Descrizione del nuovo libro di Nicola Coccia “Strage del Masso delle Fate”-Un episodio della Resistenza toscana passato quasi in sordina. Il sabotaggio di un treno tedesco zeppo di esplosivi, la notte tra il 10 e l’11 giugno del ‘44, che i partigiani di una Squadra d’azione patriottica, a costo della propria vita, fecero saltare in aria nei pressi di Carmignano. E il ruolo di Ottone Rosai e degli intellettuali fiorentini nella lotta di Resistenza, il loro contributo alla liberazione di Firenze e della Toscana. Storia, ricerca accurata delle fonti, scrittura brillante si fondono nell’affresco fiorentino a cavallo della seconda guerra mondiale tracciato dal giornalista Nicola Coccia nel suo ultimo libro, “La strage del Masso delle Fate. Ottone Rosai, Bogardo Buricchi ed Enzo Faraoni dal 1933 alla Liberazione di Firenze” (Ets). Martedì 26 aprile la presentazione ai lettori in palazzo comunale a Bagno a Ripoli (ore 17.00, sala consiliare “Falcone e Borsellino”, ingresso libero). Accanto all’autore, storica firma del quotidiano La Nazione, saranno presenti il professore di Storia dell’Università di Firenze, Giovanni Cipriani, il sindaco Francesco Casini e l’assessora alla cultura Eleonora Francois. L’iniziativa si svolge in collaborazione con la Biblioteca comunale.
Frutto di quindici anni di ricerche e interviste, il libro di Coccia racconta l’attività di una piccola formazione partigiana guidata da un poeta, Buricchi, e da un pittore, Rosai, fino al più importante attacco alle linee ferroviarie dell’Italia centrale e alla fabbrica di armi nel pratese. La chiave di volta, per l’autore, è il ritrovamento all’Archivio centrale dello Stato di un documento inedito che gli consente di svelare, più di mezzo secolo dopo, come il tritolo dei tedeschi servisse per rallentare l’avanzata degli Alleati.
Gli effetti dell’assalto al treno si intrecciano con la vita di Rosai, che aprirà le porte di casa ad uno dei superstiti del sabotaggio, Enzo Faraoni, così come a Bruno Fanciullacci, il gappista più ricercato della Toscana. Ma anche con l’uccisione di Giovanni Gentile, la cattura del famigerato Mario Carità e del suo degno allievo Pietro Koch, che per una settimana aveva rinchiuso in un armadio Luchino Visconti. Una serie di persone e fatti concatenati nella Firenze degli anni Trenta e Quaranta, dove la gente era affamata d’arte, poesia e libertà.
Nicola Coccia ha cominciato a collaborare all’Avanti nel 1966 per poi passare alla redazione fiorentina del Lavoro di Genova. Per La Nazione si è occupato dei principali fatti di cronaca che hanno segnato la storia di Firenze degli ultimi trent’anni. Con il libro “L’arse argille consolerai. Carlo Levi, dal confino alla Liberazione di Firenze attraverso testimonianze, foto e documenti inediti” (2016) ha vinto il Premio Carlo Levi.
Comune di Bagno a Ripoli (Firenze)-
il 26 aprile 2022 in sala consiliare
presentazione del nuovo libro di Nicola Coccia
“Strage del Masso delle Fate”
Il Comune di Bagno a Ripoli si trova in piazza della Vittoria 1. Per informazioni: 055.6390211.
20/04/2022 15.05 Ufficio stampa Comune di Bagno a Ripoli
Anna Pavlovna Pavlova, la più famosa ballerina russa del XX secolo-
Anna Pavlovna Pavlova,Ballerina (Pietroburgo 1881 – L’Aia 1931). Allieva della Scuola imperiale di ballo a Pietroburgo, studiò con N. G. Legat, P. A. Gerdt e infine con E. Cecchetti, che divenne suo maestro personale. Diplomata nel 1899, nel 1906 fu nominata prima ballerina del teatro Marijnskij di Pietroburgo, sulle cui scene interpretò Il lago dei cigni e Giselle. Nel 1907 M. Fokin creò per lei l’assolo La morte del cigno (o Il cigno) su musica di C. Saint-Saëns, brano emblematico della personalità artistica della P. e a lei rimasto indissolubilmente legato. Nel 1909 danzò a Parigi con la compagnia dei Balletti russi di S. P. Djagilev, interpretando, accanto a V. F. Nižinskij, Les Sylphides e Cléopâtre (coreografia di M. Fokin). Stabilitasi a Londra nel 1911, dopo un’ultima stagione con Djagilev fondò una sua propria compagnia, con la quale danzò in tutto il mondo. Custode di un’estetica conservatrice (si rifiutò di danzare L’uccello di fuoco di Stravinskij), incarnò l’ideale etereo della ballerina classica, influenzando in particolar modo il gusto del sorgente balletto inglese.
Anna Pavlovna Pavlova,, la più famosa ballerina russa del XX secolo-
Professor Josè Gongora Ballet-Anna Pavlovna Pavlova, la più famosa ballerina russa del XX secolo-Biblioteca DEA SABINA
Tra le personalità più importanti della danza russa c’è Anna Pavlova, una straordinaria danzatrice che ha portato e diffuso la cultura balletto per il mondo, danzando sino ai cinquanta anni. La ballerina russa è ancora oggi il simbolo della danza romantica, della sua malinconia e grazia, della capacità di trasfigurare il mondo delle emozioni in arte del movimento.
Nata a San Pietroburgo nel febbraio del 1881, da un’umile famiglia di contadini, Anna Pavlova scopre il balletto a otto anni, quando assiste a una rappresentazione de La Bella addormentata. Qui, ancora bambina, la piccola Anna comprende nel profondo del suo animo di voler diventare una ballerina. Una scoperta casuale come quella derivata da una semplice visione di uno spettacolo cambia dunque il corso della sua vita. Così a soli dieci anni la troviamo alla Scuola dei Balletti Imperiali, in cui studia costantemente sino al raggiungimento del diploma ottenuto a diciotto anni.
Entra immediatamente a far parte della compagnia, diventa seconda solista nel 1902, prima solista l’anno successivo, diventando in seguito prima ballerina dopo l’interpretazione del Lago dei cigni nel 1906. La troviamo quindi a danzare ne La Fille Mal Gardée, uno dei balletti più antichi della storia della danza classica, al Teatro Mariinskij. Uno dei suoi maestri è Enrico Cecchetti, maestro, ballerino e coreografo italiano, il cui metodo è molto conosciuto soprattutto in ambito anglosassone. Anna lavora per Serege Diaghilev, organizzatore e direttore dei Balletti russi, prima di fondare una compagnia vera e propria, con cui girare il mondo.
Questa straordinaria artista ha avuto un ruolo importante nella storia del balletto. Se nell’Ottocento le ballerine sono donne caratterizzate da una corporatura piuttosto muscolosa e forte, la Pavlova, così minuta e delicata, si presenta fisionomicamente distante da quei modelli, ma ricca di grazia e rara eleganza. Il suo piede è piuttosto minuto e delicato, ragion per cui rinforza le sue scarpe da punta con l’aggiunta di un pezzo di cuoio sulla suola dando così anche il suo contributo allo sviluppo della scarpetta da punta moderna.
Questa ballerina è conosciuta soprattutto per delle esibizioni famose come quella de La morte del cigno. La versione coreografata da Michel Fokine è una delle rappresentazioni più interpretate dalla ballerina durante la sua carriera, un’interpretazione artistica a cui resta sempre fedele.
sua favola termina però in Olanda, dove la Pavlova muore a causa di una pleurite nel gennaio del 1931. Il treno è fermo nella neve, e Anna scende non coprendosi completamente, così il freddo intenso e pungente le provoca un malanno che degenera nelle settimane successive. La straordinaria ballerina resta fedele alla danza sino alla morte, la danza è sua compagna, e non è un caso se in fin di vita, richiede espressamente di poter tenere in mano il suo costume utilizzato per La morte del Cigno. Il giorno successivo alla sua scomparsa, lo spettacolo va in scena con un faro segui persona che si muove su un palco vuoto, illuminando quegli spazi che la ballerina avrebbe dovuto riempire con la sua presenza leggiadra.
Oggi esistono dei frammenti di filmati dedicati a questa artista, che ne fissano per sempre come testimonianza la danza. Molte di queste sequenze sono state inglobate in un film del 1956 chiamato The Immortal Swan (Il cigno immortale).
