Franco Leggeri-Castelnuovo di Farfa “l’Acchiesola” e il paradosso dell’algebra astratta-
-Brano da “Murales Castelnuovesi” di Franco Leggeri-
Franco Leggeri-Castelnuovo di Farfa – Brano da Murales Castelnuovesi -“l’Acchiesola” e il paradosso dell’algebra astratta-Muoversi nelle intuizioni e immergersi nei problemi irrisolti . Era questa l’equazione che sia i bambini e sia i giovani castelnuovesi degli anni ’50 dovevano risolvere in assenza dei media : radio, televisione , giornali e cinema.I media che dovevano essere vitamina e “stimolatori” della fantasia e creatività per le giovani menti castelnuovesi non esistevano ancora per tutti, sino al giorno in cui fu aperta la “scatola magica” della “piccola-grande “ sala cinematografica “su nell’Acchiesola”, ora Aula consigliare .Questa sala fu una prima miniera della fantasia , in Bianco e Nero, per le giovani menti castelnuovesi. Fu il cinema, per la sua capacità di “parlare” ad ogni pubblico : dal proletario, la maggioranza di noi castelnuovesi, sino a quello “aristocratico” .Proprio per il suo linguaggio, il cinema è un luogo comune nel senso di condiviso. Il cinema è allo stesso tempo un formidabile mezzo per la trasmissione, sia di mentalità che di ideologie, sia che si presenti nella forma di documentario e sia come finzione. Con il cinema, molti di noi giovani scoprimmo la grande città e l’esotismo di luoghi lontani. Scoprimmo le melodie delle colonne sonore, la sottolineatura e il clima da suspense che solo la musica e il gioco delle luci sanno evidenziare. Il vento prese “voce” e scoprimmo il canto dei fiumi e del mare. Ho nella memoria una presenza reale dell’attesa per l‘inizio del film, poi il silenzio e le immagini “enormi” proiettate sullo schermo che ci raccontavano una storia . Devo dire che ero affascinato! Ricordo, per esempio ,la “fantasiosa e furbesca” storia di un assalto alla diligenza e gli spari delle “colt”. E così che provai a risolvere l’equazione del paradosso dell’algebra astratta. La fantasia veniva , man mano, trovando i passaggi giusti nelle semplificazioni, tra realtà, finzione ed emozione, sino al coinvolgimento e all’identificazione nei personaggi del film . Fu allora che scoprimmo il Far West ( poi imparammo che il West era l’Ovest delle grandi praterie) e fu così che riuscimmo, in questa “Grande-minuscola sala”, a provare l’emozione di essere partecipi di una avventura sino a scoprire che , alla fine, “arrivava sempre il settimo cavalleria” e tutto aveva un lieto fine.
P.S.“Su nell’Acchiesola” noi “monelli de Castellu” quelli della generazione del dopoguerra abbiamo votato per la prima volta, perché “l’Acchiesola” era adibita, sin dall’800 , a sede di seggio elettorale. E’ qui che per molti Castelnuovesi ebbe inizio la speranza del “biennio rosso” del 1919 -1921 ,con il voto al Partito Socialista Italiano di Filippo Turati . In questa sala fu pronunciato, per la prima volta a Castelnuovo, il voto alla Lista “Falce, Martello e Libro”. Di queste elezioni del 1919 ne ho raccolto e trascritto la testimonianza diretta così come mi è stata raccontata dal nostro compaesano Fiore Tancioni che , assieme ad altri compaesani da me intervistati, ne fu testimone . Ma questa è una storia che tratto in un capitolo del libro “Castenuovo, la riva sinistra del Farfa”.
Franco Leggeri, Castelnuovese
Castelnuovo di Farfa -Centro Storico–Foto di Franco LeggeriCastelnuovo di Farfa -Centro Storico- Via Garibaldi-Foto di Franco LeggeriCastelnuovo di Farfa -Centro Storico-Via Coronari-Foto di Franco LeggeriCastelnuovo di FarfaCastelnuovo di Farfa (Rieti)Castelnuovo di Farfa (Rieti)Castelnuovo di Farfa (Rieti) – Via CoronariCastelnuovo di Farfa (Rieti) – Via CoronariCastelnuovo di Farfa (Rieti) – Via Roma , la FontanaCastelnuovo di Farfa (Rieti) Panorama (prima del 1935)Castelnuovo di Farfa (Rieti) -la FontanaCastelnuovo di Farfa (Rieti) -la FontanaCastelnuovo di Farfa (Rieti) -la FontanaCastelnuovo di Farfa (Rieti) – Via GaribaldiCastelnuovo di Farfa (Rieti) Via Coronari
Il “Berlinguer rivoluzionario” che vogliamo ricordare
-articolo di Alba Vastano-Enrico Berlinguer-La storia del segretario del Pci e i temi cardine della politica berlingueriana nel libro di Guido Liguori. L’uomo e il politico che ha contribuito alla costruzione del Partito Comunista Italiano negli anni Settanta e Ottanta. Da funzionario togliattiano alla segreteria di Luigi Longo.
Enrico Berlinguer
La storia del segretario del Pci Enrico Berlinguer e i temi cardine della politica berlingueriana nel libro di Guido Liguori. L’uomo e il politico che ha contribuito alla costruzione del Partito Comunista Italiano negli anni Settanta e Ottanta. Da funzionario togliattiano alla segreteria di Luigi Longo. Il compromesso storico e la questione morale. La politica internazionale. L’invito rivolto ai giovani, ma soprattutto la svolta finale a Sinistra.
Come non ricordarlo nel trentennale della sua scomparsa. Come non ricordarlo sempre. Come non ripercorrere oggi con la memoria quegli anni della nostra gioventù in cui c’era lui. Ripercorrerli per avere delle risposte a quel che é stato l’uomo e il politico, a quel che è stato il Partito Comunista Italiano. E il feedback della sua storia, della storia del partito di quel periodo è sicuramente positivo e vincente.“Un uomo introverso e malinconico, di immacolata onestà e sempre alle prese con una coscienza esigente”, lo ricordò così Indro Montanelli, in occasione dei suoi funerali nel 1984. Gli anni Settanta del Novecento sono stati per la storia del comunismo italiano gli anni di Berlinguer, anni che hanno segnato la storia della nostra “bella gioventù”. Berlinguer ci faceva sognare un’Italia migliore “..un’Italia che non era famosa solo per il cibo e per il vino, ma anche per la ricerca di un’originale coniugazione di democrazia e socialismo che suscitava interesse e rispetto in tutto il mondo”.
Così descrive quel periodo felice, Guido Liguori nella premessa del suo ultimo saggio “Berlinguer rivoluzionario”, edito da Carocci. E ci voleva questo saggio. Ci voleva per pensare, per ricordare e per riflettere sul senso che davamo alla politica, su cosa significava un tempo essere comunisti. L’appartenenza a un partito in cui non c’erano altre forze che quella dell’unità e della lotta di classe, soprattutto non c’erano tante sinistre, né divisioni in correnti. Non c’era altro che la lotta di classe per contrastare il capitalismo e per conquistare l’egemonia in un paese già allora dilaniato dalla corruzione. Di quel comunismo, di quel modo di fare le nostre lotte, Berlinguer ne era il protagonista. Un politico in “totus”. Soprattutto un uomo di grande integrità morale e intellettuale che ha saputo coinvolgere le masse popolari. Vi era un tempo quindi, il tempo di Berlinguer, in cui la politica era una cosa seria e priva di interessi personali, un tempo in cui le idee erano gli ideali, i nostri ideali da sventolare con orgoglio e con convinzione. E, riferendosi alla possibilità reale di fare una buona politica, scrive Liguori “ ..chi si sacrifica per essa e a essa dedica la vita, è un uomo da rispettare, come fu rispettato universalmente, quel comunista forte e timido insieme che fu Enrico Berlinguer”.
Già dalla copertina del libro curiosità e attrazione per i contenuti sono inevitabili. Perché l’uomo del compromesso storico e del sostegno ai governi di solidarietà nazionale viene definito un rivoluzionario? In realtà l’autore, nel suo libro avanza molte riserve sul compromesso storico, pur riconoscendo le motivazioni che spinsero tutto il Pci a proporlo alla Dc. È soprattutto nel secondo Berlinguer, quello dei primi anni Ottanta che riconosciamo il politico “rivoluzionario”, citato così dall’autore. Non solo l’uomo della ‘questione morale”, ma il fautore dei grandi movimenti dell’epoca, come sono stati il movimento femminista e quello pacifista, ma anche quello ecologista, oltre a quello operaio. Questa è stata la migliore politica di sinistra di Berlinguer, quella più viva e vivace, quella che più è rimasta nel cuore del Pci.
Fra una presentazione e l’altra della sua ultima opera letteraria su Berlinguer, Guido Liguori, docente universitario dell’Universita’ della Calabria, scrittore e saggista di molti testi gramsciani, si è fermato a parlarne, il 15 novembre, anche alla “BiblioGramsci”, la biblioteca popolare del circolo Prc di Valmelaina-Tufello, “nata” il quattro ottobre scorso. Intervistato da Valerio Strinati, presidente dell’Università popolare “Antonio Gramsci”, ha risposto con un’accurata analisi sui punti cardine della politica berlingueriana. «Partire dalle questioni internazionali per delineare la figura di Berlinguer è giusto e necessario. Berlinguer ha sempre avuto una vocazione per la politica internazionale, perché negli anni Cinquanta il giovane segretario faceva parte della Fgci e per un paio d’anni fu il principale esponente del movimento che comprendeva tutti i giovani comunisti a livello mondiale. Tant’è che fa la spola tra Budapest (sede dell’organizzazione) e l’Italia. Ha modo quindi di conoscere, fin da giovane, il mondo sovietico e il mondo del comunismo internazionale e di avere rapporti con i compagni dell’Unione sovietica». Liguori poi prosegue sulla scelta di Longo di affidare la direzione del partito a Berlinguer: «All’indomani dei fatti di Praga, Berlinguer scavalca il candidato numero uno, Giorgio Napolitano, e viene scelto come futuro segretario del Pci, proprio per la sua esperienza internazionale. Napolitano non aveva, né la frequentazione, né la capacità che aveva Berlinguer di dialogare con i sovietici e di non cedere alle loro pressioni». «Ovviamente questo è un processo contradditorio», continua l’autore. «Il fatto di rivendicare l’autonomia dei comunisti italiani e poi sempre più negli anni di marcare l’importanza della visione del partito comunista italiano, fa sì che la divisione con l’Unione Sovietica cominci ad essere una divisione di fondo sull’idea di socialismo da costruire nella democrazia». Liguori ricorda al proposito il famoso “Memoriale di Yalta” che Togliatti scrive pochi giorni prima di morire, da consegnare ai sovietici, in cui ribadiva la possibilità di raggiungere il socialismo attraverso vie diverse dal modello dell’Urss.
