Romania-Lo scultore rumeno Darius Hulea mescola le opere in metallo della vecchia scuola con metodi contemporanei per creare i suoi incredibili “schizzi” di metallo con fili di ferro, acciaio inossidabile, ottone e rame.
Biografia di Darius Hulea is a Romanian Postwar & Contemporary artist who was born in 1987. Darius Hulea’s work has been offered at auction multiple times, with realized prices ranging from 5,469 USD to 19,324 USD, depending on the size and medium of the artwork. Since 2020 the record price for this artist at auction is 19,324 USD for Venus In The Mirror, sold at Artmark in 2021. Darius Hulea has been featured in articles for Daily Art Magazine, Hi-Fructose and My Modern Met. The most recent article is A Contemporary Sculpture Exhibition in the Mountains: Cantacuzino Palace in Romania written for Daily Art Magazine in September 2021.
Roma-Il restauro delle sculture del Vittoriano il Monumento a Vittorio Emanuele II
Roma-agosto 2024 – Nell’ambito del grande progetto di restauro delle sculture del Vittoriano promosso dal VIVE, diretto da Edith Gabrielli, vengono restituiti a cittadini e turisti il pennone di sinistra ideato da Gaetano Vannicola e la Vittoria alata di Edoardo Rubino. Torna così nuovamente a splendere, in tutta la sua magnificenza, la finitura dorata degli elementi in bronzo, prevista nel progetto di Giuseppe Sacconi, l’architetto del monumento.
Diretto da Edith Gabrielli ed eseguito da Susanna Sarmati, il progetto di restauro –realizzato grazie al contributo di Bvlgari – è volto a garantire la conservazione e a restituire la piena leggibilità delle sculture sul prospetto principale del celebre monumento dedicato a Vittorio Emanuele II, primo re d’Italia, realizzate agli inizi del Novecento da alcuni dei più importanti artisti del panorama nazionale.
Il disallestimento del ponteggio del pennone di sinistra impegnerà l’intera settimana e si concluderà con lo svelamento della Vittoria alata dello scultore torinese Edoardo Rubino: la bandiera italiana potrà così tornare a sventolare sul monumento.
Il pennone presenta una base a campana ornata da festoni e alla sommità un’aquila romana, l’una e l’altra in bronzo dorato; anche la Vittoria alata che si libra sulla prua di una nave romana, poco al di sotto, è ugualmente in bronzo dorato, in calibrato accordo con il bianco del Botticino, caratteristico del Vittoriano.
“Nel progetto dell’architetto Giuseppe Sacconi il Vittoriano s’imponeva allo sguardo per l’equilibrio cromatico fra il candore del Botticino e la finitura dorata delle sculture e degli ornamenti in bronzo. Parlano chiaro in tal senso la documentazione esistente, compreso un disegno del febbraio 1888, e le analisi condotte direttamente sulle opere. Tuttavia, il degrado causato dagli anni, dall’inquinamento e dagli agenti atmosferici aveva ormai occultato alla vista questa finitura. Nel pieno rispetto dei principi metodologici del restauro italiano, abbiamo deciso di reintegrare l’immagine a suo tempo concepita da Sacconi, restituendo piena leggibilità alla doratura originale. Oggi tutti possono vedere i primi risultati di questo lavoro nel pennone di sinistra. Fra qualche settimana, entro ottobre, concluderemo il restauro del secondo pennone e dei due gruppi monumentali de Il Pensiero e de L’Azione, rispettivamente di Giulio Monteverde e di Francesco Jerace. Invito tutti ad approfittare in questo periodo delle visite guidate gratuite che, nello spirito del “cantiere aperto”, consentono di salire sui ponteggi e di osservare i restauratori al lavoro. In questi mesi lo hanno fatto in parecchi, inclusa Carla, una gentile e dinamica signora di 78 anni”, afferma Edith Gabrielli, Direttrice del VIVE-Vittoriano e Palazzo Venezia.
Il restauro ha evidenziato che le finiture in oro risultavano coperte a causa del processo di ossidazione del bronzo, in particolare su angoli e sottosquadri, e di ridipinture in tinta giallo limone che erano state applicate nel corso del tempo. È stato così possibile far riaffiorare la finitura dorata occultata dai depositi di ossidazione e dai precedenti interventi.
Ad effettuare il lavoro una équipe di esperti restauratori, fra le eccellenze italiane del settore che, grazie alla modalità del cantiere “aperto” – realizzato con un sistema di ponteggi trasparenti – può essere ammirata da cittadini e turisti durante tutte le fasi di lavoro.
Proseguono i lavori di restauro sulla fontana Mare Adriatico di Emilio Quadrelli, sulle sculture in bronzo dorato raffiguranti Il Pensiero di Giulio Monteverde e L’Azione di Francesco Jerace. Dalla prossima settimana sarà allestito il ponteggio sul pennone di destra con la Vittoria alata di Edoardo De Albertis. Il termine dell’intero intervento è previsto per la fine di ottobre.
Per scoprirne da vicino le tecniche e conoscere i problemi di conservazione delle sculture e le soluzioni adottate, il VIVE – Vittoriano e Palazzo Venezia ha promosso fin dall’avvio dei lavori una serie di visite guidate in cui è possibile salire sui ponteggi e verificare il procedere dell’intervento. Un’iniziativa che ha riscosso un grande successo da parte del pubblico e che prevede un prossimo appuntamento il 12 settembre 2024 alle ore 10.00, in linea con il continuo e proficuo dialogo che l’Istituto persegue da sempre con la propria comunità.
Le visite al cantiere di restauro sono gratuite e riservate ad un massimo di 15 persone a turno previa prenotazione inviando richiesta a: vi-ve.edu@cultura.gov.it
Roma-Ostia-THEORIS – Mostra d’arte alla Galleria Ess&rrE
Ormai gli appuntamenti alla Galleria Ess&rrE si susseguono con una frequenza incondizionata e la mostra Theoris non fa eccezioni. Il nuovo appuntamento per fine estate propone 3 artisti provenienti dalla Sicilia che hanno avuto modo di proporre le loro iniziative artistiche in diverse parti d’Europa e le qualità indiscusse delle loro opere hanno suscitato l’interesse della Galleria di Ostia in un luogo, quello del Porto turistico di Roma, dove ha appunto la sede la Galleria Ess&rrE che ormai è un punto fermo del litorale laziale per esporre opere anche di grandi dimensioni di questi autori con una spiccata attitudine pittorica e scultorea. Infatti, di questi artisti, saranno proposte anche numerose sculture di Carmen Restifo e di Antonello Arena, che tra le altre, esporrà anche diverse “opere popular” e Alessandra Lanese che fa delle grandi dimensioni il punto forte della sua arte. Nell’evento sarà ospite anche un artista del litorale romano, Fabrizio Montreaux, per la prima volta selezionato nello spazio espositivo della Blu Star International. Ormai gli appuntamenti alla Galleria Ess&rrE si susseguono con una frequenza incondizionata e la mostra Theoris non fa eccezioni. Il nuovo appuntamento per fine estate propone 3 artisti provenienti dalla Sicilia che hanno avuto modo di proporre le loro iniziative artistiche in diverse parti d’Europa e le qualità indiscusse delle loro opere hanno suscitato l’interesse della Galleria di Ostia in un luogo, quello del Porto turistico di Roma, dove ha appunto la sede la Galleria Ess&rrE che ormai è un punto fermo del litorale laziale per esporre opere anche di grandi dimensioni di questi autori con una spiccata attitudine pittorica e scultorea. Infatti, di questi artisti, saranno proposte anche numerose sculture di Carmen Restifo e di Antonello Arena, che tra le altre, esporrà anche diverse “opere popular” e Alessandra Lanese che fa delle grandi dimensioni il punto forte della sua arte. Nell’evento sarà ospite anche un artista del litorale romano, Fabrizio Montreaux, per la prima volta selezionato nello spazio espositivo della Blu Star International.
