluppa e si stende con limpidezza e fluidità, tutto avvolto da un tono meditativo, che comunica al lettore quasi sensibilmente un desolato senso di vivere.
I TEMI DELLA POESIA
Cardarelli fu un conversatore brillante ed un letterato polemico e severo, avendo vissuto una vita vagabonda, solitaria e di austera e scontrosa dignità. Suoi maestri sono stati Baudelaire, Nietzsche, Leopardi, Pascal, i quali lo hanno portato ad esprimere le proprie passioni con un senso razionale, senza troppe esaltazioni spirituali. La sua è una poesia descrittiva lineare, legata a ricordi passati di qualunque tipo, siano paesaggi animali persone e stati d’animo, che vengono espressi con un uso di un linguaggio discorsivo e nello stesso tempo impetuoso e profondo.
I temi ricorrenti nelle sue liriche sono il trascorrere delle stagioni, avvertito come simbolo dell’eterna mutevolezza delle cose, lo sfiorire dell’adolescenza e della bellezza, i vagheggiamenti dell’infanzia e dei paesaggi ad essa collegati. Sia nell’esplosione della vitalità estiva o sia nel malinconico disfarsi del paesaggio autunnale, il trascorrere delle ore del giorno e delle stagioni diventa simbolo delle vicissitudini della vita. Come scrive nella prima strofa di Ottobre:
Un tempo, era d’estate,
era a quel fuoco, a quegli ardori
che si destava la mia fantasia.
Inclino adesso all’autunno
Dal colore che inebria,
Amo la stanca stagione
Che ha già vendemmiato.
Niente più mi somiglia,
Nulla più mi consola,
Di quest’aria che odora
Di mosto e di vino,
Di questo vecchio sole settembrino
Che splende nelle vigne saccheggiate.
Città di Pescara- Se il biscotto diventa un gioiello-
Corso di decorazione al Museo delle Genti d’Abruzzo-
Pescara, 8 ottobre – Al Museo delle Genti d’Abruzzo Sta per iniziare un viaggio attraverso i sensi: la bellezza da guardare, il buono da assaggiare, la capacità di realizzare. E’ un corso che valorizza non solo la creatività, ma le tradizioni e le suggestioni della fantasia. Tre distinti eventi che la Fondazione Genti d’Abruzzo organizza avvalendosi della professionalità di Filomena Tavano cookie artist , ovvero decoratrice di biscotti. Da non confondere con la pasticceria. Tavano è una eccellenza nel suo settore: nasce, con i suoi studi, restauratrice e decoratrice e si perfeziona lavorando con importanti aziende, per poi trovare una strada alternativa, che le consente di coniugare il suo amore per la pittura con quello per la cucina: nasce così Dolcetto, che le frutta riconoscimenti a livello internazionale e la porta in giro a raccontare come si fa a trasformare un biscotto in un capolavoro.
Il calendario degli appuntamenti si apre sabato prossimo alle ore 16, con la decorazione del biscotto “Presentosa d’Abruzzo”, sabato 30 novembre con inizio alla stessa ora toccherà al “Cuore d’Abruzzo” per concludere il 7 dicembre con la più classica preparazione di piccole opere d’arte natalizie. Sarà possibile sia frequentare un solo evento, della durata di quattro ore, che partecipare all’intero percorso ed avere così una preparazione più completa. “Lavoriamo in un ambiente insolito – spiega Tavano – e proprio per questo presentiamo un prodotto che sia attinente al museo. Ma questa esperienza fa parte anche di un mio progetto, che ha mosso i primi passi nel corso di Mediterranea, che è quello di declinare la decorazione dei biscotti in funzione turistica, preparando delle scatole eleganti che siano riconoscibili come prodotti abruzzesi. Ho già collaborato con la Regione Puglia, lavorando sugli Ori di Taranto, anche per l’Abruzzo sarebbe bello poter avviare una produzione con una propria identità. Penso a una scuola di formazione che potrebbe, ad esempio, essere anche funzionale alla riqualificazione di donne che hanno perso il lavoro, ma anche un punto di partenza per chi decide di investire su un progetto innovativo”. La proposta che si svilupperà all’interno del Museo delle Genti d’Abruzzo potrebbe essere un primo passo verso un lavoro più strutturato sul territorio. “Abbiamo organizzato il percorso in tre distinti eventi – chiarisce Tavano – ed in ognuna delle tre occasioni insegneremo le competenze tecniche di base per poter realizzare un biscotto decorato. Gli elementi essenziali sono la pasta frolla e la ghiaccia reale, che possono però essere lavorati con molte varianti. Perché la decorazione ha davvero molto da offrire, come produzione prevede l’infinito: ogni biscotto è una tela bianca su cui lavorare”. Diverse le tecniche di realizzazione tra la Presentosa e il cuore d’Abruzzo, poi il gran finale a sorpresa per il Natale: biscotti da utilizzare come decorazione per l’albero o per la tavola, per regali originali o semplicemente per coccolarsi in occasione delle feste.
Ai corsi sono ammessi anche i ragazzi, dai 12 anni in poi, un’occasione per avvicinarsi, divertendosi, all’arte della decorazione: “Decideremo in prossimità dell’evento come interpretare il terzo evento. Siamo estremamente flessibili. Ogni persona viene seguita a seconda della propria inclinazione, accompagnata fino al conseguimento del suo risultato”.
