Santa Teresa d’Avila e la poesia mistica-Articolo di Antonio Tarallo
Santa Teresa d’Avila e la poesia mistica-Non solo una grande santa, dottore della Chiesa, ma anche una sublime poetessa-“Il poeta comincia dove finisce l’uomo”, così sentenziava il filosofo spagnolo José Ortega Y Gasset. Santa Teresa d’Avila Dottore della Chiesa, nella sua profonda esperienza mistica, si è servita anche della poesia, oltreppassando così con i suoi componimenti quel guado che divide l’uomo dall’infinito.
Eppure troppe volte sono stati dimenticati i suoi versi in cui è possibile trovare un vero e proprio scrigno di bellezza e di spiritualità. Al loro interno, infatti, è possibile persino scovare quella che sarà poi conosciuta comunemente la “trasverberazione del cuore”, una delle grazie mistiche di cui santa Teresa spiegherà nella sua Vita, l’autobiografia della santa: il dardo, la “freccia” dell’Amore di Dio colpisce il suo cuore, lo tramuta e lo sublima facendolo avvicinare al Cuore di Dio in nozze mistiche. Nozze che, in molte occasioni, sembrano essere celebrate dalla santa nei suoi componimenti poetici: santa Teresa ascende a Dio così come discende nelle profondità della poesia.
Sfogliando queste pagine poetiche, è possibile dividere la produzione in versi in tre determinati gruppi: prima di tutto troviamo le poesie mistiche nelle quali si respira tutta la spiritualità della santa; il secondo gruppo comprende le poesie che hanno come oggetto le feste liturgiche come il Natale, l’Epifania o l’Esaltazione della Croce; e, infine, il terzo gruppo, scritte – come lei stessa le definisce – con “stile di fratellanza e di ricreazione”: sono versi che celebrano avvenimenti interni alla comunità religiosa per allietare le consorelle della comunità monastica.
Tre diverse situazioni poetiche, ma con un elemento in comune ben preciso: la Bellezza. Santa Teresa è stata sempre affascinata – fin dalla fanciullezza – dalla bellezza artistica, nelle sue diverse espressioni, ma specialmente era attratta dall’arte pittorica e scultorea. Più volte, nel libro della sua Vita, si sofferma sul piacere che prova per l’armonia scaturita dalla musica del fruscio della campagna che la circonda. Più volte si sofferma sulle note di una canzone che ha ascoltato. E’ proprio questo, infondo, l’humus dell’anima da cui nasceranno i suoi versi, frammenti poi di una Bellezza ancora più vasta, quella del Signore. Un riassunto della sua visione poetica è possibile trovarlo in questi suoi versi che delineano, tratteggiano con efficacia il suo animo poetico dedicato a Dio: “Bellezza che trascendi/ ogni bellezza!/ Senza ferire, fate soffrire;/ senza dolore, voi fate morire”. Passare in rassegna tutte le poesie che ha composto santa Teresa sarebbe impresa alquanto ardua visto la molteplicità di temi affrontati. Cercheremo, allora, di fare una breve selezione.
Vivo sin vivir en mi (Vivo ma non vivo in me) è questo il nome di una delle poesie-canzoni più importanti della sua produzione. I versi racchiudono ossimori e altre figure retoriche assai care ai poeti, di ogni epoca: “Vivo ma non vivo in me/e attendo una tal vita/ da morirne se non muoio”.
E ancora “Questa divina prigione/ dell’amore in cui vivo,/ ha reso Dio, mio prigioniero/ e libero il mio cuore;/ e causa in me tanta passione/ da morirne se non muoio”. Del tutto particolare, rimane la seconda tipologia di produzione, quella legata alle feste liturgiche. Il loro maggior merito è quello di aver introdotto nei monasteri carmelitani il ricorso alla poesia come componente festiva della vita religiosa. Un tema fondamentale – e non poteva essere altrimenti – per l’ordine carmelitano è quello della Croce che santa Teresa canta in diversi componimenti da condividere con le proprie consorelle. E’ il caso di En la Cruz está la vida (Nella Croce risiede la vita), composta per le religiose del monastero di Soria, in occasione della festa dell’Esaltazione della Santa Croce: “Le religiose la cantano durante la processione che fanno in detto giorno per i corridoi del monastero, recandosi al luogo della sepoltura comune, sotto il coro inferiore. E’ una funzione commovente: si procede a croce alzata, e le religiose tengono in mano rami di palma e di olivo”, così si legge in un antico manoscritto.
I versi che santa Teresa compone per quest’occasione sono versi dal ritmo serrato, scandito da sillabe che vengono cadenzate in rima. Bisogna ricordare che questi componimenti vivevano poi dell’improvvisazione delle consorelle. Si può, dunque, solo immaginare l’effetto vero e proprio che potevano avere. Altra occasione, il Santo Natale: nei monasteri carmelitani si respirava un’aria di particolare gioia durante le feste natalizie; ogni comunità aveva le sue modalità di festeggiare e molte di queste sono state introdotte dalla stessa Santa Teresa e dall’altro poeta carmelitano, San Giovanni della Croce. E’ possibile trovare il tema della notte santa nelle seguenti poesie: Pastores que veláis (Pastori che vegliate), nel componimento Al nascimento de Jesús (Per la nascità di Gesù), e ancora nella graziosa canzone En la noche de Navidad (Nella notte di Natale).
L’entrata di una nuova sorella nel Carmelo era poi celebrata come una grande festa. Ed è così che nascono per queste occasioni speciali alcuni poemetti che riescono a offrirci una sorta di fotografia della vita nei monasteri del Carmelo: “Il leggiadro vostro velo/ dice a voi di stare in veglia/ di montar la sentinella, fino a che lo Sposo venga./ Nella vostra mano accesa/ sempre abbiate una candela;/ sotto il velo state in veglia”.
Santa Teresa, una voce poetica votata al Signore; un forziere di ricordi e immagini che andrebbe riscoperto perché la mistica passa anche per la poesia.
Articolo di Antonio Tarallo-Fonte ACI Stampa
Roma , martedì, 15. ottobre, 2024 16:00 (ACI Stampa).Articolo di Antonio Tarallo Santa Teresa d’Avila, una delle più affascinanti figure della Chiesa.Teresa d’Avila e le sue Opere: pagine di una profondità spirituale inaudita. Leggere le sue parole è come percorrere un viaggio verso Dio. Basterebbe leggere solo alcune righe della sua “Vita”, opera autobiografica della santa, per rendersi conto di quanto la santa mistica spagnola sia importante per comprendere la storia della Chiesa; di quanto sia preziosa la testimonianza dei Santi per il cammino di ogni fedele: “Chi ha come amico Cristo Gesù e segue un capitano così magnanimo come lui, può certo sopportare ogni cosa; Gesù infatti aiuta e dà forza, non viene mai meno ed ama sinceramente. Infatti ho sempre riconosciuto e tuttora vedo chiaramente che non possiamo piacere a Dio e da lui ricevere grandi grazie, se non per le mani della sacratissima umanità di Cristo, nella quale egli ha detto di compiacersi. Ne ho fatto molte volte l’esperienza, e me l’ha detto il Signore stesso”.
La “Vita” è un’opera fondamentale per entrare nella biografia della Santa d’Avila. I primi 5 capitoli esprimono l’intento fondamentale della Santa e narrano alcuni fatti salienti della sua vita. Il capitolo 6 è dedicato a San Giuseppe e alla devozione a lui rivolta. Bisogna ricordare che su 18 case che Teresa fonderà ben 12 le intitolerà a San Giuseppe. Nei capitoli 7,8,9 e 10 Teresa dà consigli preziosi a coloro che, progressivamente si danno all’orazione. Dal capitolo 11, la Santa accenna ai vari metodi per praticare l’orazione. E per poter meglio spiegarsi farà uso di molte similitudini. Da questo momento in poi, il testo assume l’aspetto di un trattato sull’orazione. Il capitolo 23 è la descrizioni delle immense esperienze mistiche avute nella sua vita. L’ultima parte del libro, infine, racconterà di come si può parlare di una “nuova vita” per la Santa dopo l’incontro intimo con il Signore.
Bisogna poi ricordare un altro testo fondamentale, il “Cammino di perfezione”, testo composto da quarantadue capitoli, che riesce a distillare tutta la sostanza dell’insegnamento teresiano: l’orazione; le virtù evangeliche; la Chiesa e Cristo. E’ un’alternanza di confidenze e consigli personali. E’ appunto un “cammino” al quale il lettore è invitato: l’autrice, lo guida, lo consiglia, lo esorta nella strada che porta alla perfezione.
Ma, sicuramente, il testo più famoso della Santa rimane “Il Castello interiore”. Il testo è un approfondimento dei due libri precedentemente redatti: è uno sviluppo ancor più intenso. Si ispira a un castello con sette stanze, come immagine dell’interiorità dell’uomo, introducendo il simbolo del baco da seta che rinasce farfalla. Nelle pagine, l’eco del “Cantico dei Cantici”, libro del Vecchio Testamento. Troviamo, infatti, una delle figure-immagini più care a Santa Teresa d’Avila (e a San Giovanni della Croce, anche lui Carmelitano): il simbolo dei “due Sposi”. Bellissima l’immagine dell’Amato (Cristo) e dell’amata (Santa Teresa) che si snoda in un dialogo amoroso. Grande importanza è data alle virtù evangeliche che per Santa Teresa d’Avila rappresentano la base, le fondamenta di tutta la vita cristiana e umana: il distacco dai beni terreni, ossia la povertà evangelica; la fraternità del mondo; l’umiltà come amore alla verità; la determinazione e la perseveranza come frutti del coraggio cristiano; la speranza che viene descritta come “sete di acqua viva”.
In tutto questo percorso è importante, ovviamente, la preghiera, l’orazione. Il fare silenzio dentro sé per poter esplorare le “sette stanze”dell’anima. Una preghiera che si amplia, si sviluppa con la crescita nella vita stessa. In sintesi, più si cresce nell’orazione, più si entra in sé stessi nel poter così dialogare con Dio e unisrsi spiritualmente con Lui.
Benedetto CROCE-Poesia popolare e Poesia d’arte- Studi sulla poesia italiana dal Tre al Cinquecento-Editore Laterza
Descrizione-Nell’indagine di Benedetto CROCE si distinguono e insieme e si affiancano una poesia che ritrae sentimenti semplici in corrispondenti semplici forme e una poesia che muove e sommuove in noi grandi masse di ricordi, di esperienze, di pensieri, di molteplici sentimenti e gradazioni e sfumatura di sentimenti. Fra i contributi raccolti: La poesia del Petrarca; Il Boccaccio e Franco Sacchetti; Fazio degli Uberti ed altri lirici del Trecento; Rime autobiografiche gnomiche-
Articolo scritto da Domenico BULFERETTI per la Rivista PEGASO n°5 del 1933 diretta da Ugo Ojetti
Benedetto CROCE-Poesia popolare e Poesia d’arte. Studi sulla poesia italiana dal Tre al Cinquecento-
Descrizione-
Nell’indagine crociana si distinguono e insieme e si affiancano una poesia che ritrae sentimenti semplici in corrispondenti semplici forme e una poesia che muove e sommuove in noi grandi masse di ricordi, di esperienze, di pensieri, di molteplici sentimenti e gradazioni e sfumatura di sentimenti. Fra i contributi raccolti: La poesia del Petrarca; Il Boccaccio e Franco Sacchetti; Fazio degli Uberti ed altri lirici del Trecento; Rime autobiografiche gnomiche-
Biografia di Benedetto Croce
Biografia di Benedetto Croce (Pescasseroli, 25 febbraio 1866 – Napoli, 20 novembre 1952) è stato un filosofo, storico, politico, critico letterario e scrittore italiano, principale ideologo del liberalismo novecentesco italiano ed esponente del neoidealismo.
Presentò il suo idealismo come «storicismo assoluto», giacché «la filosofia non può essere altro che “filosofia dello spirito” […] e la filosofia dello spirito non può essere altro che “pensiero storico”», ossia «pensiero che ha come contenuto la storia», che rifugge ogni metafisica, la quale è «filosofia di una realtà immutabile trascendente lo spirito». In funzione anti-positivistica, nella filosofia crociana, la scienza diventa la misuratrice della realtà, sottomessa alla filosofia, che invece comprende e spiega il reale.
Con Giovanni Gentile – dal quale lo separarono la concezione filosofica e la posizione politica nei confronti del fascismo dopo il delitto Matteotti – è considerato tra i maggiori protagonisti della cultura italiana ed europea della prima metà del XX secolo, in particolare dell’idealismo e del neoidealismo italiano che assieme a Gentile contribuì a fondare, partendo dall’aspra critica fatta al materialismo storico e alla filosofia di Marx in Materialismo storico ed economia marxista.
La dottrina crociana improntata alla storiografia ebbe grande influenza politica sulla cultura italiana; Croce, in particolare, con la sua “religione della libertà, è ricordato come guida morale dell’antifascismo”, tanto che fu anche proposto come Presidente della Repubblica italiana. Fu tra i fondatori del ricostituito Partito Liberale Italiano, insieme con Luigi Einaudi.
Alcune riserve sulla sua estetica, sulla critica letteraria (in particolare sulla sua definizione di «poesia») e sulla superiorità attribuita alla filosofia rispetto alle scienze nell’ambito della logica, tuttavia, sono state espresse in tempi successivi.