La mostra si inaugura il 7 settembre alle ore 18:00 con la solita allegria e il dovuto entusiasmo con intrattenimento musicale di DJ Set Pretty Cixo e le riprese di ZTL TV di Antonello Nazarini che dedicherà interviste e riprese agli artisti e allo staff della Galleria Ess&rrE. Il percorso della mostra, curata da Alessandra Antonelli direttrice artistica, avrà, tra l’altro, la presenza del Prof. Francesco Buttarelli, membro della Regione Lazio della sezione Cultura che ci accompagnerà con il suo pensiero sull’arte e sulla mostra per la collaborazione ormai consolidata tra la Galleria e le istituzioni.
Il Porto turistico di Roma, tra l’altro ricco di storia, data la vicinanza agli scavi di Ostia Antica, il meraviglioso sito archeologico secondo per estensione solo a Pompei e al sito monumentale di Tor San Michele, tipica costruzione fortificata edificata nel 1500 sul progetto di Michelangelo Buonarroti, che nel più bello e suggestivo dei tramonti romani in riva al mare a ridosso delle più affascinanti imbarcazioni del Porto turistico di Roma, fanno da contorno a questa bellissima ulteriore iniziativa della galleria d’arte.
Insomma l’arte a Ostia grazie alle iniziative della Galleria Ess&rrE è ormai un punto fermo per chi, con la dovuta attenzione al settore, si affaccia agli eventi sempre più qualificati per selezionare ciò che potrebbe far parte della collezione privata degli interessati, dei curiosi o anche solo per respirare arte in una location dal forte impatto emozionale.
La mostra è curata da Alessandra Antonelli e Roberto Sparaci.
Inaugurazione sabato 7 settembre 2024 ore 18.00
Ingresso libero: Orari di apertura: 10.00-13.00 – 15.00-19.00
Sabato dalle 16.00 alle 20.00 – Domenica su appuntamento
Françoise Hardy è morta l’11 giugno, a 80 anni. Soffriva dal 2004 di una lunga e dolorosa malattia. Thomas Dutronc, suo figlio, ha confermato il decesso con un post instagram verso le ore 23 di ieri sera: “Mamma è partita”.
Françoise Hardy era ammalata da tanto tempo, e la sua situazione si era recentemente aggravata. La cantante resta nella memoria collettiva come una delle icone degli anni ’60. I suoi successi e il suo gusto per la moda ne avevano fatto un idolo dei giovani. L’interprete della canzone “Comment te dire adieu”, viveva da tanti anni lontano dalle telecamere e dalla vita pubblica. Numerose volte, si era espressa per il diritto a morire con dignità, e desiderava che le sue sofferenze finissero.
L’infanzia di Françoise Hardy resterà sempre un periodo doloroso per la cantante, cresciuta in un ambiente modesto, in un piccolo appartamento nella nona circoscrizione di Parigi con sua madre e sua sorella. Figlia illegittima di un uomo già sposato, soffre di un’assenza paterna, e dello sguardo dei suoi compagni di classe della scuola cattolica. Ma i momenti che teme di più sono i weekend, a casa di una nonna descritta come terribile, particolarmente con la ragazza, travolta di critiche, che per tanti anni saranno i suoi complessi, soprattutto sul suo fisico.
Solitaria, Françoise si rifugia nella musica grazie alla radio e la collezione di dischi di sua madre, prima di farsi regalare una chitarra per aver passato l’esame di maturità. Essendo alla ricerca di giovani talentuosi da lanciare nell’avventura dello yeye, la casa discografica Vogue l’assume nel 1961. Lontana dalla furia di un Johnny Hallyday, Françoise Hardy canta, dolce e melanconica, le paure dell’adolescenza.
Françoise Hardy esordisce in televisione nel 1962 con la celebre Tous les garçons et les filles, che interpreta il 21 settembre nel programma Le Petit Conservatoire de la chanson e che viene ritrasmessa domenica 28 ottobre alla radio in uno degli intermezzi musicali nel corso di una diretta elettorale di grandissimo ascolto.
La sua carriera è lanciata in pochi minuti. Già dall’indomani mattina, la sua canzone “Tous les garçons et les filles” avrà un successo enorme. Paris Match la mette in copertina e la pone come “idolo di una generazione”. Fa concerti attraverso la Francia, passa dall’Olympia, viaggia in tutta Europa, e comincia pure a fare cinema. Diventa un’icona di moda, popolare nel mezzo dei grandi “couturiers” come Courrèges o Saint Laurent, e la sua bellezza rappresenterà l’innocenza degli anni 1960. Le sue canzoni diventano sempre più famose, come “L’amour s’en va”, poi “Mon amie la rose”, in 1964, oppure “Comment te dire adieu”, prodotta da Serge Gainsbourg nel 1968.
Negli anni 2000 le viene diagnosticato un linfoma, i cui sintomi si aggraveranno lungo gli anni. Ritornando all’astrologia, (una grande passione a partire dagli anni ’60), ma anche alla scrittura, combatte ferocemente contro la malattia per circa 20 anni, ma lotta anche per il diritto all’eutanasia. “Non ho paura di morire, dice a Match nel 2021, ma ho molta paura di soffrire, anche se sta già succedendo, ma anche paura della sofferenza di dovermi separare degli esseri che amo più al mondo: mio figlio Thomas e suo padre”.
Traduzione di Héloïse Badiane Dorléans, giovane studentessa del Liceo Francese di Torino, in redazione per due settimane di stage di osservazione in ambito professionale
Fonte-Riforma.it- Il quotidiano on-line delle chiese evangeliche battiste, metodiste e valdesi in Italia.
La Mädchenorchester von Auschwitz fu formata per la prima volta nell’aprile del 1943, come progetto della SS Maria Mandel, per i tedeschi che desideravano uno strumento di propaganda per i cinegiornali e come strumento per il morale del campo.
Fu diretta da un’insegnante di musica polacca, Zofia Czajkowska, e non ebbe molti elementi fino al maggio del 1943, quando furono ammesse le donne ebree.
Le musiciste avevano provenienze diverse, come del resto gli internati nel campo.
A partire dal giugno del 1943 il ruolo principale dell’orchestra fu quello di suonare al cancello quando le squadre di lavoro uscivano o rientravano.
L’orchestra teneva concerti nel fine settimana sia per i prigionieri sia per le SS; era anche incaricata di suonare in infermeria, per i prigionieri ricoverati, oppure in occasione dei nuovi arrivi o delle selezioni.
All’inizio era formata principalmente di musiciste dilettanti, con una sezione di archi, di fisarmoniche e un mandolino. Gli strumenti e gli spartiti erano stati recuperati dall’orchestra maschile del campo principale di Auschwitz.
Il repertorio dell’orchestra era abbastanza limitato, e questo a causa dei pochi spartiti disponibili, della limitata preparazione della direttrice d’orchestra e delle richieste delle SS. Eseguiva per lo più marce tedesche e musica di canzoni popolari militari polacche che la Czajkowska conosceva a memoria. Anche due musicisti professionisti ne fecero parte: la violoncellista Anita Lasker-Wallfisch e la cantante/pianista Fania Fénelon, ed entrambe scrissero di quella loro esperienza nell’orchestra.