Informazioni
Il Museo delle genti d’Abruzzo è un museo di Pescara. Wikipedia
Piero Rattalino-LA TESTA DEL SERPENTE-Manualetto del pianista per passione
Prefazione di Luca Chiantore-Zecchini Editore
La musica dal vivo – quella che Piero Rattalino chiamiamo classica usando un po’ a sproposito un termine che è diventato fin troppo polivalente – si trova oggi nella condizione di un piccolo esercito che, rifugiatosi in una città-fortezza, resiste all’assedio di due potenti nemici, l’Esercito della Rete e l’Esercito dell’Intelligenza Artificiale. La città resiste eroicamente, ma sa che nessuno arriverà a soccorrerla e constata invece che i viveri cominciano a scarseggiare, che l’acqua è stata razionata, che le munizioni si vanno esaurendo. Gli assediati capiscono allora di dover preparare il piano di una sortita da “o la va o la spacca”, una sortita che miri a rompere l’assedio, a riprendere l’iniziativa e a concludere la guerra con un compromesso soddisfacente e onorevole per tutti. Usciranno perciò dalla città non come combattenti ma come messaggeri di pace, armati di rose e garofani, non di spade e lance.
Usciamo di metafora. Questo libro parte dalla premessa che la musica dal vivo non è stata in grado di contrastare la concorrenza della rete e che oggi è insidiata da tre gravi problemi, interdipendenti: il reperimento di fondi, l’assottigliarsi delle presenze del pubblico, la limitata creatività della interpretazione, e quindi il limitato appeal del prodotto che viene messo sul mercato. L’interpretazione ha percorso durante il Novecento il cammino di una grandiosa utopia: applicarsi a scoprire e trasmettere al pubblico il pensiero del compositore, e quindi l’autenticità dell’opera. E ha conseguito risultati di assoluto valore. Ma quei risultati sono stati conservati nelle registrazioni e sono oggi disponibili in rete, e una parte del pubblico esistente si sta orientando in tal senso e, soprattutto, il numerosissimo pubblico potenziale che alla rete si è già rivolto non passa alla musica dal vivo.
Il piano di pace consiste nello spostamento dalla realizzazione del pensiero alla realizzazione dell’emozione che squassò il compositore mentre creava la musica, mentre cioè cascava in quello stato di divina follia che, come ci insegnò Platone, è l’arte. La sortita viene proposta ai pianisti per passione, professionisti e dilettanti, che si sentono impegnati a operare non in una terra di fede condivisa ma in una terra di missione.
Piero Rattalino ci ha lasciati pochi giorni fa, appena dopo aver posto la parola “fine” a questa sua ultima fatica letteraria, che è insieme un testamento spirituale e un coraggioso atto di proposta verso il futuro. Partendo dalla figura del “musicista per passione”, del dilettante di talento, Rattalino propone una nuova didattica pianistica che è insieme estetica e sociologica, che vada di pari passo a una nuova forma di concerto (il RecitarSuonando) e a una vera rivoluzione del rapporto tra pubblico e artisti. Un testo su cui meditare, l’estremo regalo del più grande esperto e divulgatore pianistico degli ultimi 50 anni.
Dell’autore Octavio Paz , scrittore, poeta e diplomatico messicano,Premio Nobel per la letteratura nel 1990, sempre accanto a emarginati e oppressi, si preferisce ricordare quasi unicamente la parabola finale. Glissando su affermazioni valide a ogni latitudine: “La ricerca dell’identità nazionale è un passatempo intellettuale, a volte anche un affare di sociologi disoccupati” oppure “Quando una società si corrompe, a imputridire per primo è il linguaggio”
Mai come in questi tempi appare importante la riflessione politica di Octavio Paz sulla parola e sul linguaggio che lui espresse in questi termini: “Quando una società si corrompe, a imputridire per primo è il linguaggio. La critica della società inizia quindi con la grammatica e il ristabilimento dei significati” (Pos data, 2005). La parola appare al poeta messicano come un elemento necessario per rimarcare il fatto che fa parte integrante della cultura; la cultura é l’identità di un popolo e si mostra anche attraverso il linguaggio. Quando il linguaggio si appiattisce e si impoverisce per cedere il posto all’immediatezza (o a insistenti termini presi in prestito da altre lingue), noi pian piano ci allontaniamo dall’essenza, dalla creatività, dalla complessità e soprattutto dalla nostra capacità di autocritica. Octavio Paz nelle sue opere ha continuamente ribadito l’importanza della creatività della parola e del linguaggio. Saggista, giornalista, diplomatico messicano, premio Nobel per la letteratura, è considerato il poeta di lingua spagnola più importante della seconda metà del Novecento: “Non è poeta chi non abbia sentito la tentazione di distruggere il linguaggio o di crearne un altro, chi non abbia provato il fascino della significazione indicibile” (Vento Cardinale, 1985). La società e la politica furono per lui sempre inscindibili dall’arte poetica, anzi, la sua poesia d’avanguardia si fece veicolo di istanze sociali e di problemi politici, mettendo in luce una società corrotta che aveva fatto della merce l’unico valore visibile.
Nato nel 1914 a Città del Messico da una famiglia borghese, in cui il sangue spagnolo si era unito a quello indigeno messicano, a soli 19 anni pubblica la prima raccolta di poesie dal titolo Luna Silvestre. Grazie alla sua professione di diplomatico viaggia molto: vive a lungo negli Stati Uniti, in Spagna, Francia e persino in India e in Giappone, ove conosce la filosofia che influenzerà una parte sostanziale dei suoi scritti.