Il saggio di Liguori è davvero un tuffo in quel ventennio di storia vissuta con passione, una storia che non va dimenticata. Si potrà riattualizzare il pensiero del segretario del Partito Comunista Italiano in questa “povera” Italia e in una possibile (?) altra Europa? E nella ricorrenza del trentennale della sua morte, strumentalizzata da alcune correnti politiche che hanno paragonato il compromesso storico alle larghe intese, come ricordare onestamente Berlinguer? «Non è detto che bisogna fermarsi a Berlinguer e alle sue idee, ma sicuramente esse non vanno rimosse o mal interpretate. Bisognerebbe rileggere tutto ciò che lui ha scritto per renderci conto che le sue sono idee ancora importanti e valide che hanno ancor oggi molto da insegnarci», pensa l’autore.
E un invito ai giovani dall’autore (nella premessa del libro). “Mi piacerebbe che anche i più giovani, le ragazze e i ragazzi di oggi, imparassero a capire chi è stato e che cosa ha pensato Berlinguer. Vorrei che innanzitutto loro fossero i destinatari di questo libro”.
Autore dell’Articolo Alba Vastano “La maggior parte dei sudditi crede di essere tale perché il re è il Re. Non si rende conto che in realtà è il re che è il Re, perché essi sono sudditi” (Karl Marx)-
Fotoreportage Piazza del Popolo di Roma Capitale è l’ente territoriale speciale[2], dotato di particolare autonomia, che amministra il territorio comunale della città di Roma in quanto capitale della Repubblica Italiana.
Istituito nel 2010 in attuazione dell’articolo 114 comma 3 della Costituzione, l’ente ha soppiantato il preesistente Comune di Roma, lasciando comunque invariati i confini amministrativi e il livello di governo.[3
Il territorio di Roma Capitale si estende su un’area di 1285,31 km² e presenta tre tipologie di suddivisioni: amministrativa, urbanistica e storica.
Le suddivisioni amministrative, definite anche strutture territoriali, consistono nella divisione dell’ampio territorio negli attuali 15 municipi. Questi sono l’evoluzione delle 20 circoscrizioni istituite nel 1972[4] secondo il riordino e gli accorpamenti effettuati nel 2013.
Le zone urbanistiche rappresentano una ripartizione dei municipi in 155 suddivisioni. Sono state istituite nel 1977 a fini statistici e di pianificazione e gestione del territorio, secondo criteri di omogeneità dal punto di vista urbanistico. I confini sono individuati lungo le soluzioni di continuità più o meno marcate del tessuto urbano.
La suddivisione storica è composta di 116 comprensori toponomastici organizzati in quattro gruppi:
35 quartieri che circondano il centro storico fuori dalle Mura aureliane, a cui si aggiungono i tre quartieri del litorale;
6 suburbi, ossia i territori adiacenti ai quartieri;
53 zone scarsamente popolate a cavallo del GRA e fino ai confini comunali, che compongono l’Agro romano.
Il territorio di Roma Capitale si estende su un’area di 1285,31 km² e presenta tre tipologie di suddivisioni: amministrativa, urbanistica e storica.
Le suddivisioni amministrative, definite anche strutture territoriali, consistono nella divisione dell’ampio territorio negli attuali 15 municipi. Questi sono l’evoluzione delle 20 circoscrizioni istituite nel 1972[4] secondo il riordino e gli accorpamenti effettuati nel 2013.
Piazza del Popolo di Roma Capitale
Le zone urbanistiche rappresentano una ripartizione dei municipi in 155 suddivisioni. Sono state istituite nel 1977 a fini statistici e di pianificazione e gestione del territorio, secondo criteri di omogeneità dal punto di vista urbanistico. I confini sono individuati lungo le soluzioni di continuità più o meno marcate del tessuto urbano.
La suddivisione storica è composta di 116 comprensori toponomastici organizzati in quattro gruppi:
35 quartieri che circondano il centro storico fuori dalle Mura aureliane, a cui si aggiungono i tre quartieri del litorale;
6 suburbi, ossia i territori adiacenti ai quartieri;
53 zone scarsamente popolate a cavallo del GRA e fino ai confini comunali, che compongono l’Agro romano.
Piazza del Popolo di Roma Capitale
Monumentale ed elegante Piazza del Popolo di Roma Capitale è al vertice in cui si incontrano via del Babuino, via di Ripetta e via del Corso, le tre arterie principali del centro storico di Roma.
L’urbanizzazione dell’area inizia nella seconda metà del Cinquecento, con la realizzazione di una prima fontana, la fontana del Trullo, su progetto di Giacomo Della Porta, oggi in piazza Nicosia, e con la successiva collocazione dell’obelisco Flaminio, alto circa 24 metri, e spostato dal Circo Massimo per ordine di Sisto V nel 1589; fu il primo obelisco a essere trasferito a Roma, al tempo di Augusto, per celebrare la conquista dell’Egitto.
La facciata esterna dell’odierna Porta del Popolo (l’antica Porta Flaminia) fu commissionata da papa Pio IV a Michelangelo, che però trasferì l’incarico a Nanni di Baccio Bigio, il quale realizzò l’opera tra il 1562 e il 1565. “Felici faustoque ingressui MDCLV” (“Per un ingresso felice e fausto”): è questo il messaggio inciso sulla facciata interna, realizzata da Bernini per Alessandro VII, in occasione dell’arrivo a Roma di Cristina di Svezia nel 1655.
Nel corso del ‘600, furono realizzate le due chiese gemelle, Santa Maria in Montesanto, nota anche come “Chiesa degli Artisti”, e Santa Maria dei Miracoli, progettate originariamente da Carlo Rainaldi, ed entrambe successivamente completate da Gian Lorenzo Bernini, con la collaborazione di Carlo Fontana. Ideate dal Rainaldi come costruzioni simmetriche, per problemi di spazio presentano planimetrie differenti e diverse cupole: ottagonale per Santa Maria dei Miracoli e dodecagonale per Santa Maria in Montesanto. Ciò nonostante, dalla piazza, grazie a un puro effetto ottico, appaiono identiche.
Sul lato opposto della piazza sorge la splendida Basilica di Santa Maria del Popolo, risalente al Quattrocento, arricchita e modificata nel corso dei secoli dall’intervento di numerosi architetti e artisti. Al suo interno conserva straordinari capolavori: la Cappella Chigi, realizzata su progetto di Raffaello dal 1513, terminata tra il 1652 e il 1656 con l’intervento di Gian Lorenzo Bernini; la Cappella Cerasi, che ospita la Crocifissione di San Pietro e la Conversione di San Paolo, opere di Caravaggio; la pala d’altare raffigurante l’Assunzione della Vergine di Annibale Carracci e la Cappella del Presepio o della Rovere, realizzata dall’architetto Andrea Bregno, tra la fine del Quattrocento e l’inizio del Cinquecento, decorata con magnifici affreschi attribuiti a Pinturicchio e alla sua bottega. La leggenda narra che sul Colle degli Ortuli, dove sorge la Basilica, vi sia la tomba maledetta di Nerone, l’imperatore morto suicida, le cui ceneri vennero sepolte in un’urna di porfido sotto un noce. Vicino all’altare maggiore della chiesa sono presenti dei bassorilievi che ricordano la vicenda.
In seguito a una nuova sistemazione urbanistica, progettata dall’architetto Giuseppe Valadier agli inizi dell’Ottocento, la nuova Piazza del Popolo si presenta come una grande ellisse attorno all’obelisco egizio, impreziosita e incorniciata da sculture, giardini e fontane. Al centro della piazza, si trova la fontana dei Leoni dello stesso Valadier, che sostituisce la fontana cinquecentesca di Della Porta e si sviluppa intorno all’obelisco Flaminio. Ha vasche rotonde di travertino, dominate da leoni di marmo bianco in stile egizio, dalle cui bocche sgorgano i getti d’acqua.
Al centro dell’emiciclo orientale è collocata la fontana della Dea Roma, ornata da un grande gruppo scultoreo costituito da una statua della dea armata, affiancata da due statue raffiguranti il Tevere e l’Aniene – i due fiumi di Roma – e ai cui piedi si trova la lupa che allatta i gemelli. Alle spalle, si trova il parco del Pincio, splendida passeggiata urbana, dalla cui terrazza si ammira un tramonto spettacolare.
Esattamente al centro dell’emiciclo opposto, si erge l’imponente gruppo scultoreo che adorna la fontana del Nettuno: una statua di Nettuno con il tridente nella mano destra, ai cui piedi sono posti due tritoni con delfini, domina un’ampia vasca di travertino di forma semicircolare, sopra la quale una grande valva di conchiglia raccoglie l’acqua riversata da un piccolo catino in alto. Entrambe le fontane dei due emicicli furono ideate da Valadier e scolpite da Giovanni Ceccarini.
Completano l’assetto della piazza, le due fontane sarcofago, poste in sostituzione di un abbeveratoio e un lavatoio, che fino al Settecento conferivano all’area un aspetto rurale. Una è addossata alla chiesa di Santa Maria del Popolo, reca il ritratto di due coniugi e risale alla metà del III secolo d.C.; l’altra si trova a ridosso dell’opposta caserma “Giacomo Acqua”, già delle guardie pontificie, presenta una decorazione con solo un personaggio maschile togato ed è databile all’ultimo quarto dello stesso secolo.
Fino al XIX secolo, la piazza era uno dei luoghi dove si svolgevano le esecuzioni capitali per mano del famoso boia Mastro Titta. Come ricordato da una lapide apposta nel 1909 sulla caserma, qui furono ghigliottinati i due carbonari Angelo Targhini e Leonida Montanari, “rei di lesa maestà e ferite con pericolo”.
Rappresentazione del mecenatismo papale rinascimentale, antica sede di giochi, fiere e spettacoli popolari, Piazza del Popolo è sicuramente una delle piazze più famose al mondo. Le sue bellezze artistiche, i suoi caffè, le sue botteghe e i locali commerciali adiacenti, anticamente frequentati da personaggi come Trilussa, Guttuso e Pasolini, ne fanno l’emblema culturale della “romanità” e scenografico ingresso al cuore della capitale.