La Czajkowska fu sostituita nella veste di direttore d’orchestra nell’agosto del 1943 da Alma Rosé, nipote di Gustav Mahler, che era stata la direttrice di un’orchestra di donne nella sua città natale, Vienna. La Rosé era molto più esperta della maggior parte delle adolescenti dell’orchestra, ma continuò a fare affidamento sulla Czajkowska per la traduzione dal polacco. La Rosé diresse, orchestrò e talvolta suonò assoli di violino durante i suoi concerti. Oltre all’attività ufficiale, faceva provare l’orchestra e suonava musica proibita di compositori polacchi ed ebrei per aumentare lo spirito dei membri dell’orchestra e dei compagni che si fidavano di lei.
La Rosé morì improvvisamente all’età di 37 anni, nell’aprile del 1944. Secondo alcune fonti la donna morì per avvelenamento da cibo.
Da allora in poi l’orchestra fu condotta da Sonia Vinogradova, una prigioniera russa.
Il 1º novembre 1944 i membri ebrei dell’orchestra femminile furono evacuati da un camion per il bestiame a Bergen-Belsen, dove non c’era né orchestra né privilegi speciali. Il 18 gennaio 1945 le ragazze non ebree nell’orchestra, tra cui diverse polacche, furono evacuate nel campo di concentramento di Ravensbrück. Quello stesso mese Auschwitz fu dismesso e l’orchestra fu mandata a Bergen-Belsen, luogo nel quale alcune di loro persero la vita.
Fabio Casalini
La fotografia è tratta dal film “Ballata per un condannato” del 1980, diretto da Daniel Mann, con Vanessa Redgrave e Jane Alexander.
Antiqua Vox
Fondazione Antiqua Vox promuove la musica barocca e l’organo a canne tra gli appassionati e le nuove
ROMA-Street art e murales alla Magliana . Fotoreportage di Franco Leggeri
Fotoreportage di Franco Leggeri-Anche a Roma, come nelle più grandi capitali europee, abbiamo visto la nascita e l’espansione di questa forma d’arte, che fonda le sue radice tra le zone più popolari come Magliana, Trullo e Corviale. Il Trullo è un luogo della “mente”, scrive Inumi, “e tutta la periferia esistente può essere seme e frutto di poesia”.
Esempio importantissimo della Street Art è l’opera dell’artista romano Riccardo Martinelli, in arte Groove,situata in Via di Santa Passera vicino alla Chiesa di Santa Passeradove è possibile ammirare un lupo, un orso polare e alcuni gorilla, uno dei quali si sta scattando un selfie. Tutto ciò fa parte di un movimento volto a rigenerare dal punto di vista urbanistico, sociale e culturale i quartieri più periferici delle metropoli più importanti al mondo. Vogliamo chiudere con un bellissimo pezzo tratto dalla
poesia di Er Bestia:
ecco la Street Art, ar popolo appartiene /
Potenza nelle vene che spezza le catene /
Ner monno che se spegne è foco nella strada /
Che ‘n giorno apre l’occhi e se trova tatuata /
Non conosce serrature e orari de chiusura /
MURALES SANTA PASSERA Fotoreportage di Franco Leggeri
Frida Kalho -Viva la vida, il sogno e la rivoluzione-
Articolo di Sara Rotondi-Ass. La Città Futura
Una delle più grandi pittrici del Ventesimo secolo: la ‘pintora mexicana’ per eccellenza, intensa, meravigliosa e potente. Quelli della sua generazione potrebbero tracciare un diagramma della loro vita. A Palazzo Albergati di Bologna entra Frida Kahlo al secolo Magdalena Carmen Frida Kahlo y Calderón (Coyoacán, 6 luglio1907 – Coyoacán,13 luglio 1954). La mostra su Frida inaugurata lo scorso 19 novembre, sarà visibile fino al prossimo marzo 2017. Che dire, imperdibile.
Ritratti, autoritratti, la storia dell’artista a tutto tondo che si fonde in maniera inscindibile con la storia della donna. E accanto a lei, a fare da sfondo, gli uomini (e le donne) di Frida: su tutti, il pittore e ‘muralista’ Diego Rivera e la cantante Chavela Vargas che alla veneranda età di 83 anni calcola di aver bevuto più di 45 mila litri di tequila. I grandi amor fou.
Lungi dal ripercorrere la biografia, tracciamo una linea ‘umile’ sul suo grande spessore umano e intellettuale. Dai suoi ideali di amore (quelli veri lontani da beceri romanticismi) all’amore per la libertà.
Ciò che l’acqua mi ha dato. Intensa e piena di passione la sua carriera pittorica, in cui la sua opera non è circoscritta alla semplice narrazione di eventi, ma è anche ricerca interiore. Opere che si uniscono con la tradizione messicana e con il surrealismo. Andrè Breton, in occasione di una mostra a Parigi nel 1939 afferma che Frida è “una surrealista creatasi con le proprie mani e un raro punto di contatto tra l’ambito artistico e quello politico, che speriamo un giorno si possa fondere in un’unica coscienza rivoluzionaria” [1]. Un surrealismo che emerge nel quadro Ciò che l’acqua mi ha dato: immagini di paura, sessualità, memoria e dolore fluttuano nell’acqua di una vasca da bagno, dalla quale affiorano le gambe dell’artista.
Morte e ciclo dell’esistenza. Nella sua opera emerge il dolore, l’erotismo represso (segno di vitalità immune e repressione borghese), subconscio ma anche morte. Citiamo una delle sue opere più famose dove il concetto dell’inazione collegata alla morte è intenso e struggente. Il sogno (1940) Frida Kahlo dorme e lo scheletro è sveglio, vigile. Intorno ci sono delle nuvole, il sonno di Frida è tranquillo, mentre su di lei crescono delle piante che rappresentano la vita. Per l’artista la morte è una rinascita, forma di ringraziamento per la vita e una sorta di celebrazione del ciclo vitale dell’esistenza. La morte è quindi un processo, un cammino verso qualcosa d’altro.
Autoritratto con i capelli tagliati. Fervida femminista, in un dipinto del 1940 affiora il sui ideale di donna con una vera e propria esegesi della definizione culturale delle donne. Adottando trasgressivamente alcuni elementi dell’esteriorità maschile, denuncia apertamente come il potere sia una sorta di travestimento.
Avventura, passione, tequila, e revolución: spirito politico e comunismo. Non solo pittrice, ma anche grande attività per gli ideali libertari dell’epoca. Frida è una comunista convinta che si è battuta contro le ingiustizie e l’omogeneità del sistema: nel 1928 diventa un’attivista del Partito Comunista Messicano per sostenere la lotta di classe armata partecipando a numerose manifestazioni con adeguato physique du rôle.
L’amore come essenza della vita: Ti meriti un amore “Non so scrivere lettere d’amore” affermava Frida Kahlo. Ma in realtà poche donne hanno saputo giocare con le parole e le emozioni come ha fatto lei. Il tutto in un lirismo struggente. “Da quando mi sono innamorata di te, ogni cosa si è trasformata ed è talmente piena di bellezza… L’amore è come un profumo, come una corrente, come la pioggia. Sai, cielo mio, tu sei come la pioggia ed io, come la terra, ti ricevo e accolgo” scrive in una splendida missiva a Josè Bartoli nel 1946. L’amore, quello passionale, quello unico, quello che ti crea dipendenza anche quando si trasforma in sofferenza: “Ti meriti un amore che ti ascolti quando canti, che ti appoggi quando fai la ridicola, che rispetti il tuo essere libera, che ti accompagni nel tuo volo, che non abbia paura di cadere. Ti meriti un amore che ti spazzi via le bugie che ti porti il sogno, il caffè e la poesia”.
Tutto questo e Frida: amore e rivoluzione.