Anna Pavlovna Pavlova,, la più famosa ballerina russa del XX secolo-
Professor Josè Gongora Ballet-Nel 1923 , Anna Pavlovna Pavlova,was at the height of her career as one of the world’s most celebrated ballerinas. Pavlova, born in 1881 in St. Petersburg, Russia, had already achieved international fame for her ethereal performances and dedication to the art of ballet. Known for her expressive style and technical prowess, Pavlova became a symbol of the elegance and beauty of classical dance. Her portrayal of the “Dying Swan,” a solo she performed for the first time in 1905, became one of the most iconic pieces in ballet history, solidifying her legacy.
By the time this photograph was taken in 1923, Pavlova had become a household name and was in the midst of her global tours. She was admired not only for her dancing but also for her ability to convey deep emotion through her movements. She was a pivotal figure in bringing ballet to a broader audience, performing in cities around the world and captivating audiences with her grace. Her tours included performances in London, Paris, and New York, where she introduced the beauty of classical Russian ballet to the Western world, forever changing the global perception of ballet.
Pavlova’s influence on the world of dance cannot be overstated. She founded her own ballet company, which toured extensively, and she was instrumental in advancing the recognition of ballet as a legitimate form of artistic expression. Despite the challenges of the time, including the limited acceptance of women in such powerful roles, Pavlova remained a trailblazer for female dancers worldwide. Even today, Anna Pavlova is regarded as one of the most important figures in the history of ballet, and her legacy continues to inspire generations of dancers. The 1923 photograph captures not only her beauty but also her immense contribution to the performing arts, preserving a moment in time that celebrates the artistry of one of ballet’s greatest icons.
Nel 1923 Anna Pavlova era all’apice della sua carriera come una delle ballerine più celebrate al mondo. Pavlova, nata nel 1881 a San Pietroburgo, Russia, aveva già raggiunto fama internazionale per le sue esibizioni eteree e la dedizione all’arte del balletto. Conosciuta per il suo stile espressivo e la sua abilità tecnica, Pavlova è diventata un simbolo dell’eleganza e della bellezza della danza classica. La sua interpretazione di “Dying Swan”, un assolo che ha eseguito per la prima volta nel 1905, divenne uno dei pezzi più iconici della storia del balletto, consolidando la sua eredità.
Quando questa fotografia fu scattata nel 1923, Pavlova era diventata un nome familiare ed era nel bel mezzo dei suoi tour globali. Era ammirata non solo per la sua danza, ma anche per la sua capacità di trasmettere emozioni profonde attraverso i suoi movimenti. È stata una figura fondamentale nel portare il balletto a un pubblico più ampio, esibendosi in città di tutto il mondo e coinvolgendo il pubblico con la sua grazia. I suoi tour includevano spettacoli a Londra, Parigi e New York, dove ha introdotto la bellezza del balletto classico russo nel mondo occidentale, cambiando per sempre la percezione globale del balletto.
Anna Pavlovna Pavlova,, la più famosa ballerina russa del XX secolo-
L’influenza di Pavlova sul mondo della danza non può essere sopravvalutata. Ha fondato la sua compagnia di balletto, che ha fatto un lungo tour, ed è stata determinante nel far avanzare il riconoscimento del balletto come forma legittima di espressione artistica. Nonostante le sfide del tempo, compresa la limitata accettazione delle donne in ruoli così potenti, Pavlova è rimasta una piste per le ballerine di tutto il mondo. Ancora oggi Anna Pavlova è considerata una delle figure più importanti della storia del balletto, e la sua eredità continua a ispirare generazioni di ballerini. La fotografia del 1923 cattura non solo la sua bellezza ma anche il suo immenso contributo alle arti dello spettacolo, conservando un momento nel tempo che celebra l’arte di una delle più grandi icone del balletto.
Poesie di Anne Bradstreet-Poetessa statunitense- Poetry Foundation –
Anne Bradstreet-Poetessa statunitense-
Anne Bradstreet was the first woman to be recognized as an accomplished New World Poet. Her volume of poetry The Tenth Muse Lately Sprung Up in America … received considerable favorable attention when it was first published in London in 1650. Eight years after it appeared it was listed by William London in his Catalogue of the Most Vendible Books in England, and George III is reported to have had the volume in his library. Bradstreet’s work has endured, and she is still considered to be one of the most important early American poets.
Although Anne Dudley Bradstreet did not attend school, she received an excellent education from her father, who was widely read— Cotton Mather described Thomas Dudley as a “devourer of books”—and from her extensive reading in the well-stocked library of the estate of the Earl of Lincoln, where she lived while her father was steward from 1619 to 1630. There the young Anne Dudley read Virgil, Plutarch, Livy, Pliny, Suetonius, Homer, Hesiod, Ovid, Seneca, and Thucydides as well as Spenser, Sidney, Milton, Raleigh, Hobbes, Joshua Sylvester’s 1605 translation of Guillaume du Bartas’s Divine Weeks and Workes, and the Geneva version of the Bible. In general, she benefited from the Elizabethan tradition that valued female education. In about 1628—the date is not certain—Anne Dudley married Simon Bradstreet, who assisted her father with the management of the Earl’s estate in Sempringham. She remained married to him until her death on September 16, 1672. Bradstreet immigrated to the new world with her husband and parents in 1630; in 1633 the first of her children, Samuel, was born, and her seven other children were born between 1635 and 1652: Dorothy (1635), Sarah (1638), Simon (1640), Hannah (1642), Mercy (1645), Dudley (1648), and John (1652).
Although Bradstreet was not happy to exchange the comforts of the aristocratic life of the Earl’s manor house for the privations of the New England wilderness, she dutifully joined her father and husband and their families on the Puritan errand into the wilderness. After a difficult three-month crossing, their ship, the Arbella, docked at Salem, Massachusetts, on July 22, 1630. Distressed by the sickness, scarcity of food, and primitive living conditions of the New England outpost, Bradstreet admitted that her “heart rose” in protest against the “new world and new manners.” Although she ostensibly reconciled herself to the Puritan mission—she wrote that she “submitted to it and joined the Church at Boston”—Bradstreet remained ambivalent about the issues of salvation and redemption for most of her life.
Anne Bradstreet-Poetessa statunitense-
Once in New England the passengers of the Arbella fleet were dismayed by the sickness and suffering of those colonists who had preceded them. Thomas Dudley observed in a letter to the Countess of Lincoln, who had remained in England: “We found the Colony in a sad and unexpected condition, above eighty of them being dead the winter before; and many of those alive weak and sick; all the corn and bread amongst them all hardly sufficient to feed them a fortnight.” In addition to fevers, malnutrition, and inadequate food supplies, the colonists also had to contend with attacks by Native Americans who originally occupied the colonized land. The Bradstreets and Dudleys shared a house in Salem for many months and lived in spartan style; Thomas Dudley complained that there was not even a table on which to eat or work. In the winter the two families were confined to the one room in which there was a fireplace. The situation was tense as well as uncomfortable, and Anne Bradstreet and her family moved several times in an effort to improve their worldly estates. From Salem they moved to Charlestown, then to Newtown (later called Cambridge), then to Ipswich, and finally to Andover in 1645.
Although Bradstreet had eight children between the years 1633 and 1652, which meant that her domestic responsibilities were extremely demanding, she wrote poetry which expressed her commitment to the craft of writing. In addition, her work reflects the religious and emotional conflicts she experienced as a woman writer and as a Puritan. Throughout her life Bradstreet was concerned with the issues of sin and redemption, physical and emotional frailty, death and immortality. Much of her work indicates that she had a difficult time resolving the conflict she experienced between the pleasures of sensory and familial experience and the promises of heaven. As a Puritan she struggled to subdue her attachment to the world, but as a woman she sometimes felt more strongly connected to her husband, children, and community than to God.
Anne Bradstreet-Poetessa statunitense-
Bradstreet’s earliest extant poem, “Upon a Fit of Sickness, Anno. 1632,” written in Newtown when she was 19, outlines the traditional concerns of the Puritan—the brevity of life, the certainty of death, and the hope for salvation:
O Bubble blast, how long can’st last?
That always art a breaking,
No sooner blown, but dead and gone,
Ev’n as a word that’s speaking.
O whil’st I live, this grace me give,
I doing good may be,
Then death’s arrest I shall count best,
because it’s thy decree.
Artfully composed in a ballad meter, this poem presents a formulaic account of the transience of earthly experience which underscores the divine imperative to carry out God’s will. Although this poem is an exercise in piety, it is not without ambivalence or tension between the flesh and the spirit—tensions which grow more intense as Bradstreet matures.
The complexity of her struggle between love of the world and desire for eternal life is expressed in “Contemplations,” a late poem which many critics consider her best:
Then higher on the glistering Sun I gaz’d
Whose beams was shaded by the leavie Tree,
The more I look’d, the more I grew amaz’d
And softly said, what glory’s like to thee?