Piazza del Popolo di Roma CapitalePiazza del Popolo di Roma CapitalePiazza del Popolo di Roma CapitalePiazza del Popolo di Roma CapitalePiazza del Popolo di Roma CapitalePiazza del Popolo di Roma CapitalePiazza del Popolo di Roma CapitalePiazza del Popolo di Roma CapitalePiazza del Popolo di Roma CapitalePiazza del Popolo di Roma CapitalePiazza del Popolo di Roma CapitalePiazza del Popolo di Roma CapitalePiazza del Popolo di Roma CapitalePiazza del Popolo di Roma CapitalePiazza del Popolo di Roma CapitalePiazza del Popolo di Roma CapitalePiazza del Popolo di Roma CapitalePiazza del Popolo di Roma CapitalePiazza del Popolo di Roma CapitalePiazza del Popolo di Roma CapitalePiazza del Popolo di Roma CapitalePiazza del Popolo di Roma CapitalePiazza del Popolo di Roma CapitalePiazza del Popolo di Roma CapitalePiazza del Popolo di Roma CapitalePiazza del Popolo di Roma CapitalePiazza del Popolo di Roma CapitalePiazza del Popolo di Roma CapitalePiazza del Popolo di Roma CapitalePiazza del Popolo di Roma CapitalePiazza del Popolo di Roma CapitalePiazza del Popolo di Roma CapitalePiazza del Popolo di Roma CapitalePiazza del Popolo di Roma CapitalePiazza del Popolo di Roma CapitalePiazza del Popolo di Roma CapitalePiazza del Popolo di Roma Capitale
Franco Leggeri Fotoreportage-
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Poesie di Janet Frame- da Parleranno le tempeste. Poesie scelte-
A cura e traduzione di Francesca Benocci ed Eleonora Bello-Gabriele Capelli Editore
Janet Frame
Janet Frame (Dunedin 1924–2004) è stata una tra le più importanti scrittrici neozelandesi. Candidata due volte al premio Nobel, l’ultima nel 2003, è soprattutto nota per il film di Jane Campion Un angelo alla mia tavola tratto dalla biografia omonima. Nata in una famiglia indigente, riesce a diplomarsi come insegnante ma è successivamente bollata come non “normale” e non idonea all’insegnamento. Diagnosticata schizofrenica, viene internata per otto anni in manicomio dove è sottoposta a 200 elettro-shock e minacciata di lobotomia. A darle forza e libertà sarà la scrittura e i riconoscimenti che il mondo letterario inizia a tributarle arrivando a essere tradotta in tutto il mondo. Non così per le sue poesie, amatissime ma raramente tradotte. Oltre a Un angelo alla mia tavola, sono stati pubblicati in italiano i romanzi Gridano i gufi, Volti nell’acqua e Verso un’altra estate. Parleranno le tempeste è la prima raccolta di poesia tradotte in italiano.
Provati estate primavera autunno inverno,
datemi il grande freddo per sempre,
ghiaccioli su tetti muri finestre il sogno
marmoreo perpetuo integrale di un mondo e di persone ghiacciati
nella più nera delle notti, così nera da non riuscire a distinguere
il sogno perpetuo integrale marmoreo.
Gli occhi ciechi sono ora padroni di sé.
Un tempo
Un tempo la brezza calda della gente
che filtrava sotto la porta chiusa che mi separava da loro
cambiava la fiamma, influenzava
la forma dell’ombra,
mi bruciava ribruciava dove facevo
tavolette di cera nell’oscurità.
Poi oltre la porta era solo silenzio.
Le gazze ladre tappavano il buco della serratura
attraverso cui rassicuranti becchi di luce avevano pizzicato briciole.
Un inverno che non ho mai conosciuto
ha sigillato le crepe con un male chiamato neve.
Cadeva così pura
dal nulla, in fiocchi accecanti.
Oltre la porta era solo silenzio.
Io indugiavo nel mio rituale solitario.
Effetti personali
Un amo dentro a un portafoglio di plastica strappato,
una vite arrugginita, un folletto della Cornovaglia,
del mio primo libro un volantino spiegazzato,
alti il doppio, o morti, nelle foto di famiglia
i bambini, un orologio d’argento con la cassa rotta
“Resistente agli urti” ma non era l’orologio che il piccolo Levìta
aveva, nell’inno, nella sera silenziosa fatta
di oscuri cortili del tempio e luce sbiadita…
anche se mio padre si chiamava Samuel. Che udito debbo avere,
e perché, mi chiedevo un tempo, per sentire il Verbo?
… un chiodo lucido… la lettera di un nuovo amore,
una spilla ossidata appartenuta a mia madre.
Poi, quasi adescasse dall’ultima marea questo ciarpame infranto,
la bella mosca schiuma-onda da pesca, di mio padre il vanto.
Parleranno le tempeste
Parleranno le tempeste; di loro puoi fidarti.
Sulla sabbia il vento e la marea scrivono
bollettini di sconfitta, gusci imperfetti
presso il memoriale liscio d’alberi d’altura,
alghe, uccello lacero, rasoio affilato, corno d’ariete, conchiglia.
Dacci le notizie dicono gli asceti leggendo
e rileggendo dieci miglia di spiaggia; tra gusci vuoti, guarda,
bruciano nella stampa del sale, storie
d’inondazione: come abbandonai casa e famiglia.
Rasoio: come tagliai la gola alla luce del sole.
Corno d’ariete: come caricai danzando alla luce lanosa del sole.
Conchiglia: come la mia vita salpò su un’oscura marea.
Janet Frame
Francesca Benocci è nata a Sinalunga, in provincia di Siena, il 17 maggio 1985. Dopo infinite peripezie geografiche e un corso di studi in medicina messo prematuramente da parte, approda alla facoltà di Lettere e Filosofia di Siena. Si iscrive al corso di laurea in “Lingue, letterature e culture straniere” laureandosi nel 2010 in inglese e russo. Scrive una tesi che ha come oggetto la “comparazione” tra due traduzioni italiane di uno stesso testo in inglese. Ha completato, sempre presso l’Università di Siena, un master in traduzione ed editing di testi letterari e ha iniziato un dottorato in Translation Studies alla Victoria University of Wellington, in Nuova Zelanda.
Eleonora Bello (1985) ha conseguito una laurea triennale in Lingue e Letterature straniere presso l’Università degli Studi di Milano, dove ottiene anche il Master di primo livello PROMOITALS (Didattica dell’Italiano come lingua seconda e straniera). Successivamente ottiene il Master di secondo livello all’Université de Franche-Comté (Besançon, Francia) in Letteratura e Cultura Italiana. Ha insegnato italiano come lingua straniera a Milano, Città del Messico e Besançon.
Janet Frame: scrittura e follia scritto da Ivana Daccò
Una che che ce l’ha fatta ad uscire dal manicomio, un po’ per fortuna, molto per determinazione. Per capacità. Un genio.
Mentre leggo “Un angelo alla mia tavola”, autobiografia di Janet Frame, mi si impone il riflettere sul fatto che la sua opera e la qualità della sua figura di donna vengono, e sono, legate alla sua storia di sofferenza psichica; e la riflessione si allarga allo stereotipo che propone come pressoché inevitabile la relazione tra una sensibilità fuori dell’ordinario, che sa tradursi in parole, e la malattia mentale, quantomeno la precarietà di quel tanto di equilibrio richiesto (e non potrebbe essere diversamente) dalle convenzioni sociali, dall’epoca e dalla società in cui si vive.
E’ uno stereotipo che colpisce, non solo ma in particolare, le donne; e il tema della presenza, ad esempio, di suicidi tra le scrittrici o, come nel caso di Janet Frame, di malattia mentale, ritorna, più o meno dibattuto, più o meno sostenuto da dati oggettivi, quasi ci fosse una richiesta sociale che prescriva questo. ‘Genio e sregolatezza’ certo ma, per le donne, sembra si chieda qualcosa di più.
Non voglio, qui, raccontare la storia di vita della Frame, che è bene lasciare al libro, al suo diretto racconto che spero a breve di riuscire a proporre, se non per il ‘non dettaglio’ di anni di vita, tra i venti e i trent’anni di età, trascorsi al manicomio prima che, a seguito del suo successo di scrittrice, tale diagnosi non venisse, diciamo, revocata e le venisse restituita la libertà personale.
Vero, la sua biografia dice, a proposito della fine dell’esperienza manicomiale, che è stata riconosciuta come <errata> la diagnosi di schizofrenia che le era stata ascritta ed è stato tirato un rigo sui duecento elettroshock subiti e sulla lunga esperienza di reclusione, per non dir altro. E allora va bene, diciamo che la diagnosi era sbagliata; oppure che la schizofrenia non esiste; che, forse, è altra cosa e non si cura con gli elettroshock, come pure avviene ancora in molte parti del mondo. Diciamo che sono il regime manicomiale e la supposta cura a causare la devastazione mentale e fisica delle persone affette da questa malattia. Problema complesso.
Ma il tema che, mentre leggo, mi si pone è un po’ diverso. Il tema sta nel fatto che, in qualche modo, sembra sia difficile che non venga correlata alla pseudo o vera malattia di cui Janet Frame (non) soffriva, la sua particolare sensibilità, la visione che lei stessa esprimeva della sua vita, di cui diceva che era scissa tra “questo mondo” e “quel mondo”, tra la vita che conduceva in quello che chiamava il suo mondo, ricco di sensazioni, colori, emozioni, riservate a lei sola, da tradurre in scrittura, da contenere, forse, attraverso la parola scritta, e dunque mediata, e la vita che conduceva nel mondo di tutti, dentro le regole, gli impegni che la società richiede, dove si muoveva comunque con la necessaria competenza – e con la fatica, va detto, che ciò comportava per lei, donna introversa, timida, a disagio nelle relazioni con gli altri.
Ed ecco aprirsi l’estrema aporia che vuole far convivere, nella mente di una ‘pazza’ (con tutto ciò che il senso comune associa a tale condizione), una sensibilità fuori dell’ordinario, un pensiero preda di visioni, emozioni di grande forza, stati d’animo difficili da controllare e l’estremo rigore, la capacità tecnica, la cura, la continuità di impegno richiesti dalla scrittura. Tutte cose che mal si sposano con una mente devastata.
E colpisce come, ancora, viva una forma di malinteso romanticismo, fuori tempo e fuori contesto, che fa amare, quasi desiderare, sembra, la figura dell’artista caratterizzato da eccessi (nel vivere, nel sentire, nel comportarsi) che diventano disagio mentale fino ad arrivare alla pazzia, e fino al comportamento suicidario, in particolare quando l’artista è donna.
Non sono infrequenti i luoghi comuni che associano la letteratura al femminile alla pazzia, che indicano un tasso di suicidi particolarmente elevato tra le scrittrici. Poi, al dunque, tutti pronunciano un solo nome: Virginia Woolf. Janet Frame è fortunatamente morta anziana, per una malattia, nella sua città natale di Dunedin in Nuova Zelanda.
Eppure. Qualcosa sembra esserci, potrebbe, e il nome della Woolf non è il solo, nel computo delle morti cercate. L’elenco potrebbe essere lungo – limitandoci al ‘900 vengono alla mente le poetesse Amelia Rosselli, Antonia Pozzi, Alfonsina Storni, l’americana Silvia Plath. Possiamo aggiungere Marina Cvetaeva, Alejandra Pizarnik, Violeta Parra. Sibilla Aleramo ha a suo carico un tentativo fortunatamente fallito mentre ha evitato tale esito, ma pagando con una vita di grande sofferenza, la sudafricana Bessie Head; e non è stata facile la vita, e la storia manicomiale di Alda Merini.
Solo un abbozzo di elenco impossibile, che comporterebbe comunque la mancanza di tutte quelle che il mondo non ha conosciuto.