Il primo viaggio lo porta nello Yucatan, ove si misura col profondo passato della storia messicana, con l’antica civiltà Maya, la povertà e le lotte di parte della popolazione. Giunge a Mérida l’11 marzo 1937 e vi rimane per 65 giorni. Qui aderisce al progetto educativo di una scuola secondaria per i figli di indigeni, di operai e contadini, che gli era stato proposto dagli amici Octavio Novaro Fiora del Fabro e Ricardo Cortés Tamayo. Octavio nella scuola, e proprio a quel periodo appartengono le pagine di “Tra la pietra e il fiore” (1941), un ampio “inno tra le rovine” o meglio, come dirà più tardi “maleza entre escombros” (“erba tra le macerie”), un tema che lo accompagnerà come una ferita aperta per tutta la vita.
Sempre 1937, Paz ha più di 20 anni, partecipa come rappresentante del suo Paese al II Congresso internazionale degli scrittori per la difesa della cultura, che quell’anno si propone di supportare i repubblicani in Spagna durante la Guerra civile. Vi partecipano, tra gli altri, André Malraux, César Vallejo e Pablo Neruda. Alla fine della seconda guerra mondiale diviene segretario dell’ambasciata messicana a Parigi entrando in contatto con il movimento surrealista e André Breton. Come incaricato d’affari arriva in Giappone e, infine, negli anni 60, è ambasciatore in India. Qui, nel 1968, rassegna le dimissioni per protestare contro il governo messicano, responsabile di una brutale repressione di studenti che manifestavano in piazza delle Tre Culture a Tlatelolco, Città del Messico, alla vigilia dei Giochi Olimpici. È il 2 ottobre 1968. Lasciato l’incarico, si dedica all’insegnamento presso università americane ed europee. Continua l’instancabile attività di promotore della cultura tenendo lezioni e fondando nuove riviste, come Plural (1971-1976) e Vuelta (1976). Paz non si limita a scrivere, ma trasforma le parole in azioni concrete. Politicamente propende a sinistra come il padre Octavio Paz Solorzano, avvocato zapatista. Più tardi invece adotterà un atteggiamento politico liberal-conservatore, simile a quello del nonno Irineo, che era stato vicino a Porfirio Diaz, presidente della Repubblica del Messico per tre mandati diretti, dal 1876 al 1911.
Così Paz desta polemiche quando divien aspro critico della insurrezione zapatista del 1994 e del subcomandante Marcos. Il 7 gennaio 1994 sul quotidiano messicano La Jornada scrive: “È una ribellione irreale, condannata al fallimento. Non corrisponde alla situazione del nostro paese, né alle sue necessità ed aspirazioni attuali”. Ma poi “pian piano, scopre lo stile originale dei proclami di Marcos, l’idealismo sincero, la sensibilità con cui esprime i sentimenti degli indigeni. Ricordandogli quando lui stesso, negli anni 30, era andato nello Yucatan a lavorare con gli indigeni. A conquistare il poeta è un’identificazione personale più che ideologica: non fu la guerriglia, ma la prosa di Marcos e la sua vocazione per il mondo indigeno”. Così scrive il messicano Jorge Volpi nel saggio La guerra y las palabras: una historia intelectual del 1994, in cui analizza il controverso rapporto tra Marcos e Octavio Paz
Ricordiamo che fu grande conoscitore di lingue, di tradizioni, affascinando soprattutto grazie al riflesso delle culture preispaniche rievocate in tante pagine. Tra gli scritti migliori ricordiamo: Il labirinto della solitudine, i saggi su Fernando Pessoa e Luis Cerneda, pubblicati in Italia dal Melangolo nel 1988, i trattati Congiunzioni e disgiunzioni e El Arco y la lira. Il labirinto della solitudine, scritto nel 1950, è il primo tentativo compiuto da un messicano per arrivare alla conoscenza piena della propria identità culturale. Paz tenta di far luce sull’anima del suo popolo e ne esamina perciò la storia, la politica, l’economia, ma spesso va al di là, aprendo le frontiere del Messico sul mondo. Nel labirinto della solitudine non si avventurano i soli messicani, ma tutti gli uomini: queste 250 pagine rappresentano una profonda meditazione sulla condizione umana. Altra sua opera è Suor Juana o le insidie della fede, monumentale biografia dedicata a Suor Juana Inés de la Cruz, straordinaria figura di religiosa e poetessa messicana del XVII secolo.
L’introduzione è a cura di Dario Puccini, uno dei massimi studiosi italiani di letteratura spagnola e ispano americana, studioso di suor Juana, e autore nel 1967 di un fondamentale saggio su di lei. Secondo Puccini l’incontro tra Paz e la suora messicana ha il carattere di un coinvolgimento totale. Nel riflettere sul mondo del Vice Reame della Nuova Spagna (1535-1821), all’interno dell’Impero coloniale spagnolo, Octavio Paz compie una profonda riflessione sul ruolo dell’intellettuale alle soglie della modernità: “Da un lato la società in cui visse suor Juana ci aiuta a comprenderla, dall’altro ce la nasconde. Suor Juana come ognuno di noi, è l’espressione della sua epoca, ma anche la negazione, l’eroina e la vittima”. Nel doppio ruolo della società e della protagonista, risiede il grande tema di un’opera che è allo stesso tempo critica letteraria e analisi del rapporto tra cultura e sistema totalitario.
