Roma- Al Museo Storico della Fanteria la mostra Antonio Ligabue – I misteri di una mente-
Dal 28 settembre 2024 al 12 gennaio 2025, apre al Museo Storico della Fanteria di Roma la mostra Antonio Ligabue – I misteri di una mente, prodotta da Navigare Srl con il patrocinio di Regione Lazio e di Città di Roma, da una iniziativa di Difesa Servizi SpA. L’esposizione dedicata all’artista scomparso nel 1965 nasce dal proposito di dare una nuova lettura della vita e dell’arte di un personaggio che visse in una personale e solitaria dimensione di grande irregolarità, dominata da una mente irrequieta e instabile.
L’esposizione, curata da Micol Di Veroli, Dominique Lora e Vittoria Mainoldi, presenta 74 opere datate tra la fine degli anni Venti e i primi anni Sessanta del Novecento, provenienti da tre collezioni private di Reggio Emilia, di Parma e di Roma. A 32 sculture bronzee raffiguranti una eterogenea rappresentanza di animali, tra i quali cani, caprioli, capre, cerbiatti babbuini, leoni e pantere, si affiancano 18 dipinti a olio dai colori pieni, vivaci, e dallo stile inconfondibile, tra i quali anche un celebre autoritratto del 1957, insieme a 3 disegni e 21 puntesecche, distribuite in un percorso cronologico in 5 sezioni: 1. Animali da cortile; 2. Animali selvaggi; 3. Cani; 4. Animali da bosco; 5. Autoritratti, fiori e campagne.
Nell’opera di Antonio Ligabue, che, a 60 anni dalla morte, ancora non ha trovato una esatta collocazione all’interno di stili, di correnti, o di movimenti artistici, sospeso tra definizioni di arte Naïf e di Outsider, la natura è protagonista assoluta. In particolare, il mondo animale rappresentato ossessivamente dall’artista rispecchia il tumulto interiore dell’artista stesso, della sua fragilità e della brutalità della sua esistenza ma anche, in generale, della condizione umana, così simile a quella animale proprio per la sua natura violenta, finalizzata alla sopravvivenza. Da qui, l’istintiva raffigurazione dell’uomo e dell’animale nell’arte di Ligabue diventa fusione, teriantropismo, richiamo costante a significati profondi, emozioni e riflessioni, e a una forza simbolica primordiale.
La mostra Antonio Ligabue – I misteri di una mente sarà aperta tutti i giorni dal lunedì al venerdì dalle ore 9:30 alle ore 19:30 e sabato, domenica e festivi dalle ore 9:30 alle ore 20:30. Ingresso con “Promo doppio biglietto” riservato ai visitatori della mostra Mirò – Il costruttore di sogni, in corso al Museo della Fanteria sino al 23 febbraio 2025. Info costi e prenotazioni sul sito: www.navigaresrl.com
Decrizione del libro di Peter Lindbergh-Editore Taschen-With such credits as the Calvin Klein Eternity campaigns, shooting the first Vogue cover under Editor-in-Chief Anna Wintour, and helping to catapult the ’90s supermodels to mega fortune and fame, Peter Lindbergh has emblazoned his name into the halls of fashion history. The industry quickly became enamored with his almost anti-fashion fashion photography, capturing the spirit of his subjects rather than highlighting impossible ideals. In this book, the influential Lindbergh works to redefine beauty standards with awe-inspiring, never-before-seen images taken at his iconic Pirelli shoot. Beautiful women with beautiful minds are portrayed simply, accessibly, and in breathtaking fashion—unapologetic pores, fine lines, freckles, and all. The only photographer granted permission to shoot the calendar more than twice, Lindbergh leverages the marketing tool as an opportunity to communicate the zeitgeist. In lieu of opting for a traditional nudity-focused aesthetic and flawless supermodel lineup, he casts 14 Hollywood actresses (including 11 Oscar winners) instead. The message? True beauty isn’t perfect; it’s rooted in interest, intelligence, and emotional appeal. The photographer: Peter Lindbergh was born in Lissa, Germany, in 1944. His celebrated work is part of many permanent collections of fine art museums and has been presented in prestigious museums and galleries around the world, from the Victoria & Albert Museum in London to Centre Pompidou in Paris, as well as in solo exhibitions at Hamburger Bahnhof, Museum für Gegenwart, Berlin; Bunkamura Museum of Art, Tokyo; and the Pushkin Museum of Fine Arts, Moscow. Lindbergh lives and works between Paris, New York, and Arles.
Credei ch’al tutto fossero
In me, sul fior degli anni,
Mancati i dolci affanni
Della mia prima età:
I dolci affanni, i teneri
Moti del cor profondo,
Qualunque cosa al mondo
Grato il sentir ci fa.
Quante querele e lacrime
Sparsi nel novo stato,
Quando al mio cor gelato
Prima il dolor mancò!
Mancàr gli usati palpiti,
L’amor mi venne meno,
E irrigidito il seno
Di sospirar cessò!
Piansi spogliata, esanime
Fatta per me la vita;
La terra inaridita,
Chiusa in eterno gel;
Deserto il dì; la tacita
Notte più sola e bruna;
Spenta per me la luna,
Spente le stelle in ciel.
Pur di quel pianto origine
Era l’antico affetto:
Nell’intimo del petto
Ancor viveva il cor.
Chiedea l’usate immagini
La stanca fantasia;
E la tristezza mia
Era dolore ancor.
Fra poco in me quell’ultimo
Dolore anco fu spento,
E di più far lamento
Valor non mi restò.
Giacqui: insensato, attonito,
Non dimandai conforto:
Quasi perduto e morto,
Il cor s’abbandonò.
Qual fui! quanto dissimile
Da quel che tanto ardore,
Che sì beato errore
Nutrii nell’alma un dì!
La rondinella vigile,
Alle finestre intorno
Cantando al novo giorno,
Il cor non mi ferì:
Non all’autunno pallido
In solitaria villa,
La vespertina squilla,
Il fuggitivo Sol.
Invan brillare il vespero
Vidi per muto calle,
Invan sonò la valle
Del flebile usignol.
E voi, pupille tenere,
Sguardi furtivi, erranti,
Voi de’ gentili amanti
Primo, immortale amor,
Ed alla mano offertami
Candida ignuda mano,
Foste voi pure invano
Al duro mio sopor.
D’ogni dolcezza vedovo,
Tristo; ma non turbato,
Ma placido il mio stato,
Il volto era seren.
Desiderato il termine
Avrei del viver mio;
Ma spento era il desio
Nello spossato sen.
Qual dell’età decrepita
L’avanzo ignudo e vile,
Io conducea l’aprile
Degli anni miei così:
Così quegl’ineffabili
Giorni, o mio cor, traevi,
Che sì fugaci e brevi
Il cielo a noi sortì.
Chi dalla grave, immemore
Quiete or mi ridesta?
Che virtù nova è questa,
Questa che sento in me?
Moti soavi, immagini
Palpiti, error beato,
Per sempre a voi negate
Questo mio cor non è?
Siete pur voi quell’unica
Luce de’ giorni miei?
Gli affetti ch’io perdei
Nella novella età?
Se al ciel, s’ai verdi margini.
Ovunque il guardo mira,
Tutto un dolor mi spira,
Tutto un piacer mi dà.
Meco ritorna a vivere
La piaggia, il bosco, il monte;
Parla al mio core il fonte,
Meco favella il mar.
Chi mi ridona il piangere
Dopo cotanto obblio?
E come al guardo mio
Cangiato il mondo appar?
Forse la speme, o povero
Mio cor, ti volse un riso?
Ahi della speme il viso
Io non vedrò mai più.
Proprii mi diede i palpiti,
Natura, e i dolci inganni.
Sopiro in me gli affanni
L’ingenita virtù;
Non l’annullàr: non vinsela
Il fato e la sventura;
Non con la vista impura
L’infausta verità.
Dalle mie vaghe immagini
So ben ch’ella discorda:
So che natura è sorda,
Che miserar non sa.
Che non del ben sollecita
Fu, ma dell’esser solo:
Purchè ci serbi al duolo,
Or d’altro a lei non cal.
So che pietà fra gli uomini
Il misero non trova;
Che lui, fuggendo, a prova
Schernisce ogni mortal.
Che ignora il tristo secolo
Gl’ingegni e le virtudi;
Che manca ai degni studi
L’ignuda gloria ancor.
E voi, pupille tremule,
Voi, raggio sovrumano,
So che splendete invano,
Che in voi non brilla amor.
Nessuno ignoto ed intimo
Affetto in voi non brilla:
Non chiude una favilla
Quel bianco petto in se.
Anzi d’altrui le tenere
Cure suol porre in gioco;
E d’un celeste foco
Disprezzo è la mercè.
Pur sento in me rivivere
Gl’inganni aperti e noti
E de’ suoi proprii moti
Si meraviglia il sen.
Da te, cor mio, quest’ultimo
Spirto, e l’ardor natio,
Ogni conforto mio
Solo da te mi vien.
Mancano, il sento, all’anima
Alta, gentile e pura,
La sorte, la natura,
Il mondo e la beltà.
Ma se tu vivi, o misero,
Se non concedi al fato,
Non chiamerò spietato
Chi lo spirar mi dà.
La vita solitaria
La mattutina pioggia, allor che l’ale
Battendo esulta nella chiusa stanza
La gallinella, ed al balcon s’affaccia
L’abitator de’ campi, e il Sol che nasce
I suoi tremuli rai fra le cadenti
Stille saetta, alla capanna mia
Dolcemente picchiando, mi risveglia;
E sorgo, e i lievi nugoletti, e il primo
Degli augelli susurro, e l’aura fresca.
E le ridenti piagge benedico:
Poichè voi, cittadine infauste mura,
Vidi e conobbi assai, là dove segue
Odio al dolor compagno; e doloroso
Io vivo, e tal morrò, deh tosto! Alcuna
Benchè scarsa pietà pur mi dimostra
Natura in questi lochi, un giorno oh quanto
Verso me più cortese! E tu pur volgi
Dai miseri lo sguardo; e tu, sdegnando
Le sciagure e gli affanni, alla reina
Felicità servi, o natura. In cielo,
In terra amico agl’infelici alcuno
E rifugio non resta altro che il ferro.
Talor m’assido in solitaria parte,
Sovra un rialto, al margine d’un lago
Di taciturne piante incoronato.
Ivi, quando il meriggio in ciel si volve,
La sua tranquilla imago il Sol dipinge,
Ed erba o foglia non si crolla al vento,
E non onda incresparsi, e non cicala
Strider, nè batter penna augello in ramo,
Nè farfalla ronzar, nè voce o moto
Da presso nè da lunge odi nè vedi.
Tien quelle rive altissima quiete;
Ond’io quasi me stesso e il mondo obblio
Sedendo immoto; e già mi par che sciolte
Giaccian le membra mie, nè spirto o senso
Più le commova, e lor quiete antica
Co’ silenzi del loco si confonda.
Amore, amore, assai lungi volasti
Dal petto mio, che fu sì caldo un giorno,
Anzi rovente. Con sua fredda mano
Lo strinse la sciaura, e in ghiaccio è volto
Nel fior degli anni. Mi sovvien del tempo
Che mi scendesti in seno. Era quel dolce
E irrevocabil tempo, allor che s’apre
Al guardo giovanil questa infelice
Scena del mondo, e gli sorride in vista
Di paradiso. Al garzoncello il core
Di vergine speranza e di desio
Balza nel petto; e già s’accinge all’opra
Di questa vita come a danza o gioco
Il misero mortal. Ma non sì tosto,
Amor, di te m’accorsi, e il viver mio
Fortuna avea già rotto, ed a questi occhi
Non altro convenia che il pianger sempre.
Pur se talvolta per le piagge apriche,
Su la tacita aurora o quando al sole
Brillano i tetti e i poggi e le campagne,
Scontro di vaga donzelletta il viso;
O qualor nella placida quiete
D’estiva notte, il vagabondo passo
Di rincontro alle ville soffermando,
L’erma terra contemplo, e di fanciulla
Che all’opre di sua man la notte aggiunge
Odo sonar nelle romite stanze
L’arguto canto; a palpitar si move
Questo mio cor di sasso: ahi, ma ritorna
Tosto al ferreo sopor; ch’è fatto estrano
Ogni moto soave al petto mio.