Le biografie di queste donne riportano difficoltà di vita talora gravi, che tuttavia difficilmente consentirebbero una correlazione tanto semplicistica, come se il viverle dovesse portare, di per sé, attraverso una relazione diretta e inevitabile, alla pazzia; o come se il cedere alle prove della vita fosse il segno distintivo di un animo elevato, di una sensibilità superiore che tutte le donne che, similmente provate, non hanno ceduto, non possedessero.
Eppure. E’ pensabile che queste grandi scrittrici siano state, pur dentro storie personali difficili, più che sane di mente, ma che il loro mondo le abbia messe alla prova in modo alla fine insostenibile, mponendo loro un sovraccarico di peso per il loro essersi permesse la scrittura, la poesia, deviando dall’assunzione di ruolo prescritta? E’ pensabile che quel di più che la società ha posto sulle loro spalle abbia fatto la differenza?
Janet Frame, I ghiaccioli , da Parleranno le tempeste, Gabriele Capelli Editore (2017)
Districare quei fitti ricci rossi per Janet era un problema come cercare uno spazio di silenzio in cui immergersi per accudire le sue amate parole.
Non era una vita semplice quella che le si presentò, e non lo fu nemmeno in seguito: tre sorelle con cui condividere vestiti, letto e libri, un fratello colpito da continui attacchi epilettici, una maestra che non perdeva occasione per ricordarle la sua povertà, il suo disordine, i suoi abiti sporchi, una madre che tentava di abbellire le povere case – in cui continuamente si trasferivano per seguire il padre ferroviere – con oggetti di fantasia.
Un taccuino – dono dal padre – si trasforma in un’insperata ancora di salvezza nel grigio di quei primi anni, e un libro di fiabe – Le favole dei fratelli Grimm – prestato da un’amica, la introduce in un mondo ricco e senza confini. La fantasia viaggia libera e si lascia andare.
Janet è “diversa”, poco incline alle relazioni, introversa, timida, lo sarà per tutto il resto della sua esistenza con buona pace di chi la voleva cambiare. Scopre il mondo dei libri e tra quelle parole cerca un riparo. I libri aumentano, sempre in prestito, li porta a casa, non li lascia nemmeno per mangiare. Comincia a scrivere sul suo taccuino, scrive a scuola, prime composizioni, primi tentativi di liberare la parola. Non viene presa sul serio: lei è la “strana”, la “matta”. Pubblica sul giornalino della scuola, e non solo; queste prime scritture ricevono un riconoscimento insperato. Cambia maestra. Il nuovo maestro legge con interesse i suoi temi a scuola, il resto che le aleggia intorno non gli interessa minimamente. La incoraggia a proseguire e Janet giura a se stessa che da grande farà la poetessa!
Difficile credere che questo sia stato il background di Janet Frame, autrice neozelandese, due volte proposta per il Premio Nobel.
Un’idea narrativa inserita in una autobiografia, richiesta proprio dal suo maestro, un tentativo di suicidio e Janet la “diversa” finisce per otto lunghi anni in un ospedale psichiatrico sottoposta a quattrocento elettroshock, il “trattamento”, lo chiamano i medici, una “esecuzione” lo definisce lei.
Janet scrive su qualunque pezzo di carta riesce a recuperare e consegna i testi alla sorella durante le rare visite in istituto.
Non volevo che mi accadesse nulla, scriverà in seguito nella sua autobiografia, per questo si rende disponibile, lava, mette la cera, rispetta i suoi turni, ma lo stesso non sfugge al trattamento che le viene somministrato con la stessa regolarità.
Il giorno prima dell’intervento per la lobotomia il medico di Janet annulla l’operazione e prepara le sue dimissioni dall’ospedale. Quei racconti affidati alla sorella durante le rare visite, sono stati inviati a un premio prestigioso e Janet risulta prima. La notizia della vincita e dell’uscita del libro è riportata sul giornale. Il medico la dimette il giorno dopo, Janet non è più persona da manicomio.
Gli occhi ciechi sono ora padroni di sé – da Canto
Janet Frame continuò a scrivere racconti, pubblicò con regolarità, vinse molti premi ma la poesia? Che fine aveva fatto la poetessa? Restava “nascosta in bella vista” (Gina Mercer).
Sono invisibile. / Sono sempre stata invisibile / come la povertà in un paese ricco, come i ricchi nelle stanze riservate delle loro case piene di stanze, come le pulci, i pidocchi, come un’escrescenza sottoterra, i mondi oltre il cielo, il vento, il tempo, le idee — l’elenco dell’invisibilità è infinito, e, dicono, non fa buona poesia. Come le decisioni. / Come l’altrove. / Come gli istituti lontani dalla strada di nome Scenic Drive. / Basta similitudini. Sono invisibile.
Oltre alle poesie disseminate nei suoi romanzi, alcuni dei racconti brevi possono essere definiti “poesie in prosa” (Bill Manhire). Pubblicazioni sporadiche su alcune riviste e, nonostante un solo volume di poesia pubblicato durante la sua vita, l’opera in versi comprende ben 170 componimenti!
Non pubblicò mai una seconda raccolta, per diversi motivi. La necessità di guadagnarsi da vivere la condusse a produrre ciò che era più vendibile, i suoi discussi trascorsi psichiatrici, ma anche una certa misoginia di sguardo, un buon numero di guardiani sessisti ansiosi di stroncare e reprimere la poesia di Janet Frame, nonché una polverosa invidia maschile.
La stessa nipote, Pamela Gordon, nel ruolo di esecutrice letteraria in possesso dei suoi manoscritti inediti di poesia e di prosa, ha subito pressioni. E quando tentò di spingerla a pubblicare il volume di poesie prima di morire, Janet rispose: “Non ho bisogno che nessuno mi dica che il mio lavoro è buono. Fallo dopo che sarò morta.”
Gli dei
Chi ha detto che gli dei non hanno bisogno di sognare? /Fanno più sogni di tutti e più cupi / con gli occhi notturni che infiammano un regno / che il loro risveglio piange, perduto.
[…]
Più sono solitari i loro picchi di nuvole / più vicini si fanno i loro sogni/ a scaldare colline deserte e popolate / – gli dei più di tutti hanno bisogno di sognare.
E nonostante la sua figura di poetessa sia stata trascurata e quasi dimenticata (per anni non è stata più pubblicata), oggi la sua poesia è tornata ad essere tradotta e pubblicata. Parleranno le tempeste – il volume da cui sono tratte alcune poesie qui presenti – è la terza edizione di poesie scelte e tradotte a vedere la luce negli ultimi anni.
Le poesie di Janet Frame (1924 – 2004) colpiscono per la chiarezza, il controllo, la precisione con cui riescono a definire aspetti dell’animo, della psiche, del comportamento umano. Riesce a mettere a fuoco con esattezza e piena responsabilità, con una padronanza sorprendente figurazioni metaforiche, che sono intese a chiarire, a definire aspetti dell’esistere, dello stare, dell’andare, del morire. Lo scontro costante, quotidiano, l’opposizione tra luce e buio, tra il visibile e l’invisibile che pure permane sono dichiaratamente i suoi temi portanti. È evidente la sua abilità nel provocare sentimenti in chi legge. Il suo talento nel filtrare e amplificare i più complessi sentimenti, il nascosto, lo straordinario nelle cose di tutti i giorni, il non detto, la vergogna, la colpa, le contraddizioni umane.
La Frame affronta temi vari e profondi ma lo fa con un approccio originale e creativo, lo fa con scelte linguistiche in cui le continue allitterazioni, il gioco, i simil-anagrammi rappresentano uno sforzo/gioco poetico. Le poesie colpiscono per la struttura e composizione nell’ affrontare i temi della morte, della separazione e della partenza.
La poetica di Janet Frame non si aggroviglia su nuclei di rabbia ma rappresenta un percorso di silenzio in cui riportare alla luce antiche memorie con una discrezione estrema e sofferta, mai urlata.
Il poeta, allora, “respira con un polmone solo / sale una scala con un solo piolo / spara alle stelle senza arma alla mano”.
Nel passo lieve Janet Frame sostiene la sua lotta senza perdersi e rimanendo fedele al suo essere “Eppure ho sentito / di insetti stecco e sagome / e letti a righe / nel cielo e file / di fiori incorporei / in bianco e nero / miseri come gli arcobaleni contro la pressione / e la purezza / del non-colore. / Devo continuare a lottare / con la testa gialla e rossa / dal profondo della fossa, io rimanendo a modo mio”.
Carlo Vecce-Il Decameron di Pasolini, storia di un sogno-
Il Decameron di Pasolini, storia di un sogno
Carocci editore -Roma
Descrizione in breve-Il Decameron (1971), punto di svolta della poetica di Pasolini, è un’opera in movimento, aperta, che per essere compresa va analizzata in tutte le fasi del processo creativo, all’interno del laboratorio dell’autore, dalla prima ideazione fino alla realizzazione del film; ed è allo stesso tempo un capolavoro del cinema e uno straordinario documento della ricezione di Boccaccio nella cultura del Novecento. Il volume, attraverso un accurato esame dei materiali preparatori – il trattamento, la sceneggiatura e soprattutto il copione di scena utilizzato sul set –, ne ripercorre la storia prima, durante, dentro e (in misura limitata) anche dopo. Un’attenzione speciale viene riservata ai luoghi scelti per le riprese, agli interpreti, ai riferimenti iconografici, alla colonna sonora, alla contaminazione degli stili, delle lingue e dei linguaggi.
Ebbe diversi problemi con la censura, che sequestrò e dissequestrò il film e aprì anche un processo, che alla fine vide giudicati non colpevoli gli imputati (tra cui il regista stesso). Ad ogni modo, fu un successo tanto in Italia quanto nel resto d’Europa; vinse anche l’Orso d’argento al Festival di Berlino 1971.
Dal 2000, il film è vietato ai minori di 14 anni.[senza fonte]
Elenco delle novelle
Segue l’elenco delle nove novelle tratte dal “Decameron” nell’ordine in cui appaiono nel film.
Il giovane Andreuccio viene truffato due volte, ma finisce col diventare ricco.[1]
Una badessa riprende una consorella ma è a sua volta ripresa per il medesimo peccato[2]
Masetto si finge sordo-muto in un convento di curiose monache.[3]
Peronella è costretta a nascondere il suo amante quando suo marito torna improvvisamente a casa.[4]
Ciappelletto si prende gioco di un prete sul letto di morte.[5]
L’allievo di Giotto aspetta la giusta ispirazione (divisa in 2 momenti).[6]
Caterina dorme sul balcone per incontrare il suo amato la notte.[7]
I tre fratelli di Lisabetta si vendicano del suo amante.[8]
Il furbo don Gianni cerca di sedurre la moglie di un suo amico.[9]
Due amici fanno un patto per scoprire cosa accade dopo la morte.[10]
Trama
Andreuccio da Perugia
Ninetto Davoli nel ruolo di Andreuccio
Il giovane Andreuccio si reca a Napoli dalla lontana Perugia per comperare alcuni cavalli. Ma non si accorge che una ragazza di origini siciliane lo ha adocchiato con la sua borsa di monete ed intende rubargliele con un astuto stratagemma. Infatti Andreuccio, non soddisfatto dalla merce del mercato, si addentra per le vie della città quando incontra una ragazza che lo invita a salire in casa. Si tratta della residenza dell’imbrogliona che racconta ad Andreuccio di essere sua sorella illegittima concepita da un amore clandestino del padre con una matrona sicula; e lo invita a passare la notte in casa. Andreuccio è felice dell’invito e chiacchiera con la ragazza, mentre un fanciullo entra in bagno e sega una trave del pavimento per mettere in azione la trappola.