Opere:
Autoritratto con vestito di velluto – (1926) – collezione privata
Autoritratto – (1926)
Ritratto di Alicia Galant – (1927) – Museo Dolores Olmedo Patiño, Città del Messico
Ritratto di Miguel N. Lira – (1927) – Instituto Tlaxcalteca de Cultura, Tlaxcala
L’autobus – (1929) – Museo Dolores Olmedo Patiño, Città del Messico
Autoritratto – (1930)
Autorretratto con mono (autoritratto con scimmia) – (1930) – Albright-Knox Art Gallery, Buffalo (New York)
Frida e Diego – (1931) – San Francisco Museum of Modern Art, San Francisco
Ritratto di Eva Frederick – (1931) – Museo Dolores Olmedo Patiño, Città del Messico
Ritratto di Luther Burbank – (1931) – Museo Dolores Olmedo Patiño, Città del Messico
Ospedale Henry Ford (o Il letto volante) – (1932) – Museo Dolores Olmedo Patiño, Città del Messico
Autoritratto al confine tra Messico e Stati Uniti – (1932)
La mia nascita – (1932)
Il mio vestito è appeso là (o New York) – (1933)
Qualche piccola punzecchiatura – (1935) – Museo Dolores Olmedo Patiño, Città del Messico
I miei nonni, i miei genitori e io – (1936)
Autoritratto dedicato a Lev Trockij – (1934) – National Museum of Women in the Arts, Washington D.C.
Frida e l’aborto – (1936) – Museo Dolores Olmedo Patiño, Città del Messico
Il piccolo defunto Dimas Rosas all’età di tre anni – (1937) – Museo Dolores Olmedo Patiño, Città del Messico
La mia balia e io – (1937) – Museo Dolores Olmedo Patiño, Città del Messico
Ricordo – (1937)
Ciò che ho visto nell’acqua e ciò che l’acqua mi ha dato – (1938)
I frutti del cuore – (1938)
Il cane itzcuintli con me – (1938)
Quattro abitanti del Messico – (1938)
Due Nudi nella Giungla (La Terra Madre) – (1939) – Collezione Privata
Il suicidio di Dorothy Hale – (1939) – Phoenix Art Museum, Phoenix
Le due Frida – (1939) – Museo de Arte Moderno, Città del Messico
Autoritratto con collana di spine – (1940)
Autoritratto con i capelli tagliati – (1940) – Museum of Modern Art, New York
Autoritratto con scimmia – (1940)
Autoritratto per il Dr. Eloesser – (1940)
Il sogno (o Il letto) – (1940)
Cesto di fiori – (1941)
Io con i miei pappagalli – (1941)
Autoritratto con scimmia e pappagallo – (1942)
Autoritratto con scimmie – (1943)
La novella sposa che si spaventa all’aprirsi della vita – (1943)
Retablo – (1943 circa)
Ritratto come una Tehuana (o Diego nel mio pensiero) – (1943)
Pensando alla morte (1943) – Museo Dolores Olmedo Patiño, Città del Messico
Radici (1943) – Collezione privata
Diego e Frida 1929-1944 – (1944)
Fantasia – (1944) – Museo Dolores Olmedo Patiño, Città del Messico
Il fiore della vita – (1944) – Museo Dolores Olmedo Patiño, Città del Messico
La colonna spezzata – (1944) – Museo Dolores Olmedo Patiño, Città del Messico
Ritratto di Donna Rosita Morillo – (1944) – Museo Dolores Olmedo Patiño, Città del Messico
Il pulcino – (1945) – Museo Dolores Olmedo Patiño, Città del Messico
La maschera – (1945) – Museo Dolores Olmedo Patiño, Città del Messico
Mosè (o Il nucleo solare) – (1945)
Ritratto con scimmia – (1945) – Museo Dolores Olmedo Patiño, Città del Messico
Senza speranza – (1945) – Museo Dolores Olmedo Patiño, Città del Messico
Il piccolo cervo – (1946)
Autoritratto con i capelli sciolti – (1947)
Albero della speranza mantieniti saldo – (1946)
Il sole e la vita – (1947)
Autoritratto – (1948)
Diego e io – (1949) – Collezione privata
L’abbraccio amorevole dell’universo, la terra, Diego, io e il signor Xolotl – (1949)
Autoritratto con ritratto del Dr. Farill – (1951)
Ritratto di mio padre – (1951) – Museo de Frida Kahlo, Città del Messico
Perché voglio i piedi se ho le ali per volare – (1953) – Museo de Frida Kahlo, Città del Messico
Autoritratto con Diego nel mio Cuore – (1953-1954) – Collezione Privata
Autoritratto con Stalin (o Frida e Stalin) – (1954 circa) – Museo de Frida Kahlo, Città del Messico
Il cerchio – (1954 circa) – Museo Dolores Olmedo Patiño, Città del Messico
Il marxismo guarirà gli infermi – (1954 circa) – Museo de Frida Kahlo, Città del Messico
Viva la vita – (1954) – Museo de Frida Kahlo, Città del Messico.
Note:
[1] In Andrè Breton, Le Surréalisme et la Peinture, Éditions Gallimard, Parigi 1965; tr. it. di Ettore Capriolo, Il Surrealismo e la Pittura, Marchi Editore, Firenze 1966, “Frida Kahlo”, p. 143.
Fonte- Ass. La Città Futura | Via dei Lucani 11, Roma | Direttore Responsabile Adriana Bernardeschi-
Biografia di Frida Kahlo a cura di Irene Bertazzo-
Fonte-ENCICLOPEDIA DELLE DONNE-
Magdalena Carmen Frida Kahlo y Calderón nasce da genitori ebrei tedeschi emigrati dall’Ungheria a Città del Messico, il 6 luglio del 1907, anche se lei dichiarava di essere nata nel 1910, con la rivoluzione, con il nuovo Messico.
Del padre, Frida dice «grazie a mio padre ebbi un’infanzia meravigliosa, infatti, pur essendo molto malato (ogni mese e mezzo aveva un attacco epilettico, nda) fu per me un magnifico modello di tenerezza, bravura (come fotografo e pittore, nda) e soprattutto di comprensione per tutti i miei problemi».
Della madre, invece, diceva che era molto simpatica, attiva e intelligente, ma anche calcolatrice, crudele e religiosa in modo fanatico.
A 6 anni Frida si ammala di poliomelite: piede e gamba destra rimangono deformi, tanto che Frida li nasconde prima con pantaloni e poi con lunghe gonne messicane. Così, se quando è piccola viene soprannominata dagli altri bambini “Frida pata de palo” (gamba di legno), quando diventa grande è ammirata per il suo aspetto esotico.
Nel 1922, dopo il liceo presso il Colegio Alemán, la scuola tedesca in Messico, Frida si iscrive alla Escuela Nacional Preparatoria di Città del Messico con l’obiettivo di diventare medico.
Durante questo periodo Frida fa parte dei “cachucas”, un gruppo di studenti che sostiene le idee socialiste nazionaliste del ministro della pubblica istruzione, Vasconcelos, richiedendo riforme scolastiche; inoltre mostra interesse per le arti figurative ma non ha ancora pensato di intraprendere la carriera artistica.
Il 17 settembre 1925, l’autobus diretto a Coyoacàn, su cui Frida Kahlo era salita con il suo ragazzo, Alejandro Gomez, per tornare a casa dopo la scuola, si scontra con un tram.
«Salii sull’autobus con Alejandro.. Poco dopo, l’autobus e un treno della linea di Xochimilco si urtarono.. Fu uno strano scontro; non violento, ma sordo, lento e massacrò tutti. Me più degli altri. È falso dire che ci si rende conto dell’urto, falso dire che si piange. Non versai alcuna lacrima. L’urto ci trascinò in avanti e il corrimano mi attraversò come la spada il toro».