O cara luna, al cui tranquillo raggio
Danzan le lepri nelle selve; e duolsi
Alla mattina il cacciator, che trova
L’orme intricate e false, e dai covili
Error vario lo svia; salve, o benigna
Delle notti reina. Infesto scende
Il raggio tuo fra macchie e balze o dentro
A deserti edifici, in su l’acciaro
Del pallido ladron ch’a teso orecchio
Il fragor delle rote e de’ cavalli
Da lungi osserva o il calpestio de’ piedi
Su la tacita via; poscia improvviso
Col suon dell’armi e con la rauca voce
E col funereo ceffo il core agghiaccia
Al passegger, cui semivivo e nudo
Lascia in breve tra’ sassi. Infesto occorre
Per le contrade cittadine il bianco
Tuo lume al drudo vil, che degli alberghi
Va radendo le mura e la secreta
Ombra seguendo, e resta, e si spaura
Delle ardenti lucerne e degli aperti
Balconi. Infesto alle malvage menti,
A me sempre benigno il tuo cospetto
Sarà per queste piagge, ove non altro
Che lieti colli e spaziosi campi
M’apri alla vista. Ed ancor io soleva,
Bench’innocente io fossi, il tuo vezzoso
Raggio accusar negli abitati lochi,
Quand’ei m’offriva al guardo umano, e quando
Scopriva umani aspetti al guardo mio.
Or sempre loderollo, o ch’io ti miri
Veleggiar tra le nubi, o che serena
Dominatrice dell’etereo campo,
Questa flebil riguardi umana sede.
Me spesso rivedrai solingo e muto
Errar pe’ boschi e per le verdi rive,
O seder sovra l’erbe, assai contento
Se core e lena a sospirar m’avanza.
Scherzo
Quando fanciullo io venni
A pormi con le Muse in disciplina
L’una di quelle mi pigliò per mano;
E poi tutto quel giorno
La mi condusse intorno
A veder l’officina.
Mostrommi a parte a parte
Gli strumenti dell’arte,
E i servigi diversi
A che ciascun di loro
S’adopra nel lavoro
Delle prose e de’ versi.
Io mirava, e chiedea:
Musa, la lima ov’è? Disse la Dea:
La lima è consumata; or facciam senza.
Ed io, ma di rifarla
Non vi cal, soggiungea, quand’ella è stanca?
Rispose: hassi a rifar, ma il tempo manca.
Palinodia del Marchese Gino Capponi,
Il sempre sospirar nulla rileva.
Petrarca
Errai, candido Gino; assai gran tempo,
E di gran lunga errai. Misera e vana
Stimai la vita, e sovra l’altre insulsa
La stagion ch`or si volge. Intolleranda
Parve, e fu, la mia lingua alla beata
Prole mortal, se dir si dee mortale
L’uomo, o si può. Fra maraviglia e sdegno.
Dall’Eden odorato in cui soggiorna,
Rise l’alta progenie, e me negletto
Disse, o mal venturoso, e di piaceri
O incapace o inesperto, il proprio fato
Creder comune, e del mio mal consorte
L’umana specie. Alfin per entro il fumo
De’ sígari onorato, al romorio
De’ crepitanti pasticcini, al grido
Militar, di gelati e di bevande
Ordinator, fra le percosse tazze
E i branditi cucchiai, viva rifulse
Agli occhi miei la giornaliera luce
Delle gazzette. Riconobbi e vidi
La pubblica letizia, e le dolcezze
Del destino mortal. Vidi l’eccelso
Stato e il valor delle terrene cose,
E tutto fiori il corso umano, e vidi
Come nulla quaggiù dispiace e dura.
Nè men conobbi ancor gli studi e l’opre
Stupende, e il senno, e le virtudi, e l’alto
Saver del secol mio. Nè vidi meno
Da Marrocco al Catai, dall’Orse al Nilo,
E da Boston a Goa, correr dell’alma
Felicità su l’orme a gara ansando
Regni, imperi e ducati; e già tenerla
O per le chiome fluttuanti, o certo
Per l’estremo del boa. Così vedendo,
E meditando sovra i larghi fogli
Profondamente, del mio grave, antico
Errore, e di me stesso, ebbi vergogna.
Aureo secolo omai volgono, o Gino,
I fusi delle Parche. Ogni giornale,
Gener vario di lingue e di colonne,
Da tutti i lidi lo promette al mondo
Concordemente. Universale amore,
Ferrate vie, moltiplici commerci,
Vapor, tipi e choléra i più divisi
Popoli e climi stringeranno insieme:
Nè maraviglia fia se pino o quercia
Suderà latte e mele, o s’anco al suono
D’un walser danzerà. Tanto la possa
Infin qui de’ lambicchi e delle storte,
E le macchine al cielo emulatrici
Crebbero, e tanto cresceranno al tempo
Che seguirà; poichè di meglio in meglio
Senza fin vola e volerà mai sempre
Di Sem, di Cam e di Giapeto il seme.
Ghiande non ciberà certo la terra
Però, se fame non la sforza: il duro
Ferro non deporrà. Ben molte volte
Argento ed or disprezzerà, contenta
A polizze di cambio. E già dal caro
Sangue de’ suoi non asterrà la mano
La generosa stirpe: anzi coverte
Fien di stragi l’Europa e l’altra riva
Dell’atlantico mar, fresca nutrice
Di pura civiltà, sempre che spinga
Contrarie in campo le fraterne schiere
Di pepe o di cannella o d’altro aroma
Fatal cagione, o di melate canne,
O cagion qual si sia ch’ ad auro torni.
Valor vero e virtù, modestia e fede
E di giustizia amor, sempre in qualunque
Pubblico stato, alieni in tutto e lungi
Da’ comuni negozi, ovvero in tutto
Sfortunati saranno, afflitti e vinti:
Perchè diè lor natura, in ogni tempo
Starsene in fondo. Ardir protervo e frode,
Con mediocrità, regneran sempre,
A galleggiar sortiti. Imperio e forze,
Quanto più vogli o cumulate o sparse,
Abuserà chiunque avralle, e sotto
Qualunque nome. Questa legge in pria
Scrisser natura e il fato in adamante;
E co’ fulmini suoi Volta nè Davy
Lei non cancellerà, non Anglia tutta
Con le macchine sue, nè con un Gange
Di politici scritti il secol novo.
Sempre il buono in tristezza, il vile in festa
Sempre e il ribaldo: incontro all’alme eccelse
In arme tutti congiurati i mondi
Fieno in perpetuo: al vero onor seguaci
Calunnia, odio e livor: cibo de’ forti
Il debole, cultor de’ ricchi e servo
Il digiuno mendico, in ogni forma
Di comun reggimento, o presso o lungi
Sien l’eclittica o i poli, eternamente
Sarà, se al gener nostro il proprio albergo
E la face del dì non vengon meno.
Queste lievi reliquie e questi segni
Delle passate età, forza è che impressi
Porti quella che sorge età dell’oro:
Perchè mille discordi e repugnanti
L’umana compagnia principii e parti
Ha per natura; e por quegli odii in pace
Non valser gl’intelletti e le possanze
Degli uomini giammai, dal dì che nacque
L’inclita schiatta, e non varrà, quantunque
Saggio sia nè possente, al secol nostro
Patto alcuno o giornal. Ma nelle cose
Più gravi, intera, e non veduta innanzi,
Fia la mortal felicità. Più molli
Di giorno in giorno diverran le vesti
O di lana o di seta. I rozzi panni
Lasciando a prova agricoltori e fabbri,
Chiuderanno in coton la scabra pelle,
E di castoro copriran le schiene.
Meglio fatti al bisogno, o più leggiadri
Certamente a veder, tappeti e coltri,
Seggiole, canapè, sgabelli e mense,
Letti, ed ogni altro arnese, adorneranno
Di lor menstrua beltà gli appartamenti;
E nove forme di paiuoli, e nove
Pentole ammirerà l’arsa cucina.
Da Parigi a Calais, di quivi a Londra,
Da Londra a Liverpool, rapido tanto
Sarà, quant’altri immaginar non osa,
Il cammino, anzi il volo: e sotto l’ampie
Vie del Tamigi fia dischiuso il varco,
Opra ardita, immortal, ch’esser dischiuso
Dovea, già son molt’anni. Illuminate
Meglio ch’or son, benchè sicure al pari,
Nottetempo saran le vie men trite
Delle città sovrane, e talor forse
Di suddita città le vie maggiori.
Tali dolcezze e sì beata sorte
Alla prole vegnente il ciel destina.
Fortunati color che mentre io scrivo
Miagolanti in su le braccia accoglie
La levatrice! a cui veder s’aspetta
Quei sospirati dì, quando per lunghi
Studi fia noto, e imprenderà col latte
Dalla cara nutrice ogni fanciullo,
Quanto peso di sal, quanto di carni,
E quante moggia di farina inghiotta
Il patrio borgo in ciascun mese; e quanti
In ciascun anno partoriti e morti
Scriva il vecchio prior: quando, per opra
Di possente vapore, a milioni
Impresse in un secondo, il piano e il poggio,
E credo anco del mar gl’ immensi tratti,
Come d’aeree gru stuol che repente
Alle late campagne il giorno involi,
Copriran le gazzette, anima e vita
Dell’universo, e di savere a questa
Ed alle età venture unica fonte!
Quale un fanciullo, con assidua cura
Di fogliolini e di fuscelli, in forma
O di tempio o di torre o di palazzo,
Un edificio innalza; e come prima
Fornito il mira, ad atterrarlo è volto,
Perchè gli stessi a lui fuscelli e fogli
Per novo lavorio son di mestieri;
Così natura ogni opra sua, quantunque
D’alto artificio a contemplar, non prima
Vede perfetta, ch’a disfarla imprende,
Le parti sciolte dispensando altrove.
E indarno a preservar se stesso ed altro
Dal gioco reo, la cui ragion gli è chiusa
Eternamente, il mortal seme accorre
Mille virtudi oprando in mille guise
Con dotta man: che, d’ogni sforzo in onta,
La natura crudel, fanciullo invitto,
Il suo capriccio adempie, e senza posa
Distruggendo e formando si trastulla.
Indi varia, infinita una famiglia
Di mali immedicabili e di pene
Preme il fragil mortale, a perir fatto
Irreparabilmente: indi una forza
Ostil, distruggitrice, e dentro il fere
E di fuor da ogni lato, assidua, intenta
Dal dì che nasce; e l’affatica e stanca,
Essa indefatigata; insin ch’ei giace
Alfin dall’empia madre oppresso e spento.
Queste, o spirto gentil, miserie estreme
Dello stato mortal; vecchiezza e morte,
Ch’han principio d’allor che il labbro infante
Preme il tenero sen che vita instilla;
Emendar, mi cred’io, non può la lieta
Nonadecima età più che potesse
La decima o la nona, e non potranno
Più di questa giammai l’età future.
Però, se nominar lice talvolta
Con proprio nome il ver, non altro in somma
Fuor che infelice, in qualsivoglia tempo,
E non pur ne’ civili ordini e modi,
Ma della vita in tutte l’altre parti,
Per essenza insanabile, e per legge
Universal, che terra e cielo abbraccia,
Ogni nato sarà. Ma novo e quasi
Divin consiglio ritrovàr gli eccelsi
Spirti del secol mio: che, non potendo
Felice in terra far persona alcuna,
L’uomo obbliando, a ricercar si diero
Una comun felicitade; e quella
Trovata agevolmente, essi di molti
Tristi e miseri tutti, un popol fanno
Lieto e felice: e tal portento, ancora
Da pamphlets, da riviste e da gazzette
Non dichiarato, il civil gregge ammira.