La poesia come atto di liberazione, a perenne memoria, è teorizzata nel libro El Arco y la Lira, una riflessione nata dopo l’incontro con le culture orientali durante la sua permanenza in Giappone e India. Come Goethe, pensa che la poesia sia ricerca ininterrotta di senso, momentanea riconciliazione, presenza. Tutta l’inesausta attività ruota attorno a un solo tema: “Si scrive per essere ciò che siamo e che non siamo. Nell’uno e nell’altro caso cerchiamo noi stessi. E se abbiamo la fortuna di trovarci scopriamo che siamo uno sconosciuto”. Nascono così testi poetici come Libertad bajo palavra (1949), Aguila o sol? (1951), Agua y viento (1959), Topoemas (1971). Il mondo indigeno e in particolare quello azteco lo ritroviamo in Piedra del sol (1957): 584 endecasillabi in cui il passato precolombiano diventa fonte di suggestioni filosofiche. A partire dagli anni 80 del secolo XX, giungono riconoscimenti letterari internazionali, anzitutto l’importante Premio Cervantes, ricevuto nel 1981. Definito “l’orafo dei segni” per la cura e l’eleganza dei suoi versi, si afferma come innovatore del costume letterario e delle concezioni culturali.
Nel 1990 gli è assegnato il premio Nobel per la Letteratura per “l’appassionata scrittura dai vasti orizzonti, caratterizzata da un’intelligenza sensuale e da una integrità umanistica”. Octavio Paz scompare il 20 aprile 1998 in Messico, nella sua casa di Coyacan, dopo una lunga malattia. Rimane una delle figure chiave del XX secolo e tale rimarrà nel tempo, quel tempo nel quale rintracciò l’esperienza sovrannaturale come dimensione originaria dell’esistenza e trasmutazione di sé: “Le pietre sono tempo / Il vento / secoli di vento / Gli alberi sono tempo / gli uomini sono pietre / Il vento / si avvolge su se stesso e si sotterra / nel giorno di pietra / L’acqua non c’è, ma gli occhi brillano” (Versante Est, 1969).
Le sue prime composizioni erano radicate nella tradizione dell’opera italiana del tardo XIX secolo. Tuttavia, successivamente Puccini sviluppò con successo il suo lavoro in una direzione personale, includendo alcuni temi propri del Verismo musicale, un certo gusto per l’esotismo e studiando l’opera di Richard Wagner sia sotto il profilo armonico sia orchestrale e per l’uso della tecnica del leitmotiv. Ricevette la formazione musicale presso il conservatorio di Milano, sotto la guida di maestri come Antonio Bazzini e Amilcare Ponchielli. Al Conservatorio fece inoltre amicizia con Pietro Mascagni.
Le opere più famose di Puccini, considerate di repertorio per i maggiori teatri del mondo, sono La bohème (1896), Tosca (1900), Madama Butterfly (1904) e Turandot (1926). Quest’ultima non fu completata perché il compositore si spense, stroncato da un tumore alla gola (Puccini era un fumatore accanito), prima di poter terminare le ultime pagine. All’opera furono poi aggiunti finali diversi: quello di Franco Alfano (il primo, coevo alla prima assoluta ed ancor oggi più eseguito); successivamente nel XXI secolo quello a opera di Luciano Berio, abbastanza rappresentato. Non mancano altre proposte e studi di nuovi completamenti.
Nacque a Lucca il 22 dicembre 1858, sestogenito dei nove figli[1] di Michele Puccini (Lucca, 27 novembre 1813 – ivi, 23 gennaio 1864) e di Albina Magi (Lucca, 2 novembre 1830 – ivi, 17 luglio 1884).[2] Da quattro generazioni i Puccini erano maestri di cappella del Duomo di Lucca[3] e fino al 1799 i loro antenati avevano lavorato per la prestigiosa Cappella Palatina della Repubblica di Lucca. Il padre di Giacomo era, già dai tempi del Duca di Lucca Carlo Lodovico di Borbone, uno stimato professore di composizione presso l’Istituto Musicale Pacini.[4] La morte del padre, avvenuta quando Giacomo aveva cinque anni, mise in condizioni di ristrettezze la famiglia. Il giovane musicista fu mandato a studiare presso lo zio materno, Fortunato Magi, che lo considerava un allievo non particolarmente dotato e soprattutto poco disciplinato (un «falento», come giunse a definirlo, ossia un fannullone senza talento). In ogni caso, Magi introdusse Giacomo allo studio della tastiera e al canto corale.[5] Alemanno Cortopassi discepolo del celebre maestro Michele Puccini, al cui figlio Giacomo impartì le prime nozioni musicali, lo iniziò, ancora adolescente, ai primi studi, facendolo poi proseguire a Lucca e a Milano.