Soul of this world, this Universes Eye,
No wonder, some made thee a Deity:
Had I not better known, (alas) the same had I
Although this lyrical, exquisitely crafted poem concludes with Bradstreet’s statement of faith in an afterlife, her faith is paradoxically achieved by immersing herself in the pleasures of earthly life. This poem and others make it clear that Bradstreet committed herself to the religious concept of salvation because she loved life on earth. Her hope for heaven was an expression of her desire to live forever rather than a wish to transcend worldly concerns. For her, heaven promised the prolongation of earthly joys, rather than a renunciation of those pleasures she enjoyed in life.
Bradstreet wrote many of the poems that appeared in the first edition of The Tenth Muse … during the years 1635 to 1645 while she lived in the frontier town of Ipswich, approximately thirty miles from Boston. In her dedication to the volume written in 1642 to her father, Thomas Dudley, who educated her, encouraged her to read, and evidently appreciated his daughter’s intelligence, Bradstreet pays “homage” to him. Many of the poems in this volume tend to be dutiful exercises intended to prove her artistic worth to him. However, much of her work, especially her later poems, demonstrates impressive intelligence and mastery of poetic form.
The first section of The Tenth Muse … includes four long poems, known as the quaternions, or “The Four Elements,” “The Four Humors of Man,” “The Four Ages of Man,” and “The Four Seasons.” Each poem consists of a series of orations; the first by earth, air, fire, and water; the second by choler, blood, melancholy, and flegme; the third by childhood, youth, middle age, and old age; the fourth by spring, summer, fall, and winter. In these quaternions Bradstreet demonstrates a mastery of physiology, anatomy, astronomy, Greek metaphysics, and the concepts of medieval and Renaissance cosmology. Although she draws heavily on Sylvester’s translation of du Bartas and Helkiah Crooke’s anatomical treatise Microcosmographia (1615), Bradstreet’s interpretation of their images is often strikingly dramatic. Sometimes she uses material from her own life in these historical and philosophical discourses. For example, in her description of the earliest age of man, infancy, she forcefully describes the illnesses that assailed her and her children:
What gripes of wind my infancy did pain,
What tortures I in breeding teeth sustain?
What crudityes my stomach cold has bred,
Whence vomits, flux, and worms have issued?
Like the quaternions, the poems in the next section of The Tenth Muse—”The Four Monarchies” (Assyrian, Persian, Grecian, and Roman)—are poems of commanding historical breadth. Bradstreet’s poetic version of the rise and fall of these great empires draws largely from Sir Walter Raleigh’s History of the World (1614). The dissolution of these civilizations is presented as evidence of God’s divine plan for the world. Although Bradstreet demonstrates considerable erudition in both the quaternions and monarchies, the rhymed couplets of the poems tend to be plodding and dull; she even calls them “lanke” and “weary” herself. Perhaps she grew tired of the task she set for herself because she did not attempt to complete the fourth section on the “Roman Monarchy” after the incomplete portion was lost in a fire that destroyed the Bradstreet home in 1666.
Anne Bradstreet-Poetessa statunitense-
“Dialogue between Old England and New,” also in the 1650 edition of The Tenth Muse … expresses Bradstreet’s concerns with the social and religious turmoil in England that impelled the Puritans to leave their country. The poem is a conversation between mother England and her daughter, New England. The sympathetic tone reveals how deeply attached Bradstreet was to her native land and how disturbed she was by the waste and loss of life caused by the political upheaval. As Old England’s lament indicates, the destructive impact of the civil strife on human life was more disturbing to Bradstreet than the substance of the conflict:
O pity me in this sad perturbation,
My plundered Towers, my houses devastation,
My weeping Virgins and my young men slain;
My wealthy trading fall’n, my dearth of grain
In this poem, Bradstreet’s voices her own values. There is less imitation of traditional male models and more direct statement of the poet’s feelings. As Bradstreet gained experience, she depended less on poetic mentors and relied more on her own perceptions.
Another poem in the first edition of The Tenth Muse … that reveals Bradstreet’s personal feelings is “In Honor of that High and Mighty Princess Queen Elizabeth of Happy Memory,” written in 1643, in which she praises the Queen as a paragon of female prowess. Chiding her male readers for trivializing women, Bradstreet refers to the Queen’s outstanding leadership and historical prominence. In a personal caveat underscoring her own dislike of patriarchal arrogance, Bradstreet points out that women were not always devalued:
Nay Masculines, you have thus taxt us long,
But she, though dead, will vindicate our wrong,
Let such as say our Sex is void of Reason,
Know tis a Slander now, but once was Treason.
These assertive lines mark a dramatic shift from the self-effacing stanzas of “The Prologue” to the volume in which Bradstreet attempted to diminish her stature to prevent her writing from being attacked as an indecorous female activity. In an ironic and often-quoted passage of “The Prologue,” she asks for the domestic herbs “Thyme or Parsley wreath,” instead of the traditional laurel, thereby appearing to subordinate herself to male writers and critics:
Let Greeks be Greeks, and women what they are
Men have precedency and still excell,
It is but vain unjustly to wage warre;
Men can do best, and women know it well
Preheminence in all and each is yours;
Yet grant some small acknowledgement of ours.
In contrast, her portrait of Elizabeth does not attempt to conceal her confidence in the abilities of women:
Who was so good, so just, so learned so wise,
From all the Kings on earth she won the prize.
Nor say I more then duly is her due,
Millions will testifie that this is true.
She has wip’d off th’ aspersion of her Sex,
That women wisdome lack to play the Rex
This praise for Queen Elizabeth expresses Bradstreet’s conviction that women should not be subordinated to men—certainly it was less stressful to make this statement in a historic context than it would have been to confidently proclaim the worth of her own work.
The first edition of The Tenth Muse … also contains an elegy to Sir Philip Sidney and a poem honoring du Bartas. Acknowledging her debt to these poetic mentors, she depicts herself as insignificant in contrast to their greatness. They live on the peak of Parnassus while she grovels at the bottom of the mountain. Again, her modest pose represents an effort to ward off potential attackers, but its ironic undercurrents indicate that Bradstreet was angered by the cultural bias against women writers:
Fain would I shew how he same paths did tread,
But now into such Lab’rinths I am lead,
With endless turnes, the way I find not out,
How to persist my Muse is more in doubt;
Which makes me now with Silvester confess,
But Sidney’s Muse can sing his worthiness.
Although the ostensible meaning of this passage is that Sidney’s work is too complex and intricate for her to follow, it also indicates that Bradstreet felt his labyrinthine lines to represent excessive artifice and lack of connection to life.
Anne Bradstreet-Poetessa statunitense-
The second edition of The Tenth Muse …, published in Boston in 1678 as Several Poems …, contains the author’s corrections as well as previously unpublished poems: epitaphs to her father and mother, “Contemplations,” “The Flesh and the Spirit,” the address by “The Author to her Book,” several poems about her various illnesses, love poems to her husband, and elegies of her deceased grandchildren and daughter-in-law. These poems added to the second edition were probably written after the move to Andover, where Anne Bradstreet lived with her family in a spacious three-story house until her death in 1672. Far superior to her early work, the poems in the 1678 edition demonstrate a command over subject matter and a mastery of poetic craft. These later poems are considerably more candid about her spiritual crises and her strong attachment to her family than her earlier work. For example, in a poem to her husband, “Before the Birth of one of her Children,” Bradstreet confesses that she is afraid of dying in childbirth—a realistic fear in the 17th century—and begs him to continue to love her after her death. She also implores him to take good care of their children and to protect them from a potential stepmother’s cruelty:
And when thou feel’st no grief, as I no harms,
Yet love thy dead, who long lay in thine arms:
And when thy loss shall be repaid with gains
Look to my little babes my dear remains.
And if thou love thy self, or love’st me
These O protect from step Dames injury.
Not only is this candid domestic portrait artistically superior to of “The Four Monarchies,” it gives a more accurate sense of Bradstreet’s true concerns.
Anne Bradstreet-Poetessa statunitense-
In her address to her book, Bradstreet repeats her apology for the defects of her poems, likening them to children dressed in “home-spun.” But what she identifies as weakness is actually their strength. Because they are centered in the poet’s actual experience as a Puritan and as a woman, the poems are less figurative and contain fewer analogies to well-known male poets than her earlier work. In place of self-conscious imagery is extraordinarily evocative and lyrical language. In some of these poems Bradstreet openly grieves over the loss of her loved ones—her parents, her grandchildren, her sister-in-law—and she barely conceals resentment that God has taken their innocent lives. Although she ultimately capitulates to a supreme being—He knows it is the best for thee and me”—it is the tension between her desire for earthly happiness and her effort to accept God’s will that makes these poems especially powerful.