Oh menti, oh senno, oh sovrumano acume
Dell’età ch’or si volge! E che sicuro
Filosofar, che sapienza, o Gino,
In più sublimi ancora e più riposti
Subbietti insegna ai secoli futuri
Il mio secolo e tuo! Con che costanza
Quel che ieri schernì, prosteso adora
Oggi, e domani abbatterà, per girne
Raccozzando i rottami, e per riporlo
Tra il fumo degl’incensi il dì vegnente!
Quanto estimar si dee, che fede inspira
Del secol che si volge, anzi dell’anno,
Il concorde sentir! con quanta cura
Convienci a quel dell’anno, al qual difforme
Fia quel dell’altro appresso, il sentir nostro
Comparando, fuggir che mai d’un punto
Non sien diversi! E di che tratto innanzi,
Se al moderno si opponga il tempo antico,
Filosofando il saper nostro è scorso!
Un già de’ tuoi, lodato Gino; un franco
Di poetar maestro, anzi di tutte
Scienze ed arti e facoltadi umane,
E menti che fur mai, sono e saranno,
Dottore, emendator, lascia, mi disse,
I propri affetti tuoi. Di lor non cura
Questa virile età, volta ai severi
Economici studi, e intenta il ciglio
Nelle pubbliche cose. Il proprio petto
Esplorar che ti val? Materia al canto
Non cercar dentro te. Canta i bisogni
Del secol nostro, e la matura speme.
Memorande sentenze! ond’io solenni
Le risa alzai quando sonava il nome
Della speranza al mio profano orecchio
Quasi comica voce, o come un suono
Di lingua che dal latte si scompagni.
Or torno addietro, ed al passato un corso
Contrario imprendo, per non dubbi esempi
Chiaro oggimai ch’al secol proprio vuolsi,
Non contraddir, non repugnar, se lode
Cerchi e fama appo lui, ma fedelmente
Adulando ubbidir: così per breve
Ed agiato cammin vassi alle stelle.
Ond’io, degli astri desioso, al canto
Del secolo i bisogni omai non penso
Materia far; che a quelli, ognor crescendo,
Provveggono i mercati e le officine
Già largamente; ma la speme io certo
Dirò, la speme, onde visibil pegno
Già concedon gli Dei; già, della nova
Felicità principio, ostenta il labbro
De’ giovani, e la guancia, enorme il pelo.
O salve, o segno salutare, o prima
Luce della famosa età che sorge.
Mira dinanzi a te come s’allegra
La terra e il ciel, come sfavilla il guardo
Delle donzelle, e per conviti e feste
Qual de’ barbati eroi fama già vola.
Cresci, cresci alla patria, o maschia certo
Moderna prole. All’ombra de’ tuoi velli
Italia crescerà, crescerà tutta
Dalle foci del Tago all’ Ellesponto
Europa, e il mondo poserà sicuro.
E tu comincia a salutar col riso
Gl’ispidi genitori, o prole infante,
Eletta agli aurei dì: nè ti spauri
L’innocuo nereggiar de’ cari aspetti.
Ridi, o tenera prole: a te serbato
È di cotanto favellare il frutto;
Veder gioia regnar, cittadi e ville,
Vecchiezza e gioventù del par contente,
E le barbe ondeggiar lunghe due spanne.
Inno ai patriarchi
E voi de’ figli dolorosi il canto,
Voi dell’umana prole incliti padri,
Lodando ridirà; molto all’eterno
Degli astri agitator più cari, e molto
Di noi men lacrimabili nell’alma
Luce prodotti. Immedicati affanni
Al misero mortal, nascere al pianto,
E dell’etereo lume assai più dolci
Sortir l’opaca tomba e il fato estremo,
Non la pietà, non la diritta impose
Legge del cielo. E se di vostro antico
Error che l’uman seme alla tiranna
Possa de’ morbi e di sciagura offerse,
Grido antico ragiona, altre più dire
Colpe de’ figli, e irrequieto ingegno
E demenza maggior l’offeso Olimpo
N’armaro incontra, e la negletta mano
Dell’altrice natura; onde la viva
Fiamma n’increbbe, e detestato il parto
Fu del grembo materno, e violento
Emerse il disperato Erebo in terra.
Tu primo il giorno, e le purpuree faci
Delle rotanti sfere, e la novella
Prole de’ campi, o duce antico e padre
Dell’umana famiglia, e tu l’errante
Per li giovani prati aura contempli:
Quando le rupi e le deserte valli
Precipite l’alpina onda feria
D`inudito fragor; quando gli ameni
Futuri seggi di lodate genti
E di cittadi romorose, ignota
Pace regnava; e gl’inarati colli
Solo e muto ascendea l’aprico raggio
Di febo e l`aurea luna. Oh fortunata,
Di colpe ignara e di lugubri eventi,
Erma terrena sede! Oh quanto affanno
Al gener tuo, padre infelice, e quale
D’amarissimi casi ordine immenso
Preparano i destini! Ecco di sangue
Gli avari colti e di fraterno scempio
Furor novello incesta, e le nefande
Ali di morte il divo etere impara.
Trepido, errante il fratricida, e l’ombre
Solitarie fuggendo e la secreta
Nelle profonde selve ira de’ venti,
Primo i civili tetti, albergo e regno
Alle macere cure, innalza; e primo
Il disperato pentimento i ciechi
Mortali egro, anelante, aduna e stringe
Ne’ consorti ricetti: onde negata
L’improba mano al curvo aratro, e vili
Fur gli agresti sudori; ozio le soglie
Scellerate occupò, ne’ corpi inerti
Domo il vigor natio. languide, ignave
Giacquer le menti; e servitù le imbelli
Umane vite, ultimo danno, accolse.
E tu dall’etra infesto e dal mugghiante
Su i nubiferi gioghi equoreo flutto
Scampi l’iniquo germe, o tu cui prima
Dall’aer cieco e da’ natanti poggi
Segno arrecò d’instaurata spene
La candida colomba, e delle antiche
Nubi l`occiduo Sol naufrago uscendo,
L’atro polo di vaga iri dipinse.
Riede alla terra, e il crudo affetto e gli empi
Studi rinnova e le seguaci ambasce
La riparata gente. Agl’inaccessi
Regni del mar vendicatore illude
Profana destra, e la sciagura e il pianto
A novi liti e nove stelle insegna.
Or te, padre de’ pii, te giusto e forte,
E di tuo seme i generosi alunni
Medita il petto mio. Dirò siccome
Sedente, oscuro, in sul meriggio all’ombre
Del riposato albergo, appo le molli
Rive del gregge tuo nutrici e sedi,
Te de’ celesti peregrini occulte
Beàr l’eteree menti; e quale, o figlio
Della saggia Rebecca, in su la sera,
Presso al rustico pozzo e nella dolce
Di pastori e di lieti ozi frequente
Aranitica valle, amor ti punse
Della vezzosa Labanide: invitto
Amor, ch’a lunghi esigli e lunghi affanni
E di servaggio all’odiata soma
Volenteroso il prode animo addisse.
Fu certo, fu (nè d’error vano e d’ombra
L’aonio canto e della fama il grido
Pasce l’avida plebe) amica un tempo
Al sangue nostro e dilettosa e cara
Questa misera piaggia, ed aurea corse
Nostra caduca età. Non che di latte
Onda rigasse intemerata il fianco
Delle balze materne, o con le greggi
Mista la tigre ai consueti ovili
Nè guidasse per gioco i lupi al fonte
Il pastorel; ma di suo fato ignara
E degli affanni suoi, vota d’affanno
Visse l’umana stirpe; alle secrete
Leggi del cielo e di natura indutto
Valse l’ameno error, le fraudi, il molle
Pristino velo; e di sperar contenta
Nostra placida nave in porto ascese.
Tal fra le vaste californie selve
Nasce beata prole, a cui non sugge
Pallida cura il petto, a cui le membra
Fera tabe non doma; e vitto il bosco,
Nidi l’intima rupe, onde ministra
L’irrigua valle, inopinato il giorno
Dell’atra morte incombe. Oh contra il nostro
Scelerlato ardimento inermi regni
Della saggia natura! I lidi e gli antri
E le quiete selve apre l’invitto
Nostro furor; le violate genti
Al peregrino affanno, agl’ignorati
Desiri educa; e la fugace, ignuda
Felicità per l’imo sole incalza.
Martha Argerich puoi conoscerla attraverso la sua biografia scritta da Olivier Bellamy: un libro interessante, intrigante e ricco di aneddoti, corredato di cronologia, premi, galleria fotografica, repertorio, discografia e videografia, documentari, indici dei nomi, delle etichette, delle opere citate, dei musicisti, dei cantanti, dei cori, dei luoghi, delle orchestre e degli ensemble che hanno collaborato con la grande pianista argentina.
Olivier Bellamy
MARTHA ARGERICH- L’enfant et les sortilèges-
Presentazione di Carlo Piccardi
pagine XII+356 – formato cm. 17×24 – illustrato
Collana “Personaggi della Musica”, 19 – euro 25,00
Genio del pianoforte”, “miracolo della natura”, “ciclone argentino”, o ancora “leonessa della tastiera”: non mancano certo le definizioni per evocare la dirompente personalità di Martha Argerich. Nata nel 1941, la leggendaria pianista argentina, applaudita sulle scene internazionali da decenni, affascina per la potenza delle sue esecuzioni e per il mistero della sua personalità. Il suo temperamento indomabile, il carattere libero e indipendente ne fanno un personaggio davvero atipico nel mondo della musica classica. In una narrazione costellata di aneddoti inediti e di sorprendenti rivelazioni, Olivier Bellamy dipana le fila di una vita ricca di eventi e di sviluppi imprevedibili: dall’infanzia in Argentina, quand’era bambina prodigio a Buenos Aires, passando per gli studi di perfezionamento dapprima a Vienna con Friedrich Gulda e quindi ad Arezzo e Moncalieri con Arturo Benedetti Michelangeli, per arrivare alle decisive affermazioni del Premio Busoni di Bolzano e del Concorso di Ginevra e all’apoteosi dello “Chopin” di Varsavia, fino agli anni più recenti, caratterizzati anche da momenti di profonda crisi, da rinunce ai concerti e ancora da trionfali ritorni… Di città in città (Buenos Aires, Vienna, Bolzano, Amburgo, New York, Ginevra, Bruxelles, Londra, Rio de Janeiro, Mosca…), attraverso i suoi colleghi musicisti, gli amori, le amicizie, il libro delinea il ritratto intimo di un’artista dalla profonda umanità.
Richiedete il libro nei migliori negozi o a questo link:
Giovanni Gastel:<<Con la fotografia guadagno, con la poesia mi racconto.>>
Affermazione di Giovanni Gastel (Milano, 1955 – Milano, 2021), fotografo di fama internazionale e poeta, tratta da un’intervista al magazine K Mag.
Scomparso a causa del Covid 19 all’età di 65 anni, l’artista milanese è stato soprattutto un celebre fotografo di Moda, autore in Italia, Francia, Regno Unito e Spagna delle campagne promozionali dei principali stilisti europei.
Apparteneva ad una famiglia dell’alta borghesia meneghina che annoverava altri importanti geni dell’immagine, come lo zio Luchino Visconti, fratello di sua madre, uno dei maggiori registi del Cinema italiano.
Gastel si è dedicato anche al ritratto, coronando nel 2020 la sua prestigiosa carriera con una mostra al museo Maxxi di Roma di 200 foto di VIP mondiali, tra cui Barack Obama.
Non rinunciò mai, però, a coltivare la sua passione per la scrittura. A soli sedici anni pubblicò la sua prima raccolta di versi per l’editore Cortina, dal titolo ‘Casbah’, mentre l’ultima silloge risale al 2009 e si chiama ‘Cinquanta’.
“Avrei fatto il poeta -confidava ad Arts Life- se non avessi incontrato questo amore folgorante per la fotografia.”
Risuona nella sua poesia lirica ed intimista, dal dettato volutamente sobrio ed accessibile, l’eco di una vita eccezionale, illuminata dal talento e dal senso estetico, ma purtroppo stroncata precocemente dal virus pandemico il 13 marzo di tre anni fa.