D’altra parte, il pensiero di Croce, specialmente quello politico, ha goduto di apprezzamenti più recenti e di una “riscoperta” anche al di fuori dell’Italia, in Europa e nel mondo anglosassone (specialmente gli Stati Uniti d’America), dov’è riconosciuto, al pari di pensatori come Karl Popper, come uno dei più eminenti teorici del liberalismo europeo e un autorevole oppositore di ogni totalitarismo. Il liberalismo politico crociano distinto dal liberismo economico fu causa di disaccordo con un altro importante esponente del liberalismo italiano come Luigi Einaudi.
SINOSSI del libro-Lettere di una vita di Irène Némirovsky –Traduzione di Laura Frausin Guarino-Prefazione di Olivier Philipponnat- «Irène Némirovsky non apparteneva alla categoria degli scrittori che, nel dedicarsi alla corrispondenza, si sentono osservati dalla posterità» osserva Olivier Philipponnat nella prefazione a questo volume. E tuttavia, aggiunge, le sue lettere fanno parte a pieno titolo dell’opera letteraria, soprattutto perché ci consentono di scoprire una voce più intima, più autentica, diversa da quella che abbiamo imparato ad amare nei romanzi e nei racconti – sorprendente. Se le prime, le lettere delle années folles, ci restituiscono l’immagine di una ragazza vivace e spensierata che, pur legata alle sue origini russe (e al ricordo della tragedia a cui ha assistito), approfitta golosamente di tutto quello che Parigi e la Francia possono offrirle – e che non perde l’ironia nemmeno quando si sente malinconica, arrivando a chiedersi: «Pene di cuore o indigestione di astice?» –, in quelle degli anni Trenta scopriamo la romanziera brillante e determinata, sia nei rapporti con gli editori che nei confronti della critica. Con lo scoppio della guerra, l’occupazione nazista e le leggi antiebraiche, vediamo crescere in lei l’angoscia, la collera, la disillusione – e leggeremo con un nodo in gola la lettera con cui affida le figlie alla governante, elencando i beni di cui disfarsi per provvedere al loro sostentamento, e l’ultima, scritta al marito subito prima della deportazione ad Auschwitz.
PREFAZIONE di Olivier Philipponnat
Irène Némirovsky non apparteneva alla categoria de- gli scrittori che, nel dedicarsi alla corrispondenza, si sen- tono osservati dalla posterità. Non pensò mai che un giorno le sue lettere sarebbero giunte ad altri che ai lo- ro destinatari, né che potessero essere incluse nella sua produzione letteraria. Lo stesso vale, del resto, per i suoi « diari di lavoro », ancora poco studiati e molto simili a una sorta di « autocorrispondenza » dove l’autrice si ri- volge spesso a sé stessa.
Si può dire che queste lettere, che rientrano a pieno titolo nella sua opera, ne rappresentino piuttosto il lato nascosto. Irène Némirovsky, che pure nutriva grande interesse per la teoria romanzesca, negli scambi episto- lari discute poco di tecnica narrativa; non lo fa neanche con Gaston Chérau, al quale chiede volentieri consigli professionali. «Quando scrivo un libro» con$derà a René Lalou nel 1938 « provo una sorta di inspiegabile pudore a parlarne, anche con le persone più vicine ». Pudore non lontano dall’orgoglio di essere compresa soltanto da sé stessa.
Nonostante questa reticenza, l’argomento principale di questi scambi è proprio la sua opera. La si scopre molto attenta alle condizioni di pubblicazione dei suoi libri, che segue con una cura materna. Inoltre, nel corso de- gli anni, Michel Epstein, il marito, avrà una parte sem- pre più attiva nella difesa dei suoi interessi presso gli e- ditori e i grandi settimanali che la pubblicano. Questa costante preoccupazione rivela la proli$cità di una scrit- trice impegnata nella stesura di un’opera che, dal 1926 al 1942, conta ben sedici romanzi e più di cinquanta racconti, che triplicano se si considerano anche bozze, minute e appunti, ai quali Irène Némirovsky dedica gran parte della giornata.
Si troveranno qui alcune delle sue risposte a certi cri- tici, quando non contengono solo banali e cortesi rin- graziamenti; ma il gran numero di biglietti più o meno di cortesia, mandati in tutta la Francia a oscuri redattori e oggi venduti all’asta o su catalogo a prezzi indecenti –, lascia intuire quanto fosse importante per lei la diffusio- ne e la recensione delle sue opere. L’umiltà di cui dà prova, il tacito consenso alle critiche, l’apparente liber- tà che concede ai giornali di modi$care a loro piaci- mento i suoi racconti contrastano con l’entusiasmo e la passione per la scrittura che traspaiono invece dai suoi manoscritti.
I rapporti epistolari che intrattiene con gli scrittori – Henry Bernstein, Jacques-Émile Blanche, Henri de Régnier, Gabriel Marcel, Jacques Chardonne e altri… sono occasionali, raramente confidenziali, e sempre ca- ratterizzati da un rispetto delle convenzioni, da un riserbo e da una modestia disarmanti, insaporiti a volte da un pizzico di malizia o da un’ombra di piaggeria, mai offuscati dalla mancanza di sincerità. Da una parte, dunque, una scrittrice che esercita un potere assoluto sui suoi personaggi e sulla sua opera; dall’altra, una donna che nelle lettere non ne fa mai parola. I dubbi, le paure, le domande che intimamente si pone sono e- spressi qui senza la rabbia e l’umorismo caratteristici dei suoi romanzi, piuttosto con un’autoironia sottile, come nelle lettere a monsignor Ghika, che nel febbraio 1939 le amministrerà il battesimo.
La corrispondenza è necessariamente lacunosa: anche se moltissime delle lettere scritte da Irène Némirov- sky sono state conservate dai loro destinatari e oggi si possono consultare in diversi fondi archivistici e in alcu- ne collezioni private, lo stesso non si può dire per quelle che lei aveva ricevuto e che furono molto probabilmen- te distrutte, dopo la guerra, dai nuovi occupanti dell’appartamento parigino in cui la scrittrice le aveva lasciate, nell’aprile 1940, per rifugiarsi insieme alle figlie nel villaggio borgognone di Issy-l’Évêque.
Che cosa resta, quindi| Per gli anni dal 1919 al 1924, il ritratto di una studentessa in gamba, più seria e perseve- rante di quanto vogliano lasciar credere le sue lettere a Madeleine Avot; in mancanza di risposte, ci si può soltanto chiedere se la «cara piccola Mad», erede di una dinastia di cartai che servirà da modello alla virtuosa fa- miglia Hardelot nei Doni della vita, fosse realmente «shockingata» dalle scappatelle dell’amica russa. A quegli anni di spensieratezza segue un intervallo di tem- po, dal 1925 al 1930, di cui non abbiamo alcuna testimonianza epistolare; è il periodo in cui Irène Némirovsky sembra dedicarsi esclusivamente alla vita con Michel Epstein, sposato nel 1926, e alla stesura dei primi ro- manzi, Il malinteso (1926) e soprattutto David Golder (1929), in un anonimato reso ancora più marcato dal- l’uso di uno pseudonimo (Pierre Nerey) per La nemica (1928) e per Il ballo (1929). Tutto questo è in violento contrasto con la grandissima notorietà che le procura l’improvviso successo di David Golder, subito portato sul- lo schermo e sul palcoscenico con Harry Baur e preso in considerazione per il premio Goncourt – al quale la scrittrice, come spiega a Gaston Chérau, preferirà ri- nunciare affinché la sua domanda di naturalizzazione francese sia considerata completamente disinteressata. È l’epoca in cui, per lettera o al telefono, risponde con semplicità alle interviste più o meno serie dei giornali; ripetuta negli anni, questa abitudine finisce per comporre, una pennellata dopo l’altra, un brillante autori- tratto.
Estremamente meticolosa quando si tratta di far rispettare i propri diritti, Irène Némirovsky, nelle lettere di questo decennio, contrassegnate dal monogramma « IE », dimostra un’assoluta professionalità nei rapporti con gli editori o i direttori di riviste, sempre attenta a e- vitare controversie ovvero a prevenirle. Mai o quasi mai accenna al contenuto o al signi$cato della sua opera, se non nelle lettere aperte o nelle risposte che indirizza ad alcuni giornali; anche allora, è raro che alzi i toni, tran- ne quando è in gioco il suo onore e si trova accusata, per esempio, di aver fatto sì che il commediografo Fernand Nozière traesse spunto dalla sceneggiatura di Julien Duvivier per David Golder. La scopriamo attenta a non atti- rarsi critiche – e il sospetto di antisemitismo suscitato da David Golder non è, secondo lei, così assurdo. Ma gli al- terchi più violenti li riserva ai personaggi dei suoi libri, che sembra talvolta usare per ribellarsi alle regole della buona creanza alle quali di solito è vincolata dal rispetto delle convenienze, nonché dalla condizione di stranie- ra, o addirittura di intrusa nella repubblica delle lettere.
Questa tranquillità s’incrina nel 1938. Nel dicembre di quell’anno l’inquietudine religiosa di Irène Némirovsky, del tutto concreta, e il fallimento dei suoi tentativi di na- turalizzazione la convincono a ricevere il battesimo cat- tolico insieme al marito e alle figlie, per una sorta di de- vozione ai valori cristiani della Francia. O almeno così si poteva supporre, fino alla scoperta di una lettera (la numero 199) inviata nel giugno 1938 a Jean Zay, ministro dell’Istruzione. La richiesta sembra dimostrare che Irène Némirovsky desiderava evitare alle figlie, Denise ed Élisabeth, i palesi inconvenienti legati al loro essere ebree a cominciare dalla mancata ammissione della maggiore ad alcuni istituti privati cattolici, dopo che il liceo pubblico Victor-Duruy aveva dichiarato di non avere più posti. Il ministro trovò la soluzione, ma nella vita di Irène Némirovsky si introdusse l’incertezza, e l’angoscia di non essere francese alimentò via via le ultime opere del deennio, Il signore delle anime (1939), I cani e i lupi (1940) e anche, per simmetria, I doni della vita (scritto nel 1940) inno alla solidità delle vecchie famiglie della borghesia provinciale, ovviamente cattoliche.
Sopraggiungono poi la guerra, la sconfitta e il regime di Vichy. Dall’ottobre 1940 al luglio 1942, di lettera in lettera, vediamo Michel Epstein e Irène Némirovsky di battersi nella morsa delle disposizioni legislative antie- braiche, le quali a poco a poco li impoveriscono e fanno lievitare il debito contratto con le edizioni Albin Michel. Il senso e le finalità di tali provvedimenti sono loro incomprensibili, così cercano solo di aggirare la pioggia di vessazioni e di divieti che impediscono a Irène di amare le sue opere e la obbligano poi a usare Julie Du- mot, la governante delle figlie, come prestanome. Le lettere di questo periodo sono più numerose; sono me- glio conservate e, data la loro frequenza, rivelano un’an- goscia crescente. Quelle di Irène e Michel, indissolubil- mente legati nella sciagura e nella sofferenza, esistono spesso in forma di carta carbone o di minute che viagge- ranno, dopo la loro deportazione, nella famosa valigia in cui Julie Dumot stiperà tutti gli scritti incompleti, le vecchie carte e le lettere ricevute dai coniugi Epstein durante i due anni passati a Issy-l’Évêque. Ne consegue che il periodo più drammatico della vita di Irène Némirovsky, quello della stesura del suo capolavoro, è anche il meglio documentato da una corrispondenza in cui si esprimono senza inibizioni la collera, l’angoscia e la de- lusione. Ma anche l’amicizia e la riconoscenza, in una bellissima serie di lettere indirizzate a André Sabatier,1 il cui intervento fu fondamentale per convincere Robert Esménard, genero di Albin Michel, a continuare a versare a fondo perduto degli anticipi mensili a un’autrice che non poteva più pubblicare.
Questo legame privilegiato non s’interrompe con l’arresto di Irène Némirovsky il 13 luglio 1942, e neppure con quello, in ottobre, di Michel Epstein, il quale, dopo aver tempestato André Sabatier di lettere e di telegram- mi disperati, si arrende al suo destino: raggiungere la moglie passando per la prigione di Le Creusot e poi per il campo di Drancy. La sua ultima lettera, che le figlie non potranno mai leggere, è emblematica: « Forse presto vedrò Irène », scrive poche ore prima della partenza del convoglio numero 42 che lo porterà alla camera a gas. La divulgazione del Journal de guerre di Paul Morand, nel 2020, ha tinto di sinistra ironia i vani tentativi di Michel e di Sabatier di ottenere l’intercessione di questo stretto collaboratore di Pierre Laval. Se Morand per un breve momento appare colpito dalla sorte di Irène Né- mirovsky, una delle sue più ferventi ammiratrici, quella degli ebrei, spietatamente perseguitati dal regime di cui lui è al servizio, gli ispira soltanto indifferenza.