Bradstreet’s poems to her husband are often singled out for praise by critics. Simon Bradstreet’s responsibilities as a magistrate of the colony frequently took him away from home, and he was very much missed by his wife. Modeled on Elizabethan sonnets, Bradstreet’s love poems make it clear that she was deeply attached to her husband:
If ever two were one, then surely we
If ever man were lov’d by wife, then thee;
If ever wife was happy in a man
Compare with me ye women if you can
Marriage was important to the Puritans, who felt that the procreation and proper training of children were necessary for building God’s commonwealth. However, the love between wife and husband was not supposed to distract from devotion to God. In Bradstreet’s sonnets, her erotic attraction to her husband is central, and these poems are more secular than religious:
My chilled limbs now nummed lye forlorn;
Return, return sweet Sol from Capricorn;
In this dead time, alas, what can I more
Than view those fruits which through thy heat I bore?
Anne Bradstreet-Poetessa statunitense-
Anne Bradstreet’s brother-in-law, John Woodbridge, was responsible for the publication of the first edition of The Tenth Muse…. The title page reads “By a Gentlewoman in those parts”—and Woodbridge assures readers that the volume “is the work of a Woman, honored and esteemed where she lives.” After praising the author’s piety, courtesy, and diligence, he explains that she did not shirk her domestic responsibilities in order to write poetry: “these poems are the fruit but of some few hours, curtailed from sleep and other refreshments.” Also prefacing the volume are statements of praise for Bradstreet by Nathaniel Ward, the author of The Simple Cobler of Aggawam (1647), and Reverend Benjamin Woodbridge, brother of John Woodbridge. In order to defend her from attacks from reviewers at home and abroad who might be shocked by the impropriety of a female author, these encomiums of the poet stress that she is a virtuous woman.
In 1867, John Harvard Ellis published Bradstreet’s complete works, including materials from both editions of The Tenth Muse … as well as “Religious Experiences and Occasional Pieces” and “Meditations Divine and Morall” that had been in the possession of her son Simon Bradstreet, to whom the meditations had been dedicated on March 20, 1664. Bradstreet’s accounts of her religious experience provide insight into the Puritan views of salvation and redemption. Bradstreet describes herself as having been frequently chastened by God through her illnesses and her domestic travails: “Among all my experiences of God’s gractious Dealings with me I have constantly observed this, that he has never suffered me long to sit loose from him, but by one affliction or other hath made me look home, and search what was amiss.” Puritans perceived suffering as a means of preparing the heart to receive God’s grace. Bradstreet writes that she made every effort to submit willingly to God’s afflictions which were necessary to her “straying soul which in prosperity is too much in love with the world.” These occasional pieces in the Ellis edition also include poems of gratitude to God for protecting her loved ones from illness (“Upon my Daughter Hannah Wiggin her recovering from a dangerous fever”) and for her husband’s safe return from England. However, these poems do not have the force or power of those published in the second edition of The Tenth Muse … and seem to be exercises in piety and submission rather than a complex rendering of her experience.
Anne Bradstreet-Poetessa statunitense-
The aphoristic prose paragraphs of “Meditations Divine and Morall” have remarkable vitality, primarily because they are based on her own observations and experiences. While the Bible and the Bay Psalm Book are the source of many of Bradstreet’s metaphors, they are reworked to confirm her perceptions: “The spring is a lively emblem of the resurrection, after a long winter we see the leaveless trees and dry stocks (at the approach of the sun) to resume their former vigor and beauty in a more ample manner than when they lost in the Autumn; so shall it be at that great day after a long vacation, when the Sun of righteousness shall appear, those dry bones shall arise in far more glory then that which they lost at their creation, and in this transcends the spring, that their lease shall never fail, nor their sap decline” (40)
Perhaps the most important aspect of Anne Bradstreet’s poetic evolution is her increasing confidence in the validity of her personal experience as a source and subject of poetry. Much of the work in the 1650 edition of The Tenth Muse … suffers from being imitative and strained. The forced rhymes reveal Bradstreet’s grim determination to prove that she could write in the lofty style of the established male poets. But her deeper emotions were obviously not engaged in the project. The publication of her first volume of poetry seems to have given her confidence and enabled her to express herself more freely. As she began to write of her ambivalence about the religious issues of faith, grace, and salvation, her poetry became more accomplished.
Bradstreet’s recent biographers, Elizabeth Wade White and Ann Stanford, have both observed that Bradstreet was sometimes distressed by the conflicting demands of piety and poetry and was as daring as she could be and still retain respectability in a society that exiled Anne Hutchinson. Bradstreet’s poetry reflects the tensions of a woman who wished to express her individuality in a culture that was hostile to personal autonomy and valued poetry only if it praised God. Although Bradstreet never renounced her religious belief, her poetry makes it clear that if it were not for the fact of dissolution and decay, she would not seek eternal life: “for were earthly comforts permanent, who would look for heavenly?”
In a statement of extravagant praise Cotton Mather compared Anne Bradstreet to such famous women as Hippatia, Sarocchia, the three Corinnes, and Empress Eudocia and concluded that her poems have “afforded a grateful Entertainment unto the Ingenious, and a Monument for her Memory beyond the stateliest Marbles.” Certainly, Anne Bradstreet’s poetry has continued to receive a positive response for more than three centuries, and she has earned her place as one of the most important American women poets.
Fonte Poetry Foundation
Anne Bradstreet
Anne’s Poems
A few favorites…
To my Dear and Loving Husband
If ever two were one, then surely we.
If ever man were lov’d by wife, then thee.
If ever wife was happy in a man,
Compare with me, ye women, if you can.
I prize thy love more than whole Mines of gold
Or all the riches that the East doth hold.
My love is such that Rivers cannot quench,
Nor ought but love from thee give recompence.
Thy love is such I can no way repay.
The heavens reward thee manifold, I pray.
Then while we live, in love let’s so persever
That when we live no more, we may live ever.
.
To my Dear Children
This book by any yet unread
I leave for you when I am dead
That being gone, here you may find
What was your living mother’s mind.
Make use of what I leave in love
And God shall bless you from above
.
The Author to her Book
Thou ill-form’d offspring of my feeble brain,
Who after birth did’st by my side remain,
Till snatcht from thence by friends, less wise than true,
Who thee abroad expos’d to public view,
Made thee in rags, halting to th’ press to trudge,
Where errors were not lessened (all may judge).
At thy return my blushing was not small,
My rambling brat (in print) should mother call.
I cast thee by as one unfit for light,
Thy Visage was so irksome in my sight,
Yet being mine own, at length affection would
Thy blemishes amend, if so I could.
I wash’d thy face, but more defects I saw,
And rubbing off a spot, still made a flaw.
I stretcht thy joints to make thee even feet,
Yet still thou run’st more hobbling than is meet.
In better dress to trim thee was my mind,
But nought save home-spun Cloth, i’ th’ house I find.
In this array, ‘mongst Vulgars mayst thou roam.
In Critics’ hands, beware thou dost not come,
And take thy way where yet thou art not known.
If for thy Father askt, say, thou hadst none;
And for thy Mother, she alas is poor,
Which caus’d her thus to send thee out of door.
.
Verses upon the Burning of our House, July 18th, 1666
Anne was born in Northampton, England in 1612 and set sail for the New World in 1630. Her poems were published in 1650 as The Tenth Muse Lately Sprung Up in America, which is generally considered the first book of original poetry written in colonial America.
She was the daughter of Thomas Dudley, governor of the Massachusetts Bay Colony, and in 1628 she married Simon Bradstreet, who later became governor of the colony. A housewife with eight children, she was also considered to be the first important poet in the American colonies. Her poems were published in 1650 as The Tenth Muse Lately Sprung Up in America, which is generally considered the first book of original poetry written in colonial America. Through it she asserted the right of women to learning and expression of thought. Although some of Bradstreet’s verse is conventional, much of it is direct and shows sensitivity to beauty.
Bradstreet’s most deeply felt poetry concerns the arduous life of the early settlers, and her work provides an excellent view of the difficulties she and her fellow colonists encountered. She wrote several poems in response to the early deaths of her grandchildren, and her “Contemplations” (1678) explores her place in the natural world. Bradstreet also used her poetry to examine her religious struggles; she was unable to embrace Calvinism completely. “The Flesh and the Spirit” (1678) describes the conflict she felt between living a pleasant life and living a Christian life, and “Meditations Divine and Moral” (written 1664; published 1867) recounts to her children her doubts about Puritanism. Although Bradstreet addressed broad and universal themes, she is remembered best for her body of evocative poems that provide intimate glimpses into the home life of inhabitants of colonial New England.