“Fotografia e Poesia -spiegava- sono due mondi separati. Con le immagini racconto il mondo come vorrei che fosse. Le mie poesie invece sono uno strumento di dialogo, non una ‘pippa’ per me stesso. Non scrivo in modo roboante! Io scrivo della vita semplice e che tutti possono capire.”
Poesie di Giovanni Gastel
OMBRA
(Giovanni Gastel)
Ombra che conforti
scendi con la sera
su questo mio corpo stanco
parlami dell’altra vita che verrà
o del nulla che mi aspetta
quando finirà questa battaglia dentro di me.
Paura e pace si abbracciano in ogni addio.
SE NON FOSSE
Se non fosse per questa splendida
giornata di pioggia incessante.
Un abbraccio d’acqua.
Un battesimo del
cielo.
Un lavacro del corpo
e dell’anima insieme.
Se non fosse per il ricordo nitido
che questa pioggia mi porta
del tuo impermeabile nero stretto in vita
mentre mi guardi con amore,
cosa sarei se non un altro vecchio
appoggiato al tempo che finisce.
RICORDO
Ricordo un piccolo cane
disteso sull’erba tra noi due.
Era il momento dei pensieri profondi
e delle paure.
Era il tempo difficile dell’adolescenza.
Non ricordo
come vorrebbero da me i poeti illuminati
“Un uggioso divenire di rugiade cedevoli
e neppure cieli rovinosi di arcane memorie”.
Ricordo solo un prato fresco
e due giovani anime distese
e un piccolo cane addormentato.
E il futuro che ci guardava con dolcezza
sotto forma di nuvola immobile
sopra di noi.
Giovanni Gastel, one of the greatest fashion and entertainment photographers
Giovanni Gastel, one of Italy’s greatest fashion and entertainment photographers, passed away today at Milan’s Fiera Hospital at the age of 65. He had been hospitalized for a Covid-19 infection. He was born in Milan on December 27, 1955, to Giuseppe Gastel and Ida Visconti di Modrone (he was a grandson of Luchino Visconti on his mother’s side), and was the last of seven children. He had begun working in the world of photography in the 1970s, when he was very young: instead, his arrival to professionalism dates back to the early 1980s, when he began working first for Annabella and then for fashion magazines such as Vogue, Elle and Vanity Fair, and for fashion brands such as Christian Dior, Gianni Versace, Trussardi, Krizia, and Ferragamo.
Gastel’s forays into the artistic field are also several, which can be said to have officially opened in 1997 with an exhibition of his work at the Milan Triennale, curated by Germano Celant. In the 2000s, the Milanese photographer delved into the genre of portraits, and with his camera he captured personalities such as Barack Obama, Ettore Sottsass, Marco Pannella, Roberto Bolle, Gianna Nannini and many other well-known faces from the world of entertainment. In 2020, a major exhibition of his had been held at MAXXI in Rome with more than 200 portraits from the world of culture, design, art, music, politics, and entertainment.
“Covid has also snatched Giovanni Gastel from us,” said Cultural Heritage Minister Dario Franceschini. “Italian photography loses a great protagonist loved and esteemed all over the world. An original, graceful artist with a profound aesthetic sense who, with his shots, was able to portray and capture the intimacy of the great personalities of fashion and international culture. Only a few months ago I had the honor of visiting with him his last beautiful exhibition at MAXXI that documented an important part of his work as an artist in over forty years of activity. We will miss his art and his intelligence.”
Palazzo Corsini, dal 28 settembre al 6 ottobre 2024
La Biennale Internazionale dell’Antiquariato di Firenze (BIAF) 2024 presenta il ricco programma di conferenze e presentazioni che animeranno il prestigiosoSalone del Trono di Palazzo Corsini durante le giornate di apertura della sua 33ma edizione. L’evento, che rappresenta una delle più importanti manifestazioni dedicate all’arte italiana a livello mondiale, promette di essere un’edizione straordinaria, con opere di inestimabile valore e prestigiosi espositori da Italia ed estero.
Questo ciclo di eventi offrirà al pubblico un’opportunità unica per esplorare, approfondire e discutere temi legati all’arte, alla storia e al collezionismo, in compagnia di esperti di fama internazionale. La Biennale Internazionale dell’Antiquariato di Firenze non è solo un’esposizione di opere d’arte, ma anche un vivace centro di dibattito e approfondimento culturale. Quest’anno, il ciclo di conferenze – ben 24 – si presenta come un calendario ricco di appuntamenti che spaziano dalle grandi mostre internazionali ai temi più attuali del collezionismo e della tutela del patrimonio artistico.
Un viaggio tra passato e presente. Dalle antiche maioliche del Museo del Bargello ai restauri delle opere del Museo Ginori, passando per la figura di Michelangelo e le opere di Lorenzo Bartolini, le conferenze offrono un’opportunità unica per immergersi nella storia dell’arte e approfondire la conoscenza di opere e artisti di fama mondiale.
Dibattiti e prospettive future. Ma la Biennale guarda anche al futuro. Le conferenze dedicate ai giovani collezionisti, alla circolazione dei beni culturali e alle nuove tecnologie nel mondo dei musei testimoniano l’attenzione dell’evento verso le sfide e le opportunità del settore.
Un’occasione per confrontarsi e crescere. Il ricco programma di incontri, organizzati in collaborazione con le principali istituzioni culturali fiorentine e italiane, rappresenta un’occasione preziosa per antiquari, collezionisti, studiosi e appassionati d’arte di confrontarsi, condividere esperienze e ampliare i propri orizzont
Le conferenze si tengono tutti i pomeriggi nel Salone del Trono di Palazzo Corsini, dal 26 settembre al 5 ottobre.
Ingresso gratuito ma è necessario essere in possesso del biglietto di ingresso alla BIAF
Informazioni
ORARI E BIGLIETTI
Orari: tutti i giorni dalle ore 10,30 alle ore 20,00.
Biglietti: € 15,00 Intero; €10,00 ridotto
Biglietteria online su Ticketone
PROGRAMMA
26 Settembre 2024
Ore 12,00 – Conferenza Stampa nel Salone del Trono di Palazzo Corsini.
Ore 19,00 – Palazzo Corsini, anteprima della Mostra ad inviti.
Ore 21,00 – Palazzo Corsini, Salone del Trono, gala dinner.
A seguire spettacolo pirotecnico.
27 Settembre 2024
Dalle ore 10,30 – accesso riservato ai possessori della VIP card.
Dalle ore 12,00 alle ore 20,00 – Preview ad inviti riservata a Soprintendenti, Direttori di Musei internazionali
e collezionisti.
Ore 21,00 – Cena di beneficenza nel Salone dei Cinquecento di Palazzo Vecchio in favore della Andrea
Bocelli Foundation.
28 Settembre 2024
Ore 10,30 – Cerimonia inaugurale in Palazzo Vecchio, Salone dei Cinquecento.
Dal 28 Settembre al 6 Ottobre 2024
Apertura al pubblico con orario continuato 10,30 – 20,00
***
Dal 28 Settembre al 6 Ottobre 2024 ciclo di conferenze e presentazione di volumi d’arte nel Salone del Trono di Palazzo Corsini
26 settembre 2024, ore 15 – Presso l’Altana di Palazzo Strozzi conferenza Italia America, Musei a confronto
29 settembre 2024, ore 16 – Presentazione del catalogo “Maioliche e Ceramiche del Museo Nazionale del Bargello” di Marino Marini, edito da Umberto Allemandi, a cura di Friends of Bargello
29 settembre 2024, ore 17,30 – Proiezione del documentario “Casa Buonarroti”, prodotto da Zhong Art International nell’ambito del ciclo “Rinascimento: i musei di Firenze raccontati dai loro direttori”. L’evento è introdotto da un talk “I musei fiorentini, tra social media e overtourism”
30 settembre 2024, ore 11 – Presentazione del progetto editoriale “Roma 1618 Gian Lorenzo Bernini e il San Sebastiano Aldobrandini” di Maichol Clemente, DARTE Editore
30 settembre 2024, ore 16 – Presentazione dei volumi intitolati “Cecco Bravo” di Francesca Baldassari, DARTE Editore
30 settembre 2024, ore 17,30 – Presentazione del catalogo della Mostra “Il volto e l’allegoria. Sculture di Lorenzo Bartolini” a cura di Carlo Sisi, che si tiene presso la Fondazione Rovati di Milano
1 ottobre 2024, ore 11 – Conferenza “I giovani e il collezionismo di arte antica: questione di prospettive” organizzata dal Gruppo Giovani dell’Associazione Dimore Storiche Italiane
1 ottobre 2024, ore 15 – Conferenza celebrativa dei 100 anni dalla nascita di Giuseppe De Vito a cura dell’omonima Fondazione “Collezionare il Seicento napoletano: un profilo di Giuseppe De Vito nel centenario della sua nascita”
1 ottobre 2024, ore 17 – Conferenza “Sisterhood in Art – Celebrating the 500° year Anniversary of the Birth of Plautilla Nelli”. Omaggio a Plautilla Nelli nel cinquecentesimo anniversario della nascita
1 ottobre 2024, ore 18 – Presentazione dei recenti restauri di opere del Museo Ginori e del volume dei Quaderni “Ginori in asta. Uno sguardo alle vendite degli ultimi vent’anni” a cura dell’Associazione Amici di Doccia.
2 ottobre 2024, ore 10,30 – Dibattito Il progetto Arbitrato e Arte della Camera Arbitrale di Firenze a cura della Camera di Commercio di Firenze.
2 ottobre 2024, ore 12 – Consegna Premi BIAF2024 per il più bel dipinto, la più bella scultura e l’oggetto di arte decorativa più bello esposti in Mostra. A seguire consegna del “Lorenzo d’Oro”
2 ottobre 2024, ore 16 – Presentazione del libro “L’arte nelle Istituzioni” a cura di Tiziana Ferrari, Skira Editrice
2 ottobre 2024, ore 18 – “Storie di antiquari in Italia tra Otto e Novecento Nuovi progetti e risorse della Fondazione Zeri” a cura della Fondazione Federico Zeri.
3 ottobre 2024, ore 10,30 – Presentazione del libro “Galleria Corsini Firenze”, edizioni Centro Di
3 ottobre 2024, ore 12 – Consegna del premio “Margutta 54”, dedicato ai giornalisti under 40 che raccontano l’arte, promosso dalla Galleria Antonacci Lapiccirella fine Art
3 ottobre 2024, ore 15,30 – Convegno sulla circolazione dei beni culturali organizzato dal Gruppo Apollo
3 ottobre 2024, ore 18 – Conversazione “Le donne nell’arte: la collezione e il museo di Christian Levett” con Fabrizio Moretti e Christian Levett, modera Margherita Solaini
3 ottobre 2024, ore 19 – Presentazione del libro “Settimia Maffei Marini mosaicista romana” a cura di Maria Grazia Branchetti, Gangemi Editore
4 ottobre 2024, ore 11 – Presentazione del libro “Le dimore del patrimonio. Opere delle gallerie fiorentine in deposito esterno a sedi di rappresentanza e luoghi di culto” di Maria Sframeli, Editrice Polistampa
5 ottobre 2024, ore 11 – Presentazione del libro “Un secolo d’incanto: i cento anni di Pandolfini e il collezionismo italiano” a cura di Marco Riccomini
5 ottobre 2024, ore 15 – Presentazione del libro “Deodato Orlandi. Dalla «maniera greca» al Trecento” DI Angelo Tartuferi, Editrice Polistampa
5 ottobre 2024, ore 16 – Convegno “Donazioni pubbliche di grandi antiquari” a cura degli Amici del Museo Stibbert
5 ottobre 2024, ore 18 – Presentazione “Un Pietro Lorenzetti per Pienza. Il San Luca dal Polittico di Monticchiello”
È considerata una delle prime poetesse che introdussero l’uso del verso libero nella rigida struttura poetica araba.
Nazik al-Mala’ika nacque a Baghdad nel 1922 da genitori entrambi poeti, prima di sette figli. Il padre, insegnante, fu anche editore di un’enciclopedia in 20 volumi; la madre aveva scritto poesie contro la dominazione britannica. Sin da piccola mise in mostra la sua propensione all’arte poetica componendo la sua prima poesia in arabo classico all’età di soli 10 anni.