Frida rimane tra le aste metalliche del tram. Il corrimano si spezza e la trapassa da parte a parte… Alejandro la raccoglie e nota che Frida ha un pezzo di metallo piantato nel corpo. Un uomo appoggia un ginocchio sul corpo di Frida ed estrae il pezzo di metallo.
La prima diagnosi seria sopraggiunge un anno dopo l’incidente: frattura della terza e della quarta vertebra lombare, tre fratture del bacino, undici fratture al piede destro, lussazione del gomito sinistro, ferita profonda dell’addome, prodotta da una barra di ferro entrata dall’anca destra e uscita dal sesso, strappando il labbro sinistro. Peritonite acuta. All’ammalata viene prescritto di portare un busto di gesso per 9 mesi, e il completo riposo a letto per almeno 2 mesi dopo le dimissioni dall’ospedale.
«Da molti anni mio padre teneva…una scatola di colori a olio, un paio di pennelli in un vecchio bicchiere e una tavolozza.. nel periodo in cui dovetti rimanere a lungo a letto approfittai dell’occasione e chiesi a mio padre di darmela…Mia madre fece preparare un cavalletto, da applicare al mio letto, perché il busto di gesso non mi permetteva di stare dritta. Così cominciai a dipingere il mio primo quadro».
La madre di Frida, Matilde, poi trasforma il letto di Frida in un letto a baldacchino e ci monta sopra un enorme specchio, in modo che Frida, immobilizzata, possa almeno vedersi.
Così nascono quegli autoritratti che ce la ricordano, con i suoi occhi sovrastati dalle sopracciglia scure, particolarmente marcate, che si uniscono alla radice del naso come ali d’uccello: «dipingo me stessa perché trascorro molto tempo da sola e perché sono il soggetto che conosco meglio».
Con queste rappresentazioni Frida infrange i tabù relativi al corpo e alla sessualità femminile. Diego Rivera, suo futuro marito, dirà di lei «la prima donna nella storia dell’arte ad aver affrontato con assoluta ed inesorabile schiettezza, in modo spietato ma al contempo pacato, quei temi generali e particolari che riguardano esclusivamente le donne».
Via via che i mesi passano, Frida si dedica con crescente consapevolezza alla pittura. Avanza lentamente, produce a piccole dosi e piccoli formati: ciò che la sua salute le permette di fare, a seconda del fatto che riesca a star seduta o solamente distesa: «i miei quadri sono dipinti bene, non con leggerezza bensì con pazienza. La mia pittura porta in sé il messaggio del dolore».
Più di un anno dopo, verso la fine del 1927 si riprende, tanto da poter condurre una vita abbastanza normale, nonostante i dolori dovuti ai vari busti, e le cicatrici derivate dalle diverse operazioni.
Nel 1928 Frida si unisce ad un gruppo di artisti e di intellettuali che sostengono un’arte messicana indipendente, lontana dall’accademismo e legata all’espressione popolare: il mexicanismo, che si esprime nella pittura murale, particolarmente incoraggiata dallo Stato anche per le sue finalità edificanti e la possibilità di raccontare la storia nazionale anche alla grande massa analfabeta.
Frida, dal canto suo, per esprimere idee e sentimenti, crea un proprio linguaggio figurativo; il mondo contenuto nelle opere di Frida si rifà soprattutto all’arte popolare messicana e alla cultura precolombiana; vi sono infatti, immagini votive popolari, raffigurazioni di martiri e santi cristiani, ancorati nella fede del popolo; negli autoritratti, inoltre, Frida si rappresenta quasi sempre in abiti di campagna o con costume indio. Del Messico, poi, ritroviamo, nelle opere di Frida, la flora e la fauna, i cactus, le piante della giungla, le scimmie, i cani itzcuintli, i cervi e i pappagalli.
Nei primi mesi del 1928, German del Campo, uno dei suoi amici del movimento studentesco, le fa conoscere un gruppo di giovani raccolto intorno al comunista cubano Julio Antonio Mella, che si trova in esilio in Messico e che ha una relazione con la fotografa Tina Modotti. È proprio Tina a far conoscere a Frida Diego Rivera: un pittore e muralista molto famoso, anche se i due, in realtà si erano già conosciuti nel 1923, mentre Diego lavorava nell’anfiteatro Bolivar. Di quell’incontro Diego ricorda di questa ragazza «…aveva una dignità e una sicurezza di sé del tutto inusuali e negli occhi le brillava uno strano fuoco».
Quando Frida incontra Diego per la seconda volta, lui è un uomo pesante, gigantesco, Frida lo prende in giro chiamandolo “elefante”: è già stato sposato due volte e ha quattro figli.
Il 21 agosto del 1929 si sposano. Lei ha 22 anni, lui quasi 43.
A causa della malformazione pelvica, dovuta all’incidente, Frida non riesce a portare a termine le sue gravidanze, e così, 3 mesi dopo il matrimonio, Frida deve abortire. È la prima volta. Nel novembre del 1930 Frida e Diego si trasferiscono per 4 anni negli Stati Uniti per motivi artistici e politici. A Detroit Frida rimane incinta per la seconda volta, ma la tripla frattura delle ossa del bacino ostacola la corretta posizione del bambino. Frida decide comunque di tenere il bambino, nonostante la sua pessima condizione fisica ed il rischio. Tuttavia, il 4 luglio perde il bambino per un aborto spontaneo.
Nel 1934 ritornano in Messico, Frida è costretta ad abortire per la terza volta, e si separa da Diego che, nel frattempo, aveva avuto diverse avventure con altre donne, compresa la sorella di Frida, Cristina.
Frida comincia ad avere rapporti con altri uomini e con donne e ad essere molto attiva anche dal punto di vista politico. Nel 1936 in Spagna scoppia la guerra civile e se, Tina Modotti, l’amica di Frida, lascia immediatamente Mosca per andare in Spagna, lei si impegna a distanza nella lotta per la difesa della Repubblica Spagnola, organizzando riunioni, scrivendo lettere, raccogliendo viveri di prima necessità, pacchi di vestiti e di medicine per inviarli al fronte.
Nel 1937, poi, nella sua Casa Azul, ospita Lev e Natalja Trotskij, i quali sono in viaggio dal 1929, espulsi dall’Unione Sovietica.
Negli anni Quaranta, la fama di Frida è talmente grande che le sue opere vengono richieste per quasi tutte le mostre collettive allestite in Messico.
Nel 1943 viene chiamata ad insegnare, assieme ad altri artisti, alla nuova scuola d’arte della pedagogia popolare e liberale: l’Esmeralda. Frida, per ragioni di salute, è presto costretta a tenere le lezioni nella sua casa. I suoi metodi sono poco ortodossi: «Muchacos, chiusi qui dentro, a scuola, non possiamo fare niente. Andiamo fuori, in strada, dipingiamo la vita della strada». I suoi alunni la ricordano: «l’unico aiuto che ci dava era quello di stimolarci….non diceva niente sul modo in cui dovevamo dipingere o sullo stile, come faceva il maestro Diego…Ci insegnò soprattutto l’amore per la gente, ci fece amare l’arte popolare».
Nel 1950 subisce sette operazioni alla colonna vertebrale e trascorre nove mesi in ospedale. Dopo il 1951, a causa dei dolori, non riesce più a lavorare se non ricorrendo a farmaci antidolorifici; forse è proprio dovuta a questi la pennellata più morbida, meno accurata, il colore più spesso e l’esecuzione più imprecisa dei dettagli.
Nel 1953, alla sua prima mostra personale, allestita dalla amica fotografa Lola Alvarez Bravo, partecipa sdraiata su un letto, dato che se i medici le hanno assolutamente proibito di alzarsi. È Diego ad avere l’idea di trasportare il grande letto a baldacchino di Frida fin nel centro di Città del Messico. Stordita dai farmaci, partecipa alla festa rimanendo a letto, bevendo e cantando con il pubblico accorso numeroso. Nell’agosto dello stesso anno, i medici decidono di amputarle la gamba destra fino al ginocchio.