Anche Julie Dumot, divenuta tutrice legale di Denise ed Élisabeth $no alla loro « collocazione » nel collegio cattolico di Notre-Dame-de-Sion nel settembre 1945, continua a corrispondere con André Sabatier e con le edizioni Albin Michel. Avremmo forse dovuto eliminare questa « corrispondenza postuma », visto che il 17 a- gosto 1942 Irène Némirovsky era morta di tifo ad Auschwitz-Birkenau| Lo avremmo fatto se, prima del ritor- no degli ultimi deportati, qualcuno fosse stato a cono- scenza della sua sorte. E se Julie Dumot non le fosse servita per così dire da sostituta $no alla partenza per gli Stati Uniti nel 1946, a missione compiuta. Così, abbia- mo scelto di chiudere queste Lettere di una vita con le parole disincantate di Albin Michel: « Nonostante tutto, continuiamo a sperare… », che in realtà non lasciavano quasi alcuna speranza sulla fine dell’incubo.
SPENSIERATEZZA (1913-1924)
Nata a Kiev l’11 febbraio 1903, Irène Némirovsky cre- sce nella venerazione della lingua francese, nell’osses- sione del ghetto e nell’ignoranza della cultura ebraica. Troppo giovane per ricordare il pogrom dell’ottobre 1905, la prima immagine che conserva della sua infan- zia è il carnevale di Nizza, nel 1906. Ogni inverno, $no allo scoppio della guerra, va per sei mesi in Costa Azzurra o sulla costa basca con i genitori.
Suo padre, Leonid, spregiudicato uomo d’affari, sa chiudere un occhio di fronte alle scappatelle della mo- glie Anna. Irène invece, dopo il licenziamento di Zézelle, l’adorata governante francese, non perdona niente alla madre. Sopraggiunta la guerra, vediamo Leonid esercitare la sua attività di banchiere molto vicino ai cir- coli del potere. Nel febbraio 1917, a San Pietroburgo, Irène assiste alle cosiddette «rivolte per il pane». Nel gennaio 1918 la rivoluzione bolscevica costringe i Némi- rovsky a riparare in Finlandia viaggiando su una slitta. Qui, Irène scrive i suoi primi versi e legge con fervore autori francesi. Alla fine della primavera 1919 la fami- glia, passando da Stoccolma, riesce a raggiungere laFrancia, «il paese più bello del mondo», dove Leonid Némirovsky ricostruisce il suo patrimonio.
Alla Sorbona, dove studia letteratura russa e comparata, Irène stringe amicizia con René Avot, figlio di un industriale del Pas-de-Calais, e con la sorella Madeleine, detta « Mad ». Con la bella stagione, sotto la sorveglianza di una governante inglese, si trasferisce a Vichy, a Plombières o a Vittel e si sottopone alle cure termali per l’asma. A Parigi è libera di vivere come vuole: va nei locali dove si fa jazz, flirta, fa gite in auto. Frequenta gli ambienti dei russi in esilio e pubblica i primi testi in france- se su varie riviste, con il suo nome o sotto pseudonimo.
IL BARBIERE DI SIVIGLIA di Gioacchino Rossini-Trama, Libretto, Opera completa e Personaggi-
il barbiere di Siviglia è un’opera in due Atti di Gioachino Rossini su libretto di Cesare Sterbini tratto dalla commedia omonima di Beaumarchais. Il titolo originale dell’opera era Almaviva, o sia l’inutile precauzione.Prima di Rossini, Giovanni Paisiello aveva messo in scena il suo Barbiere di Siviglia nel 1782 (dieci anni prima della nascita di Rossini). Con quella stessa opera, Paisiello aveva riscosso uno dei maggiori successi della sua fortunata carriera.
Il precedente successo di Paisiello (uno dei maggiori rappresentanti dell’opera napoletana) faceva sembrare inammissibile che un compositore di ventitre anni – per quanto dotato – osasse sfidarlo.
Rossini in realtà non aveva nessuna responsabilità sulla scelta del soggetto. L’opera fu infatti scelta dall’impresario del teatro Argentina di Roma, il duca Francesco Sforza Cesarini; questi voleva commissionare a Rossini un’opera per l’imminente carnevale.
A quei tempi qualsiasi rappresentazione doveva scontrarsi con le forbici della censura pontificia. Per andare sul sicuro, l’impresario propose come soggetto “Il barbiere di Siviglia”, che fu subito approvato dai censori pontifici.
La prima rappresentazione ebbe luogo il 20 febbraio 1816 al Teatro Argentina a Roma e terminò fra i fischi. Il clima generale era di totale boicottaggio, dovuto ai sostenitori della versione dell’opera di Paisiello, favorito anche dall’improvvisa morte dell’impresario del Teatro Argentina.
Già dalla seconda recita, il pubblico acclamò l’opera di Rossini, portandola ad oscurare la precedente versione di Paisiello e diventando una delle opere più rappresentate al mondo.
Personaggi
Il Conte d’Almaviva – tenore
Don Bartolo, dottore in medicina, tutore di Rosina – basso buffo
Rosina, ricca pupilla in casa di Bartolo – mezzosoprano
Figaro, barbiere – baritono
Don Basilio, maestro di musica di Rosina, ipocrita – basso
Berta vecchia governante in casa di Bartolo – soprano
Fiorello, servitore di Almaviva – baritono
Ambrogio, servitore di Bartolo – basso
un ufficiale, un alcalde, o Magistrato; un notaro; Alguazils, o siano Agenti di polizia; soldati; suonatori di istrumenti
La scena si rappresenta in Siviglia.
ATTO I
Siviglia. La bella Rosina abita nella casa di don Bartolo, il suo anziano tutore. Don Bartolo vuole tenere Rosina con sè, per amministrarne il patrimonio. Intanto il Conte d’Almaviva, appena arrivato in città, si innamora della bella fanciulla e cerca il modo di avvicinarla; decide di presentarsi a lei sotto le mentite spoglie di Lindoro.
Lui organizza delle serenate sotto la finestra della fanciulla, tanto da destare le preoccupazione di don Bartolo; questi, per non essere costretto a rinunciare alla fortuna della ragazza, decide di chiederla in matrimonio, ma lei rifiuta.
Il Conte incontra Figaro, sua vecchia conoscenza, barbiere oltre che “factotum” nella casa di Don Bartolo. Figaro consiglia al Conte di presentarsi a Rosina facendo finta di essere un soldato ubriaco in congedo, con un permesso di soggiorno proprio in casa di don Bartolo. Nel frattempo Rosina affida a Figaro una lettera indirizzata a Lindoro.
Il maestro di musica di Rosina, don Basilio, sa della presenza in città del Conte; per favorire l’amico don Bartolo, gli suggerisce di calunniarlo per sminuirne la figura.
Secondo quanto pianificato con Figaro, il Conte di Almaviva fa irruzione nella casa di don Bartolo fingendosi un soldato ubriaco; Figaro gli ha anche procurato il falso permesso di soggiorno. Don Bartolo pur non riconoscendo nel soldato il Conte di Almaviva, cerca di allontanare il fastidioso rivale. Ne scaturisce una lite che richiama in casa i Gendarmi. Nella confusione generale (nel frattempo è entrato in casa anche Figaro) il Conte riesce a passare un messaggio a Rosina.
Per trarsi infine d’impaccio, il Conte rivela all’ufficiale delle guardie la sua vera identità; i soldati sono quindi costretti a lasciarlo andare senza arrestarlo.
ATTO II
Nella dimora di don Bartolo arriva don Alonso, sedicente insegnante di musica e sostituto di don Basilio; in realtà si tratta sempre del Conte di Almaviva con un nuovo travestimento.
Don Bartolo dubita delle sue reali intenzioni; don Alonso gli porge quindi la lettera di Rosina.
Intanto giunge Figaro, intenzionato a distrarre don Bartolo con la scusa della rasatura. Mentre il Conte cerca di spiegare la situazione a Rosina, irrompe Don Bartolo che lo caccia immediatamente.
Don Bartolo mostra a Rosina la sua lettera e le fa credere che il suo amato Lindoro sia in realtà un emissario del Conte.
Rosina – per dispetto – accetta infine la proposta di matrimonio del suo tutore. Don Bartolo chiama immediatamente il notaio per sugellare la loro unione.
In un ultimo disperato tentativo, il Conte e Figaro fanno irruzione nella camera di Rosina, usando una scala per entrare dalla finestra. Il Conte svela i suoi travestimenti a Rosina e le dichiara il suo amore e la sua volontà di sposarla; la bella Rosina accetta la proposta del Conte.
Proprio quando stanno per fuggire, i tre si accorgono che la scala fuori dalla finestra di Rosina, è stata tolta; è stato don Bartolo, che, sospettando la presenza di un estraneo in casa, è andato a chiamare le autorità. Memore della strana scena cui ha assistito, con il soldato ubriaco lasciato andare, non si fida della polizia. E’ corso dunque direttamente dal magistrato.
Nel frattempo, il notaio fatto chiamare da don Bartolo arriva in casa; Figaro e il Conte, approfittando della prolungata assenza del padrone di casa, convincono il notaio che il matrimonio che è stato chiamato a redigere sia quello tra il Conte e Rosina.
Quando don bartolo ritorna a casa il contratto di matrimonio è già stato siglato. Quando il Conte decide di rinunciare alla dote portata da Rosina, il non troppo disinteressato don Bartolo tira un sospiro di sollievo e benedice gli sposi.
Franco Leggeri Fotoreportage-Murales Ospedale Spallanzani di Roma
1)Carlo Urbani -Medico italiano, fu il primo a identificare e classificare la SARS-
Premessa-Franco Leggeri Fotoreportage: Roma -Portuense-Vigna Pia e Dintorni-Murales Ospedale Spallanzani di Roma
Questo reportage, come quelli a seguire, vuole essere un viaggio che documenta e racconta la storia di un quartiere di Roma: Portuense-Vigna Pia e i suoi Dintorni con scatti fotografici che puntano a fermare il tempo in una città in continuo movimento. Non è facile scrivere, con le immagini di una fotocamera, la storia di un quartiere per scoprire chi lascia tracce e messaggi. Ci sono :Graffiti, Murales, Saracinesche dipinte, Vetrine eleganti che sanno generare la curiosità dei passanti ,il Mercatino dell’usato, il Mercato coperto, le Scuole, la Parrocchia, il Museo, la Tintoria storica della Signora Pina, La scuola di Cinema, la scuola di Musica, Palestre , il Bistrò oltre i Bar , Ristoranti e Pizzerie e ancora Parrucchieri e specialisti per la cura della persona , Artigiani e per finire, ma non ultimo, il Fotografo “Rinaldino” . Il mio intento è di presentare un “racconto fotografico” che ognuno può interpretare e declinare con i suoi ”Amarcord” come ad esempio il rivivere “le bevute alla fontanella”, sita all’incrocio di Vigna Pia-Via Paladini, dopo una partita di calcio tra bambini oppure ricordando i “gavettoni di fine anno scolastico; e ancora vedendo il tronco della palma tagliato ma ancora al suo posto, poter ricordare, con non poca tristezza, la bellezza “antica” di Viale di Vigna Pia.
Roma lungo via Folchi ,dall’inizio di via Portuense, si trovano i Murales che raffigurano gli scienziati che hanno combattuto e vinto le battaglie contro le malattie infettive. Eroi veri ma dimenticati su questo muro di cinta – I Murales ora rischiano il degrado e la “polverizzazione” dell’intonaco. Il muro di cinta costeggia l’Ospedale “Lazzaro Spallanzani” e fa da “sostegno” e “tela” è un muro di cinta di 270 metri, lungo il quale, dal mese di aprile del 2018 sono immortalati 13 volti di scienziati che hanno scritto la storia della ricerca sulle malattie infettive. Un progetto dei Murales è finalizzato a celebrare gli 80 anni della struttura ospedaliera, iniziato a febbraio – e inaugurato il 3 maggio – grazie alla collaborazione fra la Direzione dello Spallanzani e l’Associazione Graffiti Zero, associazione che promuove l’integrazione fra la Street Art e i luoghi che la ospitano. Unica pecca, peccato grave, non vi è immortalata nessuna donna.
Verranno pubblicati le foto dei Murales di tutti i 13 scienziati , uno alla volta, questo al fine di poter evidenziare la biografia e la loro Opera in maniera più completa possibile. Le biografie pubblicate a corredo delle foto sono prese da Enciclopedio Treccani.on line e Wikipedia
Carlo Urbani nasce a Castelplanio, in provincia di Ancona, il 19 Ottobre 1956. -Medico italiano, fu il primo a identificare e classificare la SARS.
Laureato in medicina all’Università di Ancona, si specializza in malattie infettive e tropicali a Messina. Attivo fin dalla gioventù in operazioni di tipo umanitario, alla fine degli anni ’80, quando era medico di base a Castelplanio, inizia a organizzare insieme ai colleghi viaggi in Africa, in luoghi in cui le popolazioni locali morivano per malattie curabilissime, come diarrea o crisi respiratorie. “Un numero impressionante di bambini muore per disidratazione da diarrea e per salvarli basterebbe qualche bustina di reintegratori da pochi centesimi di euro” – scrive diverse volte, tormentato da un paradosso di cui non si capacita.
Nel 1993 diventa consulente dell’Organizzazione Mondiale della Sanità per il controllo delle malattie parassitarie, e con tale incarico si reca numerose volte nel continente africano. Negli anni seguenti, con l’ingresso in Medici Senza Frontiere, opera in Cambogia al termine del regime dei Khmer Rossi per controllare le malattie endemiche tra la popolazione locale. In Cambogia Urbani resta per un anno, e trova sulla sua via – a partire dalle rive del Mekong – un Paese da ricostruire. Pesano le ferite del genocidio, le mine antiuomo che continuano a mutilare giovani e adulti, le ferite degli animi, il dramma dell’Aids. Con il genocidio, due milioni di persone su meno di 7 milioni di popolazione sono state trucidate dai seguaci di Pol Pot. “Sembra un immenso sacrario – annota Urbani – per me e la mia famiglia è stato come conoscere i sopravvissuti di Auschwitz”.