Frequentò il College universitario di Baghdad, laureandosi in letteratura nel 1944, avendo studiato anche musica. Mentre era ancora al college, pubblicò alcune poesie su giornali e riviste. La sua prima raccolta di poesie, Āshiqat al-laylā (L’amante della notte), è pubblicata nel 1947.
Grazie alla sua buona conoscenza della lingua inglese vinse una borsa di studio presso l’università di Princeton nel New Jersey. Nel 1954 proseguì i suoi studi nel Wisconsin dove conseguì il master in Letterature Comparate, ottenendo poco dopo una cattedra universitaria di letteratura.
Nel 1961 sposò ‘Abd al-Hadi Mahbuba, suo collega nella sezione di lingua araba presso il College di Baghdad. Con il marito contribuì a fondare l’Università di Basra, nel sud dell’Iraq. Molte delle sue opere sono state pubblicate a Beirut, in Libano, dove si trasferì alla fine del 1950.
Nel 1970 lasciò il suo paese in compagnia del marito e visse in Kuwait fino a che nel 1990Saddam Hussein invase il paese. Dopo il 1990 si trasferì al Cairo, dove trascorse il resto della sua vita.
Morì nel 2007, all’età di 85 anni a causa di una serie di problemi di salute tra i quali la malattia di Parkinson.
Il Colera
Nell’orrida cripta putridi resti:
nel silenzio perenne e spietato,
dove la morte è un balsamo,
si è risvegliato il colera.
Astioso si aggira con rabbia,
cerca la lieta valle luminosa,
urla come un pazzo convulso
senza riguardo per chi piange.
Ovunque il segno dei suoi artigli:
nella capanna o la casa contadina
soltanto si odono grida di morte,
di morte di morte di morte.
Ecco che la morte infierisce
per mezzo del colera spietato
e nel silenzio amaro si ode
solo un sottofondo di preghiera.
Anche il becchino si arresta
senza più nemmeno un aiuto;
è morto anche il muezzìn:
chi pregherà per i morti?
Inesausto resta un sospiro
e il pianto infante dell’orfano,
ma domani anche lui – è sicuro –
ghermirà il morbo ferino.
O spettro perenne del colera,
triste desolazione di morte,
di morte di morte di morte.
IL CONVITATO ASSENTE
Già trascorsa la sera
volge la luna al tramonto
ed eccoci a contare
le ore di un’altra notte,guardando la luna
scivolare nell’abisso
e con lei l’allegria
senza che tu sia venuto
perso con le mie speranze,
fissando la tua sedia vuota
in compagnia della tristezza
dopo aver chiesto invocato
in silenzio la tua venuta.
Mai avrei immaginato
dopo tutti questi anni
la tua ombra ancora
in grado di sovrastare
ogni pensiero ogni parola,
ogni passo ogni sguardo,
né potevo sapere che tu
saresti stato più forte
di ogni altra presenza
e che l’unico assente
fra tutti i convitati
eclissasse ogni altro
in un mare di nostalgia.
Certo se tu fossi venutoci saremmo intrattenuti
a conversare con gli amici
finché fossero partiti
e allora anche tu forse
saresti parso come gli altri,ma la sera è già passata
e il mio sguardo gridando
interrogava ogni sedia vuota
cercando fra gli astanti
sino alla fine della sera
l’unico che non è venuto.
Che tu arrivi un giorno
ormai non lo desidero:dai miei ricordi all’istante
svanirebbero il profumo
e i colori di quest’assenza,rotta l’ala alla fantasia
languirebbero le mie canzoni.
Stringendo le dita
intorno ai frantumi
dell’ingenua mia speranza
ho scoperto di amarti
nelle sembianze del sogno,e se anche tu fossi qui
adesso in carne ed ossa
io seguiterei a sognare
quell’invitato assente.
Traduzione di Pino Blasone
IO
la notte mi chiede chi sono
sono il segreto della profonda nera insonnia
sono il suo silenzio ribelle
ho mascherato l’anima di questo silenzio
ho avvolto il cuore di dubbi
immota qui
porgo l’orecchio
e i secoli mi chiedono
chi sono
E il vento chiede chi sono
sono la sua anima inquieta rinnegata dal tempo
come lui sono in nessun luogo
continuiamo a camminare e non c’è fine
continuiamo a passare e non c’è posa
giunti al baratro
lo crediamo il termine della pena
e quello è invece l’infinito
Il destino chiede chi sono
potente come lui piego le epoche
e ridòno loro la vita
creo il passato più remoto
dall’incanto di una vibrante speranza
e lo sotterro ancora
per forgiarmi un nuovo ieri
di un un domani gelido
Il sé chiede chi sono
come lui vago, gli occhi fissi nel buio
nulla che mi doni la pace
resto ancora e chiedo, e la risposta
resta nascosta dietro il miraggio
ancora lo credo vicino
al mio raggiungerlo tramonta
dissolto, dispare
INVITO ALLA VITA
Arrabbiati, ti amo arrabbiato e ribelle,
rivoluzione cocente, esplosione.
Ho odiato il fuoco che dorme in te, sii di brace
diventa una vena appassionata, che grida e s’infuria.
Arrabbiati, il tuo spirito non vuole morire
non essere silenzio innanzi al quale scateno la mia tempesta.
La cenere degli altri mi è sufficiente,
tu, invece, sii di brace.
Diventa fuoco ispiratore delle mie poesie.
Arrabbiati, abbandona la dolcezza, non amo ciò che è dolce
il fuoco è il mio patto, non l’inerzia o la tregua con il tempo
non riesco più ad accettare la serietà
e i suoi toni gravi e tranquilli.
Ribellati al silenzio umiliante
non amo la dolcezza ti amo pulsante e vivo
come un bambino come una tempesta,
come il destino assetato di gloria suprema, nessun profumo
può alterare le tue visioni, nessuna rosa…
La pazienza? È la virtù dei morti.
Nel gelo dei cimiteri, sotto l’egida dei versi
si sono addormentati e abbiamo dato calore alla vita
un calore esaltato, passione degli occhi e delle gote.
Non ti amo oratore, ma poeta
il cui inno esprime ansia
tu canti, sebbene alterato,
anche se la tua gola sanguina
e se la tua vena brucia.
Ti amo boato dell’uragano nel vasto orizzonte
bocca tentata dalla fiamma,
disprezzando la grandine
dove giacciono desiderio e nostalgia.
Odio le persone immobili
aggrotta le sopracciglia,
mi annoi quando ridi
le colline sono fredde o calde,
la primavera non è eterna
il genio, mio caro amico, è cupo
e i ridenti sono escrescenze della vita
amo in te la sete eruttiva del vulcano
l’aspirazione della notte profonda
a incontrare il giorno
il desiderio della sorgente generosa
di stringere le otri
ti voglio fiume di fuoco,
la cui onda non conosce fondo.
Arrabbiati contro la morte maledetta
non sopporto più i morti.
ORAZIONE FUNEBRE PER UNA DONNA INSIGNIFICANTE
Ci ha lasciati senza un pallore di gota o un fremito di labbrale porte non hanno sentito nessuno narrare della sua morte nessuna tenda alle finestre stillante doloresi è levata per seguire il suo feretro sino a che non scompaia dalla vistaa eccezione delle poche persone che si sono commosse al suo ricordo.La notizia si è dissolta nei vicoli senza che il suo eco si diffondessee si è rifugiata nell’oblio di alcune fossela luna ha pianto questa tragedia.
La notte non se n’è curata e si è trasformata in giornoQuindi è giunta la luce con le grida del lattaio, il digiuno,il miagolio di un gatto affamato tutto pelle ed ossa,le liti dei commercianti, l’amarezza, la lotta,i bambini che lanciano pietre da un lato all’altro della strada,le acque sporche nei canali e i venti che giocano da soli con le porte delle terrazzein un oblio pressoché totale.
Traduzioni di Valentina Colombo
UN INVITO A SOGNARE
Suvvia … sogniamo, che la dolce notte si avvicina
e il buio tenero, le guance delle stelle ci chiamano
vieni … andiamo a cercare sogni, a contare fili di luce
e rendiamo il declivio della sabbia testimone del nostro amore
Cammineremo insieme sul petto della nostra isola insonne
e lasceremo sulla sabbia le orme dei nostri passi randagi
e verrà il mattino a gettare le fresche rugiade
e magari spunterà, dove abbiamo sognato, un fiore
Sogneremo di salire verso le montagne della luna
a dilettarci lì dove non c’è fine e non c’è nessuno
lontani … lontani, dove il ricordo
non potrà raggiungerci, poiché saremo al di là della ragione
Sogneremo di tornare fanciulli, noi due , sopra le colline
correremo, innocenti, sulle rocce e pascoleremo i cammelli
vagabondi senza dimora se non la capanna dell’immaginazione
e quando dormiremo ci inzacchereremo di sabbia
Sogneremo di camminare verso l’ieri e non nel domani
e di arrivare a Babilonia in un’alba fresca
porteremo al tempio, come due innamorati, il patto d’amore
e ci benedirà un sacerdote babilonese con mano pura
COMPIANTO DI UN GIORNO VACUO
Nel lontano orizzonte si intravide il buio
finì il giorno estraneo
e i suoi echi si voltarono verso le caverne dei ricordi
e come era la mia vita così sarà anche domani
un labbro assetato e un bicchiere
la cui profondità rispecchia il colore di un odore
e semmai lo sfiorassero le mie labbra
non troverebbero i resti del sapore dei ricordi
non troverebbero nemmeno i resti
finì il giorno estraneo
finì e perfino i peccati singhiozzarono
e piansero anche le sciocchezze che io chiamai
ricordi
finì e non rimase nella mia mano
se non il ricordo d’una melodia che gridava nell’interiorità del mio essere
compiangendo la mia mano da cui svuotai
la mia vita, i miei ricordi lontani, e un giorno della mia giovinezza
tutto si perse nella valle dei miraggi
nella nebbia
era un giorno della mia vita
lo gettai perso senza agitazione
sui resti della mia giovinezza
presso il colle dei ricordi
sopra le migliaia di ore perse nella nebbia
nei labirinti di notti lontane
fu un giorno vacuo. Fu strano
che le ore pigre suonassero e calcolassero i miei momenti
non era un giorno della mia vita
era piuttosto un’indagine orrenda
del resto dei maledetti ricordi che strappai
insieme al bicchiere che ruppi
presso la tomba della mia speranza morta, dietro gli anni
dietro il mio essere
fu un giorno vacuo .. fino all’arrivo della sera
le ore passarono in uno stato di semipianto
tutte quante fino a sera
quando la sua voce svegliò il mio udito
la sua dolce voce che persi
quando la tenebra cinse l’orribile orizzonte
e si cancellarono i resti del mio dolore, e anche i miei peccati
e si cancellò la voce di Habibi la mano del tramonto portò via i suoi echi
in un posto nascosto agli occhi del cuore
sparì e non rimase nulla se non il ricordo e il mio amore
e l’eco di un giorno estraneo
come il mio pallore
e fu vano supplicarlo di ridarmi indietro la voce di Habibi
Traduzione di Gassid Mohammed
CINQUE CANTI AL DOLORE
1
Dispensa alle notti tristezza e smania
Ci versa negli occhi calici d’insonnia
Sulla nostra via l’abbiam trovato
Un mattino d’abbondante pioggia
Gli abbiam dato dell’amore
Un cenno di pietà e un angolo remoto
Pulsante ormai nel nostro cuore
**
Non ci ha più lasciati nè si è allontanato
Una volta mai dal nostro cammino
Ci segue lungo tutta l’esistenza
Ah non gli avessimo dato da bere nemmeno una goccia
Quel triste mattino
Dispensa alle notti tristezza e smania
Ci versa negli occhi calici d’insonnia.
2
Da dove ci viene il dolore?