Nel 1954 si ammala di polmonite. Durante la convalescenza, il 2 luglio, partecipa ad un dimostrazione contro l’intervento statunitense in Guatemala, reggendo un cartello con il simbolo della colomba che reca un messaggio di pace. Muore per embolia polmonare la notte del 13 luglio, nella sua Casa Azul, sette giorni dopo il suo quarantasettesimo compleanno. La sera prima di morire, con le parole «sento che presto ti lascerò», aveva dato a Diego il regalo per le loro nozze d’argento.
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DESCRIZIONE
Bologna, 9 agosto 1944. I partigiani liberano dal carcere di San Giovanni in Monte i compagni prigionieri. E per creare confusione aprono le celle anche ai detenuti comuni. Paolo, un ragazzo finito in galera per un piccolo furto, si ritrova libero e finisce sull’Appennino bolognese tra i partigiani della Stella Rossa. Entra a far parte della Brigata: conosce il Vecchio, si azzuffa con Gallo, destinato in realtà a diventare il suo migliore amico, assaggia la disciplina imposta dal mitico comandante Lupo e, soprattutto, incontra Elena, la ragazza di cui si innamorerà. Ed è a partire dalla storia d’amore tra Paolo ed Elena che Claudio Bolognini scrive Stella Rossa: un omaggio all’incredibile ma vera storia di una banda partigiana capace di tener testa all’esercito nazista e ai suoi sgherri fascisti. Ma anche destinata a subire l’eccidio di Monte Sole: 770 morti, tra cui 217 bambini, 132 anziani e 392 donne. Il massacro, conosciuto come strage di Marzabotto, perpetrato dai nazisti in 115 luoghi diversi nel territorio degli attuali comuni di Marzabotto, Monzuno e Grizzana Morandi, che resta uno dei crimini più efferati di tutta la Seconda guerra mondiale commesso ai danni della popolazione civile.
Il turista fotografico – articolo di Marco Scataglini
Tranquilli, amo la fotografia, ma non voglio certo parlare dei turisti che andando in vacanza ne approfittano per scattare montagne di inutili foto ricordo con cui comodamente torturare amici e parenti nei mesi successivi. Intendo invece raccontare una forma di turismo che è viva e vivace, sebbene inevitabilmente di nicchia, e cioè quella del fotografo appassionato (amatore o professionista che sia) che si sobbarca viaggi anche lunghi pur di partecipare a Festival ed eventi fotografici di una certa rilevanza.
Oramai di Festival fotografici ce ne sono centinaia in tutta Europa, e decine anche in Italia. Ognuno cerca di distinguersi dagli altri per una certa linea o per il “mood” dei progetti che propone. Sebbene abbiano ogni volta un tema specifico (debitamente generico per farci poi entrare di tutto) e si presentino come festival dedicati a “un certo tipo di fotografia”, c’è da dire che personalmente noto una notevole uniformità nell’approccio iconografico, almeno di quelli più importanti. Di rado si esce dal campo della fotografia impegnata, di stampo sociale, a volte reportagistico, altre volte cavalcando delle linee specifiche della fotografia contemporanea (come la “deadpan photography” o la “Tableau photography”, altresì detta “Staged photography”), ma comunque al centro c’è sempre l’uomo, il suo rapporto col mondo circostante e specialmente le dinamiche sociali, politiche o storiche che lo coinvolgono.
Per dire: io che sono un fotografo di paesaggio di rado trovo pane per i miei denti. Ma sono comunque convinto che visitare un festival sia un’esperienza formativa fondamentale, che apre la mente, fa riflettere, offre sempre nuovi spunti. E, se vogliamo, insegna anche “come si fa” a realizzare una mostra, che tipologie di stampe e di cornici vanno per la maggiore, che modalità di editing i curatori hanno scelto, e così via. Insomma, viaggiare per visitare mostre e festival dovrebbe essere un impegno che ogni fotografo dovrebbe prendere con sé stesso e dunque invito tutti a controllare i calendari degli eventi più importanti.
Come detto, oramai non c’è angolo d’Italia che non offra qualche ghiotta possibilità. Ma, bisogna dirlo, ci sono certamente dei festival che per la loro impostazione e per la loro importanza emergono rispetto agli altri, e tra questi c’è sicuramente Cortona on the Move, dove sono stato da poco. Giunto alla sua quattordicesima edizione, il Festival di Cortona offre sempre uno spaccato interessante sulla fotografia internazionale, senza nascondere anche le declinazioni più scabrose o socialmente borderline. Quest’anno il tema dell’evento è il corpo umano, elemento inevitabile intorno a cui ruotano le nostre vite e grazie al quale possiamo comunicare con gli altri, provare piacere o dolore, fino alla morte.
Il corpo può diventare un elemento di comunicazione dura, forte, diretta, anche autolesionista, come ci mostra il progetto collettivo “Body as a Canvas” ospitato in un grande capannone della stazione ferroviaria nella frazione di Camucia. Tatuaggi di ogni genere, corpi dipinti, modifiche definitive che trasformano le persone in mostri ci ricordano che non sempre l’essere umano riesce a avere un rapporto sereno con se stesso e con il proprio apparire. Nemmeno quando il corpo viene meno, a causa della morte. Un’interessante serie di progetti dedicati alla morte – tema che ci spaventa ma inevitabilmente ci affascina – è ospitata nella fortezza di Cortona, nella parte più alta del paese, e si intitola “This is the end“. Nella stessa struttura è anche ospitata la mostra più divisiva, ma anche coinvolgente, del festival, quella di Myriam Boulos, fotografa libanese che è da poco entrata nell’agenzia Magnum come nominée e che affronta con questo suo lavoro le fantasie sessuali delle donne. In un contesto patriarcale e maschilista come quello tradizionale del mondo arabo, mostrare come la donna non sia solo “oggetto” di desiderio sessuale da parte degli uomini (che poi per “resistere” pretendono che le donne stesse spariscano dietro un velo) ma “soggetto” in grado di scegliere autonomamente e di dare e darsi piacere in piena libertà, è sicuramente rivoluzionario. La mostra può convincere o meno (a me, lo confesso, non ha entusiasmato) ma il tema che affronta e come lo fa merita grande attenzione.
Alcune delle mostre sono collocate all’aperto ed è assai intrigante quella dedicata alle mani – con foto tratte dall’archivio Alinari con cui il Festival ha avviato una proficua collaborazione – ospitata nel cortile della fortezza. Riguardo al fotografia storica, la Fortezza ospita anche una notevole esposizione di opere di Mario Nunes Vais, realizzate nei primi anni del XX secolo, a tema erotico. Proprio per questo la figlia del fotografo, quando ereditò l’archivio e trovò queste lastre di vetro, le frantumò, convinta che potessero creare problemi alla reputazione del defunto padre. Successivamente però le lastre (quasi 500) vennero in parte recuperate e riassemblate come se fossero dei puzzle. Proprio il fatto che il vetro appare spezzato e lacunoso aumenta il fascino di queste straordinarie fotografie. nella sala successiva possiamo anche vedere alcune delle opere del “barone” (in realtà non era nobile) Von Gloeden dedicate al nudo maschile, soprattutto di giovani efebici messi in posa come fossero divinità greche.
Ovviamente in un evento come Cortona On The Moveci sono decine di mostre, e dunque occorre tempo per gustarlo adeguatamente. Il periodo che ho scelto non è stato dei migliori, con un’ondata di caldo estremo che ha reso faticoso visitare le esposizioni, collocate in locali che ovviamente non sono climatizzati. Però ne valeva comunque la pena.