ANNE BRADSTREET: la Poetessa del Mayflower tra Finito ed Infinito- Testi raccolti da Giulia Sonnante
Anne Bradstreet
Anne Bradstreet nacque a Northampton, in Inghilterra.(1612 – 13 -1672) Era la figlia di Thomas Dudley e Dorothy Yorke. Suo padre era l’amministratore del Conte di Lincoln. Il buono stato della sua famiglia l’ha aiutata ad avere una buona educazione e educazione. Durante i suoi anni di crescita, ad Anne fu insegnata storia, diverse lingue e letteratura. Era sposata con Simon Bradstreet all’età di sedici anni. Nel 1630, a bordo della nave Arbella che faceva parte della flotta Winthrop degli emigranti puritani, Anne, Simon e i suoi genitori immigrarono in America. Raggiunsero l’America il 14 giugno 1630 in quello che oggi è il Pioneer Village (Salem, Massachusetts).
Il conflitto tra l’effimero e l’eterno, la meditata celebrazione della gloria divina e il tentativo di percepire l’invisibile attraverso il visibile; ma anche l’affermazione della dignità femminile nella storia, l’amore per i figli e quello per il marito di cui si dichiara, velato dalle metafore, il desiderio fisico…
È questa la materia che nutre i versi di ANNE BRADSTREET, pima poetessa e capostipite della letteratura creativa dell’America coloniale, che alla scrittura affida il compito di riscattarla dalle costrizioni dell’esilio, di sottrarla alla perdita della memoria d’una cultura rinascimentale in cui si affaccia la sensibilità barocca.
Anne Bradstreet-Poetessa statunitense-
Lettera al marito assente per un impegno pubblico
Mente mia, cuor mio, miei occhi, vita mia, anzi di più,
mia gioia, mia riserva di beni terreni,
se due sono uno, come di certo siamo noi,
come puoi indugiare lì mentr’io languisco a Ipswich?
Quanti gradini separano il capo dal cuore,
se non avessimo un collo presto saremmo insieme.
Come la terra in questa stagione, nel lutto mi oscuro,
così lontano il mio sole si è spento nello zodiaco,
mentre quando di lui gioivo, né tempeste né gelo sentivo,
il suo calore scioglieva quel freddo glaciale.
Le mie gelide membra ora intorpidite giacciono inermi;
torna, torna dal Capricorno dolce sole;
in questi tempi morti, ahimé cos’altro mi resta
se non contemplare quei frutti che generali col tuo calore?
Per qualche tempo mi danno un dolce appagamento,
reali immagini viventi del volto paterno.
Oh singolare conseguenza! Ora che sei andato verso sud,
stancamente prolungo la noia del giorno,
ma quando tornerai da me al nord,
voglio che il mio sole non tramonti mai, ma dardeggi
nel Cancro del mio seno ardente,
accogliente dimora di colui che è per me l’ospite più caro.
Lì sempre, sempre rimani e mai non te ne andare,
finché la triste legge della natura da lì ti chiamerà;
carne della tua carne, ossa delle tue ossa,
io qui, tu lì, eppure entrambi una sola persona.
A.B.
***
A Letter to her Husband, absent upon Publick employment
My head, my heart, my Eyes, my life, nay more,
My joy, my Magazine of earthly store,
If two be one, as surely thou and I,
How stayest thou there, whilst I at Ipswich lye?
So many steps, head from the heart sever:
If but a neck, soon should we be together:
I like the earth this season, mourn in black,
My Sun is gone so far in’s Zodiack,
Whom whilst I joy’d, nor storms, nor frosts I felt,
His warmth such frigid colds did come to melt.
My chilled limbs now nummed lye forlorn;
Return, return, sweet Sol from Capricorn;
In this dead time, alas, what can I more
Then view those fruits which through thy heart I bore?
Which sweet contentment yield me for a space,
True living Pictures of their fathers face.
O strange effect! Now thou art Southward gone,
I weary grow, the tedious day so long;
But when thou Northward to me shalt return,
I wish my Sun may never set, but burn
Within the Cancer of my glowing breast,
The welcome house of him my dearest guest.
Where ever, ever stay and go not thence,
Till natures sad decree shall call thee hence;
Flesh of thy flesh, bone of thy bone,
I here, thou there, yet both but one.
[1641-43]
La lirica sopra riportata non è che un lungo lamento per l’assenza del marito, lontano per un impegno pubblico. Qui la poetessa che esprime il desiderio fisico, velato dalla metafora, propone il tema dell’unità di mondi distanti; il capo, a cui fa riferimento nei primi versi, richiama alla razionalità che è prerogativa maschile; il cuore, e per estensione il sentimento, appartiene invece al femminile. Il capo e il cuore, parti di un unico corpo, sono dunque separati dal collo che unisce e separa ad un tempo. Il collo è anche immagine fallica che unisce l’uomo alla donna. C’è inoltre il riferimento agli “steps” che richiamano l’immagine del patibolo in cui la testa viene separata dal resto del corpo. Si tratta dunque di una lirica che potremmo definire anche erotica in cui i riferimenti al Nord (Northward) richiamano l’attività sessuale; il sud, invece, indica inattività.
Anne Bradstreet-Poetessa statunitense-
Sull’incendio della nostra casa
Mentre riposavo nella notta silente
non mi aspettavo l’irrompere d’un dolore,
fui destata dall’eco di un frastuono
e dalle grida pietose d’una voce agghiacciante.
Quel terribile suono, al fuoco, al fuoco,
vorrei che mai nessuno udisse.
Balzando in piedi spiai il bagliore,
e al mio Dio il cuore grido
di darmi forza nel dolore,
di non lasciarmi priva di soccorso.
Poi uscendo osservai un momento
la fiamma consumare il mio ritrovo.
E quando più non potei sopportare la vista
benedissi il nome di colui a cui spetta dare e sottrarre,
che disperdeva ora i miei beni tra la polvere.
Sì, così era e così era giusto.
Ogni cosa era sua e non mia,
non sia mai detto che me ne lamenti.
Avrebbe potuto a buon diritto privarci di tutto,
eppure ci lasciava quanto basta.
Quando spesso passavo accanto alle macerie
volgevo altrove il mio sguardo dolente
e qua e là spiavo i luoghi
ove spesso sedevo e a lungo restavo.
Qui c’era quel baule e lì la cassapanca,
là s’appoggiava la credenza che ritenevo la migliore,
le mie cose più belle son ridotte in cenere
e mai più potrò vederle.
Sotto il tuo tetto non siederà alcun ospite,
né alla tua tavola consumerà un boccone.
***
Upon the burning of our house
In silent night when rest I took,
For sorrow neer I did not look,
I waken’d was with thundering nois
And Piteous shrieks of dreadful voice.
That fearful sound of fire and fire,
Let no man know is my Desire.
I, starting up, the light did spye,
And to my God my heart did cry
To strengthen me in my Distresse
And not to leave me succourlesse.
Then coming out beheld a space,
The flame consume my dwelling place.
And when I could no longer look,
I blest his Name that gave and took.
That layd my goods now in the dust:
Yea so it was, and so ‘twas just.
It was his own: it was not mine;
Far be it, that I should repine.
He might of All justly bereft,
But yet sufficient for us left.
When by the Ruines Oft I past,
My sorrowing eyes aside did cast,
And here and there the places spye
Where oft I sate, and long did lye.
Here stood the Trunk, and there that chest;
There lay that store I counted best:
My pleasant things in ashes lye,
And them behold no more shall I.
Under thy roof no guest shall sitt,
Nor at thy Table eat a bitt.
Upon the burning of our house è tra gli “occasional poems” cioè quelle composizioni scaturite da un evento contingente, in questo caso l’incendio di cui è oggetto la sua dimora. Questo rovinoso evento diviene occasione per riflettere sulla vita terrena e sulla presenza di Dio.
La Bradstreet non mostra una fede cieca ma appare spesso rivolta alla materialità delle cose terrene. Tuttavia, in questa lirica ella recupera il valore della consolazione che Dio dona all’Uomo attraverso la Speranza.
I testi in lingua originale e le traduzioni sono tratti da: MICHELE BOTTALICO, TRA CIELO E TERRA – La poesia di Anne Bradstreet , Pubblicato da Palomar di Alternative, Bari, 1996.-
Poesie sul sagrato di David Maria Turoldo- Interlinea Edizioni-
Descrizione-Nella voce di David Maria Turoldo, tra le più vicine al dramma spirituale dell’uomo contemporaneo, troviamo le parole capaci di esprimere la condizione esistenziale di un mondo, il nostro, tra angoscia e speranza.