Da dove viene?Ha stretto i nostri sogni col passato
Nutrito le nostre rime
Ieri lo abbiam trascinato nelle acque in profondità
Frantumato e disperso nei flutti del lago
Di lui non abbiam serbato alcuna traccia
Convinti d’esser tornati salvi dalla sua malvagità
Mai più tristezza scagliata sui nostri sorrisi
Mai pù singulti celati forti dietro i nostri canti
**
Abbiam rievuto poi rosa rossa aulente
Ce l’hanno inviata d’oltre mare i nostri amati
Che ci aspettavamo? Gioia e lieto appagamento?
Pur si è disvelata e ha fatto scorrer lacrime assetate d’ardore
Bagnando le nostre dita tristemente intonate
Noi ti amiamo oh dolore
**
Da dove ci viene il dolore?
Da dove viene?
Ha stretto i nostri sogni col passato
Nutrito le nostre rime
Poiché siam per lui sete e bocca riarsa
Che lo mantiene in vita e ci disseta.
3
Non possiamo vincere il dolore?
Rimandarlo al giorno dopo? O un mattino
Tenerlo occupato? Distrarlo con un gioco? Un canto?
Una antica filastrocca andata?
**
Chi sarà mai questo dolore
Un tenero fanciullo dagli occhi curiosi
Acquietato da un tocco affettuoso
E messo a dormire col sorriso e una cantilena
**
Oh chi ci ha offerto le lacrime e il rimpianto?
Chi se non lui non ha avuto cuore alla nostra tristezza
Per poi venir da noi in lacrime a chiederci di amarlo
Chi se non lui ci ha elargito tormenti col sorriso?
**
Questo piccino…ha assolto chi ha peccato
Nemico amato amico odiato
Colpo di pugnale cui ci chiede offrir la guancia
Senza un rimorso senza alcun dolore
**Fanciullo, abbiam perdonato quella mano e quella bocca
Che negli occhi solchi di lacrime ci scava
E le ferite riapre volta a volta
Sì, da tempo perdonato e l’offesa e la rovina
4
Come dimenticheremo il dolore?
Come lo dimenticheremo?
Chi illuminerà per noi La notte della sua memoria?
Lo berremo lo mangeremo
Seguiremo il vagare dei suoi passi
E se dormiremo, la sua ombra
Sarà l’ultima che vedremo
**
I suoi contorni la prima cosa
Che riconosceremo al mattino
Con noi lo porteremo ovunque
ci porteranno la speranza e le ferite
**
Gli permetteremo di erigere pareti
Fra i nostri aneliti e la luna
Fra la nostra passione e il fresco ruscello
Fra i nostri occhi e i nostro sguardo
**
Gli permetteremo di versare l’afflizione
E negli occhi la tristezza
Lo accoglieremo in una gola inebriata
Fra le pieghe dei nostri canti
**
Alla fine i fiumi se lo porteranno
Gli darà un guanciale il cactus
Scenderà nella valle l’oblio
Oh tristezza buona sera!
**
Dimenticheremo il dolore
Lo dimenticheremo
Poiché con fervore
Lo avremo dissetato
5
Ti abbiamo incoronato divinità nel sonno dell’alba
E sul tuo altare argenteo ci siamo imbrattati la fronte
Oh nostro amore, o dolore
E abbiam bruciato l’incenso con lino e sesamo
Offerto sacrifici, intonato versi
A melodie babilonesi
**
Per te abbiam costruito un tempio
dai muri profumati
E irrorato la terra
con olio e vino schietto
E lacrime brucianti
Per te abbiamo acceso fuochi
con foglie di palma
Stoppie di grano e la nostra angoscia,
lunga la notte
E il labbro silente
**
Abbiamo salmodiato e chiamato e fatto voti
Con datteri di un ‘ebbra Babilonia e pane e vini
E rose liete
Innanzi ai tuoi occhi abbiam pregato,
abbiamo offerto sacrifici
Infilato amare lacrime
In un rosario
**
Oh tu che ci hai concesso
e musica e canti
Oh lacrime che saggezza
ci avete elargito,
oh fonte dei pensieri
Abbondanza e fertilità
Crudele tenerezza, castigo colmo di pietà
Ti abbiam nascosto nei nostri sogni,
in ogni nota
Dei nostri canti desolati
CANTO D’AMORE PER LE PAROLE
Perché abbiamo paura delle parole
quando sono state mani dal palmo rosa
delicate quando ci accarezzano gentilmente le gote
e calici di vino rincuorante
sorseggiato, un’estate, da labbra assetate?
Perché abbiamo paura delle parole
quando tra di loro vi sono parole simili a campane invisibili,
la cui eco preannuncia nelle nostre vite agitate
la venuta di un’epoca di alba incantata,
intrisa d’amore e vita?
Allora perché abbiamo paura delle parole?
Ci siamo assuefatti al silenzio.
Ci siamo paralizzati, temendo che il segreto possa dividere
le nostre labbra.
Abbiamo pensato che nelle parole giaceva un folletto
invisibile,
rannicchiato, nascosto dalle lettere dalle orecchie del tempo.
Abbiamo incatenato le lettere assetate,
vietando loro di diffondere la notte per noi
come un cuscino, gocciolante di musica, sogni,e caldi calici.
Perchè abbiamo paura delle parole?
Tra di loro ne esistono di incredibile dolcezza
le cui lettere
hanno estratto il tepore
della speranza da due labbra,e altre che, esultando di gioia
si sono fatte strada
tra la felicità momentanea di due occhi inebriati.
Parole, poesia, teneramente
hanno accarezzato le nostre gote,
suoni che, assopiti nella loro eco, colorano, una frusciante,
segreta passione, un desiderio segreto.
Perché abbiamo paura delle parole?
Se una volta le loro spine ci hanno ferito,
hanno anche avvolto le loro braccia attorno al nostro collo
e diffuso il loro dolce profumo sui nostri desideri.
Se le loro lettere ci hanno trafitto
e il loro viso si è voltato stizzito
ci hanno anche lasciato un liuto in mano
e domani ci inonderanno di vita.Su, versaci due calici di parole!
Domani ci costruiremo un nido di sogni di parole
in alto, con l’edera che discende dalle sue lettere.
Nutriremo i suoi germogli con la poesia
e innaffieremo i suoi fiori con le parole.
Costruiremo un terrazzo con la timida rosa
con colonne fatte di parole,
e una stanza fresca inondata di ombra,
protetta da parole.
Abbiamo dedicato la nostra vita come una preghiera
Chi pregheremo… se non le parole
È considerata una delle prime poetesse che introdussero l’uso del verso libero nella rigida struttura poetica araba.
Nazik al-Mala’ika nacque a Baghdad nel 1922 da genitori entrambi poeti, prima di sette figli. Il padre, insegnante, fu anche editore di un’enciclopedia in 20 volumi; la madre aveva scritto poesie contro la dominazione britannica. Sin da piccola mise in mostra la sua propensione all’arte poetica componendo la sua prima poesia in arabo classico all’età di soli 10 anni.
Frequentò il College universitario di Baghdad, laureandosi in letteratura nel 1944, avendo studiato anche musica. Mentre era ancora al college, pubblicò alcune poesie su giornali e riviste. La sua prima raccolta di poesie, Āshiqat al-laylā (L’amante della notte), è pubblicata nel 1947.
Grazie alla sua buona conoscenza della lingua inglese vinse una borsa di studio presso l’università di Princeton nel New Jersey. Nel 1954 proseguì i suoi studi nel Wisconsin dove conseguì il master in Letterature Comparate, ottenendo poco dopo una cattedra universitaria di letteratura.
Nel 1961 sposò ‘Abd al-Hadi Mahbuba, suo collega nella sezione di lingua araba presso il College di Baghdad. Con il marito contribuì a fondare l’Università di Basra, nel sud dell’Iraq. Molte delle sue opere sono state pubblicate a Beirut, in Libano, dove si trasferì alla fine del 1950.
Nel 1970 lasciò il suo paese in compagnia del marito e visse in Kuwait fino a che nel 1990Saddam Hussein invase il paese. Dopo il 1990 si trasferì al Cairo, dove trascorse il resto della sua vita.
Morì nel 2007, all’età di 85 anni a causa di una serie di problemi di salute tra i quali la malattia di Parkinson.
Poetica
Sebbene altri poeti prima di lei avessero già tentato il verso libero, è con Nazik al-Mala’ika che il metro della poesia araba viene rivoluzionato secondo un programma ben preciso. Nel 1962 è lei stessa che scrive:
“Il movimento della poesia libera ha avuto origine nel 1947, in Iraq. E dall’Iraq, anzi dal cuore di Baghdad, questo movimento ha strisciato estendendosi fino a sommergere l’intero mondo arabo e poi, a causa dell’estremizzazione di quanti vi hanno aderito, ha rischiato di trascinare via con sé tutte le altre forme della nostra poesia araba. E la prima poesia in versi liberi ad essere pubblicata, è stata la mia poesia intitolata Il colera “. Il colera è una poesia ispirata ad un fatto di cronaca: un’epidemia di colera che attraversò l’Egitto e l’Iraq nel 1947. Un intento coraggioso quindi, tenuto anche conto del suo sesso.
Nel 1949 al-Mala’ika pubblica Schegge e cenere, preceduta da una lunga prefazione sulla teoria della metrica della nuova poesia. L’accettazione nel mondo accademico non fu semplice, ma la poetessa non si lasciò intimidire. La poesia di al-Mala’ika non è comunque priva di metro, anzi fa preciso riferimento a sedici metri della tradizione classica araba, è quindi più corretto parlare di verso libero e non di verso sciolto.
L’attenzione della poetessa al metro è strettamente coniugata al suo amore per la scrittura, per la parola in sé come elemento magico: Domani ci costruiremo un nido di sogno di parole, | in alto, con l’edera che discende dalle sue lettere. | Nutriremo i suoi germogli con la poesia | e innaffieremo i suoi fiori con le parole.
Altra tematica importante è quella della condizione femminile nel mondo arabo. La poetessa scrisse anche alcuni saggi, come Donne fra due estremi: passività e scelta etica, del 1954. In una delle sue più note poesie, Orazione funebre per una donna insignificante, così si esprime: La notizia si è dissolta nei vicoli | senza che il suo eco si diffondesse | e si è rifugiata nell’oblio di alcune fosse | la luna ha pianto questa tragedia.
Bibliografia
The Poetry of Arab Women: A Contemporary Anthology, edited by Nathalie Handal, 2000.
Encyclopedia of World Literature in the 20th Century, by Khalid Al-Maaly, 2000.
Encyclopedia of World Literature in the 20th Century, vol. 3, ed. 3, ed. by Steven R. Serafin, 1999.
‘Nazik al-Mala’ika’s poetry and its critical reception in the West, by Salih J. Altoma, in Arab Studies Quarterly, 1997.
Reflections and Deflections, by S. Ayyad and N. Witherspoon, 1986.
Women of the Fertile Crescent: Modern Poetry By Arab Women, ed. Steven R. Serafin, 1999.
Opere
Opere tradotte in italiano
Non ho peccato abbastanza. Antologia di poetesse arabe contemporanee, a cura di Valentina Colombo, Mondadori 2007.
La rivista «Atelier» ha periodicità trimestrale (marzo, giugno, settembre, dicembre) e si occupa di letteratura contemporanea. Ha due redazioni: una che lavora per la rivista cartacea trimestrale e una che cura il sito Online e i suoi contenuti. Il nome (in origine “laboratorio dove si lavora il legno”) allude a un luogo di confronto e impegno operativo, aperto alla realtà. Si è distinta in questi anni, conquistandosi un posto preminente fra i periodici militanti, per il rigore critico e l’accurato scandaglio delle voci contemporanee. In particolare, si è resa levatrice di una generazione di poeti (si veda, per esempio, la pubblicazione dell’antologia L’Opera comune, la prima antologia dedicata ai poeti nati negli anni Settanta, cui hanno fatto seguito molte pubblicazioni analoghe). Si ricordano anche diversi numeri monografici: un Omaggio alla poesia contemporanea con i poeti italiani delle ultime generazioni (n. 10), gli atti di un convegno che ha radunato “la generazione dei nati negli anni Settanta” (La responsabilità della poesia, n. 24), un omaggio alla poesia europea con testi di poeti giovani e interventi di autori già affermati (Giovane poesia europea, n. 30), un’antologia di racconti di scrittori italiani emergenti (Racconti italiani, n. 38), un numero dedicato al tema “Poesia e conoscenza” (Che ne sanno i poeti?, n. 50).