Tra le mostre che ho apprezzato di più ci sono quelle di Palazzo Baldelli (al centro di Cortona: con la fortezza è la sede principale dell’evento), in particolare le “Fog Nets” di Alessandro Cinque, talentuoso fotografo che vive in Perù e l’ampia serie di immagini dedicate al “Cosplay“, dunque alle persone che amano entrare nei panni (letteralmente) dei personaggi dei fumetti di cui sono appassionate, realizzata da Niccolò Rastrelli in giro per il mondo. Si tratta di una mostra coloratissima e divertente, da non perdere. Altrettanto divertente, sebbene già molto nota, è la serie “Contact” di Gabriele Basilico, un “divertissement” in cui il grande fotografo di architettura gioca con la pelle del fondoschiena di una sua amica che mantiene la trama della “seduta” delle sedie su cui viene poggiato. Ho anche apprezzato il lavoro del fotografo bulgaro Valery Poshtarov che ha ripreso padri e figli (maschi) che si tengono per mano. L’idea è stata applicata anche alla gente di Cortona e dintorni e il risultato è collocato nel cortile del museo archeologico.
Naturalmente queste sono solo alcune brevi considerazioni senza alcuna intenzione di completezza: ognuno deve visitare le mostre e lasciarsi coinvolgere, di sicuro quel che è piaciuto a me potrebbe non piacere ad altri e viceversa. L’importante è aprire la mente, scoprire come i fotografi ci avvicinano ai temi a cui tengono e come decidono di raccontarli. Per questo invito tutti a fare un salto a Cortona o anche a uno dei festival che di sicuro potrà trovare non lontano dalla propria abitazione.
Un classico caso di turismo intelligente. Poi spesso – come a Cortona – il Festival è ospitato in luoghi che meriterebbero comunque una visita, a prescindere.
Il Festival Cortona On The Move è aperto sino al 3 novembre, dunque c’è tutto il tempo.
Articolo scritto per la Rivista PEGASO N°8 del 1932 diretta da Ugo OJETTI
Biografia completa è in fondo – Diego VARERI- – Nacque il 25 gennaio 1887 a Piove di Sacco (Padova)- da Abbondio e da Giovanna Fontana, ultimo di tre figli, dopo Silvio e Ugo-Morì a Roma il 27 novembre 1976.
Biografia di Diego VARERI- – Nacque il 25 gennaio 1887 a Piove di Sacco (Padova)-da Abbondio e da Giovanna Fontana, ultimo di tre figli, dopo Silvio e Ugo-Morì a Roma il 27 novembre 1976.
Nonostante le condizioni agiate della famiglia, l’infanzia del piccolo Diego fu turbata dalla separazione dei genitori, avvenuta poco dopo la sua nascita, in seguito alla quale la madre si trasferì a Padova portandolo con sé. Presenza discontinua, ma molto influente sulla formazione di Valeri, fu quella del fratello Ugo, pittore e illustratore dalle qualità notevoli, morto nel 1911 a Venezia, cadendo (o forse gettandosi) da una finestra della galleria Ca’ Pesaro: ne restò a Valeri un dolore insanabile.
L’origine della vocazione poetica fu sempre, nel ricordo di Valeri, associata, oltre che a un sentimento malinconico generato quasi dal contatto con una pianura che egli percepiva galleggiante sull’acqua, all’arte del fratello, al mondo inventato dai suoi segni e colori, alle novità artistiche che Ugo riportava dalla Biennale di Venezia. Sempre grazie al fratello, il giovane Diego pubblicò due sue liriche nella rivista Poesia (IV (dicembre 1908-gennaio 1909), 11-12) diretta da Filippo Tommaso Marinetti.
Dopo aver frequentato il liceo classico Tito Livio di Padova, nella locale università conseguì la laurea in lettere nel 1908 discutendo una tesi su L’efficacia del teatro francese sul teatro di Paolo Ferrari (pubblicata in Rivista d’Italia, XII (1909), 2, pp. 257-328), orientandosi di lì in poi a studi di francesistica e italianistica. All’università conobbe la futura moglie, sposata nel 1911: Maria Minozzi, vicentina, dedicataria della sua prima silloge di versi, Monodia d’amore (Padova 1908), in seguito rifiutata dall’autore. Laureato, intraprese l’insegnamento nelle scuole tecniche e poi nei licei, con numerosi cambiamenti di sede (Fermo, Castiglione delle Stiviere, Monza, Pinerolo, Ravenna, Voghera, Rovigo, Cremona), prima del definitivo approdo a Venezia (1926), dove si stabilì nella casa (in fondamenta dei Cereri) che divenne sua dimora stabile. Il disagio dei trasferimenti fu d’altra parte bilanciato da frequentazioni con importanti personalità del mondo dell’arte e della letteratura (Filippo De Pisis, Marino Moretti, Clemente Rebora, per esempio).
Nel 1912-13, unico intervallo tra gli insegnamenti scolastici, Valeri fu a Parigi con una borsa di perfezionamento in letteratura francese; lì ricevette la notizia della morte dell’amata madre. Per motivi di salute evitò l’arruolamento e la partenza per la guerra ma non poté evitare, sulle prime, lo scontro con il fascismo. Era a Cremona con la famiglia, accresciuta delle due figlie (Giovanna, nata nel 1913, e Marina, nata nel 1915), quando, insegnante e conferenziere stimato, oltre che poeta dalla crescente notorietà, firmò sul quotidiano La Giustizia (9 luglio 1924) un appello di protesta per la scomparsa di Giacomo Matteotti. Ne ebbe una dura reprimenda, alla quale conseguì il trasferimento da Cremona a Venezia, dove comunque continuò a essere, se non attaccato (come accadde almeno in un’occasione, nel novembre del 1926), ostacolato dalla federazione del fascio locale, presso il quale cercò a più riprese, ma invano, di tesserarsi. Intimamente incompatibile con il fascismo per ragioni umane ed estetiche, oltre che per le idee socialiste, Valeri non si espose più in aperte contestazioni, e tuttavia, privo della tessera del Partito nazionale fascista, dovette abbandonare nel 1931 l’insegnamento al liceo Marco Polo per assumere una posizione più defilata, da funzionario delle belle arti, alla soprintendenza di Venezia. Manteneva nel frattempo, come libero docente, l’incarico per il corso di letteratura francese all’Università di Padova, che ebbe dal 1924 al 1934, quando gli fu sospeso per la mancanza della tessera, e che tuttavia riottenne dal 1939, per intercessione di Ugo Ojetti presso il ministro Giuseppe Bottai.
Grazie alla stima e alla protezione di personaggi eminenti dell’establishment politico-culturale italiano (godeva anche dell’appoggio del rettore padovano Carlo Anti), Valeri, che pure era ostacolato dai federali veneziani, ottenne dall’Accademia d’Italia prestigiosi premi (nel 1931, 1939, 1943) per la sua poesia. Incontrò un successo abbastanza largo, anche di pubblico, a partire dalla pubblicazione dell’autoantologia Poesie vecchie e nuove (Milano 1930), che selezionava i testi delle raccolte precedenti – Le gaie tristezze (Milano-Palermo-Napoli 1913), Umana (Ferrara 1915); Crisalide (Ferrara 1919); Ariele (Milano-Roma 1924) – con l’aggiunta di altri più recenti, che mostravano come dall’iniziale impronta pascoliana e simbolista Valeri andasse mettendo a fuoco il proprio postsimbolismo di fondo su forme e atmosfere meno evanescenti, più salde. Raggiunse l’apice della fama nel decennio 1930-40, quando, con la sua lirica cantabile, malinconica e sensuale, formalmente legata alla tradizione, ma sempre più individuabile nella sua originalità, poté contendere notorietà e favore critico alle posizioni più innovative di Giuseppe Ungaretti ed Eugenio Montale. Fu inoltre conferenziere e pubblicista richiesto e apprezzato (v. la scelta di articoli del 1925-35 riuniti in Saggi e note di letteratura francese moderna, Firenze 1941).