Nel 1999 Carlo diventa presidente di Msf Italia, con cui conduce una vera e propria battaglia per la diffusione dei medicinali essenziali a tutta la popolazione mondiale. Come riporta lo stesso Urbani in un’intervista ad Avvenire nel 2000, “Il 90% del denaro investito in ricerca sui farmaci è per malattie che riguardano il 10% della popolazione del pianeta. Solo lo 0,3% della ricerca è indirizzata verso le cinque principali cause di morte nel mondo”. Basti pensare alla Tbc: “ai giorni nostri la Tbc miete una vittima ogni 10 secondi. È la seconda causa di morte per malattie infettive negli adulti: uccide ogni anno 3 milioni di persone, l’80% delle quali ha un’età compresa tra i 15 e i 49 anni”. Il 95% di loro vive in Paesi a basso reddito, ma “solo 400mila sono potenziali clienti paganti: troppo pochi, dicono le industrie”. Ecco per Urbani la missione del medico-umanitario, impegnato non solo nella cura dei malati ma anche in contesti di povertà, genocidi e guerre civili: curare ma nel frattempo denunciare, testimoniare, far sapere.
Con questo impegno Urbani si reca a Oslo nel 1999, come parte della delegazione che riceverà il Premio Nobel per la pace a nome di Msf.
Nel luglio del 2000 arriva la svolta professionale della vita di Urbani: l’assunzione all’Oms come coordinatore delle politiche sanitarie contro le malattie parassitarie nel Sud-Est asiatico. Si tratta di una scelta radicale – per cui rinuncia anche il ruolo di primario del reparto di Malattie infettive all’ospedale di Macerata -, che porta Carlo e la sua famiglia a trasferirsi in Vietnam.
Nel febbraio 2003 l’ospedale francese di Hanoi contatta l’Oms per il caso di un paziente – mister Chen – che nessuno sa curare e che sta infettando il personale medico. Come accade quando qualcosa di preoccupante arriva ad Hanoi, lo staff dell’Oms decide di “chiamare Carlo”. Urbani quindi decide di recarsi di persona al capezzale di mister Chen, uomo d’affari americano proveniente da Hong Kong, senza inviare preventivamente i “suoi” medici. È il solo, nelle corsie dell’ospedale di Hanoi, ad accorgersi di essere di fronte a una nuova malattia: lancia così l’allarme al governo e all’Oms, riuscendo a convincerli ad adottare misure di quarantena. Non è facile per Urbani riuscire nel suo intento: la necessità di isolare immediatamente i pazienti e di monitorare tutti i viaggiatori va a scontrarsi contro gli interessi economici e di immagine del Paese. Alla fine, tuttavia, il prestigio e la credibilità che Urbani ha acquisito negli anni riescono a persuadere le autorità, che decidono di affidarsi alle sue prescrizioni e di iniziare le procedure di isolamento.
Pochi giorni dopo, mentre è in volo verso la Thailandia, Carlo avverte i primi disturbi: febbre, tosse, debolezza. Con una tragica autodiagnosi, teme di aver contratto il virus e una volta atterrato chiede di essere immediatamente ricoverato e posto in quarantena. Muore dopo due settimane, il 29 marzo 2003, raccomandando che il suo tessuto polmonare venisse utilizzato per la ricerca. Un mese dopo, il 28 aprile, il Vietnam annuncia di aver sconfitto la Sars, con un bilancio di 63 contagi e 5 morti – a differenza di altri Paesi, in cui il virus si è diffuso in modo più capillare.
Gli ufficiali medici dell’Oms riconoscono che, se non fosse stato per il tempestivo intervento di Urbani, la Sars avrebbe infettato più lontano e più velocemente. Non sapremo mai quante vite ha salvato con la sua.
Il metodo anti-pandemie da lui realizzato rappresenta, ancora oggi, un modello internazionale.
Dopo la sua morte, l’allora Segretario generale delle Nazioni Unite Kofi Annan lo ha voluto ricordare con queste parole: Il dottor Carlo Urbani ha dedicato la sua vita a proteggere e salvare la vita degli altri. È stato determinante nel garantire un’imminente reazione da parte della comunità internazionale alla Sindrome Respiratoria Acuta Severa, e questo era caratteristico della sua natura di professionista competente e sempre vigile. Se non avesse intuito che l’insorgere di quel virus era qualcosa di fuori dall’ordinario, molte più persone sarebbero cadute vittima della Sars. È la più crudele delle ironie che egli abbia perso la sua stessa vita ucciso dalla Sars, mentre cercava di preservare il prossimo dalla malattia. Il dottor Urbani lascia un esempio illuminante nella famiglia delle Nazioni Unite e nella comunità sanitaria di tutto il mondo. Per il suo contributo in prima linea nella lotta contro il virus lo ricorderemo come un eroe, nel senso più elevato e più vero del termine.
Biografia
Carlo Urbani nasce a Castelplanio, in provincia di Ancona, il 19 Ottobre 1956.
Già da giovane si dedica ai più bisognosi ed è una presenza costante nell’ambito parrocchiale: collabora a raccogliere le medicine per Mani Tese, promuove un Gruppo di solidarietà che organizza vacanze per i disabili, entra a fare parte del Consiglio Pastorale Parrocchiale; suona inoltre l’organo e anima i canti. Il suo grande amore non è solo per il prossimo, ma anche per la bellezza, per la musica e per l’arte.
Il desiderio di prendersi cura delle persone sofferenti lo porta a scegliere gli studi di Medicina e la specializzazione in malattie infettive. Dopo la laurea, lavora in un primo tempo come medico di base, poi diviene aiuto nel reparto di malattie infettive dell’Ospedale di Macerata, dove rimane dieci anni. Nel frattempo sposa Giuliana Chiorrini. Insieme avranno tre figli: Tommaso, Luca e Maddalena. Sono gli anni in cui Carlo comincia a sentire più forte il richiamo ad assistere i malati dimenticati, trascurati dai paesi opulenti, dai giochi di potere, dagli interessi delle case farmaceutiche. Con altri medici organizza, dal 1988-89, dei viaggi in Africa centrale, per portare aiuto ai villaggi meno raggiungibili. Ancora una volta la sua comunità parrocchiale lo accompagna e lo sostiene con un ponte di aiuti alla Mauritania.
La conoscenza diretta della realtà africana gli rivela con chiarezza che le cause di morte delle popolazioni del Terzo Mondo sono troppo spesso malattie curabili – diarrea, crisi respiratorie – per le quali mancano i farmaci che nessuno ha interesse a fare giungere a un mercato così povero. Questa realtà lo coinvolge al punto che decide di lasciare l’ospedale, quando ormai ha la possibilità di diventare primario.
Nel 1996 entra a fare parte dell’organizzazione Médecins Sans Frontières e parte insieme alla sua famiglia per la Cambogia, dove si impegna in un progetto per il controllo della schistosomiasi, una malattia parassitaria intestinale. Anche qui rileva le forti ragioni sociali ed economiche del diffondersi delle malattie e della mancanza di cure: si muore di diarrea e di Aids, ma i farmaci per curare la infezione e le complicanze sono introvabili.
Nella sua veste di consulente dell’Organizzazione Mondiale della Sanità per le malattie parassitarie ha l’opportunità di ribadire ulteriormente che la causa primaria del diffondersi delle malattie è la povertà. Come Medico Senza Frontiere, l’interesse primario di Carlo è nella cura dei malati, tuttavia non può tacere sulle cause che provocano quelle sofferenze.
Nel gennaio del 2000 Carlo Urbani dichiarò al quotidiano Avvenire: “Io mi occupo come consulente dell’OMS delle malattie parassitarie. In tutti i consessi internazionali si ripete che la causa è solo una: la povertà. In Africa ci sono arrivato fresco di studi. E sono stato ‘deluso’ dallo scoprire che la gente non moriva di malattie stranissime: moriva di diarrea, di crisi respiratorie. La diarrea è ancora una delle cinque principali cause di morte al mondo. E non si cura con farmaci introvabili. Una delle ultime sfide che Msf ha accolto è la partecipazione alla campagna globale per l’accesso ai farmaci essenziali. Ed è lì che abbiamo destinato i fondi del Nobel.”.
Nell’aprile del 1999 viene eletto presidente di Msf Italia. In questa veste partecipa alla delegazione che ritira il premio Nobel per la pace assegnato all’ organizzazione.
Dopo la Cambogia, il suo impegno lo porta nel Laos, e quindi in Vietnam. Nelle ultime settimane di vita si dedica con coraggio alla cura e alle ricerche sulla Sars, la terribile malattia respiratoria che minaccia il mondo intero. E’ perfettamente conscio dei rischi che corre, tuttavia, parlandone con la moglie, osserva: “Non dobbiamo essere egoisti, io devo pensare agli altri”. All’inizio di marzo si reca a Bangkok per un convegno, nulla lascia intuire che abbia contratto il contagio. Dopo l’arrivo i sintomi si manifestano con forza e Carlo, tra i primi a occuparsi della malattia, capisce benissimo la propria situazione. Ricoverato in ospedale a Bangkok avverte la moglie di far tornare in Italia i figli, che vengono subito fatti partire. L’amore per il prossimo che lo ha accompagnato tutta la vita, lo fa rinunciare anche all’ultimo abbraccio per evitare ogni possibilità di contagio. La moglie gli resta vicina, ma nessun incontro diretto è più possibile. Dopo avere ricevuto i sacramenti, Carlo Urbani muore il 29 marzo 2003.
Le testimonianze che seguono sono inedite e ringraziamo quanti ce le hanno donato, perché contribuiscono ad una conoscenza più completa della figura di Carlo Urbani, della sua personalità così ricca, poliedrica eppur nel fondo tanto semplice e lineare, fondata sulla “passione” per la solidarietà concreta verso quanti soffrono, il più delle volte perché vittime di situazioni di violenza ed emarginazione.
La fede ha trasmesso in profondità nel suo animo un grande rispetto per ogni persona umana, a difesa della quale Urbani ha consacrato la sua intera esistenza, sia che si trattasse di un malato incontrato nelle corsie di un ospedale delle sue Marche, sia di un bambino o un anziano sofferente in Mauritania o Cambogia o Vietnam…
Una autentica, evangelica “passione“, per essere “accanto ai fratelli”, che Carlo voleva trasmettere a quanti, colleghi medici e operatori sociali, amici, studenti, mostravano di essere sensibili alle sue parole e al suo esempio.
Tutta la sua vita appare allora un “appello”… e tanti segni mostrano come molti – e in misura crescente – stanno rispondendo generosamente, perché più si diffonde la conoscenza della vita di Carlo Urbani, più sorge spontaneo l’apprezzamento e la volontà di impegnarsi a continuare la sua opera.
Testimonianza di Carlo Urbani
La disponibilità verso gli altri, il non tirarsi indietro di fronte alle difficoltà (anche a costo della propria vita), il rispetto delle diversità, sono gli aspetti che per me rendono più “vivo” il ricordo di mio marito.
La sua convinzione era che fare qualcosa per gli altri non è poi così difficile, basta credere che tutti gli uomini sono uguali ed hanno lo stesso diritto di aspirare alla propria felicità, e su questo ha basato le sue scelte di vita.
Scelte portate avanti fin da giovane, quando partecipava con entusiasmo ai campi di lavoro organizzati da Mani Tese, quando era l’animatore degli adolescenti del paese, per i quali organizzava incontri e campeggi, quando insieme ad altri coetanei progettava ed animava vacanze per portatori di handicap, basate sull’allegria e la voglia di stare insieme.
Scelte proseguite poi anche nell’ambito della sua professione, che in seguito ci hanno portato ai radicali cambiamenti di luoghi (Italia, Cambogia, Vietnam) ed abitudini di vita.
Il suo entusiasmo è stato per un certo senso “travolgente”: nei suoi primi viaggi all’estero è riuscito a coinvolgere le persone più “diverse” (con l’obiettivo del gusto per le scoperte ed il rendersi utile agli altri), fino poi ad arrivare a vivere con noi all’estero, scelta che per lui era “testimonianza di barriere abbattute”.
“Nella vita sono sempre più sorgente”, scriveva ad una sua amica suora (1) un anno fa, “la superficialità mi è divenuta intollerabile, l’indifferenza, mi fa quasi diventare violento. Si dice in genere che non esiste mai una situazione con il bianco e il nero ben distintiti, ma che si può trovare della ragione e del torto ovunque. Io invece, per una dolorosa passione e romanticismo, continuo a credere che si possa dire “questo è sbagliato o questo fa schifo” senza titubare. Occorre saper distinguere dove il BENE sta, e dove il MALE si annida. Essere disponibile è un sogno non poi tanto difficile da realizzare (basta volerlo), “tendere una mano” è un modo per avvicinarsi alle diversità e trarne ricchezza”.
Scriveva dalla Cambogia quando era membro di “Medici senza frontiere”: “Noi volontari siamo osservatori privilegiati che possono vedere l’orrore di fatti ed eventi che fanno della dignità umana un sanguinante e misero fardello. E poi raccontare, urlare, le privazioni dei diseredati, la lontananza degli esclusi, indicare in abusi e violenze i veri fenomeni contro cui è davvero difficile costruire argini e rifugi…“
Testimonianza di Elvia Carloni, già caposala del reparto malattie infettive presso l’Ospedale civile Umberto I di Ancona (2) .