Infatti, arrivata la sera, Andreuccio ha dei dolori di pancia e si reca al bagno per fare i suoi bisogni. Quando mette il primo piede sul pavimento la trave di legno cede e il giovane cade nella latrina dalla quale riesce ad uscire solo per miracolo. Andreuccio si cala da una finestrina e chiede alla serva di farlo entrare, ma questa lo scambia per pazzo. Andreuccio allora capisce l’imbroglio e comincia a gridare, venendo però zittito e scacciato via dalle matrone del quartiere. Senza un soldo e completamente ricoperto di poltiglia puzzolente, Andreuccio non sa dove andare, quando vede due viandanti e, vergognandosi della sua situazione, va a nascondersi dentro una botte. I due viaggiatori si avvicinano alla cassa, attirati dall’odore nauseabondo e scoprono il giovane. I due, che in realtà sono dei ladri, gli propongono di venire con loro nella chiesa vicina dove è stato seppellito da poco in una tomba un famoso vescovo, cosicché possano aprire la cassa e rubargli le vesti e in particolare un anello di grande valore.
Andreuccio è d’accordo, ormai disposto a tutto pur di essere risarcito e va con i due. Aperta la bara i ladri fanno entrare dentro Andreuccio che si mette all’opera. Il ragazzo ha sfilato al cadavere ogni cosa che possa essere di valore, tenendo l’anello per sé. Quando i due gli ordinano di buttare fuori l’anello, Andreuccio dice che lì dentro non c’è nessun anello e i ladri indispettiti lo rinchiudono nella cassa di marmo. Poco dopo sopraggiungono altri due banditi assieme al sagrestano intenti a compiere lo stesso furto. Aprono la cassa, ma Andreuccio addenta immediatamente la gamba del sagrestano che stava per entrare. L’uomo urla di dolore e di paura, facendo scappare i giovani complici e Andreuccio finalmente può tornare a Perugia con l’anello.
La novella della suora con l’amante
Nella città di Napoli un vecchio sta raccontando una storia. In un convento una suora ha rapporti sessuali con un amante segreto, ma gli incontri notturni vengono scoperti dalle altre suore che si precipitano il giorno dopo dalla Madre Superiora per raccontare lo scabroso evento. Tuttavia, al contrario delle loro aspettative, la Madre sta facendo l’amore con il sacerdote e quando sente bussare alla porta, per la fretta, si mette al posto del copricapo le brache dell’amante. Così accade che la sorella, pur essendo punita dalla Madre Superiora, ottiene il permesso, così come tutte le altre sorelle, di ricevere ogni notte in cella il proprio amante.
Masetto l’ortolano nel convento
Masetto è un contadino che pensa solo al piacere che si può provare facendo l’amore. Essendo impaziente pensa di travestirsi da bracciante sordomuto e di entrare in un convento poco distante dal campo. Le suore vedendolo rimangono sorprese ed entusiaste allo stesso momento dato che a un uomo, fuorché al sagrestano, non era concesso entrare in un monastero di monache; e cominciano a formulare pensieri licenziosi. Infatti qualche giorno dopo mentre Masetto sta potando un albero due suore lo chiamano invitandolo in un piccolo ripostiglio degli attrezzi per avere a turno un fugace rapporto amoroso, mentre le altre scorgono la scena dalle finestre del monastero. Anch’esse, nelle loro celle, ricevono una alla volta il giovane per intrattenervi un rapporto sessuale. Alla fine anche la Madre Superiora cede alla tentazione e porta Masetto nel capanno, ma prima del momento supremo l’uomo si rifiuta e dichiara di essere esausto per i tanti rapporti, rivelando così di non essere sordomuto. La Madre, per non far uscire la notizia dal convento, decide di dichiarare miracolato il ragazzo, facendolo rimanere nel convento per soddisfare i desideri delle suore.
Peronella e l’orcio
Angela Luce nel ruolo di Peronella
A Napoli, Donna Peronella sta aspettando il ritorno del proprio marito e nel frattempo sta facendo l’amore con Giannello, venditore di orci e giare. Il marito torna a casa e Peronella fa nascondere l’amante nella grande giara in giardino. L’uomo si presenta alla moglie assieme ad un mercante dichiarando di aver concluso con lui un affare per la vendita di una giara per 5 denari. Peronella tuttavia per liberarsi del compratore comunica al marito di averlo già venduto per 7 denari; allora il coniuge congeda il mercante e si reca con Peronella nel giardino. Giannello esce fuori dal recipiente affermando che l’interno della giara è sporco e che bisogna pulirlo, altrimenti l’affare non potrà essere concluso. All’istante lo sciocco marito di Peronella si cala dentro a pulire, mentre Giannello ha un rapporto con la donna che rimane affacciata sul bordo della giara a controllare il lavoro del marito.
Ser Ciappelletto (o Cepparello) da Prato
Ser Ciappelletto è già comparso due volte nel film: la prima all’inizio quando è intento a gettare da una rupe un sacco contenente un cadavere, la seconda mentre un vecchio racconta ad un gruppo di persone la novella di Masetto; Ciappelletto propone un rapporto sessuale ad un bel giovanetto in cambio del denaro che ha appena sottratto dalla cintura di uno degli ascoltatori. In questa novella il protagonista si reca da Prato in Germania per essere ospitato da due fratelli napoletani usurai. Ciappelletto ha passato un’intera vita di imbrogli, truffe, raggiri, rapporti sessuali con prostitute e omosessuali, bestemmie e ingiurie nei confronti della Chiesa. Giunto in città viene ospitato dai due fratelli mentre viene inquadrata una festosa sagra nel prato fuori dalla città. Ciappelletto entra in sala e mangia con loro fino a che non si sente male e crolla a terra.
Passano alcuni giorni ma Ciappelletto è sempre più grave finché si riduce in fin di vita. I due fratelli, sotto le suppliche di Ciappelletto, convocano un santo frate che possa assolverlo dai peccati. Il sacerdote giunge in casa e inizia la confessione mentre i due uomini ascoltano fuori dalla porta, ridendo della confessione di ser Ciappelletto e commentando tutte le sue malefatte. L’astuto Ciappelletto si dimostra disperato dei suoi peccati confessando di aver sputato in chiesa e di aver ingiuriato la madre. Il frate, credendo di trovarsi di fronte all’uomo più pio che abbia mai conosciuto, decide di dargli subito l’assoluzione e di farlo venerare come un santo. Ciappelletto muore di lì a poco e viene portato nella chiesa principale dove tutti i pellegrini si recano a rendergli omaggio toccando la sua salma.
L’allievo di Giotto
In tutta la regione si sta parlando di un certo pittore (Pasolini) che ha frequentato la scuola del famoso Giotto. L’uomo deve recarsi a Napoli nella chiesa di Santa Chiara per affrescare la parete dell’altare. Arrivato, l’uomo comincia tutti i preparativi sistemando il ponteggio e diluendo i colori con i compagni. Mentre incomincia a dipingere il quadro continuano le altre storie del Decameron.
Caterina di Valbona e Riccardo
Giuseppe Zigaina nel ruolo del sacerdote nella novella di Ser Ciappelletto
In un paese vicino a Napoli la nobile Caterina ama il giovane Riccardo, ma ha paura di dichiararlo al padre. Per questo, con la scusa del caldo torrido dell’estate, dichiara alla madre di voler dormire per un po’ sulla terrazza affinché possa rinfrescarsi. I genitori acconsentono e così il bel Riccardo quella notte può salire per fare l’amore con Caterina. Il giorno dopo molto presto, i genitori della ragazza si svegliano e salgono su per vedere come sta la figlia e la trovano nuda con Riccardo. La madre sta per gridare, ma il marito la rassicura spiegandole che il giovane potrebbe essere un buon partito e quindi pensano di farli sposare al più presto. E ciò avviene: i due genitori fanno svegliare la coppia e li convincono a sposarsi proprio in quel momento sulla terrazza e poi lasciano che Riccardo e Caterina se ne tornino a dormire beatamente abbracciati.
Il pranzo dell’allievo
Qui vi è un secondo intermezzo delle storie: l’allievo di Giotto viene invitato dai frati a mangiare per rifocillarsi un po’, ma l’uomo trangugia tutto in pochi minuti e si precipita di nuovo a lavorare, scherzando sempre con i giovani aiutanti.
Elisabetta (o Lisabetta) da Messina e Lorenzo
Elisabetta è la sorella di tre ricchi mercanti i quali pensano solo a far soldi. Ma la ragazza è innamorata di un giovane garzone: Lorenzo e con lui ha appassionanti rapporti sessuali. Ma i tre lo vengono a sapere e pensano di ucciderlo. Infatti qualche giorno dopo i tre fratelli invitano l’ignaro Lorenzo a giocare insieme nel giardino lì vicino e lo pugnalano alle spalle. Fatto ciò comunicano a Elisabetta che il suo Lorenzo si è recato in Sicilia per affari e che sarebbe tornato qualche settimana dopo. Ma Lorenzo non fa ritorno ed Elisabetta passa le intere notti a piangere invocando il suo nome. Una di queste notti il fantasma di Lorenzo le appare in sogno comunicandole di essere stato ucciso e che il suo corpo è stato seppellito nel giardino. Il giorno dopo Elisabetta chiede ai fratelli il permesso di uscire e si reca in giardino con una serva. Dissotterrato il corpo di Lorenzo, Elisabetta ne recide la testa e la porta in camera sua, nascondendola dentro un vaso di basilico.
Gemmata e la cavalla
Guido Alberti nel ruolo del mercante
Un vecchio contadino incontra a Napoli l’amico Gianni e i due decidono di riprendere il viaggio verso il paesello. Durante il tragitto il contadino propone a Gianni di ospitarlo, in virtù dell’amicizia che li lega e, soprattutto, per ricambiare il favore (dato che anche il contadino era stato ospite di Gianni). Donna Gemmata, moglie del contadino, riceve la visita del coniuge e di Gianni il quale, spacciandosi per una sorta di stregone indovino, sostiene che una donna si possa tramutare con un suo sortilegio in cavalla e, se si vuole, farla ritornare alle sue sembianze. L’obiettivo di Gianni è di avere un rapporto sessuale con Gemmata dato che è bellissima ed è oggetto di tutte le attenzioni del villaggio. Marito e moglie ingenuamente credono a questa magia e invitano Gianni a casa loro, facendolo dormire nella stalla coi cavalli.