Giacomo inizialmente frequentò il seminario di San Michele e successivamente quello della Cattedrale dove iniziò lo studio dell’organo. I risultati scolastici non furono certo eccellenti; in particolare dimostrava una profonda insofferenza per lo studio della matematica. Del Puccini studente è stato detto: “entra in classe solo per consumare i pantaloni sulla sedia; non presta la minima attenzione a nessun argomento, e continua a tamburellare sul suo banco come fosse un pianoforte; non legge mai”.[6][7] Terminati in cinque anni, uno in più di quelli necessari, gli studi di base, si iscrisse all’Istituto Musicale di Lucca dove il padre era stato, come detto, insegnante.[5] Ottenne ottimi risultati con il professor Carlo Angeloni, già allievo di Michele Puccini, mostrando un talento concesso a pochi. A quattordici anni Giacomo poté già cominciare a contribuire all’economia familiare suonando l’organo in varie chiese di Lucca e in particolare alla parrocchia di Mutigliano. Inoltre intratteneva al pianoforte gli avventori del “Caffè Caselli”, situato in Via Fillungo, strada principale della Città.[6]
Nel 1874 prese in carico un allievo, Carlo della Nina, tuttavia non si dimostrò mai un buon insegnante. A questo periodo risale la prima composizione conosciuta attribuibile a Puccini, una lirica per mezzosoprano e pianoforte denominata “A te“. Nel 1876 assistette al Teatro Nuovo di Pisa all’allestimento di Aida di Giuseppe Verdi, un avvenimento che si dimostrò decisivo per la sua futura carriera, facendo convogliare i suoi interessi verso l’opera.[8]
A questo periodo risalgono le prime composizioni note e datate, tra cui spiccano una cantata (I figli d’Italia bella, 1877) e un mottetto (Mottetto per San Paolino, 1877). Nel 1879 scrisse un valzer, oggi perduto, per la banda cittadina. L’anno successivo, all’ottenimento del diploma presso l’Istituto Pacini, compose come saggio finale la Messa di gloria a quattro voci con orchestra, che, eseguita al Teatro Goldoni di Lucca, suscitò l’entusiasmo della critica lucchese.[9]
SALVIFICA. Il Sassoferrato e Giovanni Manfredini, tra pelle e profondo
Sassoferrato -Venerdì 11 ottobre alle ore 17 presso il Palazzo degli Scalzi di Sassoferrato (Ancona) inaugura la settantatreesima edizione della Rassegna Internazionale d’Arte | Premio G. B. Salvi con la mostra SALVIFICA. Il Sassoferrato e Giovanni Manfredini, tra pelle e profondo, a cura di Federica Facchini e Massimo Pulini, visitabile dall’11 ottobre 2024 al 26 gennaio 2025. Una monografica dell’artista contemporaneo Giovanni Manfredini (Pavullo nel Frignano, Modena, 1963) in dialogo con otto dipinti inediti del pittore seicentesco Giovanni Battista Salvi detto il “Sassoferrato” e due di Alessandro Mattia da Farnese, provenienti dal mondo collezionistico e antiquario. I due dipinti di quest’ultimo (Madonna col Bambino in braccioe san Giovannino e Battesimo di Cristo, entrambi provenienti da collezioni private) confermano una stretta parentela con lo stile del Sassoferrato e aprono a nuovi sviluppi di studio, delineando con grande probabilità che la bottega del Sassoferrato non fu così monolitica come si riteneva, proseguendo solo con i suoi figli, ma ha avuto altri contatti e collaborazioni di alto livello.
Questa edizione conclude un triennio concepito come un doppio progetto di ricerca sull’antico e sul contemporaneo attraverso un confronto tra le opere di due artisti. Partendo dalla profonda comprensione di quale fosse, in piena epoca barocca, la posizione estetica del Sassoferrato, che si distinse per una ricerca pittorica orientata al recupero di valori rinascimentali, ponendosi in direzione contraria rispetto alle tendenze del suo tempo, i curatori hanno ribadito l’ideale parallelo creativo innestato in questi ultimi due anni, con le opere e la ricerca di Nicola Samorì e di Ettore Frani. Il Sassoferrato, solo in apparenza sempre uguale a se stesso, è invece un artista che proprio in questi ultimi decenni di studio ha offerto continue e importanti sorprese, oltre a raggiungere sempre più alti risultati nelle aste internazionali.
Quest’anno il dialogo sarà con le opere di Giovanni Manfredini che vive e lavora tra Modena e Milano. Saranno allestite negli spazi di Palazzo degli Scalzi e straordinariamente in quelli della Chiesa di San Michele Arcangelo.
L’arte di Giovanni Manfredini concentra la propria ricerca sul corpo, sulla sua sacralità e sulla luce salvifica e pacificante che ne riscatta la materialità. Unendo performance ed esistenzialismo a espliciti rimandi all’arte sacra, le sue opere nascono dal contatto del suo stesso corpo su una superficie trattata con velature di nerofumo capaci di registrarne il segno. Le parti del corpo si materializzano in modo spettrale dalle tenebre: sono mani, spalle e braccia, gambe, frammenti del torace ad infrangere uno scuro strato del quadro e a rivelarsi in modo luminoso. Il lento lavoro a pittura successivo aumenta ulteriormente la dimensione scultorea delle figure, allontanandole dall’originale espressività performativa. Manfredini lavora da anni sul corpo con una ricerca lenta che ha portato il suo lavoro dai “tentativi di esistenza” del primo periodo ad una affermazione pittorica sempre più consapevole, in cui la luce, pura e assoluta, definisce immagini estatiche e spirituali, che rievocano la pittura del Seicento.
Non c’è nulla di narrativo nelle opere di Giovanni Manfredini. Ciò che viene svelato richiama alla mente forme espressive vicine a un’iconografia di matrice sacra, immagini di martirio, di dolore.
Orari Palazzo degli Scalzi: venerdì dalle 15.30 alle 18.30; sabato e domenica dalle 10 alle 13 e dalle 15.30 alle 18.30
Fonte- Finestre sull’Arte è una testata giornalistica che si occupa di arte antica e contemporanea. Il giornale, nato nel 2017, ha origine dall’omonimo progetto divulgativo che nel 2015 ha ricevuto il Premio Silvia Dell’Orso come miglior progetto italiano di divulgazione storico-artistica. Oggi, Finestre sull’Arte è una delle riviste più seguite del settore, e alla versione online abbina, dal 2019, anche un trimestrale cartaceo. Finestre sull’Arte è edita da Danae Project S.R.L.. Per scrivere alla redazione: posta AT finestresullarte.info.