Carlo Urbani era un uomo che non agiva d’impulso, in tutte le scelte era cosciente. In ospedale ad Ancona, quando era lo specializzando (3), faceva tante guardie mediche. I turni di servizio per gli specializzandi erano di tre o quattro ore a settimana, invece lui si fermava tutti i giorni, gratuitamente, per essere vicino agli ammalati. Quando lo si chiamava per qualche caso particolare, lui arrivava con il sorriso sulle labbra e diceva: “E allora?” Parlava con l’ammalato, lo tranquillizzava, lo incoraggiava, poi faceva la visita e dava la terapia.
Anche quando veniva chiamato di notte arrivava sempre con il sorriso sulle labbra e con il suo modo di fare gentile. Era di una disponibilità senza pari, cortese. Non era un tipo espansivo, ma dolce e comprensivo. Sempre disponibile nell’aiuto a tutti: ammalati, colleghi e personale sanitario.
Aveva due occhini grandi, bellissimi ed un sorriso che incoraggiava. Verso i colleghi era molto corretto e cortese, taceva se vedeva qualcosa di storto, ma poi prendeva provvedimenti, in modo discreto. Amava gli ammalati ed era profondamente toccato dagli ammalati terminali, gli facevano pena e per loro si adoperava in ogni modo.
Carlo ha fatto il liceo a Jesi, un giorno sapendo che io venivo da Filottrano , mi domandò se conoscessi una sua compagna di scuola del liceo. Gli dissi che era una mia nipote e che in quel periodo era molto sofferente a causa di una grave patologia della tiroide. Gli chiesi consiglio e lui mi disse che era cosa preoccupante, in quanto la malattia se non curata, poteva degenerare in tumore alla tiroide. E mi consigliò di convincerla a curarsi, di starle vicina. Si propose anche di farla venire in Ancona, ma lui non voleva assolutamente comparire per non far sentire a disagio la paziente. Allora si offerse di dare alla famiglia il nome di un bravo specialista di Roma e, volendo, di contattarlo lui direttamente. Finalmente la ragazza ha accettato di fare i controlli a Roma, si è curata, è guarita, si è sposata ed ha due bellissimi figli.
Essendo presidente regionale degli Infermieri Cattolici, il giorno dell’Immacolata, in occasione del tesseramento, invitai anche il dott. Urbani, che venne alla messa con due amici uno dei quali convinto comunista.
Il dott. Urbani conosceva la vita di San Giuseppe Moscati, il medico santo di Napoli, perché un giorno io stessa portai in reparto il libro di Papasogli, “Giuseppe Moscati, vita di un medico santo”. Il libro fu letto da entrambi e alla fine il dott. Urbani commentò: “E’ stato un bravo medico!” Molto probabilmente questa lettura suscitò in lui l’intenzione di seguirne la scia.
Il dott. Urbani non era un uomo di grandi energie fisiche, non era molto resistente, era magrolino, delicato, ma è riuscito a compiere grandi opere, per mezzo della grazia di stato, ossia di quei doni che il Signore ci dà a seconda della professione e in generale dello stato in cui ci troviamo, così come per esempio dà alle mamme che hanno figli piccoli la capacità di dormire poche ore a notte.
Questa testimonianza che rilascio non è tanto ad onore del dott. Urbani, che essendo molto umile non avrebbe apprezzato che si fosse parlato di lui, ma a ricordo dei figli, in particolare dei più piccoli. Il grande ha vissuto le esperienze che ha fatto insieme al padre e le ha vissute coscientemente da ragazzino maturo, i piccoli le hanno vissute come immagini sfuggenti senza poterne avere coscienza.
Mi chiamo Therese Nijem e sono nata a Nazareth, sono una consacrata appartenente all’Istituto Mater Misericordiae di Macerata (suore laiche). Sono affetta dalla sindrome di immunodeficienza congenita, un male terribile che mi ha costretto a lunghi ricoveri ospedalieri.
L’ultima volta accadde nel 1999, trascorsi ben nove mesi presso l’ospedale di Macerata, di cui tre o quattro presso il reparto di malattie infettive. Qui ebbi modo di conoscere il dottor Carlo Urbani. Un uomo che faceva seriamente il suo dovere, ma di poche parole. Con me, invece, che ero di natura timida, il dottore amava trattenersi a parlare e a volte confidarmi qualche piccolo segreto, con molta sorpresa degli altri ammalati.
Di quel periodo non riesco ad avere ricordi nitidi e dettagliati, ma ho molti flash. La malattia era gravemente degenerata tanto da portarmi al coma, dal quale non so come sono uscita. Soffrii molto in quei mesi, ma ebbi la fortuna di avere accanto a me la presenza dolce e consolante del Dott. Urbani. Un giorno, mentre ero preda a terribili sofferenze, arrivò il Dott. Urbani, al quale confidai che dovevo affrontare bene la sofferenza per offrirla al Signore. Il dottor Urbani mi disse: “Non solo voi ammalati, ma anche noi medici dobbiamo offrire con voi la sofferenza!“
Colpita da febbre con brividi, non riuscivo proprio a riscaldarmi, arrivò il Dott. Urbani che dolcemente mi sussurrò: “Non ti preoccupare se le coperte non ti scaldano, c’è Gesù dentro di te a scaldarti. Continuamente il mio fisico era sottoposto ad analisi per monitorare i valori del sangue, un giorno avevo tanta sete, mi lamentai con il Dott. Urbani per non poter soddisfare il mio bisogno di bere e lui mi disse: “Ma come? Tu che sei una consacrata non ti ricordi che pure Gesù in croce ha sofferto la sete e per dissetarlo i centurioni gli diedero l’aceto? Dunque, sopporta!” Qualche volta prima delle analisi mi chiedeva: “Therese, allora oggi non fai il tuo segno della croce? Non dici l’Ave Maria nel tuo cuore?”
Ci fu una volta in quei tragici mesi che scoraggiata gridai al dottore: “Dottore, voglio andare a casa!” E lui, con calma e con dolcezza mi disse: “Ricordati che il Signore vuole da te tante cose e che con la tua sofferenza dà l’occasione a noi medici di capire e trovare la cura per la malattia che ti ha colpito.”
Io non lavoro, non ho reddito, dunque non ho soldi a disposizione, un giorno vennero degli amici e mi regalarono 5.000 lire (l’euro ancora non era stato introdotto). Io fui felicissima perché avevo una gran sete e desideravo moltissimo un bicchiere di Coca Cola, chiesi al Dott. Urbani se la potevo bere, lui acconsentì. Diedi i soldi ad un familiare di un ammalato chiedendogli di andarmi a prendere al bar una bottiglia. Non rividi più né i soldi, né la Coca Cola! Più tardi, il Dott. Urbani mi chiese se avessi gustato la Coca Cola, raccontai con molto rammarico l’accaduto. Il giorno dopo, il Dott. Urbani arrivò accanto al mio letto, prelevò 10.000 lire dal suo portafoglio e me le diede, pregandomi di non raccontare nulla né ai medici, né agli infermieri. Io sorpresa, ma contenta, chiesi come avrei potuto sdebitarmi e lui mi disse: “Con preghiere per i miei figli!”
Conversando con lui gli raccontai della mia passione per le carte telefoniche e lui mi disse: “Quando andrò all’estero con MSF (Medici Senza Frontiere) ne porterò molte sia a te che a Rita.”
Un giorno mi sorprese a pregare e mi disse: “Noi medici lavoriamo e voi pregate, così sappiamo se facciamo bene il nostro lavoro!”
Spessissimo ero sottoposta a dolorosi prelievi per vedere la quantità di ossigeno presente nel sangue, un giorno mi opposi al prelievo, affermando: “Basta! Fa tanto male!” E lui in modo risoluto: “Therese, tu sai che c’è Gesù con te, ma l’ossigeno si vede solo con gli esami del sangue! Facciamo un patto: tu devi promettermi che obbedirai al primario come ubbidisci alla tua Superiora e da oggi in poi non rifiuterai più di fare le analisi.”
Prima di entrare in coma a causa di un ascesso al polmone, mentre stavo vomitando sangue lui mi accompagnò fino alla sala di rianimazione dicendomi: “Non ti lasceremo, rimarremo con te fino alla fine!“ Quando poi dopo molto tempo mi ripresi, ogni volta che mi vedeva mi diceva: “Mi hai fatto tribolare!” e poi spesso mi incoraggiava: “Se tu non avessi avuto la volontà di guarire dalla malattia, ora non saresti in vita, saresti già morta da tempo!”
Qualche volta quando mi veniva a visitare si fermava a fare quattro chiacchiere ed era il momento della confidenza, un giorno mi disse: “Mi piacerebbe vedere mio figlio divenire dottore come lo sono io: per amare gli ammalati, non per lavorare per i soldi!“
Quando, dopo essermi rimessa, gli comunicai che sarei ritornata in Israele per una visita, lui mi disse: “Prima di partire ti darò alcune cose nuove da portare in Israele per i bisognosi, ma ricordati Therese ciò che dice il Vangelo: ciò che fa la mano destra, la sinistra non lo deve sapere! Voi poveri e voi stranieri siete i primi nel mio cuore!
Ritornata all’ospedale per un controllo, annunciai al dottore che sarei partita per un soggiorno a Lourdes di due o tre settimane e lui, ricordando ciò che ero solita dire durante la mia dolorosa malattia, mi disse: “Io sono sicuro che tu non vai solo a pregare, ma anche per offrire la tua sofferenza!” e mi diede un’offerta per accendere un cerone aggiungendo: “Prega anche per la mia famiglia: per mia moglie ed i miei figli!”
Testimonianza di Don Mariano Piccotti, Parroco di S.Sebastiano a Castelplanio, Ancona (5) .
Conservo gelosamente una lettera che Carlo mi ha inviato dopo il primo tempo del suo trasferimento con la famiglia in Cambogia. Porta la data dell’11 febbraio 1997.
Scrive a me e a Suor Anna Maria Vissani (6) insieme, riconoscendoci suoi amici. “[…] Ho pensato di parlarvi insieme, per non far passare altro tempo, e perché tutto sommato siamo abituati a parlare insieme, ed in entrambi ho sempre trovato allo stesso tempo la calda attenzione dell’amico e la dolce acutezza dell’assistente spirituale.”
Per un parroco è questo un bel riconoscimento. Ma ancora più bello è il fatto riconosciuto in quest’altro passaggio: “Cosa sto facendo qui della mia Fede? Beh, qualche volta, magari incollati ad un ventilatore per il caldo torrido che c’è anche di notte, diciamo insieme qualche preghiera, ed ogni 15 giorni partecipiamo alla messa per la comunità francofona nella missione francese. La messa è molto piacevole, semplice, sentita, ed è bello scoprire come quella famiglia di figli di Dio alla quale diciamo di appartenere, ma che in realtà immaginiamo sempre come un concetto astratto, in realtà esiste in carne ed ossa, ed è pronta ad accoglierti tra le sue braccia anche in posti lontani come questo.” La chiesa è cattolica! Questo significa che in ogni parte del mondo ti puoi trovare a casa. E questo per Carlo era una esperienza centrale.
Ancora più interessante è l’altro passaggio sulla fede. Dice: “Ma poi soprattutto nella Fede cerco in questo tempo la luce per rispondere ad angoscianti interrogativi che mi tengono sveglio. Il primo è la fatidica questione sulla vera natura dell’uomo. Quanto vedo qui, quanto sento nei racconti dei miei colleghi provenienti dalle mille ferite di questa terra, campi di battaglia, campi profughi, la profonda povertà delle bidonvilles, le assurde lotte fratricide, e le carceri grondanti sangue di tutti i regimi dittatoriali del mondo… tutto questo scoraggia un po’, e a volte vedere qualcosa di buono nell’altro, in chi ti è “prossimo”, diventa veramente difficile ed invita a chiudersi in se stessi. Ma i piccoli lumi che brillano nei cuori di quanti si prodigano in questo magma dolorante lasciano sperare, ed il ricordo di chi ha deciso di scendere in questo scenario di continui soprusi e guerre, per morire poi su una croce, mi fa credere che una luce di pace sarà pure nascosta dietro qualche orizzonte”.
Qui c’è tutto Carlo: nella fatica di cercare e nella speranza di trovare; nella tragica situazione che scoraggia e nella speranza dei piccoli lumi di quanti si prodigano. Ed è bellissima quella chiara allusione al Cristo Crocifisso. E’ la discrezione del credente, che preferisce esprimere con la vita quanto un predicatore direbbe con parole.
La lettera si conclude con il Natale, quello vero fatto di persone che vivono la situazione della Santa Famiglia. “Vi so vicini, ed a volte vorrei che vedeste con i miei occhi, per fissarvi su quegli sguardi di chi ha perso tutto, la famiglia nella guerra, il raccolto nell’alluvione, il figlio per la diarrea, i risparmi per un ladro, o per scaldarvi il cuore alla vista di una donna che partorisce sola, in una palafitta in un remoto villaggio, lontano, da tutto e da tutti, il marito inginocchiato al fianco, un legno che arde in un braciere per scaldarla… non credo che in altre scene avreste potuto vedere meglio rappresentato il mistero della natività di questa che ho visto a Sdau, piccolo villaggio su nel nord, due settimane fa.”