Il giorno dopo all’alba, Gemmata si sveglia e chiede al marito, dato che sono molto poveri, se può essere tramutata in cavalla cosicché possa aiutarlo nell’arare i campi. Il marito acconsente e la porta da Gianni, comunicandogli il desiderio di Gemmata. Gianni subito prende al volo l’occasione e dichiara al coniuge che, durante il rito, deve stare zitto senza proferire parola. Infatti secondo il sortilegio, la parte più difficile è quella di “attaccare alla donna la coda”. Fatto ciò Gianni fa spogliare nuda Gemmata e la fa mettere carponi, mentre egli si accinge ad un rapporto da terra. Durante l’operazione però il marito, fremente di rabbia, comincia ad urlare e Gianni, con faccia affranta, dichiara fallito il rito perché il coniuge non ha rispettato il silenzio.
L’ultima novella di Tingoccio e Meuccio e il completamento dell’affresco
Mentre l’allievo di Giotto sta per finire l’opera, i due popolani Tingoccio e Meuccio sono ansiosi di capire cosa ci sia dopo la morte e soprattutto come siano il Paradiso o l’oscuro antro dell’Inferno; ma i due sono un po’ riluttanti perché credono che sia peccato avere rapporti sessuali con le amiche e quindi non vorrebbero finire all’inferno. Tingoccio propone che chi muore per primo visiti in sogno l’altro per rivelargli i segreti dell’aldilà. Arrivata la notte però, mentre Meuccio cerca in tutti i modi di morire concentrandosi in preghiera, Tingoccio ha un rapporto sessuale con la comare e poi si reca dall’amico, raccontandogli l’avventura. Meuccio gli rinfaccia che ormai è condannato, perché, secondo lui, ha commesso un grave peccato contro Dio. Dopo qualche tempo Tingoccio muore e quella stessa notte appare in sogno a Meuccio che gli domanda in che mondo sia stato collocato.
Tingoccio risponde che si trova in una specie di “limbo” in attesa di essere condotto nell’Inferno o nel Purgatorio e che in quella zona non si scontano pene per aver avuto nella vita rapporti con la comare. Di seguito prega Meuccio affinché il popolo di Napoli lo veneri e faccia celebrare messe in suo onore per raccogliere denaro che gli sarà d’aiuto nella vita ultraterrena. Contentissimo, Meuccio corre dalla comare per soddisfare i suoi desideri.
Nella chiesa di Santa Chiara, nel frattempo, il pittore che sta dormendo fa un sogno in cui gli appare la Vergine Maria con in braccio il bambino Gesù e tutta la schiera di angeli e santi, possibile ispirazione per finire l’affresco. Il sogno si interrompe ed il giorno dopo il pittore completa finalmente l’affresco, decidendo però di omettere il suo ultimo sogno, e mentre tutti i frati e i sagrestani festeggiano l’avvenimento, il pittore commenta la mancanza della sua visione nell’opera finale dicendo: “Perché realizzare un’opera quando è così bello sognarla soltanto?”.
Produzione
Sceneggiatura
In una lettera della primavera del 1970, Pasolini spiegava al produttore Franco Rossellini di aver modificato la sua originaria idea di ridurre l’intero Decameron a quattro o cinque novelle di ambiente napoletano e di voler dare invece «un’immagine completa e oggettiva del Decameron» attraverso la scelta del maggior numero possibile di racconti. Al gruppo centrale dei racconti ambientati nella Napoli popolare avrebbero dovuto aggiungersene altri per rappresentare lo «spirito interregionale e internazionale» dell’opera di Boccaccio, con l’ambizione di realizzare «una specie di affresco di tutto un mondo, tra il medioevo e l’epoca borghese». Il film avrebbe dovuto durare almeno tre ore ed essere diviso in tre tempi, ognuno dei quali rappresenti un’unità tematica.[11] Il primo trattamento elaborato dall’autore era dunque costruito su questa struttura tripartita (15 novelle suddivise in tre tempi, ognuno dei quali racchiuso da un racconto cornice, con protagonisti rispettivamente Ser Ciappelletto, Chichibio e Giotto), che voleva rispecchiare la complessa architettura narrativa dell’opera di Boccaccio.
La scelta delle novelle appariva ancora caratterizzata da estrema eterogeneità. Solo tre novelle del Decameron sono di ambientazione partenopea; Pasolini rafforzava la “napoletanità” della propria rivisitazione trasferendone altre, di ambientazione toscana, a Napoli e dintorni.[12] Rispetto al trattamento, nella sceneggiatura, datata 26 agosto 1970,[13] Pasolini allentò il rigido schema tripartito, eliminando cinque novelle «orientali» o «nordiche» e aggiungendone due nuove, e cercando di bilanciare il rischio dell’eccessiva frammentarietà con una maggior omogeneità d’ambiente (napoletano e popolare).[14]
Dalla sceneggiatura alla forma definitiva del film, il cambiamento più importante riguardò la sostituzione dello schema tripolare con quello bipolare.[14] Furono eliminati il racconto-cornice di Chichibio e altre due novelle (tra cui quella di Alibech, nel trattamento definita dall’autore di «grazia sublime»,[15] ma ritenuta dissonante rispetto al resto del film e comunque eliminata solo all’ultimo, tanto che gli interpreti appaiono comunque accreditati nei titoli di testa), e furono effettuati degli spostamenti strutturali che diedero maggior coesione all’insieme. Malgrado l’apparente eterogeneità dell’intreccio, il film mostra una logica interna e una sostanziale omogeneità,[16] a cui contribuisce la napoletanità che pervade tutti i dialoghi. In merito a questa scelta linguistica, Pasolini affermò: «Ho scelto Napoli contro tutta la stronza Italia neocapitalistica e televisiva: niente babele linguistica, dunque, ma puro parlare napoletano».[17]
Un’importanza particolare riveste, fin dal trattamento e poi nelle elaborazioni successive, il racconto di Giotto che si reca a Napoli per affrescare la chiesa di Santa Chiara. L’artista figura in effetti nella novella 5 della VI giornata, che però è ambientata nei dintorni di Firenze e ha andamento aneddotico. Nel progetto pasoliniano, invece, la vicenda giottesca costituisce uno dei racconti-cornice delle (progettate tre, e poi effettive due) parti dell’opera. Inoltre, e fin dalla prima stesura, a Giotto è affidato l’explicit del film: guardando la sua opera compiuta, nel trattamento l’artista «ha un lieve, ingenuo e misterioso sorriso»;[18] nella sceneggiatura «nel suo viso è stampato – come una leggera ombra, non priva di malinconia – il sorriso dolce, misterioso e ingenuo con cui l’autore guarda la sua opera finita»;[13] mentre nel film (in cui Giotto diventa «un allievo di Giotto», forse contestualmente alla decisione di Pasolini di interpretare in prima persona il personaggio)[19] pronuncia, di spalle, la battuta «Perché realizzare un’opera quando è così bello sognarla soltanto?», aggiunta dal regista direttamente sul set.[20]
Sinossi del libro Fratelli Cervi- Collana: Collana dell’Istituto Alcide Cervi, La tragica storia dei sette fratelli Cervi, fucilati dai militi fascisti a Reggio Emilia il 28 dicembre 1943, costituisce uno dei miti più potenti della storia dell’Italia contemporanea. Ma chi sono stati davvero i Cervi? Non solo i fratelli, ma l’intera famiglia?
Fratelli Cervi-La storia e la memoria-Viella Libreria Editrice-Roma
Questo libro ricostruisce le loro storie: investiga l’universo contadino in cui vissero; segue i diversi percorsi che li portarono all’opposizione al fascismo, al rifiuto della guerra, alla scelta partigiana, fino all’arresto e alla fucilazione; ripercorre gli anni successivi, nei quali ha preso forma la narrazione del loro sacrificio e si è strutturato il loro mito, rivelando difformità e conflitti che emergono dall’analisi del rapporto fra storia e celebrazione.
Toni Rovatti insegna Storia contemporanea all’Università di Bologna. Tra le sue pubblicazioni: Lo specchio della giustizia fascista, in Giustizia straordinaria fra fascismo e democrazia (il Mulino, 2019); Repressione, eversione e uso consapevole della forza, in Il comunismo in una regione sola? (il Mulino, 2023).
Alessandro Santagata è ricercatore presso l’Università di Padova. Per i nostri tipi ha pubblicato La contestazione cattolica. Movimenti, cultura e politica dal Vaticano II al ’68 (2016); Una violenza “incolpevole”. Retoriche e pratiche dei cattolici nella Resistenza veneta (2021).
Giorgio Vecchio ha insegnato Storia contemporanea all’Università di Parma. Per i nostri tipi ha pubblicato Il soffio dello Spirito. Cattolici nelle Resistenze europee (2022). È coautore, con G. Formigoni e P. Pombeni, della Storia della Democrazia cristiana, 1943-1993 (il Mulino, 2023).
Prefazione di Albertina Soliani
Introduzione
Giorgio Vecchio
Una famiglia di contadini nella Bassa Reggiana
1. Il Po, la Bassa
2. Una famiglia di mezzadri a Campegine e una protesta sacrosanta
3. Il giovane Alcide e la sua nuova famiglia
4. I Cervi, i cattolici e i socialisti tra età giolittiana e Grande guerra
5. Il dopoguerra, il Partito popolare, l’Azione cattolica
6. Gli anni Venti: da Campegine a Olmo e ritorno
7. Il 1929: una svolta? Il “caso Aldo”
8. Negli anni Trenta
9. Ai Campirossi
10. Antifascisti militanti
Toni Rovatti
«Sovversivi-comunisti». I Cervi tra guerra e Resistenza
1. Una necessaria premessa storiografica
2. Rifiuto e opposizione alla guerra
3. Antifascismo esistenziale e battaglia sulle risorse
4. Dall’accoglienza al salvataggio
5. Presa delle armi e guerra civile: “primi fra i primi”
6. Arresto e fucilazioni esemplari: il giudizio contro i “traditori”
7. Resistenza al dolore e prima definizione del ricordo
8. Dopo la Liberazione. Giustizia, cordoglio e riconoscimento
Alessandro Santagata
«I figli di Alcide non sono mai morti». La costruzione del mito
1. Caratteri originari e primi contrasti
2. Le genesi del mito
3. La svolta del decennale
4. I miei sette figli. Quale eroismo?
5. Diffusione e ricezione
6. L’opposizione ai Cervi
7. Casa Cervi
8. Il passaggio della contestazione
9. Il mito dopo papà Cervi
10. Epilogo
Indice dei nomi
In copertina: I funerali dei sette fratelli Cervi, 28 ottobre 1945. Archivio fotografico dell’Istituto Alcide Cervi.