Dopo il 25 luglio 1943 Valeri, vicino al Partito d’azione, assunse la direzione del giornale Il Gazzettino, incarico che, quando tedeschi e fascisti ripresero il potere nel Nord Italia, gli costò una condanna a trent’anni di carcere; nel frattempo, però, era riuscito a entrare in Svizzera e a trovare riparo a Mürren. Tornato in Italia, ottenne la revisione dei concorsi da cui era stato escluso per motivi politici e quindi, alla fine del 1948, il ruolo di professore di letteratura francese all’Università di Padova, dove lavorò, anche con affidamenti di letteratura italiana contemporanea, fino al 1962.
Valeri si impegnò attivamente in politica, presentandosi nelle liste del Movimento di unità popolare nelle elezioni del 1953 (per la Camera) e come candidato sindaco dei socialisti alle amministrative di Venezia del 1956.
L’ampio successo professionale e istituzionale arrivò per Valeri in tempi meno adatti alla ricezione della sua poesia e del suo gusto rispetto a quando, negli anni Trenta, si era affermato: in confronto alle nuove tendenze, sia nella lirica sia nella critica, poteva sembrare ad alcuni attardato se non superato. Testimonianze autorevoli degli ultimi allievi ricordano però che, libero da costrizioni metodologiche, Valeri continuava a esercitare il suo magistero incantando l’uditorio per il modo «cordiale e umanissimo» e al tempo stesso «elegante, aristocratico» di avvicinare i testi letterari (Mengaldo, 2000).
Giorgio Caproni e Andrea Zanzotto (che era stato suo alunno a Padova negli anni Trenta) hanno inoltre riconosciuto un affinamento e un approfondimento introspettivo nella fase tarda (da Metamorfosi dell’angelo, Milano 1957) ed estrema della poesia di Valeri, che culmina nelle raccolte Verità di uno (Milano 1970) e Calle del vento (Milano 1975), non incluse per motivi cronologici nell’autoantologia definitiva delle Poesie (Milano 1962 e 1967), che ci ha dato della sua lirica un’immagine più classica, tradizionale e impressionistica (in senso pittorico), nondimeno rappresentativa del suo collocarsi al di fuori delle linee portanti dell’evoluzione della lirica novecentesca (Baldacci, 1972, 1974).
Largamente condiviso dalla critica è il giudizio positivo delle traduzioni di Valeri, che fin dal 1912 si esercitò su autori prevalentemente francesi ma anche tedeschi: si ricordino almeno i due volumi antologici Lirici tedeschi (Milano 1959) e Lirici francesi (Milano 1960). Interessante e originale la sua scrittura saggistica, riflessiva e nitidamente comunicativa, che si muove a partire da momenti della vita interiore o da sollecitazioni della poesia (Tempo e poesia, Milano 1962) e dell’arte (Scritti sull’arte, a cura di G. Tomasella, Venezia 2005). Importanti, e attualmente ancora fortunate in termini editoriali (lo stesso non si può dire delle poesie, mai più riedite dal 1977), le prose di Valeri dedicate all’amata città d’adozione: Fantasie veneziane (Milano 1934; Bagno a Ripoli 2016) e Guida sentimentale di Venezia (Padova 1942; Bagno a Ripoli 2009); ma va ricordato anche il volume Padova città materna, scritto e pubblicato nel mezzo della guerra civile (Padova 1944 e 1995). Morì a Roma il 27 novembre 1976.
Opere. Mentre si attende una ripubblicazione complessiva delle poesie (imminente presso Il Ponte del sale di Rovigo l’edizione di un’ampia antologia, a cura di C. Londero, dal titolo Il mio nome nel vento. Poesie 1910-1977), ci si può rifare, per la prima fase, alla riedizione di Umana (a cura di M. Giancotti, Genova 2008); per il resto, alle singole raccolte su cui Valeri operò selezioni compilando i volumi antologici Poesie vecchie e nuove (cit.), Terzo tempo (Milano 1950), Poesie (cit.), meglio che alla scarna cernita delle Poesie scelte 1910-1975 (a cura di C. Della Corte, Milano 1977). Da segnalare, inoltre, le poesie per bambini: Il campanellino (Torino 1928) e Poesie piccole (Milano 1965). I più importanti saggi sulla letteratura italiana sono raccolti in Conversazioni italiane (Firenze 1968). Esaustiva, fino al 1960, la bibliografia degli scritti curata da C. Cordiè in Studi in onore di Vittorio Lugli e D. V., I, Venezia 1961, pp. LI-LXXVIII.
Fonti e Bibl.: Lettere a Valeri di corrispondenti vari sono conservate a Venezia, presso il Fondo Diego Valeri della Fondazione Giorgio Cini (catal. consultabile sul sito www.diegovaleri.it e nel volume Fondo D. V. della Fondazione Giorgio Cini. Inventario della corrispondenza. Album fotografico, a cura di A. Venturini – R. Zannato, introduzione di G. Manghetti, Piove di Sacco 2010). Una biografia basata sulle fonti archivistiche, oltre che sugli imprescindibili contributi di L. Montobbio (La giovinezza di D. V., in Una precisa forma. Studi e testimonianze per D. V. Atti del Convegno internazionale… 1987, Padova 1991, pp. 141-165) e G. Manghetti (So la tua magia: è la poesia, Milano 1994), è in M. Giancotti, D. V., Padova 2013.
Per la critica si vedano, fra gli atti: Omaggio a D. V. Atti del Congresso…, Venezia … 1977, a cura di U. Fasolo, Firenze 1979; Una precisa forma… Atti del Convegno internazionale…, cit.; L’opera di D. V. Atti del Convegno nazionale di studi… 1996, a cura di G. Manghetti, Piove di Sacco 1998; D. V. e il Novecento. Atti del Convegno di studi nel 30° anniversario della morte del poeta, Piove di Sacco… 2006, a cura di G. Manghetti, presentazione di P.V. Mengaldo, Padova 2007. Fra gli altri contributi: P. Pancrazi, Poesie vecchie e nuove di D. V. (1930), in Id., Ragguagli di Parnaso. Dal Carducci agli scrittori d’oggi, a cura di C. Galimberti, II, Milano-Napoli 1967, pp. 369-373; A. Zanzotto, Il maestro universitario, in La Fiera letteraria, 3 marzo 1957, p. 3; L. Baldacci, Per un’antologietta di D. V. (1972), in Id., Libretti d’opera e altri saggi, Firenze 1974, pp. 108-129; F. Fortini, I poeti del Novecento (1977), Roma-Bari 1988, p. 43; Poeti italiani del Novecento, a cura di P.V. Mengaldo, Milano 1978, pp. 353-356; Dal simbolismo al Déco. Antologia poetica cronologicamente disposta per cura di Glauco Viazzi, II, Torino 1981, pp. 433 s.; P.V. Mengaldo, Ricordo di D. V. (1996), in Id., La tradizione del Novecento. Quarta serie, Torino 2000, pp. 44 s.; A. Zanzotto, Scritti sulla letteratura, a cura di G.M. Villalta, I, Fantasie di avvicinamento, Milano 2001 (in partic. V. italiano e francese [1957], pp. 47-52; Nella «Calle del vento» [1976], pp. 53-55); G. Caproni, «Il flauto a due canne» di V., in Id., Prose critiche, a cura di R. Scarpa, II, 1954-1958, Torino 2012, pp. 1073-1077.
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