Informazioni sulla mostra
Titolo mostra
SALVIFICA. Il Sassoferrato e Giovanni Manfredini, tra pelle e profondo
La Fonte- Finestre sull’Arte è una testata giornalistica che si occupa di arte antica e contemporanea. Il giornale, nato nel 2017, ha origine dall’omonimo progetto divulgativo che nel 2015 ha ricevuto il Premio Silvia Dell’Orso come miglior progetto italiano di divulgazione storico-artistica. Oggi, Finestre sull’Arte è una delle riviste più seguite del settore, e alla versione online abbina, dal 2019, anche un trimestrale cartaceo. Finestre sull’Arte è edita da Danae Project S.R.L.. Per scrivere alla redazione: posta AT finestresullarte
Vladimir Vladimirovič Majakovski, La nuvola in calzoni (1915)
traduzione di Carmelo Bene
Strenuo innovatore,Vladimir Vladimirovič Majakovski, fuse le tendenze ribelli e anarchiche del futurismo con l’attività di tribuno e di agitatore durante la rivoluzione d’Ottobre. La sua opera maggiore prima della rivoluzione è il poema Oblako v štanach (“La nuvola in calzoni”, 1915), in cui il motivo d’amore e quello sociale s’intrecciano in una trama iperbolica, esasperata. Gli stessi accenti ritornano nei poemi Flejta-pozvonočnik (“Il flauto di vertebre”, 1915), Vojna i mir (“La guerra e l’universo”, 1917), Čelovek (“L’uomo”, 1916-17). Le vicende della rivoluzione sono trasposte su un piano biblico nella commedia Misterija-Buff (“Mistero buffo”, 1917) e rivissute come scene di canti epici e di vignette popolari nel poema 150.000.000 (1921), che contrappone in un grottesco duello il gigante russo Ivan e Woodrow Wilson. Al tema d’amore M. tornò nei poemi Ljublju (“Amo”, 1922) e Pro eto (“Di questo”, 1923). La morte di Lenin gli suggerì il poema Vladimir Il´ič Lenin (1924) e il decimo anniversario della rivoluzione l’affresco epico Chorošo! (“Bene!”, 1927). Accanto a queste ampie composizioni, scrisse odi d’intonazione oratoria, versi di propaganda commerciale e politica, poesie satiriche, scenari cinematografici, pantomime, canovacci per scene di circo, commedie come Klop (“La cimice”, 1928) e Banja (“Il bagno a vapore”, 1929). L’influenza di M. sui movimenti artistici russi d’avanguardia fu enorme. M. era stato inizialmente pittore, e della sua attività figurativa, dopo che si era dedicato agli scritti e all’azione politica, sono importanti le ricerche tipografiche e compositive fatte in collab. con A. Rodčenko (pagine della rivista Lef, 1923 segg.).
Intronando l’universo con la possanza della mia voce,
cammino- bello,
ventiduenne.
*
Se volete,
sarò rabbioso a furia di carne,
e, come il cielo mutando i toni,
se volete,
sarò tenero in modo inappuntabile,
non uomo, ma nuvola in calzoni!
*
Voi pensate che sia il delirio della malaria?
Ciò accadde,
accadde a Odessa.
“Verrò alle quattro” – aveva detto Maria.
Le otto.
Le nove.
Le dieci.
*
La dodicesima ora è caduta
Come dal patibolo la testa d’un giustiziato.
*
Sei entrata tu
Tagliente come un “eccomi!”,
tormentando i guanti di camoscio,
hai detto:
“Sapete,
io prendo marito”.
Ebbene, sposatevi.
Che importa.
Mi farò coraggio.
Vedete,sono così tranquillo!
Come il polso
D’un defunto.
Non vi sovviene?
Voi dicevate
“Jack London,
denaro,
amore,
passione,”-
ma io vidi una sola cosa:
vidi in voi una Gioconda
che bisognava rubare!
E vi hanno rubata.
*
Volete stuzzicarmi?
Ricordate!
Perì Pompei
Quando esasperarono il Vesuvio.
Ehi!
Signori!
Dilettanti
di sacrilegi,
di delitti,
di massacri,
avete visto mai
ciò che è più terribile:
il viso mio
quando
io
sono assolutamente tranquillo?
E sento che l’io
Per me è poco:
qualcuno da me si sprigiona ostinato.
Allò!
Chi parla?
Mamma!
Vostro figlio è magnificamente malato!
Mamma!
Ha l’incendio nel cuore.
Dite alle sorelle Ljuda e Olja
Ch’egli non sa più dove salvarsi.
*
Che m’importa di Faust
che in una ridda di razzi
scivola con Mefistofele sul pavimento del cielo!
Io so
che un chiodo del mio stivale
È più raccapricciante della fantasia di Goethe!
*
Me ne infischio se negli Omeri e negli Ovidi
non c’è gente come noi,
butterata e coperta di fuliggine.
Io so
che il sole si offuscherebbe a vedere
le sabbie aurifere delle nostre anime.
Muscoli e nervi sono più sicuri di tutte le preghiere.
Dovremmo impetrare le grazie dal tempo?
Ciascuno
di noi
tiene nelle sue cinque dita
le cinghie motrici dei mondi!
Ciò mi fece salire sul Golgota degli auditori
di Pietrogrado, di Mosca, di Odessa, di Kiev,
e non vi fu uno solo
il quale
non gridasse:
“Crocifiggi,
crocifiggilo!”
*
Io,
dileggiato dall’odierna generazione
come un lungo
aneddoto scabroso,
vedo venire per le montagne del tempo
qualcuno che nessuno vede.
Là dove l’occhio degli uomini si arresta insufficiente,
alla testa di orde affamate
con la corona di spine delle rivoluzioni
avanza l’anno sedici.
Ed io presso di voi sono il suo precursore,
io sono sempre là dove si soffre:
su ogni goccia di liquido lacrimale
ho posto in croce me stesso.