Francia-Santuario di Lourdes -Per Flaminia Leggeri la fotografia è uno strumento di narrazione. Narrare con le immagini, comunicare e curiosare per Flaminia Leggeri è costruire una piccola o tante piccole storie di persone di varia umanità così come amava il grande Scrittore e Regista Mario Soldati, ma in questo caso i bambini hanno attirato la fotocamera e “l’obiettivo” di Flaminia e, con queste innocenti foto, ha saputo cristallizzare l’attimo di libertà e di curiosità così bella nei bambini. L’obiettivo è fuori dalla “normalità ovvia” dell’immenso Santuario di Lourdes. La domanda e la curiosità della fotografa sono: cosa fanno i bambini ? Come utilizzano le pause negli attimi in cui i genitori concedono la ”Tana Libera Tutti”? Fotografare l’attimo di vera innocenza e tranquillità dei bambini che sono nell’abbraccio della Vergine Maria e coperti dal suo manto. Flaminia con la fotocamera cerca di superare la “parola” con le immagini che, appunto, diventano “forza espressiva” in questa Oasi di Pace all’interno dell’immenso Santuario.
Flaminia Leggeri Fotoreportage Santuario di Lourdes –
Flaminia Leggeri Fotoreportage Santuario di Lourdes –
Flaminia Leggeri Fotoreportage Santuario di Lourdes –
Flaminia Leggeri Fotoreportage Santuario di Lourdes – Gli attimi in cui i genitori concedono la ”Tana Libera Tutti”
Flaminia Leggeri Fotoreportage Santuario di Lourdes – Gli attimi in cui i genitori concedono la ”Tana Libera Tutti”
Flaminia Leggeri Fotoreportage Santuario di Lourdes – Gli attimi in cui i genitori concedono la ”Tana Libera Tutti”
Il set fotografico scelto da Flaminia è statala spianata accanto al santuario della Madonna di Lourdes, con l’imponente ruota della basilica superiore che sale sopra la grotta. Il santuario della Madonna di Lourdes è un santuario e un luogo di pellegrinaggio “cattolici mariani” nella città di Lourdes Francia. Il Santuario comprende diversi edifici religiosi e monumenti intorno alla Grotta di Massabielle dove si sono verificate le apparizioni della Vergine Maria tra cui 3 basiliche : la Basilica della Madonna dell’Immacolata concezione,della Basilica del Rosario e della Basilica di San Pius X, note, rispettivamente, come basilica inferiore superiore e sotterranea.
Flaminia Leggeri Fotoreportage Santuario di Lourdes -I bambini
Flaminia Leggeri Fotoreportage Santuario di Lourdes -I bambini
Flaminia Leggeri Fotoreportage Santuario di Lourdes -I bambini
Flaminia Leggeri Fotoreportage Santuario di Lourdes –
Flaminia Leggeri Fotoreportage Santuario di Lourdes –
Flaminia Leggeri Fotoreportage Santuario di Lourdes –
A beneficio dell’obiettivo e fotocamera di Flaminia non potevano mancare persone con abbigliamenti diversi in una giornata di pioggia. Poi, sul fiume Gave,l’angolo dove “le paperelle” (Germano reale) che vivono in tranquillità e soddisfano la curiosità dei milioni di pellegrini che le osservano e danno loro da mangiare. Da notare la foto che ritrae la signora la tra i cespugli, nei pressi della Grotta, raccoglie erbe e “cattura” l’Escargot, il nome francese delle lumache.
Santuario di Nostra Signora di Lourdes
Flaminia Leggeri Fotoreportage Santuario di Lourdes
Flaminia Leggeri Fotoreportage Santuario di Lourdes -la signora la tra i cespugli, nei pressi della Grotta, raccoglie erbe e “cattura” l’Escargot
Flaminia Leggeri Fotoreportage Santuario di Lourdes
Flaminia Leggeri Fotoreportage Santuario di Lourdes – Gli attimi in cui i genitori concedono la ”Tana Libera Tutti”
Flaminia Leggeri Fotoreportage Santuario di Lourdes – Gli attimi in cui i genitori concedono la ”Tana Libera Tutti”
Flaminia Leggeri Fotoreportage Santuario di Lourdes – Gli attimi in cui i genitori concedono la ”Tana Libera Tutti”
Flaminia Leggeri Fotoreportage Santuario di Lourdes fiume Gave,l’angolo dove “le paperelle” (Germano reale)
Flaminia Leggeri Fotoreportage Santuario di Lourdes fiume Gave,l’angolo dove “le paperelle” (Germano reale)
Flaminia Leggeri Fotoreportage Santuario di Lourdes fiume Gave,l’angolo dove “le paperelle” (Germano reale)
Flaminia Leggeri Fotoreportage Santuario di Lourdes – Gli attimi in cui i genitori concedono la ”Tana Libera Tutti”
Flaminia Leggeri Fotoreportage Santuario di Lourdes – Gli attimi in cui i genitori concedono la ”Tana Libera Tutti”
Flaminia Leggeri Fotoreportage Santuario di Lourdes – Gli attimi in cui i genitori concedono la ”Tana Libera Tutti”
Flaminia Leggeri Fotoreportage Santuario di Lourdes – Gli attimi in cui i genitori concedono la ”Tana Libera Tutti”
Flaminia Leggeri Fotoreportage Santuario di Lourdes – Gli attimi in cui i genitori concedono la ”Tana Libera Tutti”
Flaminia Leggeri Fotoreportage Santuario di Lourdes – Gli attimi in cui i genitori concedono la ”Tana Libera Tutti”
Flaminia Leggeri Fotoreportage Santuario di Lourdes – Gli attimi in cui i genitori concedono la ”Tana Libera Tutti”
Flaminia Leggeri Fotoreportage Santuario di Lourdes – Gli attimi in cui i genitori concedono la ”Tana Libera Tutti”
Flaminia Leggeri Fotoreportage Santuario di Lourdes fiume Gave,l’angolo dove “le paperelle” (Germano reale)
Flaminia Leggeri Fotoreportage Santuario di Lourdes –Il ponte sul fiume Gave
Flaminia Leggeri Fotoreportage Santuario di Lourdes fiume Gave,l’angolo dove “le paperelle” (Germano reale)
Flaminia Leggeri Fotoreportage Santuario di Lourdes fiume Gave,l’angolo dove “le paperelle” (Germano reale)
Flaminia Leggeri Fotoreportage Santuario di Lourdes fiume Gave,l’angolo dove “le paperelle” (Germano reale)
Flaminia Leggeri Fotoreportage Santuario di Lourdes fiume Gave,l’angolo dove “le paperelle” (Germano reale)
Flaminia Leggeri Fotoreportage Santuario di Lourdes fiume Gave,l’angolo dove “le paperelle” (Germano reale)
Flaminia Leggeri Fotoreportage Santuario di Lourdes fiume Gave,l’angolo dove “le paperelle” (Germano reale)
Flaminia Leggeri Fotoreportage Santuario di Lourdes fiume Gave,l’angolo dove “le paperelle” (Germano reale)
Flaminia Leggeri Fotoreportage Santuario di Lourdes fiume Gave,l’angolo dove “le paperelle” (Germano reale)
Flaminia Leggeri Fotoreportage Santuario di Lourdes fiume Gave,l’angolo dove “le paperelle” (Germano reale)
Flaminia Leggeri Fotoreportage Santuario di Lourdes fiume Gave,l’angolo dove “le paperelle” (Germano reale)
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Flaminia Leggeri Fotoreportage Santuario di Lourdes fiume Gave,l’angolo dove “le paperelle” (Germano reale)
Flaminia Leggeri Fotoreportage Santuario di Lourdes fiume Gave,l’angolo dove “le paperelle” (Germano reale)
Flaminia Leggeri Fotoreportage-“Lourdes in attimo infinito”
La giovanissima fotografa Flaminia Leggeri, ha realizzato un Fotoreportage ”il Santuario di Lourdes” in un set difficilissimo e super fotografato :”il Santuario di Lourdes” . Cosa si poteva scoprire di non ancora fotografato ? Flaminia ha cercato nel Santuario di Lourdes i particolari , ha portando la fotocamera nel silenzio dei luoghi “ovvi” ,ma nella “controra”, e ha puntato l’obiettivo e fotografato e cercato di interpretare , quasi dialogare , con i 39 Ritratti e i 52 “gemmaux” cosi belli e fortemente sottovalutati nella immensa e sotterranea Basilica San Pio X. –
Flaminia Leggeri Fotoreportage-“ basilica di S. Pio X a Lourdes”
I “gemmaux” e i ritratti sono stati ,per la giovane Flaminia ,un laboratorio di interpretazione, analisi e dialogo con i colori che attraggono fortemente. Le figure dei “gemmaux” meritano attenzione emanano spiritualità. Credo che Flaminia Leggeri abbia cercato “la carne” dello spirito nei colori e nelle figure cosi mimetizzate , sfuggevoli, ma presenti, silenziose, ma “parole” concrete per il pellegrino .Credo che la giovane fotografa abbia saputo , con capacità istintiva, raccontare e rappresentare questa bellezza che si può ammirare nella Basilica progettata dall’’architetto Pierre Vago e l’ingegnere Eugène Freyssinet, inventore del cemento precompresso
Flaminia Leggeri Fotoreportage-“ basilica di S. Pio X a Lourdes”
Notizie sulla Basilica sotterranea di San PioX. di Lourdes
Consacrata nel 1958, la basilica sotterranea di San Pio Le sue dimensioni molto grandi (una forma ovale di 201 m di lunghezza per 81 di larghezza) permettono di ospitare fino a 25.000 persone su una superficie di 12.000 m². Questo, preservando i corridoi di traffico.
Ha la forma dello scafo di una nave rovesciata, il fatto che sia sotterraneo non pregiudica il paesaggio del santuario. L’architetto Pierre Vago e l’ingegnere Eugène Freyssinet, inventore del cemento precompresso, hanno infatti utilizzato il cemento integrando cavi metallici tesi nelle zone di trazione per sostenere i carichi ed evitare pilastri che avrebbero compromesso la visibilità. Il progetto è stato completato in tempi record.
Dal punto di vista ornamentale, la basilica conta 39 dipinti raffiguranti santi e una cinquantina di gemmaux. Lourdes ha una collezione di gemme molto importante. Gemmail è stato inventato dal pittore Jean Crotti negli anni ’30 in collaborazione con Roger Malherbe-Navarre. Nel 1939, Jean Crotti creò la parola gemmail unendo i termini gemma e smalto. René Margotton ne ha realizzato uno sul tema delle apparizioni nella basilica di Saint-Pie-X di Lourdes, dove sono stati eseguiti 20 brani tra il 1989 e il 1993.