Direttore responsabile: Giuliano Ladolfi Coordinatore delle redazioni: Luca Ariano
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Pasolini à Matera-Photos de Domenico Notarangelo–Exposition à l’IIC Paris-
Pasolini a Matera-À partir du 23 septembre et jusqu’au 31 octobre, découvrez la nouvelle exposition de l’Institut culturel italien, 50 rue de Varenne, 75007. Elle s’intitule Domenico Notarangelo : Pasolini a Matera. Son fils, Peppe Notarangelo, commissaire de l’exposition, nous en parle et nous apprend à mieux connaître les rapports de son père, Mimì, avec Pasolini.
L’exposition présente trente-cinq remarquables clichés du regretté Domenico Notarangelo, décédé en 2016, provenant du tournage du film Il Vangelo secondo Matteo (L’Évangile selon saint Matthieu) réalisé à Matera par Pasolini en 1964.
Ces images proviennent de l’ Archivio di Domenico Notarangelo a Matera (environ 100 000 photos presque exclusivement en noir et blanc), un patrimoine d’une incomparable richesse pour la Lucania, un témoignage historique et humain de cette terre et de son évolution au cours du 20e siècle.
Le vernissage, auquel il convient de vous inscrire ICI, aura lieu lundi 23 septembre à partir de 18h en présence de son fils Giuseppe Notarangelo, commissaire de l’exposition, Ines Silvia Nenna (Associazione Pasolini) et Roberto Chiesi (Cineteca Bologna). L’exposition présente également des œuvres de Giuseppe Palumbo, Valentina Mir et Silvio Cadelo.
A suivre à 19h30 la projection du célèbre film L’Évangile selon saint Matthieu en version restaurée (Italie, 1964, 138′, VOSTF)
Peppe Notarangelo, commissaire de l’exposition, fils de Mimì Notarangelo, et désormais gardien de ce patrimoine, a eu l’amabilité et l’amitié de transmettre à Altritaliani le texte qui ouvre le catalogue de l’exposition et de nous envoyer quelques-une des photographies que vous pourrez retrouver à l’Institut. Bonne lecture!
Domenico Notarangelo. Mimì.
Sono passati sessant’anni da quando Pier Paolo Pasolini ha regalato a noi tutti questa straordinaria opera d’arte cinematografica che è Il Vangelo secondo Matteo. Un film importante per la città di Matera. Un film importante anche per mio padre Domenico, che di Pasolini fu collaboratore, fonte di stimoli ed anche amico. In fondo erano due comunisti, uno più giovane e a quel tempo ancora “ortodosso”, qual era mio padre, l’altro di otto anni più vecchio, già icona di un comunismo moderno, evangelico. Insieme resero la città di Matera ed i suoi abitanti protagonisti di quella che è “la storia più grande che sia mai accaduta”, per dirla con le parole di Pasolini.
Pasolini volle anche Domenico Notarangelo, insieme ad Alfonso Gatto, Natalina Ginzburg, Enzo Siciliano, Giorgio Agamben, Mario Socrate, sua madre Susanna Colussi, l’amata cugina Graziella Chiarcossi e altri non attori, ma persone prese dal popolo, per dare volto ai personaggi. A Mimì toccò fare il centurione che ordina al Cireneo di portare « quella croce », quando Gesù cade stremato.
Fu nei momenti di pausa sul set che Mimì approfittò, col permesso del “maestro”, per scattare queste fotografie. Immagini in bianconero di quei giorni dove il sole “ferocemente antico” rendeva tutto magico e solenne. Solenne e magico come il momento in cui Pier Paolo e il suo cristo rivoluzionario, il diciannovenne rivoluzionario antifranchista Enrique Irazoqui, si appoggiarono a quel muretto per riposare, meditare. Mimì fermò quell’istante in uno scatto. E in quello scatto c’è tutto. C’è la forza intellettuale di Pasolini che contempla i Sassi, c’è la figura del Cristo che esprime tutta la severità che gli appartiene, ci sono i sassi di Matera che lì erano da millenni e che lì, per altri millenni, resteranno. È probabilmente la fotografia più importante per Matera. La fotografia che più la rappresenta. Sicuramente la più bella. Pura poesia.
Domenico Notarangelo è stato una figura fisiologicamente coinvolta nel quarantennio di passaggio tra società rurale e modernità. Da giornalista corrispondente dalla Basilicata del giornale fondato da Antonio Gramsci, L’Unità, cominciò da subito a completare i suoi articoli con fotografie degli avvenimenti e dei personaggi scattate da lui stesso. Appartenendo anch’egli, figlio di contadini pugliesi, a quel Popolo, a quei ritmi dell’esistenza, riuscì a cogliere sempre l’anima di quegli eventi, di quelle persone. Le sue fotografie raccontavano e raccontano molto più di ogni didascalia o trattato letterario la nuda verità su quelle storie, su quei santi contadini, come li chiamava lui, che seguivano le processioni e i riti devozionali così come lottavano per la terra e per la giustizia negli scioperi e nelle manifestazioni politiche.
L’esperienza con Pasolini per il Vangelo, l’incontro col maestro, cambiò i connotati del suo credo comunista. La forte critica di Pasolini su quello che stava succedendo a Matera a proposito della deportazione degli abitanti in nuovi rioni popolari, fu uno degli argomenti di contrasto tra I due. Notarangelo sosteneva la giustezza e la necessità di quell’intervento, mentre Pasolini lo criticava fortemente. Diceva “A Matera state commettendo un crimine contro l’umanità”. Secondo Pasolini il governo De Gasperi, per risolvere il problema della miseria che Palmiro Togliatti aveva denunciato come “vergogna nazionale”, stava cancellando la storia millenaria di un popolo e di una città straordinaria, la città che lui scelse come Gerusalemme per raccontare la storia del suo Cristo.
Dell’antica Matera restarono solo i muri e le grotte che, dopo essere stati dimenticati e lasciati in abbandono per decenni, proprio grazie al cinema, sono di recente tornati al centro dell’interesse.
A Matera probabilmente è nata la civiltà. Matera è una delle città più antiche al mondo. È un luogo di scoperta e di ricerca scientifica, è un’opera d’arte costruita dal popolo attraverso i millenni, è bellezza creata dall’uomo per l’uomo, per la vita, per il progresso, forse proprio quel progresso che era nella mente di Pasolini, mentre contempla i Sassi nello scatto di Mimì.
Michèle Gesbert est née à Genève. Après des études de langues et secrétariat de direction elle s’installe à Paris dans les années ’70 et travaille à l’Ambassade de Suisse (culture, presse et communication). Suit une expérience associative auprès d’enfants en difficulté de langage et parole. Plus tard elle attrape le virus de l’Italie, sa langue et sa/ses culture(s). Contrairement au covid c’est un virus bienfaisant qu’elle souhaite partager et transmettre. Membre-fondatrice et présidente d’Altritaliani depuis 2009. Coordinatrice et animatrice du site.
Bill Cunningham, il «padre» della street photograph
Bill Cunningham, il fotografo di moda che immortalava le persone in strada.In bici, vestito sempre con la giacca blu, i pantaloni chiari e le scarpe con la suola di gomma. Era il maestro dello street style. Rifiutò l’assunzione al «New York Times» finché un furgone lo mandò in ospedale (senza assicurazione).
Anna Wintour gli ha fatto il complimento più bello, «ci vestiamo tutte per Bill», ma sarebbe sbagliato ridurre la carriera di Bill Cunningham, morto a New York all’età di 87 anni per un ictus, a quella di fotografo di personaggi famosi. Cunningham fece per mezzo secolo nelle strade di New York esattamente quello che faceva alle sfilate, o alle feste del falò delle vanità di Manhattan: fotografare la società, attraverso i vestiti. Non solo quella dei ricchi: la vita di tutti.
Il mondo come passerella
Per Cunningham, bostoniano trapiantato a New York dopo un’infelicissima esperienza a Harvard la prima carriera fu sì nella moda, ma come cappellaio per signore dell’Upper East Side. Capì all’alba degli anni 60 che presto nessuna avrebbe più portato cappelli e che con la fotografia avrebbe potuto raccontare una storia più bella: il mondo come passerella. Solo i bambini, quando giocano, hanno sulle labbra lo stesso sorriso che aveva Cunningham al lavoro: facendo gimkane in bici tra i camion di Midtown seguiva la preda, vestito sempre in giacca blu da netturbino di Parigi, pantaloni khaki, scarpe nere con la suola di gomma.
La vita monacale nello sgabuzzino fra i suoi negativi
Fece vita monacale dormendo per sessant’anni su una specie di barella in uno sgabuzzino che ospitava l’archivio dei suoi negativi, con il bagno sul corridoio. Rifiutò per decenni l’assunzione al New York Times, del quale era collaboratore fisso, avere un padrone gli faceva orrore: si rassegnò a cedere alle avances del giornale nel 1994, quando non riuscì a schivare l’ennesimo furgone e finì all’ospedale senza assicurazione. Gli ultimi anni furono quelli dei premi come il titolo di Chevalier dans l’ordre des Arts et des Lettres, ritirato a Parigi. Gli dedicarono un bel documentario e lui non andò in sala, la sera della prima, perché doveva fotografare gli invitati sul tappeto rosso.
«La libertà non ha prezzo»
E poi la mostra al Metropolitan alla quale rispose «no grazie» e le campagne ricchissime che avrebbe potuto scattare per gli stilisti che non prese mai in considerazione, «i soldi sono facili ma la libertà non ha prezzo». Venne considerato il padre nobile dei fotografi di street style che affollano Internet ma lui scattò fino a qualche anno fa solo su pellicola e paragonarlo, come artista, a quei blogger è come paragonare Basquiat a un graffitaro che spruzza un «tag» su una saracinesca.
“Preghiera per la liberazione dei popoli indigeni”.
Eliane si definisce cittadina del mondo. Eliane Potiguara è formata in Lettere, con specializzazione in Educazione. È insegnante, scrittrice, poeta, attivista discendente del popolo potiguara.È la fondatrice e coordinatrice del GRUMIN – Gruppo Donna/Educazione Indigena, che è la prima organizzazione di donne indigene sorta in Brasile, con ciò rendendosi partecipe della creazione ed evoluzione del movimento indigeno brasiliano.
Durante una decade ha partecipato all’elaborazione della Dichiarazione Universale dei Diritti Indigeni nella sede ONU di Ginevra. Nel 1988 è stata eletta una delle dieci donne dell’anno in Brasile. È stata insignita del titolo di Cavaliere dell’Ordine del Merito Culturale. È Ambasciatrice di Pace del Circuito di Scrittori di Francia.
La sua opera ha ottenuto riconoscimenti e premi a livello nazionale e internazionale, fra cui il Pen Club dell’Inghilterra, il Fondo Libero di Espressione negli USA. Le molteplici attività da lei svolte vertono intorno ai diritti dei popoli indigeni, della biodiversità, delle conoscenze tradizionali. Editato dalla casa editrice Global, un suo libro di grande successo è Metade cara, metade máscara.
“Preghiera per la liberazione dei popoli indigeni”.
Smettete di potare le mie foglie e portar via il mio aratro
Basta con l’affogare le mie credenze e estirpar la mia radice.
Cessate di strapparmi i polmoni e soffocar la mia mente
Basta con l’uccidere le mie canzoni e silenziar la mia voce.
Non si secca la radice di chi ha semi
Sparpagliati per la terra a germogliar.
Non si spegne degli avi – ricca memoria
Vena ancestral: ritual da rievocar
Non si recidon grandi ali
Perché il cielo è libertà
Ed è fede incontrarla.