“Non avanza di me che una macchia pallida / un involucro d’alga alla deriva, mentre / la facciata è una sindone immensa di occhi / che mi denudano allo stupore di tutti. / Sola ci cammina sopra la luna con vesti regali verso l’alta notte”. Con tre note di Luciano Erba, Giannino Piana e Roberto Cicala; incisioni di Mauro Maulini.
David Maria Turoldo
Un brano del libro
Padre Turoldo dà così voce alla nostra ansia che non sappiamo sciogliere; nell’angoscia che, nelle sue parole, fa disperare ma allo stesso tempo offre occasioni per sperare. E un caso di speranza, favorito dalla memoria, è il giorno festivo come momento i cui l’uomo ritrova l’immagine più profonda di se stesso riflessa in una presenza interiore sacra, come insegna il pastore, «quando il sagrato continua il racconto / delle biade delle mucche del tempo / immutabile», nella penultima poesia di questa plaquette, scritta nel 1947 davanti all’«immobile» lago Maggiore.
«Ma quando facevo il pastore…», riprende il poeta nell’ultima composizione, «i tronchi degli alberi parevano / creature piene di ferite… / Io portavo le pecore fino al sagrato/ e sapevo d’essere uomo vero / del tuo regale presepio». In questi versi il sagrato è il luogo dove l’uomo nfa un incontro importante ed è provocato – dal mistero, dal sacro, dai simboli della natura e dell’arte – a interrogarsi, per rivivere una fede genuina (come quella di un pastore evangelico), per prendere coscienza di un impegno sociale al «margine della strada» dove vive chi «non sa sperare», oppure per scoprire davanti al tempio che drammaticamente «la facciata è una sindone immensa di occhi / che mi denudano allo stupore di tutti». Anche se crediamo di non decifrare più l’alfabeto delle cose e degli uomini e di non trovare un senso per tutto, alla fine ecco (ancora Nel segno di Giona) un segnale della Sua presenza: «Sola ci cammina sopra la luna / con vesti regali verso l’alta notte».
Nella nostra notte le parole di David Maria Turoldo sprigionano una luce di speranza, pur raggrumata nel sangue della sofferenza e della crisi: sono parole cvissute e scomode che si fanno profezia. (dalla nota di Roberto Cicala)
David Maria Turoldo– Poesie sul sagrato – Mauro Maulini
Interlinea Edizioni ha sede a Novara
via Mattei 21 28100 Novara, NO, Italia
L’interlinea lo spazio bianco tra due righe scritte o stampate, apparentemente inutile ma in verità necessario alla lettura. Infatti le parole si confonderebbero sulla pagina senza questa distanza, il cui bianco fa risaltare il nero del testo illuminando così il significato di un romanzo, di uno studio, di una poesia.
All’inizio degli anni Novanta due giovani novaresi hanno creduto giusto cercare un senso e uno spazio nell’interlinea lasciata bianca dai titoli di tanti e grandi cataloghi librari, riscoprendo autori italiani dell’800 e ‘900, anche con inediti (da Rebora a Montale, fino a Soldati e Vassalli), aprendo la prima collana letteraria italiana legata al Natale “Nativitas“ (nonsolo con Dickens ritradotto ma con Soldati, Consolo, Rigoni Stern, Testori, Wojtyla… e un premio letterario), offrendo uno spazio diverso alla critica letteraria (partendo però dai maestri: Dionisotti, Maria Corti, Mengaldo),e pubblicando la rivista “Autografo” del Fondo Manoscritti di Pavia, credendo nella poesia, con la collana “Lyra” e la serie “Lyra giovani” diretta da Franco Buffoni, e facendo dialogare letteratura e spiritualità con autori da Hesse a Turoldo, da Anna Maria Cànopi a Testori, senza facili buonismi ma scegliendo la crisi dell’uomo come tema della collana “Passio“, offrendo anche servizi editoriali di qualità (dagli atti di convegni ai repertori bibliografici fino ai cataloghi d’arte). Negli ultimi anni si sono avviate le edizioni nazionali delle opere di due classici come Matteo Maria Boiardo e Giovanni Verga.
Se la letteratura è una riscoperta di parole vecchie e nuove nel 1992 da Novara è salpato il piccolo vascello di carta che non chiede altro se non di avere lettori che sappiano leggere la verità di quelle parole vecchie e nuove nell’interlinea dell’editoria e della cultura italiana.
Si è spenta Gioia Mori, storica dell’arte, curatrice e docente all’Accademia di Belle Arti di Roma-
Gioia Mori-storica dell’arte, curatrice di mostre e docente di storia dell’arte contemporanea all’Accademia di Belle Arti di Roma
Si è spenta a Roma, storica dell’arte, curatrice di mostre e docente di storia dell’arte contemporanea all’Accademia di Belle Arti di Roma. Studiosa appassionata e riconosciuta nel panorama culturale italiano e internazionale, Mori ha saputo coniugare la passione per la storia dell’arte con una straordinaria capacità di analisi interdisciplinare, intrecciando le arti visive con la moda, il costume e la società.
Profonda conoscitrice di epoche e movimenti artistici, Gioia Mori lascia un’eredità preziosa fatta di studi e mostre: la sua carriera è stata segnata da importanti studi e pubblicazioni su Vittore Carpaccio, Carlo Crivelli, Sofonisba Anguissola, Giorgio de Chirico, Edgar Degas, Marc Chagall, Corrado Cagli, Renato Guttuso, Fabrizio Clerici, Frida Kahlo, Maryla Lednicka-Szczytt, Helen Dryden, e Luisa Casati e Tamara de Lempicka, di cui era considerata la maggiore esperta mondiale.
Negli ultimi anni aveva lavorato sull’Art Deco in Italia (Musei di San Domenico, Forlì), sull’immagine della donna moderna negli anni Venti (Schall und Rauch. Die wilden 20er, Kunsthaus di Zurigo e Guggenheim di Bilbao), sulle artiste emigrate dalla Russia (Divine avanguardie a Palazzo Reale, Milano, 2020), sulle artiste del Rinascimento e del Barocco (Le Signore dell’Arte. Storie di donne tra ‘500 e ‘600 a Palazzo Reale, Milano, 2021), sul rapporto tra Umberto Boccioni e la Marchesa Luisa Casati (Giovanni Boldini. Il piacere al MART, Rovereto, 2020) e sugli anni genovesi di Sofonisba Anguissola (Rubens a Genova a Palazzo Ducale, Genova, 2022).
Dal 1996 al 2007 ha diretto Art e Dossier per Giunti Editore. Nel corso della sua carriera editoriale, ha rivestito anche il ruolo di capo redattrice del sito Artonline e direttrice scientifica della serie multimediale CdRom Arte.
Il legame con Tamara de Lempicka ha segnato profondamente la sua vita professionale: il primo libro che ha dedicato all’artista polacca nel 1994 ha aperto la strada a numerose mostre internazionali: a Palazzo Reale a Milano (2006), al Complesso del Vittoriano a Roma (2011) e poi a Parigi (2013), Torino e Verona (2015), a Madrid (2018). Fino all’ultimo, Mori ha lavorato alla grande mostra, la prima mai dedicata all’artista da un museo americano, al De Young Museum di San Francisco, che in primavera sarà ospitata al Museum of Fine Arts di Houston.