Flaminia Leggeri Fotoreportage-“ basilica di S. Pio X a Lourdes”Flaminia Leggeri Fotoreportage-“ basilica di S. Pio X a Lourdes”
La basilica di S. Pio X a Lourdes. Struttura e architettura
La Basilica sotterranea San Pio X ha una superficie di circa 12000 m² . La sua pianta forma un ovale di 201 metri per 81 metri. Questa basilica, che ha una capienza massima di 25000 persone, è stata consacrata il 25 marzo 1958 per il centenario delle Apparizioni dal futuro Papa Giovanni XXIII. E’ ornata da 39 ritratti che rappresentano diversi santi e beati, nonché da 52 gemmaux (quadri in cristalli speciali e illuminati).La basilica di San Pio X (in francese: basilique Saint-Pie X), anche conosciuta anche con il nome di basilica sotterranea, è una chiesa di Lourdes, in Francia situata all’interno del santuario di Nostra Signora di Lourdes. Consacrata nel 1958, appartiene alla diocesi di Tarbes e Lourdes; ha la dignità di basilica minore.
Flaminia Leggeri Fotoreportage-“ basilica di S. Pio X a Lourdes”
Flaminia Leggeri Fotoreportage-“ basilica di S. Pio X a Lourdes”
Flaminia Leggeri Fotoreportage-“ basilica di S. Pio X a Lourdes”
Flaminia Leggeri Fotoreportage-“ basilica di S. Pio X a Lourdes”
Flaminia Leggeri Fotoreportage-“ basilica di S. Pio X a Lourdes”
Flaminia Leggeri Fotoreportage-“ basilica di S. Pio X a Lourdes”
Flaminia Leggeri Fotoreportage-“ basilica di S. Pio X a Lourdes”
Flaminia Leggeri Fotoreportage-“ basilica di S. Pio X a Lourdes”
Flaminia Leggeri Fotoreportage-“ basilica di S. Pio X a Lourdes”
Flaminia Leggeri Fotoreportage-“ basilica di S. Pio X a Lourdes”
Flaminia Leggeri Fotoreportage-“ basilica di S. Pio X a Lourdes”
Flaminia Leggeri Fotoreportage-“ basilica di S. Pio X a Lourdes”L’Altare Centrale
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Flaminia Leggeri Fotoreportage-“ basilica di S. Pio X a Lourdes”L’Altare Centrale
Flaminia Leggeri Fotoreportage-“ basilica di S. Pio X a Lourdes”L’Altare Centrale
Flaminia Leggeri Fotoreportage-“ basilica di S. Pio X a Lourdes”L’Altare Centrale
Flaminia Leggeri Fotoreportage-“ basilica di S. Pio X a Lourdes”L’Altare Centrale-Fiori
Flaminia Leggeri Fotoreportage-“ basilica di S. Pio X a Lourdes”L’Altare Centrale
Flaminia Leggeri Fotoreportage-“ basilica di S. Pio X a Lourdes”L’Altare Centrale-Fiori
Flaminia Leggeri Fotoreportage-“ basilica di S. Pio X a Lourdes”L’Altare Centrale
Flaminia Leggeri Fotoreportage-“ basilica di S. Pio X a Lourdes”L’Altare Centrale
Flaminia Leggeri Fotoreportage-“ basilica di S. Pio X a Lourdes”L’Altare Centrale
Flaminia Leggeri Fotoreportage-“ basilica di S. Pio X a Lourdes”L’Altare Centrale
Flaminia Leggeri Fotoreportage-“ basilica di S. Pio X a Lourdes”
Flaminia Leggeri Fotoreportage-“ basilica di S. Pio X a Lourdes”L’Altare Centrale particolari
Flaminia Leggeri Fotoreportage-“ basilica di S. Pio X a Lourdes”L’Altare Centrale-Lampada
Flaminia Leggeri Fotoreportage-“ basilica di S. Pio X a Lourdes”
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Flaminia Leggeri Fotoreportage-“ basilica di S. Pio X a Lourdes”
Flaminia Leggeri Fotoreportage-“ basilica di S. Pio X a Lourdes”
Flaminia Leggeri Fotoreportage-“ basilica di S. Pio X a Lourdes”
Flaminia Leggeri Fotoreportage-“ basilica di S. Pio X a Lourdes”
Roma-l’Elegance Cafè jazz club propone Suddenly it’s Christmas Time -Silvia Manco Xmas Special Trio-
Roma-Per scaldare la sera della vigilia del Natale, l’Elegance Cafè jazz club propone l’irresistibile e suggestivo repertorio internazionale legato al Natale, declinato in chiave jazz dal trio in edizione “Xmas Special” guidato della pianista e vocalist Silvia Manco.
Silvia Manco Xmas Special Trio
La scelta dei brani è il risultato di un’accurata e ampia ricerca all’interno di diverse tradizioni musicali.
Non solo quella degli standard song americani ma anche quella più esotica del nord-est del Brasile, quella britannica dei Christmas Carols, quella Irish di origine folk e quella soulful del soul jazz afro-americano.
Sul palco la sera del 24 dicembre a Roma, la rilettura in chiave jazz conferirà unità di intento e coerenza sonora all’intero progetto restituendo un’atmosfera evocativa ma anche pervasa di ritmo ed energia.
Il disco uscito nel 2011 “Suddenly it’s Christmas time“, è disponibile su tutte le piattaforme digitali, da non perdere l’occasione per ascoltarlo dal vivo
Silvia Manco, piano e voce Francesco Puglisi contrabassso batteria e Valerio Vantaggio alla batteria.
SILVIA MANCO
La calda voce di Silvia Manco , pianista e cantante accompagnerà la cena della vigilia di Natale.
Il disco dedicato al Natale “Suddenly it’s Christmas time “è su tutte le piattaforme digitali , e poterlo ascolatare dal vivo la sera della Vigilia a Roma, sarà un’esperienza indimenticabile.
BIO
Pianista e cantante, oltre che compositrice e arrangiatrice, la passione e lo studio del pianoforte è stata di primaria importanza sin da quando era piccola
Le sue primissime esibizioni pubbliche sono avvenute in realtà accanto al padre che le fornirà davvero un repertorio straordinario e una scorta sempre così ricca di standard jazz, bossa nova e evergreen internazionali.
Spinta dal suo fascino per il jazz, a soli 19 anni si trasferisce a Roma, non solo luogo dove approfondirà dapprima lo studio del pianoforte jazz, dell’armonia e dell’arrangiamento.
Ma anche luogo dove incontra e conosce alcuni grandi artisti che non esiteranno ad incoraggiarla a dar vita ad un trio che porta il suo stesso nome, affiancando al ruolo di capogruppo quello di pianista in un gran numero di gruppi jazz della capitale.
Si è esibita in molte sedi internazionali in festival e jazz club in Europa, USA, Russia, Sud Africa, Montecarlo, Dubai.
Il trio, la cui figura rappresenta la ricerca di un suono ben radicato nella pura tradizione jazzistica, con uno sguardo penetrante a band capitanate da pianisti e vocalist come Nat King Cole, Shirley Horn e Blossom Dearie, si distingue per il repertorio di la canzone standard dal respiro ampio e melodioso
In tutti gli arrangiamenti, montati e confezionati dalla stessa pianista di questa band, è proprio il canto a tessere la trama su cui si svolge il dialogo tra le voci, il pianoforte e gli altri strumenti della sezione ritmica.
Le composizioni originali, i cui testi sono scritti in inglese, francese e italiano da Silvia Manco, virano armoniosamente verso lo stile moderno e sono intrise di musica contemporanea e influenza dell’autore, insieme all’abituale visita del jazz strumentale europeo e americano.
La costanza nelle fasi di scrittura, composizione ed elaborazione, allineate all’attività concertistica, contribuiscono alla pubblicazione del suo primo album, nel 2007, intitolato “Big City is for me”.
Seguito dal secondo album “Afternoon Songs” nel 2010 prodotto da Roberto Gatto, famoso batterista jazz italiano, nel 2011 “Suddenly it’s Christmas time”, nel 2012 “Casa Azul”.
L’ultimo cd uscito a febbraio 2019 si intitola “Hip! The Blossom Dearie Songbook”: in questo lavoro Silvia Manco con il suo trio americano basato a NY (Dezron Douglas al contrabbasso e Jerome Jennings alla batteria), e con il contributo di due straordinari special guest (Enrico Rava e Max Ionata), raccoglie l’eredità di Blossom Dearie, il più continentale dei pianisti/cantanti americani.
Silvia abbraccia questo repertorio senza tempo con un tocco di contemporaneità dimostrando un’attitudine da vera band leader.”
Informazioni, orari e prezzi
Siamo in Via Francesco Carletti, 5
ZONA OSTIENSE/PIRAMIDE
Ingresso € 40 con consumazione compresa nel prezzo.
PER L’ACQUISTO DRINK DELLA VIGILIA 24 DIC. ACQUISTANDO L’INGRESSO DAL BOTTON DI ACQUISTO DAL NOSTRO WEB.
Ingresso con prenotazione al tavolo per la cena, con 2 portate alla carta il concerto è incluso.
PER PRENOTARE LA CENA E CONCERTO (2 portate a scelta dal menu alla carta tra antipasti primi e secondo) E’ POSSIBILE FARLO VERSANDO UNA caparra di € 30 A PERSONA tramite il pulsante dal nostro sito web.
DESCRIZIONE-Il mondo interiore di Marcel Proust – la sua sensibilità, le sue passioni e le sue idiosincrasie – è ben noto; meno note sono invece le tematiche che fanno della Recherche anche un’opera di sociologia, di geografia e di storia. Spesso descritto a torto come il nostalgico cantore di un mondo ormai tramontato, nelle pagine di questo libro, a firma di uno dei massimi studiosi dello scrittore francese, Proust si rivela un uomo immerso nella sua epoca. Osservatore attento dell’attualità, interviene senza esitazione nei principali dibattiti – il genocidio armeno, l’affaire Dreyfus, la separazione tra Stato e Chiesa – e dimostra grande interesse per i progressi tecnici. D’altro canto, la vita di Proust ha coinciso con il periodo d’oro della Terza Repubblica – la cosiddetta Belle Époque – e con le scaturigini del mondo contemporaneo, consentendogli di assistere al passaggio da una società di corte a una dominata dalle élite, mentre sullo sfondo rimaneva perlopiù immutato un popolo, quello francese, carico di una storia millenaria. Proprio come sulla facciata gotica della chiesa immaginaria di Saint-André-des-Champs sono raffigurate tutte le classi sociali del Medioevo, nella Recherche ci viene offerto uno spaccato della società francese a cavallo tra Otto e Novecento, osservata con le lenti del sociologo e trasfigurata con gli occhi del poeta.
Jean-Yves Tadié
L’Autore Jean-Yves Tadié-Professore emerito di Letteratura francese alla Sorbona, ha diretto la nuova edizione critica della Recherche per la “Bibliothèque de la Pléiade” (Gallimard, 1987-89). A Proust ha dedicato un’importante biografia (Gallimard, 1996; trad. it. Mondadori, 2° ed. 2022) e numerosi saggi.
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