Ecco il Carlo che io porto in mente e sento vivo nel cuore. Di altri aspetti, della sua collaborazione con la Parrocchia e la diocesi, nel campo della promozione sociale e liturgica ed educativa, parlano benissimo i libri. La memoria di lui ci sproni a convertirci, a cambiare stile di vita, perché ormai la nostra famiglia è il mondo.
Note
1. Suor Anna Maria Vissani. Lettera del 2003. 2. Testimonianza rilasciata ad Elisabetta Nardi e a Luciana Vissani, il 29 giugno 2004. 3. Carlo Urbani stava allora specializzandosi in malattie infettive e tropicali. 4. Therese Nijem, suora laica appartenente all’istituto Mater Misericordiae. Testimonianza raccolta il 4 luglio 2004. 5. Intervista del 1° luglio 2004. 6. Vedi nota n.1.
LA CENERENTOLA di Gioacchino Rossini – Trama, Libretto, Opera completa e Personaggi–
La Cenerentola, ossia La bontà in trionfo è un’opera lirica in due Atti di Gioachino Rossini su libretto di Jacopo Ferretti.Come suggerisce il nome, il soggetto dell’Opera è tratto dalla celebre fiaba di Charles Perrault; in realta, più ancora che alla favola, il testo del romano Jacopo Ferretti si rifà ad altri due libretti d’opera: “Cendrillon” di Charles Guillaume Etienne per Nicolò Isouard (1810) e “Agatina, o la virtù premiata” di Stefano Pavesi per Francesco Fiorini (1814).
Il riferimento principale però è quello alla favola di Charles perrault, soprattutto per ragioni morali: a differenza di alcune versioni più aspre e violente del racconto, lo scrittore francese enfatizzò nella sua favola gli elementi del perdono e della virtù. Valori molto vicini alla sensibilità del tempo e certamente graditi al vaglio Pontificio.
Sullo sfondo della vicenda, però, fa capolino una società degradata, calata a pennello nell’atmosfera romana di quegli anni, pervasa dalla corruzione, da una nobiltà decadente e scialacquante, da gravi disagi tra i ceti sociali più poveri.
Sotto le spoglie di un buonismo (obbligato dalla pesante censura pontificia), si intravede la lettura sarcastica di una fiaba amara più che zuccherosa.
La prima rappresentazione ebbe luogo il 25 gennaio 1817 al Teatro Valle di Roma. Il contralto Geltrude Righetti Giorgi (già la prima Rosina del Barbiere di Siviglia), interpretò il ruolo di Cenerentola.
Il debutto, pur non provocando uno scandalo paragonabile a quello del Barbiere di Siviglia, fu un insuccesso.
Solo dopo alcune recite, l’opera incontrò il favore del pubblico, diventando molto popolare, sia in Italia che all’estero.
Don Ramiro, principe di Salerno – tenore
Dandini, suo cameriere – baritono
Don Magnifico, barone di Montefiascone, padre di Clorinda e Tisbe – basso buffo
Clorinda, figlia di Don Magnifico – soprano
Tisbe, figlia di Don Magnifico – soprano
Angelina, sotto il nome di Cenerentola, figliastra di Don Magnifico – mezzosoprano
Alidoro, filosofo, maestro di Don Ramiro – basso
Dame che non parlano – comparse
Coro di cortigiani del Principe
ATTO I In un salone del decadente castello di don Magnifico
Le due figlie di don Magnifico, Clorinda e Tisbe, si pavoneggiano alla specchio. La figliastra di don Magnifico, Angelica (Cenerentola), da par suo canta lamentando la sua situazione. Le sorellastre la zittiscono proprio mentre entra in scena Alidoro (precettore del principe don Ramiro), sotto le false spoglie di mendicante. Il suo scopo è spiare le tre fanciulle e riferire al principe i loro comportamenti, Il principe è infatti in cerca di una moglie alla sua altezza.
Il falso mendicante viene maltrattato da Clorinda e Tisbe; solo Angelica lo aiuta, dandogli di nascosto un po’ di caffè. Mentre Alidoro se ne va, alcuni cavalieri segnalano l’arrivo a castello del principe. Le fanciulle vanno prontamente a svegliare don Magnifico; egli raccomanda alle fanciulle di fare una buona impressione sul principe.
A seguire entra il principe don Ramiro, vestito da paggio; egli ha infatti scambiato le vesti con il servo Dandini, per spiare di nascosto le fanciulle.
Tra il principe in incognito e la giovane Cenerentola scocca subito l’amore.
Entra in scena Dandini, insieme ala famiglia reale, in pompa magna. Nessuno dei presenti si accorge dello scambio di persona attuato dai due. Dandini mantiene la messa in scana, lusingando le sorelle con fare civettuolo. Cenerentola chiede al padre il permesso di andare alla festa organizzata dal principe a cui tutti si stanno recando, ma egli le nega con sdegno il permesso.
Alidoro comprende l’animo gentile della giovane Cenerentola e decide di aiutarla.
Nel palazzo reale, donRamiro e Dandini (ancora con le vesti scambiate), parlano con le figlie di don Magnifico e decidono di metterle alla prova: Dandini (vestito da principe) informa che una ragazza sarà sua sposa, mentre la sorella andrà a don Ramiro. Nessuna delle due giovani accetta il corteggiamento del finto servo.
Una strana ragazza, vestita elegamentemente e con il volto celato, giunge a castello: si tratta di Cenerentola, vestita per l’occasione dal fido Alidoro.
Don Magnifico e le figlie, per un attimo, colgono una somiglianza tra la giovane misteriosa e Cenerentola; i loro dubbi vengono però subito smentiti.
Dandini intanto richiama gli invitati a tavola.
ATTO II
Don Magnifico riconosce senza ombra di dubbio Cenerentola nella giovane donna con il volto celato, ma è sicuro che il principe sceglierà o Clorinda o Tisbe. L’anziano barone confida anche alle due ragazze che ha potuto farle vivere nella ricchezza, appropriandosi e sperperando il patrimonio di Angelina.
Cenerentol dal canto suo, rifiuta infastidita le proposte di Dandini, dicendogli di essere innamorata del suo “paggio”; queste parole riempiono di gioa don Ramiro, il quale riceve un braccialetto da Cenerentola, dicendogli che se veramente vuole amarla, dovrà cercarla e restituirglielo. La giovane ragazza fugge, mentre Ramiro è più che mai deciso a ritrovarla.
Dandini rivela a don Magnifico di essere in realtà il servo del principe; don Magnifico, adirato e indignato, se ne va. Nel frattempo Cenerentola, tornata a casa, ripensa alla magia di quella sera alla festa. I suoi pensieri vengono interrotti dal ritorno a casa di don Magnifico e le sorellastre, irati per la rivelazione.
Inatnto un violento temporale (e il provvidenziale aiuto di Alidoro), fanno in modo che la carrozza del principe si rompa proprio davanti il palazzo di don Magnifico.
Don Magnifico non demorde, è ancora intenzionato a far sposare al principe una delle sue figlie; chiede quindi a Cenerentola di porgere una sedia al regale ospite. Cenerentola porge una sedia a Dandini, ma il barone le svela lo scambio di abiti, rivelando la vera identità di don Ramiro. I due giovani si riconoscono immediatamente, mentre i parenti sfogano la loro ira contro Cenerentola.
Dandini e don Ramiro la difendono, reclamando vendetta verso la famiglia di lei. L’animo nobile e gentile di Cenerentola la spinge a chiedere la grazia al principe per la sua famiglia, nonostante le tante angherie subite, rendendo il perdono la sua unica vendetta.
Mentre i due promessi sposi si riuniscono, arriva anche Alidoro, tutto contento per la sorte capitata alla giovane Angelina.
Divenuta ormai principessa, Cenerentola concede il perdono ai suoi familiari, i quali sottolineano la sua nobiltà d’animo affermando che nessun trono sia veramente degno di lei.
Franco Leggeri Fotoreportage-Murales Ospedale Spallanzani di Roma
2)Caio Mario Coluzzi Bartoccioni-Biologo-
Roma lungo via Folchi ,dall’inizio di via Portuense, si trovano i Murales che raffigurano gli scienziati che hanno combattuto e vinto le battaglie contro le malattie infettive. Eroi veri ma dimenticati su questo muro di cinta – I Murales ora rischiano il degrado e la “polverizzazione” dell’intonaco. Il muro di cinta costeggia l’Ospedale “Lazzaro Spallanzani” e fa da “sostegno” e “tela” è un muro di cinta di 270 metri, lungo il quale, dal mese di aprile del 2018 sono immortalati 13 volti di scienziati che hanno scritto la storia della ricerca sulle malattie infettive. Un progetto dei Murales è finalizzato a celebrare gli 80 anni della struttura ospedaliera, iniziato a febbraio – e inaugurato il 3 maggio – grazie alla collaborazione fra la Direzione dello Spallanzani e l’Associazione Graffiti Zero, associazione che promuove l’integrazione fra la Street Art e i luoghi che la ospitano. Unica pecca, peccato grave, non vi è immortalata nessuna donna.
Verranno pubblicati le foto dei Murales di tutti i 13 scienziati , uno alla volta, questo al fine di poter evidenziare la biografia e la loro Opera in maniera più completa possibile. Le biografie pubblicate a corredo delle foto sono prese da Enciclopedio Treccani.on line e Wikipedia
Biografia du Caio Mario Coluzzi Bartoccioni-Biologo
Biologo italiano (Perugia 1938 – Roma 2012). Introdotto allo studio scientifico dal padre (noto malariologo), ancora liceale ha pubblicato il suo primo contributo sulla resistenza al DDT dei vettori italiani di malaria (1956). Durante la formazione universitaria e post-universitaria in Malariologia, Genetica e Parassitologia ha continuato le ricerche sugli insetti responsabili della trasmissione e negli anni è giunto a riconoscere sei specie gemelle di zanzara Anopheles (arrivando a identificarne l’intero genoma). Nominato professore ordinario di Parassitologia alla Sapienza di Roma (1982, Facoltà di Medicina e Chirurgia), è stato direttore del Centro Collaboratore per l’Epidemiologia e il Controllo della Malaria dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS). Nel 2008 gli è stato consegnato il BioMalPar Life Award dal gruppo istituito dalla Commissione Europea per la biologia e la patologia del parassita della malaria; nel 2009 C. è diventato membro ordinario dell’Accademia dei Lincei.
Figlio dell’epidemiologo umbro Alberto Coluzzi, e di Anna Wimmer, educatrice tedesca di Passavia, ebbe come sorella l’attrice Francesca Romana Coluzzi. Visse i primi anni con la famiglia in Albania, dove il padre era stato inviato per svolgere attività di ricerca e lotta antimalarica dall’Istituto di MalariologiaEttore Marchiafava, durante il periodo di occupazione italiana. In seguito agli eventi legati all’Armistizio di Cassibile, il 14 ottobre 1943 la famiglia fece ritorno a Perugia, per poi trasferirsi alla fine del 1945 nella Casa delle Palme, una grande casa di campagna sita nella frazione di Monticelli, acquistata dal padre per insediarvi la famiglia, ed affittata dallo Stato Italiano per crearvi congiuntamente un laboratorio sperimentale di indagini malariologiche.
Dopo la laurea in Scienze Biologiche, si è sposato il 14 luglio 1963 con Adriana Sabatini, ricercatrice in Parassitologia all’Istituto Superiore di Sanità di Roma, con la quale ha portato avanti una fruttuosa collaborazione scientifica per anni, e dalla quale ha avuto una figlia, Barbara Coluzzi Bartoccioni, nata a Roma l’8 giugno 1970.[1]
È stato diagnosticato affetto da un Parkinson rigido nel 1994, ed è morto di polmonite ab-ingestio dopo una decina di anni da quando era rimasto immobilizzato in sedia a rotelle a causa della rottura a distanza di poco tempo di un femore dopo l’altro. Nel frattempo la malattia era stata più accuratamente diagnosticata come una paralisi sopra-nucleare progressiva, in base all’esame della RMN.
Contributi scientifici
Iniziato alla ricerca scientifica in giovane età dal padre Alberto (la sua prima pubblicazione risale ai tempi del Liceo classico), è stato autore di oltre 300 pubblicazioni scientifiche. Le ricerche di Mario Coluzzi hanno intanto messo in evidenza gli effetti disastrosi del DDT sull’equilibrio degli ecosistemi (laghetti e simili), quindi anche di medicinali quali la clorochina sull’insorgenza di fenomeni di resistenza del plasmodio responsabile della malaria nella zanzaraAnopheles, vettore della malattia.