Giancarlo Zorzanello e Giorgio Fin-Con le armi in pugno –
-Alle origini della Resistenza armata nel Vicentino. Settembre 1943-aprile 1944
Giancarlo Zorzanello e Giorgio Fin-Con le armi in pugno-Cierre Edizioni-Biblioteca DEA SABINA
Descrizione del libro di Giancarlo Zorzanello e Giorgio Fin-Con le armi in pugno-Tra i giovani (soprattutto militari) che dopo l’8 settembre 1943 vollero sottrarsi all’invio in Germania o all’arruolamento nell’esercito della Rsi, diversi decisero di opporsi a tedeschi e fascisti “con le armi in pugno”. Il volume analizza le convinzioni che li animavano e le organizzazioni e i partiti che li sostenevano; come e dove si riunirono i primi partigiani e in particolare il gruppo di Malga Silvagno; la nascita e lo sviluppo del gruppo di Malga Campetto, che mise in atto la “guerriglia di movimento” contribuendo a diffondere la lotta armata; i rapporti conflittuali tra i partigiani di diversa ispirazione e la formazione del battaglione “Danton” di Giuseppe Marozin; la costituzione, verso la fine di aprile del 1944, delle principali formazioni partigiane del Vicentino, che più tardi estesero la loro azione anche nelle province limitrofe. Più che di strategie e tattiche, si parla di storie di persone e luoghi che evidenziano come la Resistenza armata abbia trovato terreno fertile nei giovani contadini e montanari, nella gente delle contrade, nell’ambiente operaio delle fabbriche, in buona parte del clero e degli intellettuali e persino tra le autorità civili e militari-
Cierre Edizioni
Cierre edizioni, nata nel 1990 e con oltre mille titoli in catalogo, si occupa prevalentemente di territorio. A partire dal Nordest, ma con uno sguardo aperto oltre i confini, perché gli orizzonti più affascinanti sono quelli che si stendono a perdita d’occhio. I nostri volumi indagano il paesaggio, naturale e antropico, fisico o immaginato, attraverso la fotografia, la storia, la memoria e la narrazione. Siamo convinti che la conoscenza sia indispensabile per migliorare la qualità della vita e preservare gli equilibri ambientali con la necessaria consapevolezza che comporta ogni patrimonio comune. E crediamo che l’antica forma del libro sia ancora fra le più adatte a promuoverla, per la cura che è necessaria nel produrli e la riflessione che ne richiede la lettura. Cierre edizioni, con la propria autonomia culturale e progettuale orientata a un’editoria di qualità, coltiva da sempre una feconda rete di relazioni fatta di intensi rapporti di collaborazione con centri accademici e di ricerca, istituti culturali e altri attori del mondo editoriale, di cui sono testimonianza periodici come «Venetica», pubblicata dalla rete degli Istituti per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea del Veneto e «Terra e storia». Fra gli enti con cui abbiamo collaborato ricordiamo in particolare Unesco, Regione Veneto, Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, Fondazione Giorgio Cini e numerosi Parchi naturali. Cierre edizioni aderisce a due associazioni di categoria, Associazione Italiana Editori e Associazione Editori Veneti, e in quanto cooperativa è inoltre associata a Legacoop Veneto. Alla storiografia, con incursioni nell’antropologia e nell’analisi linguistica e culturale, è dedicata “Nordest”, ora “Nordest nuova serie”. Una collana di storia a tutto campo ma con un occhio di riguardo alla storia contemporanea, soprattutto per quanto riguarda il regime fascista, l’antifascismo e la Resistenza. Con lo sviluppo dell’interesse verso la storia narrativa, la memorialistica e il resoconto di viaggio sono poi nati i “Percorsi della memoria”, che ospitano il bestseller di Cierre edizioni, Sulla pelle viva di Tina Merlin (1926-1991), il testo più noto sulla tragedia del Vajont. In un ambito di ricerca a cavallo tra culture materiali e immaginario popolare si situa poi la riedizione dei lavori di Dino Coltro (1929-2009), prolifico studioso veronese “sul campo”, di cui Cierre ha pubblicato fra l’altro due grandi opere riccamente illustrate (Mondo contadino e La terra e l’uomo)
Domenico Trentacoste nasce a Palermo il 20 settembre 1859 da una famiglia baronale decaduta. La madre Giovanna Lo Cascio, casalinga e il padre Salvatore, di mestiere fabbro, si erano trasferiti da Marineo nel capoluogo subito dopo sposati.
Domenico Trentacoste nasce a Palermo il 20 settembre 1859 da una famiglia baronale decaduta. La madre Giovanna Lo Cascio, casalinga e il padre Salvatore, di mestiere fabbro, si erano trasferiti da Marineo nel capoluogo subito dopo sposati. Fin dagli anni infantili dimostra una predilezione spiccata per l’arte plastica. Le prime esperienze sulla tecnica scultorea le acquisisce a Palermo all’età di sette anni, nel laboratorio di Benedetto De Lisi il vecchio. A dodici anni comincia a lavorare nello studio in via Alloro di Domenico Costantino. Dopo un breve soggiorno a Napoli nel 1878, si trasferisce a Firenze per completare gli studi, qui si innamora dei Quattrocentisti, di Michelangelo e in particolare di Donatello. Entra in contatto con il realismo dalla Scapigliatura e dei Macchiaioli. Nel 1880 è ancora a Palermo dove, per l’arco di trionfo apprestato per la visita del re Umberto I, plasma in gesso una grande Minerva seduta; coi soldi guadagnati, parte per Parigi; qui stringe amicizia con lo scultore Antonio Giovanni Lanzirotti; l’anno successivo nel 1881 espone una testa di vecchia in gesso nel Salon annuale. A Parigi esegue anche una serie di sculture a soggetto idillico, mitologico e a destinazione decorativa. E’ però soltanto di lì a qualche anno, cioè nel 1887, con la Pia dei Tolomei, e nel 1889 con la Cecilia, che egli rivela appieno l’originalità vigorosa della sua arte e viene consacrato scultore di forme leggiadre, di attitudine classica, allo stesso tempo capace di rivelare l’espressione psicologica. Nel 1891 è chiamato a Londra dal pittore Edwin Long ed espone Cecilia alla Accademy, dove ottiene un vivo successo di pubblico. Dopo quindici anni laboriosamente trascorsi a Parigi, con frequenti viaggi a Londra, nel 1895 rientra in Italia dove egli, che pure aveva saputo farsi stimare tanto in Francia quanto in Inghilterra, è addirittura un ignoto. Si stabilisce a Firenze. Partecipa alla prima delle Esposizioni di Venezia con Ofelia, che aveva già presentato con successo a Parigi nel 1893 e a Vienna nel 1894, e con una figura in marmo, grande al vero, intitolata Derelitta per la quale riceve il grande premio di scultura. L’anno successivo partecipa all’Esposizione internazionale di Firenze, ancora con Ofelia; e all’Esposizione di Torino con due bellissimi busti di marmo Alla fonte e Pia dei Tolomei . Alla III Esposizione Triennale di Brera del 1897, mostra un gesso per monumento e ripropone Ofelia.. Due anni più tardi alla III Biennale di Venezia espone due marmi La figlia di Niobe e Ritratto; nel 1901 è membro di giuria della Biennale veneziana dove figura con i bronzi Ritratto,Testa di vecchio,Il ciccaiuolo, e i marmi Bustino di bimba e L’anfora nfranta.. Nel 1903 alla stessa rassegna invia i bronzi Caino, Seminatore, Pompeo Molmenti e la targhetta in gesso dedicata all’attrice Emma Gramatica. Per lunghi anni insegna all’Accademia di Belle Arti di Firenze diventandone anche Presidente. Nel 1904 aderisce all’Associazione Arte Toscana. Dal 1908 è membro della Commissione comunale di belle arti di Firenze. Nel 1909 espone alla Società Leonardo da Vinci di Firenze. Nel 1910 partecipa alla Biennale di Venezia con i marmi Sorriso infantile, Madre con bambino e Nudo di donna e il bronzo Testa.. Nel 1911 esegue Per grazia di Dio, e Per volontà della Nazione. Nell’anno successivo con il marmo Cristo morto è nuovamente alla Biennale di Venezia, dove apparirà per l’ultima volta nel 1922 col bronzo Il Vescovo Geremia Bonomelli . A marzo del 1920 tiene una mostra personale alla Galleria Pesaro di Milano; due anni più tardi partecipa alla Fiorentina Primaverile e nel 1925 partecipa alla II Biennale di Monza. Un anno prima della scomparsa è nominato Accademico d’Italia. Domenico Trentacoste muore il 18 marzo 1933 a Firenze.
Storia archivistica
L’archivio di Domenico Trentacoste è stato acquistato con il fondo Ojetti dalla Galleria nazionale d’arte moderna e contemporanea il 15 dicembre 1973. La documentazione prodotta dallo scultore è stata ordinata ed organizzata dalla moglie del critico, Fernanda Gobba Ojetti, nominata nel testamento di Trentacoste, che noi conserviamo, erede fiduciaria dello scultore. Il fondo conserva insieme a documentazione varia e personale, a molte fotografie e materiale stampa, una raccolta di lettere di vari artisti. Un intervento successivo (forse della stessa Fernanda o della figlia Paola) ha disperso queste lettere nei fascicoli relativi agli stessi corrispondenti del fondo Ojetti, complicandone così la separazione e rendendo necessario un lavoro di reperimento ed estrazione della documentazione stessa che potrà essere completato solo di pari passo col completamento della schedatura del fondo Ojetti.
Contenuto
Il fondo conserva una raccolta di lettere di vari artisti, opuscoli e ritagli stampa, documentazione personale, molte fotografie sia familiari che di opere. Inoltre raccoglie anche documentazione varia sistemata e prodotta da Fernanda Ojetti, erede fiduciaria dello scultore.
Ordinamento e struttura
La documentazione è stata suddivisa in 5 serie: serie 1: Corrispondenti serie 2: Materiali a stampa serie 3: Immagini serie 4: Documentazione personale serie 5: Documentazione raccolta e prodotta da Fernanda Ojetti, erede fiduciaria di Domenico Trentacoste
Strumenti archivistici
Schedatura informatizzata (sw Gea) a cura di Clementina Conte ancora in corso.