*
… attraverso il suo
occhio lacerato sino all’urlo
si inerpicava, impazzito, Burljuk
e con tenerezza inattesa in un uomo pingue
mi prese e disse
“Bene!”
Bene, quando una gialla blusa
protegge l’anima da tanti sguardi!
*
Ma dal fumo d’un sigaro
come un bicchierino di liquore
si è allungato il viso alticcio di Severjanin.
Come osate chiamarvi poeta
e, mediocre, squittire come una quaglia?
*
Io, che decanto la macchina e l’Inghilterra,
sono forse semplicemente
nel più comune vangelo
il tredicesimo apostolo.
*
Maria! Maria! Maria!
Lasciami entrare, Maria!
Non posso restare in istrada!
Non vuoi?
*
Mi hai lasciato entrare.
Bambina!
Non ti spaurire
se ancora una volta
nell’intemperie del tradimento
mi stringerò a migliaia di vezzose faccine.
“Adoratrici di Majakovskij!”
ma questa è davvero una dinastia
di regine salite al cuore d’un pazzo.
Maria, più vicino!
Con denudata impudenza
O con pavido tremore
Concedimi la florida vaghezza delle tue labbra:
io e il mio cuore non siamo vissuti neppure una volta sino a maggio,
e nella mia vita passata
c’è solo il centesimo aprile.
Maria!
Il poeta canta sonetti
mentre io,
tutto di carne,
uomo tutto,
chiedo semplicemente il tuo corpo,
come i cristiani chiedono
“Dacci oggi
il nostro pane quotidiano”
Maria, concediti!
Maria!
Maria, non vuoi?
Non vuoi?
Ah!
E allora di nuovo,
io prenderò il mio cuore
lo porterò
come un cane
porta
nella sua cuccia
la zampa stritolata dal treno.
*
Mi chinerò
Per dirgli in un orecchio:
Ascoltate, signor Dio!
Onnipossente che hai inventato un paio di braccia
E hai fatto sì che ciascuno
Avesse una sua testa,
perché non hai inventato una maniera
di baciare, baciare e ribaciare
senza tormenti?
Pensavo che tu fossi un grande Dio onnipotente,
e invece sei solo un povero deuccio.
*
Alati furfanti!
Rannicchiatevi in paradiso!
Te, impregnato d’incenso, io squarcerò
di qui sino all’Alaska!
Lasciatemi!
Non mi fermerete.
*
Guardate:
hanno di nuovo decapitato le stelle.
Ehi, voi!
Cielo!
Toglietevi il cappello!
Me ne vado!
Sordo.
L’universo dorme,
poggiando sulla zampa
l’enorme orecchio con zecche di stelle.
Biografia di Vladimir Vladimirovič Majakovski -Poeta, autore drammatico e pittore russo (Bagdadi, od. Majakovskij, presso Kutais, 1893 – Mosca 1930). Grande innovatore, esercitò enorme influenza sui movimenti artistici russi d’avanguardia. Militante nel partito bolscevico, fu inizialmente pittore e fece parte del gruppo dei cubofuturisti; nel 1923 organizzò il LEF (Leuyj Front iskusstv “Fronte di sinistra delle arti”). Tra le opere: i poemi Oblako v štanach (“La nuvola in calzoni”) e Flejta-pozvonočnik (“ll flauto di vertebre”), entrambi del 1915; la commedia Misterija-Buff (“Mistero buffo”, 1917), sulle vicende della Rivoluzione russa; il poema Vladimir Il´ič Lenin (1924).
Vita
Ancora adolescente, svolse intensa attività politica nel partito bolscevico e fu arrestato tre volte. Dedicatosi poi allo studio delle arti figurative, fu espulso (1914) dall’Istituto di pittura, scultura e architettura di Mosca per la sua appartenenza al gruppo dei cubofuturisti. Nel 1913 apparve il suo primo libro, Ja! (“Io!”). Nel dic. 1913 interpretò a Pietroburgo, al teatro Luna Park, la propria tragedia Vladimir Majakovskij. Accolse la rivoluzione con entusiasmo e nel 1923 organizzò il LEF (Levyj Front iskusstv “Fronte di sinistra delle arti”), che raggruppò artisti, poeti, scenografi, registi, filologi vicini al futurismo, e pubblicò la rivista omonima. In quegli anni fu il simbolo di tutto ciò che v’era di moderno e di audace nell’arte sovietica. La campagna condotta contro di lui dalla critica di partito, le delusioni politiche e motivi amorosi lo spinsero al suicidio.
Opere
Strenuo innovatore, fuse le tendenze ribelli e anarchiche del futurismo con l’attività di tribuno e di agitatore durante la rivoluzione d’Ottobre. La sua opera maggiore prima della rivoluzione è il poema Oblako v štanach (“La nuvola in calzoni”, 1915), in cui il motivo d’amore e quello sociale s’intrecciano in una trama iperbolica, esasperata. Gli stessi accenti ritornano nei poemi Flejta-pozvonočnik (“Il flauto di vertebre”, 1915), Vojna i mir (“La guerra e l’universo”, 1917), Čelovek (“L’uomo”, 1916-17). Le vicende della rivoluzione sono trasposte su un piano biblico nella commedia Misterija-Buff (“Mistero buffo”, 1917) e rivissute come scene di canti epici e di vignette popolari nel poema 150.000.000 (1921), che contrappone in un grottesco duello il gigante russo Ivan e Woodrow Wilson. Al tema d’amore M. tornò nei poemi Ljublju (“Amo”, 1922) e Pro eto (“Di questo”, 1923). La morte di Lenin gli suggerì il poema Vladimir Il´ič Lenin (1924) e il decimo anniversario della rivoluzione l’affresco epico Chorošo! (“Bene!”, 1927). Accanto a queste ampie composizioni, scrisse odi d’intonazione oratoria, versi di propaganda commerciale e politica, poesie satiriche, scenari cinematografici, pantomime, canovacci per scene di circo, commedie come Klop (“La cimice”, 1928) e Banja (“Il bagno a vapore”, 1929). L’influenza di M. sui movimenti artistici russi d’avanguardia fu enorme. M. era stato inizialmente pittore, e della sua attività figurativa, dopo che si era dedicato agli scritti e all’azione politica, sono importanti le ricerche tipografiche e compositive fatte in collab. con A. Rodčenko (pagine della rivista Lef, 1923 segg.).