Prega per noi, Padre – Sciamano 1
Perché il demone della selva
Non porti debolezza, miseria e morte
Prega per noi – terra madre nostra
Perché i vestiti rotti
E quest’uomini malvagi
Finiscano al tocco dei maracás 2
Allontanaci da disgrazie, da cachaça 3 e discordia,
Porta l’unità tra le nazioni.
Illumina uomini, donne e bambini
Spegni tra i forti l’invidia e l’ingratitudine
Dai luce, fede, vita nelle pajelanças 4
Evita, ó Tupã, violenza e mattanza.
In un luogo sacro presso l’ igarapé. 5
Nelle notti di luna piena, ó MARÇAL, 6 chiama
Gli spiriti delle rocce per danzare la Toré.
Portaci nelle feste di mandioca 7 e pajés 8
Una resistenza di vita
Dopo aver bevuto la nostra chicha 9 con fede.
Prega per noi, falco-dei-cieli
Perché vengano giaguari, caititus, 10 seriemas 11 e capivaras 12
Cingere fiumi Juruena, São Francisco o Paraná 13.
Cingere sino al mare Atlantico
Perché pacifici siamo, invece.
Mostraci il cammino come il delfino 14
Illumina per il futuro la nostra stella
Aiutaci a suonare i flauti magici
Per cantarvi una canzone in offerta
O danzare in un rito lamaká. 15
Prega per noi, Uccello Sciamano
Ogni mattina a Sud, a Nordest
Nel cuore di cunhã, o nell’Amazzonia agreste.
Pregate per noi, pintados 16 armadilli o pappagalli, 17
Vieni al nostro incontro
Mio Dio, NHENDIRU ! 18
Rendi felice la mintã 19
Che da ventri d’indie rinasceranno.
Dacci ogni giorno di speranza
Che sol chiediamo terra e pace
Per i nostri poveri – questi ricchi bambini.
Traduzione dal portoghese di Irene Chiari
Note
1 Lo sciamano è una figura simile al pajé.
2 Strumento musicale, sonaglio indigeno utilizzato nelle cerimonie e nei riti guerrieri, composto da una zucca secca priva di polpa, riempita con pietre e semi ed assemblata con un bastone che funge da manico. È uno strumento magico, utilizzato dai pajés per scacciare gli spiriti cattivi ed attrarre quelli buoni.
3 Tipica bevanda alcolica brasiliana, diffusissima in tutto il Paese, distillata e fermentata a partire dall’estratto liquido di canna da zucchero (caldo de cana), con un tenore alcolico tra i 38 e i 48 gradi.
4 Rituale di cura realizzato dai pajé (le guide spirituali).
5 Canali.
6 Nome proprio di persona di origine latina, col significato di ”guerriero” o ”combattivo”. In questo caso probabilmente si tratta di Marçal Tupá-Y, Guarani ucciso nel Mato Grosso do Sul nel Novembre del 1983 e, da allora, simbolo della lotta indigena. Era infermiere della Funai, creatore della Organização e Assembléias indígenas e promotore dell’unità tra le nazioni indigene.
7 Pianta tuberosa, terza fonte di carboidrati nei paesi tropicali, dopo il riso e il mais.
8 Guida spirituale indigena.
9 Bibita alcolica, simile alla birra, a base di mais fermentato, originaria del Centro e Sud America.
10 Animale tipico del territorio americano, molto simile al cinghiale.
11 Tipo di uccello, molto diffuso in Sudamerica.
12 Mondialmente, il maggiore dei roditori, simile ad una lontra ma più grande, abitante dei territori sudamericani.
13 Fiumi del Sudamerica.
14 boto , specie particolare di delfino, originaria delle acque dolci del fiume che attraversa l’Amazzonia. Secondo la tradizione indigena è una creatura guida, che mostra il cammino da seguire.
16 Pesce d’acqua dolce, tipico dei fiumi São Francisco, Paraná e Prata del Brasile.
17 Tipo particolare di pappagallo, diffuso nelle foreste tropicali dell’America Centrale e Meridionale, che in italiano prende il nome di Ara scarlatta o Ara macao.
18 Nhendiru è il Creatore nella tradizione Tupi- Guarani.
19 I bambini, in lingua Potiguara (che fa sempre parte della famiglia del Tupi-Guarani).
Traduzione dal portoghese di Irene Chiari-Breve Biografia di Loretta Emiri ha vissuto per diciotto anni nell’Amazzonia brasiliana. Durante i primi quattro anni e mezzo ha operato tra gli yanomami svolgendo assistenza sanitaria, ricerche linguistiche e un progetto chiamato Piano di Coscientizzazione, di cui l’alfabetizzazione di adulti nella lingua materna faceva parte. In quell’epoca ha prodotto saggi e lavori didattici, tra i quali Gramática pedagógica da língua yãnomamè (Grammatica pedagogica della lingua yãnomamè), DicionárioYãnomamè-Português (Dizionario Yãnomamè-Portoghese). Specializzatasi nella legislazione dell’educazione scolastica indigena, ha organizzato e partecipato, in veste di docente, a incontri e corsi di formazione per maestri di varie etnie, contribuendo a far incorporare le loro rivendicazioni alla Costituzione. Ha curato l’edizione di A conquista da escrita – Encontros de educação indígena (La conquista della scrittura – Incontri di educazione indigena), che documenta le prime esperienze scolastiche di quindici popoli indigeni. Ha fatto parte del Gruppo di Lavoro istituito dal Ministero dell’Educazione per definire la politica nazionale per l’Educazione Scolastica Indigena. Sua è la redazione finale della proposta di creazione di una scuola specifica, differenziata e pubblica per la formazione dei maestri indigeni dello Stato di Roraima; approvata all’unanimità nel novembre del 1993, è divenuta la prima scuola del genere in Brasile. Nell’adempimento dei ruoli ricoperti in organi pubblici o privati, ha sempre sostenuto le lotte per l’autodeterminazione travate dal movimento indigeno organizzato brasiliano che, tra l’altro, ha trasformato la “scuola per gli indios” in “scuola indigena”, pensata e amministrata da loro stessi e la cui finalità è anche quella di affermare identità etniche e rivendicare diritti. Attraverso la rielaborazione esplicita e voluta dell’esperienza fatta, sta dando continuità all’esperienza stessa; tra le sue più recenti pubblicazioni in lingua italiana troviamo Amazzonia portatile, Quando le amazzoni diventano nonne, Amazzone in tempo reale.
Biografia di Eliane Lima dos Santos (Rio de Janeiro, 29 de setembro de 1950), conhecida por Eliane Potiguara, é uma professora, escritora, ativista e empreendedora indígena brasileira. Fundadora da Rede Grumin de Mulheres Indígenas.[1] Foi uma das 52 brasileiras indicadas para o projeto internacional “Mil Mulheres para o Prêmio Nobel da Paz“. Formada em Letras e Educação[2], licenciou-se em Letras (Português e Literatura) e Educação pela Universidade Federal do Rio de Janeiro e tem Especialização em Educação Ambiental pela UFOP.[3] Eliane Potiguara recebeu em dezembro de 2021 o título de doutora “honoris causa”, do Conselho Universitário (Consuni), órgão máximo da Universidade Federal do Rio de Janeiro (UFRJ).[4]
Foi nomeada uma das “Dez Mulheres do Ano de 1988” pelo Conselho das Mulheres do Brasil, por ter criado a primeira organização de mulheres indígenas no Brasil: o GRUMIN (Grupo Mulher-Educação Indígena), e por ter trabalhado pela educação e integração da mulher indígena no processo social, político e econômico no país e por ter trabalhado na elaboração da Constituição brasileira de 1988. O GRUMIN foi o grupo pioneiro do movimento de mulheres indígenas no Brasil.[8]
Com uma bolsa que conquistou da ASHOKA em 1989 (Empreendedores Sociais)[9] e mais o seu salário de professora e o apoio de Betinho/IBASE e os recursos do Programa de Combate ao Racismo, (o mesmo que apoiava Nelson Mandela), pode prosseguir a sua luta, além de sustentar e cuidar de seus três filhos (Moína Lima, Tajira Kilima e Samora Potiguara), hoje adultos.[10]
Em 1990, foi a primeira mulher indígena a conseguir uma petição no 47º Congresso dos Índios Norte-Americanos, no Novo México, para ser apresentada às Nações Unidas. Neste Congresso reuniram-se mais de 1500 indígenas americanos. Desse modo, participou durante anos da elaboração da “Comitê Inter-Tribal 500 Anos Declaração Universal dos Direitos Indígenas”, na ONU, em Genebra. Por esse trabalho recebeu em 1996, o título de “Cidadania Internacional”, concedido pela organização filosóficaIranianaBaha’i, que milita pela implantação da Paz Mundial.[11]
É defensora dos Direitos Humanos, tendo sido criadora do primeiro jornal indígena, de boletins conscientizadores e de uma cartilha de alfabetização indígena dentro do método Paulo Freire com o apoio da Unesco. Organizou em Nova Iguaçu, no Rio de Janeiro, em 1991 um encontro com a participação de mais de 200 mulheres indígenas de várias regiões, tendo como convidados especiais a cantora Baby Consuelo e vários líderes indígenas internacionais. Organizou vários cursos referentes à Saúde e Diretos Reprodutivos das Mulheres Indígenas e foi consultora de outros encontros sobre o tema.[12]
Em 1992 foi cofundadora/pensadora do Comitê Inter-Tribal 500 Anos (“kari-oka”), por ocasião da Conferência Mundial da ONU sobre Meio-Ambiente, junto com Marcos Terena, Idjarruri Karajá, Megaron e Raoni e muitos outros líderes indígenas do país, além de ter participado de dezenas de assembleias indígenas em todo o Brasil.[13]
Discutiu a questão dos direitos indígenas em vários fóruns nacionais e internacionais, governamentais e não governamentais, propondo diversas diretrizes e estratégias de ordem político-econômica, inclusive no fórum sobre o Plano Piloto para a Amazônia, em Luxemburgo, em 1999.
No final de 1992, por seu espírito de luta, traduzido na sua obra “A Terra é a Mãe do Índio”, foi premiada pelo Pen Club da Inglaterra[14], no mesmo momento em que Caco Barcelos (“Rota 66”) e ela estavam sendo citados na lista dos “Marcados para Morrer”, anunciados no Jornal Nacional da Rede Globo de Televisão, em rede nacional, por terem denunciado esquemas duvidosos e violação dos direitos humanos e indígenas.[15]
Em 1995, na China, no Tribunal das Histórias Não Contadas e Direitos Humanos das Mulheres/Conferência da ONU, narrou a história de sua família que emigrou das terras paraibanas na década de 1920 por ação violenta dos neo-colonizadores e as consequências físicas e morais desta violência à dignidade histórica de seu bisavô, avós e descendentes. Contou também o terror físico, moral e psicológico pelo qual passou ao buscar a verdade, além de sofrer violência psicológica e humilhação por ser detida pela Polícia Federal por estar defendendo os povos indígenas, seus parentes, do racismo e exploração. O seu nome foi caluniado na imprensa do estado da Paraíba.[16]
Foi Conselheira da Fundação Palmares/Minc, e “fellow” da organização internacional ASHOKA, dirigente do GRUMIN e membro do Women’s Writes World. Participou de 56 fóruns internacionais e para mais de 100 nacionais culminando na Conferência Mundial contra o Racismo na África do Sul, em 2001 e outro fórum sobre os Povos Indígenas em Paris, em 2004.
O seu carro chefe é a obra intitulada “Metade Cara, Metade Máscara” que está na sua terceira edição pela GRUMIN Edições e aborda a questão indígena no Brasil. Metade Cara, Metade Máscara está nos Anais da Mostra Científica. Mestrandos e doutorandos estudam suas obras literárias, foi adotado pelo TCU (Tribunal de Contas da União) do Mato Grosso do Sul e a Secretaria de Educação do DF está aplicando o livro Metade Cara, Metade Máscara nas escolas.[18]
Em 2023 lançou pela GRUMIM Edições o livro “O Vento Espalha Minha Voz Originária”.[19]
Foi homenageada em 10/01/2024 pela Maurício de Sousa Produções (Turma da Mônica) no Projeto Donas da Rua.[20]
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