Bibliografia
Mostra individuale di Domenico Trentacoste, Milano, Galleria Pesaro, 1920; Ugo Ojetti, Domenico Trentacoste, Roma, La Nuova Antologia, 1940; www.galleriaroma.it; www.comune.marineo.pa.it; www.giuseppealbano.it
Descrizione del libro di Tersilio Leggio, storico di Farfa e della Sabina Il cammino di Francesco – San Francesco visse nella Valle Santa una delle stagioni più intense della sua breve vita. Con certezza si sa che giunse nel reatino nel 1223, ma non si possono escludere soggiorni precedenti. Il Cammino, documentato dalle foto del grande fotografo Steve McCurry, è composto da otto tappe: parte da Rieti e si dipana attraverso la Valle Santa toccando i quattro Santuari francescani. A queste tappe si aggiunge il cammino verso il Faggio di San Francesco a Rivodutri e l’ascesa al monte Terminillo per la visita alla reliquia del corpo del Poverello di Assisi.
Tersilio Leggio, storico di Farfa e della Sabina, ci ha lasciati nella giornata del 29 aprile. È con profonda commozione che esprimo a titolo personale e a nome dell’Istituto storico italiano per il medio evo le più sentite condoglianze alla famiglia dell’amico carissimo e insigne studioso.
La figura di Tersilio Leggio ha rappresentato un esempio luminoso di storico con una profonda e appassionata conoscenza del territorio, che ha saputo coniugare felicemente con l’impegno civile di amministratore. Il suo contributo alla conoscenza e alla valorizzazione del territorio sabino e reatino rimane un punto di riferimento ineludibile per chiunque voglia comprenderne la storia e l’identità. Animatore instancabile di ricerche sulla storia di Farfa, ha condiviso con chi scrive e con l’Istituto storico italiano per il medio evo numerosi progetti, non ultimo la creazione della collana “Fonti e studi farfensi”, per la quale ha pubblicato ancora recentemente un contributo sulle origini del monachesimo in Sabina.
La sua testimonianza di storico impegnato e provvisto di una profonda umanità resterà nitida e radicata in tutti coloro che hanno avuto l’opportunità di partecipare della sua generosa opera di studioso e di uomo.
Umberto Longo
Prof. 𝗧𝗲𝗿𝘀𝗶𝗹𝗶𝗼 𝗟𝗲𝗴𝗴𝗶𝗼
Tersilio Leggio è storico del medioevo, autore di numerosi saggi sull’Italia mediana, e in particolare su Rieti e sulla Sabina. Tra i suoi titoli ricordiamo il volume Ad fines regni. Amatrice, la Montagna e le alte valli del Tronto, del Velino e dell’Aterno dal X al XIII secolo (L’Aquila 2011).
Raffaele Boianelli -Il giovane Pertini un eroe italiano.
Sandro PERTINI
Descrizione-L’otto luglio 1978 Sandro Pertini fu eletto a stragrande maggioranza settimo Presidente della Repubblica italiana. Qualche anno dopo, il suo sorriso festante durante la finale dei mondiali di calcio di Spagna ’82 lo immortalò nell’immaginario collettivo e nazional-popolare. Non tutti sanno, però, che dietro quel sorriso gioioso ed energico si celava una giovinezza completamente sacrificata alla causa dell’antifascismo, un dolore strisciante fatto di umiliazioni, privazioni e torture di durata quasi ventennale. Dal delitto Matteotti, punto di svolta della sua parabola di vita personale e politica, passando per le prime aggressioni squadriste che gli impediranno di svolgere la professione di avvocato, fino ad arrivare agli anni dell’esilio vissuti in Francia tra Parigi e Nizza e ai terribili anni passati in carcere e al confino come prigioniero politico “spavaldo e fegatoso”. Questa è la storia di un giovane uomo capace di combattere per un ideale politico e umano “non solo senza paura ma anche senza speranza”.
Ricostruiamo la vita pubblica e privata di una delle figure più amate della politica italiana attraverso immagini d’epoca. Alessandro Pertini, per tutti Sandro, nasce a Stella (Savona) il 25 settembre 1896. Dopo avere partecipato alla Prima Guerra Mondiale con la carica di tenente dei mitraglieri, si iscrive nel 1924 al Partito Socialista e due anni dopo, nel 1926, viene condannato dal Regime fascista a cinque anni di confino. Riesce però a fuggire prima a Milano e poi a parigi, dove ottiene asilo politico. Ritorna in Italia nel 1929, viene nuovamente arrestato e condannato. Questa volta viene mandato otto anni al confino e nel 1943 torna libero. Non finiscono qui però le sue vicende giudiziarie, viene infatti arrestato e condannato a morte stavolta dai tedeschi. Riesce a sfuggire alla condanna, scappando dal carcere di Regina Coeli a Roma insieme a Giuseppe Saragat. Abbraccia la lotta partigiana diventando uno dei dirigenti del Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia. Nel Dopoguerra contribuisce alla ricostruzione del Partito Socialista insieme a Pietro Nenni e Giuseppe Saragat, diventando anche uno dei Padri Costituenti. Tra il 1968 e il 1976 assume la carica di Presidente della Camera e l’8 luglio1978, in seguito alle dimissioni di Giovanni Leone, viene eletto Presidente della Repubblica con una maggioranza senza precedenti. Raccoglie ben 832 voti su 995 a disposizione.
Relazione di Daines Barrington alla Royal Society, 28 novembre 1769
Ricevuta il 28 novembre 1769
VIII. Relazione circa un notevolissimo giovane musicista. In una lettera dell’onorevole Daines Barrington F.R.S. a Mathew Maty, M.D. Segr. R.S.
Letta il 15 febbraio 1770
Signore,
Se vi inviassi una ben circostanziata relazione circa un ragazzo alto sette piedi all’età di neppure otto anni, essa potrebbe essere considerata non immeritevole dell’attenzione della Royal Society. Il caso, che ora desidero voi riferiate a codesta dotta istituzione, di una precoce manifestazione dei più straordinari talenti musicali, sembra forse richiamare allo stesso modo la sua attenzione.
Johannes Chrysostomus Wolfgangus Theophilus Mozart nacque a Salisburgo, in Baviera, il 17 gennaio 1756. Un musicista e compositore assai competente mi ha informato di averlo visto spesso a Vienna, quando aveva poco più di quattro anni.
A quell’epoca non soltanto era in grado di eseguire brani sul suo strumento preferito, il clavicembalo, ma ne componeva pure alcuni, semplici per stile e gusto, ma particolarmente apprezzati.
[…]
Gli portai un duetto manoscritto, composto da un gentiluomo inglese su alcune celebri parole tratte dall’opera Demofoonte di Metastasio.
L’intera partitura era in cinque parti, ossia l’accompagnamento di un primo e un secondo violino, le due parti vocali e un basso.
Devo inoltre menzionare che le parti della prima e della seconda voce erano scritte in quella che gli Italiani chiamano chiave di contralto; la ragione per prendere nota di questo particolare apparirà tra breve.
Portando con me questa composizione manoscritta, avevo intenzione di ottenere una prova inoppugnabile della sua abilità come esecutore a prima vista, essendo assolutamente impossibile che potesse aver mai visto quella musica in precedenza.
Non appena la partitura fu collocata sul suo leggio, cominciò a suonare la sinfonia nella maniera più magistrale, tanto nel tempo quanto nello stile, nel pieno rispetto delle intenzioni del compositore.
Faccio menzione di questa circostanza, perché i più grandi maestri spesso trascurano questi particolari alla prima prova.
La sinfonia terminò ed egli prese la parte superiore, lasciando a suo padre quella inferiore.
La sua voce, nel tono, era esile e infantile, ma nulla potrebbe superare la maniera magistrale in cui egli cantò.
Suo padre, che nel duetto eseguì la parte inferiore, sbagliò una o due volte, sebbene i passaggi non fossero più difficili di quelli nella parte superiore; in tali occasioni il figlio si voltò a guardarlo con una certa irritazione, mostrandogli gli errori e correggendolo.
[…]
La sua capacità di improvvisazione, della quale sono stato testimone, dimostra che il suo genio e la sua inventiva devono essere stati strabilianti. Però temo di diventare eccessivo nel tessere le sue lodi, per cui permettetemi di firmarmi, signore,
il vostro più fedele
umile servitore,
Daines Barrington-
Questo è l’estratto di una lunga, curiosa, e interessantissima relazione del 28 novembre 1769. Se volete leggerla integralmente (ne vale la pena!) ecco il link del cofanetto nel formato cartaceo:
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