Città di Senigallia, in mostra l’Ottocento dalle raccolte marchigiane-
La città di Senigallia ospita presso Palazzetto Baviera, fino al 30 novembre 2024, l’esposizione intitolata Sguardi sull’Ottocento. Arte Italiana nelle collezioni marchigiane, che presenta una collezione di 60 dipinti provenienti da musei e collezioni private della regione.
Tra le opere esposte, spicca una tavola dipinta ad olio dell’illustre pittore anconetano Francesco Podesti (1800-1895), che un tempo adornava il celebre Palazzo Torlonia di Roma. Questo palazzo, situato in Piazza Venezia, fu demolito nel 1902 per far spazio a nuovi lavori di viabilità. La tavola di Podesti, come spiegato dalla curatrice della mostra Maria Gabriella Mazzocchi, è un modello preparatorio del famoso affresco Il Trionfo di Nettuno, parte della volta della Galleria di Ercole e Lica, dove era esposto il gruppo scultoreo di Antonio Canova. Questo pezzo, miracolosamente sopravvissuto alla demolizione, ha suscitato grande interesse tra i visitatori, evocando immagini di un’epoca perduta e del fasto del Palazzo Torlonia.
La mostra, tuttavia, non si limita a celebrare Podesti e la sua opera. Le quattro sale espositive ospitano una ricca selezione di dipinti che testimoniano la rinascita della pittura ottocentesca marchigiana, riscoperta e valorizzata negli ultimi dieci anni. La curatrice sottolinea che non si tratta solo di una mostra sull’Ottocento marchigiano, ma di una panoramica sulla pittura dell’Ottocento italiana, conservata nei musei e nelle collezioni private della regione.
Un altro pezzo di grande rilievo è un quadro di Francesco Paolo Michetti (1851-1929), che rievoca la profonda amicizia dell’artista con Gabriele d’Annunzio. L’opera, raffigurante due pecore con un ragazzo, rimanda alla famosa poesia “I Pastori” di d’Annunzio: “Settembre, andiamo. È tempo di migrare. Ora in terra d’Abruzzi i miei pastori lascian gli stazzi e vanno verso il mare.”
La mostra è suddivisa in tre sezioni tematiche: “Dalla pittura di storia all’Unità”, “La poetica del vero” e “I volti e le persone”, ognuna delle quali offre una prospettiva diversa sull’arte del periodo. Gli artisti esposti includono nomi di grande rilievo come Gioacchino Toma, Filippo Palizzi, Raffaele Sernesi, Giuseppe De Nittis, Federico Rossano, Guglielmo Ciardi, Giuseppe Vaccaj, Giulio Gabrielli, Fortunato Duranti, Giacinto Gigante, Vito D’Ancona, Telemaco Signorini, Domenico Morelli, Silvetro Lega, Giovanni Fattori, Giacomo Favretto, Angelo Morbelli, Giovanni Boldini, Vincenzo Irolli, Ettore Tito, e molti altri.
Ingresso intero €. 8,00 – cittadini di età superiore ai 25 anni; ingresso agevolato €. 4,00 – cittadini dell’Unione europea di età compresa tra i 18 e i 25 anni e ai docenti delle scuole statali con incarico a tempo indeterminato; ingresso ridotto €. 6,00 – soci FAI, Touring, Coop Alleanza 3.0, Archeoclub d’Italia, Pro Loco, CNA, AVIS Senigallia, Associazione Albanostra – Cassa Mutua G. Leopardi, e possessori del biglietto di ingresso alla Rocca Roveresca o al Museo Archeologico Statale di Arcevia, special card per soci BCC Fano, turisti ospiti delle strutture alberghiere di Senigallia muniti di apposito riconoscimento; gratuito per tutti i cittadini appartenenti all’Unione Europea, di età inferiore a 18 anni e per gli iscritti alla Libera Università per Adulti di Senigallia.
Esibendo il biglietto di ingresso alla Rocca Roveresca di Senigallia si avrà diritto a un biglietto ridotto per la mostra. Sono disponibili biglietti cumulativi con le altre mostre presenti.
Informazioni sulla mostra
Titolo mostra
Sguardi sull’Ottocento. Arte Italiana nelle collezioni marchigiane
Fonte- Finestre sull’Arte è una testata giornalistica che si occupa di arte antica e contemporanea. Il giornale, nato nel 2017, ha origine dall’omonimo progetto divulgativo che nel 2015 ha ricevuto il Premio Silvia Dell’Orso come miglior progetto italiano di divulgazione storico-artistica. Oggi, Finestre sull’Arte è una delle riviste più seguite del settore, e alla versione online abbina, dal 2019, anche un trimestrale cartaceo. Finestre sull’Arte è edita da Danae Project S.R.L.. Per scrivere alla redazione: posta AT finestresullarte.info.
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