Importanti sono i suoi contributi sulla genetica dei vettori malarici, che lo hanno portato al riconoscimento dell’esistenza di sei specie gemelle del genere Anopheles, ciascuna in possesso di diversa capacità di contribuire alla diffusione della malattia, che possono distinguersi solo in base all’esame intanto con microscopio ottico dei cosiddetti “cromosomi giganti”, presenti in particolare nelle ghiandole salivari per permettere la produzione rapida di un’abbondante quantità di saliva (che viene iniettata alla puntura per impedire la coagulazione del sangue, che poi è quella che produce la caratteristica reazione di prurito e nella quale si trovano eventualmente i plasmodi responsabili della malaria). Collegato a questo lavoro è l’ipotesi da lui avanzata negli ultimi anni, su una speciazione tuttora in atto nel complesso Anopheles gambiae, che è stata successivamente confermata da studi di biologia molecolare. Un’altra linea di ricerca originale importante è stata quella sull’origine e diffusione della forma di malaria che può rivelarsi fatale per l’Homo sapiens, dovuta all’opera di diverse specie di Anopheles divenute spiccatamente antropofile circa 6 000 anni fa, in concomitanza con il passaggio dell’Homo sapiens da arboricolo ed allevatore a coltivatore prevalentemente stanziale, dando inizio al processo che avrebbe portato all’espansione e diffusione attuale della malattia nella popolazione umana.
Le sue ricerche genetiche hanno poi portato alla pubblicazione dell’intero genoma dell’Anopheles e del Plasmodium. All’attività di Coluzzi si deve poi la creazione di una scuola scientifica, che conta decine di importanti scienziati, e la promozione e direzione di importanti collaborazioni scientifiche internazionali con paesi in via di sviluppo, per la lotta alla malaria, soprattutto in area sub-sahariana, finanziati dal Ministero degli affari esteri e dall’Istituto Pasteur-Fondazione Cenci Bolognetti. In particolare, è stato dedicato alla sua memoria il nome di una specie identificata in seguito nell’Africa sub-sahariana, l’Anopheles coluzzii.
Gli studi di Mario Coluzzi sui siti riproduttivi del vettore malarico Anopheles gambiae, costituiti da piccoli ed effimeri accumuli temporanei di acqua dolce, hanno mostrato come non sia acriticamente estensibile, all’Africa subsahariana, il modello sinergico che vede, nel mondo occidentale, le pratiche e lo sviluppo agricolo quali importanti elementi di contrasto alla riproduzione del vettore. In ambiente subsahariano, al contrario, i fattori di trasformazione ambientale indotti dall’uomo (deforestazione, irrigazione, desalinizzazione delle aree costiere), hanno il solo effetto di moltiplicare i siti e le opportunità riproduttive del vettore, incrementando la trasmissione del parassita.
^ Jeffrey R. Powell, Nora J. Besansky, Alessandra della Torre, Vincenzo Petrarca, Mario Coluzzi (1938–2012), in Malaria Journal, vol. 13, n. 1, 22 gennaio 2014, pp. 10, DOI:10.1186/1475-2875-13-10. URL consultato il 25 febbraio 2024.
Inizia una collaborazione con Trabalza, dedicandosi soprattutto al reperimento di immagini fotografiche[2] e all’impostazione redazionale della rivista che però, a causa degli alti costi, uscirà per soli tre anni[3].
Nel 1909 fonda una propria rivista dal titolo Rassegna d’arte umbra; si avvale del contributo di Dante Viviani, in qualità di garante scientifico, e del sostegno di intellettuali stranieri come Bernard Berenson, di politici come Cesare Fani e di molti esponenti della nobiltà perugina come Vittoria Aganoor (che sostiene economicamente la rivista), Rodolfo Pucci Boncambi, Vincenzo Ansidei e la contessa Margherita Hummel. Anche Rassegna d’arte umbra sarà pubblicata per soli tre anni, con un’interruzione di dieci anni fra la prima serie (1909-1911) e la seconda (1921). Nei primi numeri vengono trattate e valorizzate opere di Niccolò di Liberatore, detto l'”Alunno”, Pietro Vannucci, detto il “Perugino”, e Pietro Lorenzetti. Nel frattempo collabora ripetutamente con la rivista ufficiale del Ministero della pubblica istruzione, il Bollettino d’Arte.
Incarichi e collaborazioni
Sempre nel 1909 viene nominato Ispettore storico dell’arte presso la Soprintendenza ai Monumenti dell’Umbria. Nel 1921 è direttore della Regia Galleria dell’Umbria e soprintendente alle Gallerie, ai musei medievali e moderni e agli oggetti d’arte[4]. Redige un nuovo inventario della Galleria e si adopera per una nuova sistemazione espositiva, ampliando la sede museale ai piani superiori del Palazzo dei Priori. Promuove l’incremento del patrimonio con nuove acquisizioni, acquisti o donazioni. Entrano al museo opere di Arnolfo di Cambio, alcune tele settecentesche, una raccolta di tessuti umbri donata da Mariano Rocchi, un’opera di Francesco di Gentile da Fabriano. Si impegna nel 1923 per la valorizzazione di importanti collezioni ecclesiastiche favorendo l’istituzione del Museo dell’Opera del Duomo di Perugia. Durante l’incarico, durato venti anni (interrotti per partecipare alla prima guerra come tenente di artiglieria), pubblica numerose opere e favorisce la conoscenza in ambito nazionale e internazionale dell’arte umbra, intento condiviso con alcuni colleghi stranieri come Raimond van Marle, Frederick Mason Perkins e Walter Bombe, anche loro residenti a Perugia[5]. Insieme incentivano l’attività di recupero e restauro delle numerose testimonianze artistiche del territorio, contenendone la dispersione.
Si impegna anche per la salvaguardia dell’immenso patrimonio artistico dello Stato italiano, spesso trascurato e dimenticato, lasciato in rovina. Suo principale obiettivo è:
«…render conto di quanto si fa dagli enti e dai privati per la protezione del patrimonio artistico e riassumere quanto in Italia e all’estero si scrive sull’Arte umbra… e illustrare la regione ne’ suoi monumenti, far conoscere le opere inedite o mal note e pubblicare nuovi documenti»
(Umberto Gnoli. Introduzione al primo numero di Rassegna d’arte umbra[6])
Nel 1923 dà alle stampe Pittori e miniatori nell’Umbria con introduzione di Federico Zeri, testo che ancora oggi costituisce un importante strumento di informazione storico-artistica.
Viaggia molto in Italia e in Europa al fine di studiare chiese, musei e monumenti e fare ricerche nelle biblioteche e archivi. Si reca spesso anche negli Stati Uniti perché nominato nel 1927 rappresentante Europeo del Metropolitan Museum di New York, con l’incarico di acquistare opere d’arte in Europa[7]. Inoltre collabora alla rivista Art in America, bimestrale edito a New York da Frederic Fairchild Sherman.
Tra il 1926 e il 1929 per motivi di salute sospende l’attività lavorativa e da Perugia si trasferisce a Roma. Qui riprende gli studi iniziati dal padre circa la toponomastica della città, studi che nel 1939 saranno pubblicati in Topografia e toponomastica di Roma medioevale e moderna. Il Ministero dell’Educazione Nazionale non rinnoverà il suo rapporto di lavoro, probabilmente per crescenti incomprensioni con il regime che non vedeva di buon occhio l’attività di consulente da lui svolta negli Stati Uniti anche per antiquari privati[8].
Nel 1908 sposa la contessa Margherita Hummel (1884-1922) con cui ha quattro figli tra il 1909 e il 1921; tre di loro muoiono in tenera età, sopravvive solo Claudine, nata nel 1917. Nel 1922 muore prematuramente anche la moglie[10]. Nel 1927 sposa in seconde nozze la giovane ceramista Annie de Garrou (1900-1994) con cui ha due figli: Domenico, artista di fama internazionale, e Marzia (1934). La famiglia De Garrou possiede una villa a Monteluco di Spoleto, alternano quindi la residenza fra Roma e l’Umbria. Il secondo matrimonio finisce nel 1940; Gnoli si ritira a Campello sul Clitunno restando molto presente nella vita e nell’educazione dei figli.
Muore a Campello sul Clitunno il 15 gennaio 1947.
Pubblicazioni
(Elenco parziale)
Le origini dell’architettura lombarda, Roma, Tip. dell’Unione Cooperativa Editrice, 1908.
I documenti su Pietro Perugino, Perugia, Unione tipografica cooperativa, 1923.
La Pinacoteca di Perugia, Firenze, F.lli Alinari, Soc. An. Idea, 1927.
Giulio Urbini, Disegno storico dell’arte italiana preceduto da un trattatello sulla tecnica delle arti figurative, a cura di Umberto Gnoli, Torino, Paravia, 1931.
Alberghi e osterie di Roma nella rinascenza, Spoleto, C. Moneta, 1935.
Topografia e toponomastica di Roma medioevale e moderna, Roma, Staderini, 1939.
Cortigiane romane: note e bibliografia, Arezzo, Edizioni della Rivista Il Vasari, 1941.
Piante di Roma inedite, Istituto di studi romani, 1941.
Raffaello e la Incoronazione di Monteluce, in Bollettino d’Arte, 1917.
Topografia e toponomastica di Roma medioevale e moderna: Supplement, ristampa, Foligno, Edizioni dell’Arquata, 1984 [1939].
Note
^ Umberto Gnoli, L’arte romanica nell’Umbria, in Augusta Perusia. Rivista di topografia, arte e costume dell’Umbria, I, Perugia, Unione tipografica cooperativa, 1906, pp. 22-25, 41-43. URL consultato il 7 marzo 2020.
^Una corposa raccolta fotografica di Gnoli è confluita nella fototeca di Federico Zeri. Cfr.: Giulia Alberti, Il fondo fotografico di Umberto Gnoli, su fondazionezeri.unibo.it. URL consultato il 6 marzo 2020.
^ Maria Raffaella Trabalza, Regionalismo nella cultura del primo Novecento: storia di una rivista umbra: Augusta Perusia (1906-1908), Le Monnier, 1981.
L’indocile scrittura di Anna Franchi, paladina dei diritti femminili- Articolo di Laura Candiani-
Anna Franchi è stata una pioniera del femminismo, attenta e sensibile ai diritti delle donne in un’epoca in cui se ne parlava con prudenza e i soprusi venivano taciuti per ipocrisia e perbenismo. Non solo; è stata anche musicista, scrittrice, traduttrice, giornalista, biografa e critica d’arte; una intellettuale completa, i cui interessi hanno spaziato in molteplici campi. Di tutto ciò ci parla la bella, esauriente biografia dal titolo significativo Anna Franchi: l’indocile scrittura-passione civile e critica d’arte, scritta dalla studiosa toscana Elisabetta De Troja e pubblicata nel 2016 a cura dell’Università di Firenze. Il libro è anche arricchito da una scelta di testi significativi e da un album fotografico. Anna Franchi era nata il 15 gennaio 1867, quando Firenze era capitale del Regno d’Italia, figlia unica di una famiglia livornese benestante; Cesare, il padre, era commerciante, la madre, Iginia Rugani, una casalinga molto riservata. Anna aveva maggiori affinità con il padre e la nonna Ernesta con i quali condivideva gli interessi e l’amore per la letteratura e la musica. Comincia presto ad attingere alla biblioteca paterna e legge avidamente Giusti, Dumas, Guerrazzi, romanzi sentimentali, patriottici e storici. Diventa un’ottima pianista e a soli 16 anni, nel 1883, sposa il suo insegnante, il violinista Ettore Martini. La coppia si trasferisce ad Arezzo e poi a Firenze (1889), città nelle quali il marito è direttore teatrale.
Fra una tournée e l’altra in cui si esibiscono insieme, nascono quattro figli: Cesare, Gino, Folco (che muore bambino) e Ivo; tuttavia il matrimonio è infelice: Ettore contrae debiti, mantiene a fatica il lavoro solo grazie all’impegno della moglie, la tradisce, non sa fare il padre; sarebbe un bravo violinista ma è incostante e instabile, finché parte per l’America con i due figli maggiori (1903). Di fatto il matrimonio è finito da tempo e Anna è stata costretta a vendere la casa di Livorno e a mantenere i figli (pure affidati legalmente al padre). Intanto trova il tempo per migliorarsi studiando con Ettore Janni ed Ernesta Bittanti, allora universitari molto promettenti. Inizia a scrivere e comincia a pubblicare: escono le novelle Dulcia-Tristia (1898) e un libro illustrato per bambini (I viaggi di un soldatino di piombo). Negli anni di fine secolo si impegna nella Lega Femminile (che aderisce alla Camera del Lavoro) e poi nella Lega Toscana; è attiva a fianco delle “trecciaiole” nelle agitazioni del biennio 1896-97 e, pur non essendo iscritta ad alcun partito, è vicina all’ideologia socialista. Nel 1900 è ammessa nell’associazione dei Giornalisti milanesi (seconda donna, dopo Anna Kuliscioff) e scrive su quotidiani e periodici, fra cui il “Corriere dei piccoli” (con lo pseudonimo “nonna Anna”). Con brevi articoli di informazione artistica e corrispondenze (da Venezia e Parigi, ad esempio) collabora a varie testate; risulta essere la prima donna editorialista dei quotidiani “Lombardia” e “La Nazione”. Gli anni 1902-3 rappresentano il periodo in cui più si impegna per una causa che le sta a cuore: il divorzio. Il Codice civile (1865) e l’enciclica Arcanum divinae sapientiae (1880) attraverso il potere dello Stato e della Chiesa ribadiscono la subordinazione femminile all’uomo padrone e signore in famiglia, ma anche nella vita sociale e professionale. Le donne non possono conseguire titoli di studio superiori, né decidere sui propri beni né stipulare contratti; la moglie deve condividere la residenza scelta dal marito e ne deve avere l’autorizzazione se vuole esercitare il commercio o compiere operazioni bancarie. Questa «mostruosa catena» (Sibilla Aleramo) si spezza nell’opera di Anna perché la protagonista del suo romanzo Avanti il divorzio rifiuta le convenzioni e un matrimonio iniziato con un vero e proprio stupro: «La prese brutalmente, violando quella purezza che gli si abbandonava quasi con incoscienza, la prese spudoratamente, nulla attenuando con gentilezza amorevole, senza risparmiarla (…)». Significativi i nomi della coppia: perché il riferimento autobiografico risulti ben chiaro, cambiano solo i cognomi (Mirello lei e Streno lui). Anna Mirello cresce, matura, rischia e cambia grazie a un nuovo amore, ma soprattutto grazie alla propria realizzazione attraverso il lavoro, la letteratura, l’indipendenza economica. La vera nemica della donna infatti è la rassegnazione (come spiegherà la scrittrice nel saggio Il divorzio e la donna). Interessante risulta anche il confronto con la posizione assunta dalla contemporanea Grazia Deledda che, nel medesimo anno 1902, pubblica il romanzo Dopo il divorzio, mentre veniva discussa e respinta la proposta di legge del Governo Zanardelli. Nel 1909 compare il secondo importante romanzo: Un eletto del popolo in cui la protagonista Mariangela viene abbandonata con un figlio da un deputato avido e arido preoccupato dalla carriera. Una vicenda che non può non ricordare quella personale vissuta dalla scrittrice e che rappresenta comunque una vittoria del coraggio e dell’anticonformismo perché la “sora Lange” rifiuta il cognome dell’uomo per il figlio e lo dispensa dall’obbligo del mantenimento. Nel 1910 esce un romanzo in forma di diario: Dalle memorie di un sacerdote, in cui Angelo, curato nella campagna toscana, soffre per le maldicenze dopo aver salvato da morte certa un neonato abbandonato dalla madre disperata sul greto di un fiume. Don Angelo prova pietà, sa capire e perdonare, mentre il Codice penale (art. 369) distingue fra omicidio e infanticidio (“omicidio scusato”), e libera l’uomo (padre/seduttore) da qualsiasi responsabilità. Per di più il Codice civile (art. 340) proibisce la ricerca del padre con ipocrite motivazioni. Oppresso dalla cattiveria dei parrocchiani e dai dubbi sulla propria fede, disgustato dai compromessi e dall’autorità ecclesiastica, don Angelo arriva al suicidio.
Nel periodo fiorentino Anna frequenta assiduamente i Macchiaioli e in particolare lo studio di Telemaco Signorini di cui parla ampiamente nella autobiografia (La mia vita-1940), in biografie specifiche e in saggi (Arte e artisti toscani dal 1850 ad oggi), accompagnati da conferenze molto apprezzate. La sua fama raggiunge la Francia – che frequenta durante le esposizioni internazionali – dove diviene affettuosamente “Franscì” per gli amici intellettuali, fra cui Matisse. Trasferita a Milano prosegue con fervore la sua attività di intermediaria fra i pittori, i galleristi e i collezionisti e scrive la biografia di Fattori (1910) di cui con sapienza mette in luce le doti nel saper rielaborare l’oggetto in modo tutt’altro che fotografico. Negli stessi anni varie testimonianze ricordano l’impegno di Anna sul fronte anticlericale messo in atto con scritti e conferenze; nel 1913 entra nella loggia massonica torinese “Anita Garibaldi” e nel 1914 fonda a Milano la loggia “Foemina superior”, il cui nome indica sia l’intento di «mettere sulla via della verità le giovani menti nelle quali si sviluppa uno spirito di osservazione critica» sia «l’aspirazione della donna verso il miglioramento spirituale». Siamo ormai alla vigilia della Grande guerra e Anna prende posizione da interventista con le opere Città sorelle (1915) e Il figlio della guerra (1917). Le tragiche vicende nazionali e internazionali la colpiscono duramente: il figlio Gino muore al fronte e il suo corpo non verrà mai ritrovato. Anna fonda allora la Lega d’Assistenza per le madri dei caduti, allo scopo di sollecitare la politica a prendere a cuore la situazione delle madri che non possono avere benefici economici nel caso i figli uccisi siano coniugati. Nel dopoguerra con coerenza Anna non entra nelle file del Partito fascista e invece si avvicina ai Valdesi tanto da diventare “direttore responsabile” del loro periodico “L’Appello”. Intanto continua a pubblicare saggi, romanzi, biografie (Caterina de’ Medici– 1932), racconti per bambini (Gingillo-1946) e a impegnarsi in pubbliche conferenze. Durante la Seconda guerra mondiale opera nelle file della Resistenza e, con la pace ritrovata, il 1946 è per lei un momento di grande soddisfazione: finalmente le donne italiane hanno accesso al voto attivo e passivo; si realizzava dunque il sogno di quelle pioniere come Anna Kuliscioff e Anna Maria Mozzoni che tanto a lungo e con tenacia si erano battute. Per l’occasione scrive Cose d’ieri dette alle donne di oggi. Ormai anziana prosegue tuttavia il lavoro e nei primi anni Cinquanta escono ancora sue opere.
Muore a Milano il 4 dicembre 1954, ma il funerale si svolge a Livorno dove è sepolta nella cappella di famiglia. «L’equilibrio dovrebbe nascere da una coscienza morale, da una dignità diversa tanto nel maschio quanto nella femmina (…) uguale al maschio? No. Inferiore? Nemmeno. Diversa ma non meno degna di tutte le considerazioni». (Per le donne, 1913) Le sono state intitolate una via a Olbia, una a Roma e un largo a Livorno.
Articolo di Laura Candiani-Ex insegnante di Materie letterarie, dal 2012 collabora con Toponomastica femminile di cui è referente per la provincia di Pistoia. Scrive articoli e biografie, cura mostre e pubblicazioni, interviene in convegni. È fra le autrici del volume e Mille. I primati delle donne. Ha scritto due guide al femminile dedicate al suo territorio: una sul capoluogo, l’altra intitolata La Valdinievole. Tracce, storie e percorsi di donne.
Rivalutiamo Anna Franchi
scrittrice, giornalista, donna di cultura e di impegno civile per l’emancipazione femminile
Con questo progetto il Club intende rivalutare Anna Franchi una delle figure più significative del panorama intellettuale livornese e nazionale del primo Novecento per il coraggioso impegno messo nella lotta per la conquista di diritti allora solo maschili.
Cresciuta ed educata in un ambiente familiare ricco di memorie risorgimentali, porterà sempre con sé i valori della democrazia e dell’uguaglianza ricevuti dal padre, dalla nonna e dagli amici di famiglia che frequentavano la casa paterna.
Le sue vicende personali, poi, la spingeranno a battersi per una identità nuova della donna nella società e nel mondo del lavoro con chiari collegamenti agli ideali risorgimentali.
Anna Franchi, sostenitrice delle idee progressiste che fioriscono nella stampa femminista del tempo, si trova a vivere in questa fase di trapasso epocale e decide, a seguito del fallimento matrimoniale e delle difficoltà economiche, di lottare come giornalista affinché possa realizzarsi l’uguaglianza tra uomo e donna.
Anna Franchi nasce a Livorno nel 1867 e ottantasettenne muore in povertà a Milano nel 1954. La salma, rispettando le sue volontà, viene traslata a Livorno al cimitero dei Lupi dove si trova tuttora.
Alla Biblioteca Labronica Guerrazzi la Franchi lascia in dono numerose sue opere, articoli, manoscritti che oggi costituiscono il Fondo Anna Franchi ovvero la testimonianza di vita di una donna semplice, onesta e coraggiosa.
Il progetto prevede le seguenti 3 attività:
allestimento di una mostra delle sue opere artistiche e manoscritti secondo il seguente calendario:
– 28 novembre 2024 inaugurazione della mostra presso la Biblioteca Comunale Guerrazzi con apertura straordinaria domenica 1 dicembre e termine il 7 dicembre
– 6 dicembre 2024 presso la sala degli specchi del Museo Fattori conferenza conclusiva sull’attività letteraria, giornalistica e politica della Franchi
febbraio 2025 apposizione di una lapide commemorativa presso il Famedio del Santuario di Montenero dove a ora sono presenti solamente figure di grandi uomini illustri livornesi, sarebbe la prima donna ad avere questo riconoscimento ( data da definire)
marzo 2025 Intitolazione del plesso secondaria di 1° nel quartiere La Rosa dell’istituto comprensivo Bartolena ( data da definire)
Anna Franchi, la prima e l’ultima macchiaiola
Conferenza del critico d’arte Jacopo Suggi all’interno del Progetto Rivalutiamo Anna Franchi
Venerdì 6 dicembre, presso il salone degli specchi, all’interno della Villa Mimbelli sede del Museo G.Fattori ha avuto luogo una conferenza del giornalista e critico d’arte Jacopo Suggi dal titolo “Anna Franchi, la prima e l’ultima macchiaiola“.
Anna Franchi è stata una personalità eclettica, moderna scrittrice e giornalista d’arte, autrice di oltre sessanta pubblicazioni e innumerevoli saggi, drammaturga, musicista, ma anche attivista, mossa da una complessa coscienza sociale che la portò a combattere per tante cause, in particolare per i diritti delle donne.
Davanti a un pubblico attento e appassionato Jacopo Suggi ha messo in luce un altro aspetto di questa donna eccezionale: la sua passione per l’arte, i contributi dati come critica d’arte e i legami con il movimento dei Macchiaioli. Anna Franchi è stata infatti la prima donna che ha creduto nel movimento macchiaiolo: ne ha scritta la storia, ha conosciuti gli artisti, ha cercato per loro un mercato che ne riconoscesse il valore. Importante l’amicizia con Giovanni Fattori e la corrispondenza con molti pittori: le lettere ricordano non soltanto le loro intenzioni artistiche ma anche gli stati d’animo, le relazioni, i viaggi, i successi e anche i momenti di tristezza che venivano confidati all’amica Anna.
A seguire ha avuto luogo una visita guidata al museo G. Fattori, dove sono allocate le opere dei pittori macchiaioli. In alcune stanze sono state allestite bacheche con documenti e opere che mostravano l’interesse e il legame di Anna con gli artisti di quel movimento pittorico.
Un bel pomeriggio, il finissage della mostra che chiuderà i battenti sabato 7 dicembre, che ha avuto un grande interesse e partecipazione pertanto… è stata chiesta un proroga, speriamo di ottenerla!
-Indagini archeologiche Via Aurelia Antica-Località Malagrotta-(2011-2013)–
Malagrotta-Osteria a sinistra della Via Aurelia Antica, o strada di Civitavecchia, 8 miglia lungi da Roma , posta nel tenimento di Castel di Guido, poco prima del diverticolo di Maccarese. Essa è nella valle del Rio di Galeria, che si traversa sopra un ponte : ivi dappresso è un Casale , un granaio , la chiesa , ed un fontanile fornito di acqua da una sorgente condotta, i cui bottini veggasi a destra della strada. Il nome Malagrotta suol dirsi da una grotta che si vede sul colle a sinistra ; a me sembra però che sia un travolgimento del nome Mola Rupta, che almeno fin dal secolo X. questo fondo portava: dico fin dal secolo X, poiché non voglio fare uso della Carta di donazione di Santa Silvia per le ragioni che furono indicate nell’articolo su Maccarese. Or dunque negli annali de’ i Camaldolesi, ne’ quali si riporta quell’Atto di donazione , si trova pure riportata una Carta genuina pertinente all’anno 995, ( leggasi il tomo I.p.p.126) nella quale si ricorda la cessione e permuta fatta da Costanza nobilissima donna di una metà di un suo Casale denominato Casa Nobula, posto circa l’ottavo miglio fuori della porta San Pietro nella contrada che corrisponde appunto a Malagrotta. E questa contrada si ricorda ancora anche in altre Carte degli stessi annali, come in una dell’anno 1014 nella quale si pone fuori di porta San Pancrazio nella via Aurelia, e si nomina come Casale ,in un’altra carta del 1067 si nomina come affine al Rio Galeria, e nel secolo XIII. Col nome di Castrum Molarupta colle chiese di Santa Maria e di Santa Apollinare si designa nelle bolle di papa Innocenzo IV. Nel 1249 e di Papa Bonifacio VIII. Nel 1299, con le quali furono conferiti i beni di San Gregorio: come pure in due Atti pertinenti all’anno 1280 e 1296, documenti che sono inseriti nell’appendice del tomo V. degli Annali suddetti. Quindi il nome Molarupta rimaneva sul principio del secolo XIV. E quanto a questa denominazione così antica , che rimonta, come si vide , almeno al secolo X. facile è derivarne la etimologia da una mola ivi sul fiume Galeria esistente, la quale rottasi, ne derivò al fondo ed alla contrada il nome do Molarupta.
Roma: Malagrotta – via Aurelia-indagini archeologiche finalizzate all’individuazione ed all’apposizione del vincolo di un tratto della via Aurelia antica e della mansio di età imperiale ad essa afferente.Committente:Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Roma (dott.ssa Daniela Rossi)
Scavi a cura della Cooperativa Parsifal – Cooperativa di Archeologia.
Roma: Malagrotta – via Aurelia–indagini archeologiche finalizzate all’individuazione ed all’apposizione del vincolo di un tratto della via Aurelia antica e della mansio di età imperiale ad essa afferente.
Committente: Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Roma (dott.ssa Daniela Rossi)
Scavi a cura della Cooperativa Parsifal – Cooperativa di Archeologia.
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