Un’immagine, una fotografia, alcune parole ci aprono a ricordi che pensavamo di aver dimenticato… Antonio Vivaldi –Qui è una lapide appesa ad una chiesa (si chiama della Pietà ed è ben visibile dalla Riva degli Schiavoni a due passi da Piazza San Marco) a ricordarmi chi in questo luogo passò gran parte della sua vita a suonare il violino e a dirigere i concerti che lui stesso componeva. Di lui oggi si sa quasi tutto anche se un oblio prolungato durato 200 anni ne aveva fatto scomparire la memoria. Forse avrete già intuito a chi alludo: lui è Antonio Vivaldi, uno dei più grandi compositori del suo tempo… (Venezia 1678-Vienna 1741).
Antonio VIVALDI
Ma non starò certo a raccontarvi la sua storia che, pur interessante, immagino già conoscerete, anche se certe parti della sua vita, forse, sono rimaste ancora nell’ombra. Quello che cercherò di fare sarà un breve viaggio nella Venezia della sua decadenza, alla ricerca del suo stile, tra quello spazio che va dalla fine del 1600 ai primi decenni del 1700, tempo in cui Vivaldi visse e dove seppe esprimere tutto il suo genio.
Sembrerà curioso sapere che, nonostante la città non fosse più la stessa dei secoli precedenti (in quanto a ricchezza e potenza bellica) e faccia fatica a fronteggiare le calamità verificatesi più volte (la più gravosa fu l’epidemia di peste che il secolo prima aveva decimato la sua popolazione) si aprono nuovi teatri, dove la gente si precipita: per divertirsi, o per dimenticare. Emergono figure di scrittori divenuti poi in seguito famosi: Carlo Goldoni, i fratelli Gozzi, Giacinto Gallina…
Ma quanto accade in città non è ancora, per Vivaldi, motivo di interesse. Iniziò qui la sua storia quando, uscito dal seminario, ha già 25 anni, ma soprattutto è un sacerdote. Sembra però che la vita ecclesiastica non sia stata quella adatta a lui. Il pretesto, o la causa, che lo allontana dai suoi obblighi sacerdotali è una malattia di cui soffriva fin da ragazzino e diagnosticata allora come « strettezza de petto » (un’asma bronchiale). Per il giovane Antonio la dispensa dal dire messa fu una vera fortuna che gli consentì di dedicarsi esclusivamente alla musica, unica ragione della sua vita. Ma al periodo passato in seminario Vivaldi sarà sempre grato: gli consentì di studiare e approfondire la conoscenza della musica, imparando a suonare il violino e a perfezionare una tecnica virtuosistica, da molti definita insuperabile.Ma, in cuor suo, Vivaldi si sente attratto dalla composizione. Scrive musica, anzitutto quella strumentale, che sottopone al padre (suona il violino nella Cappella Marciana, l’unica istituzione musicale della città), ma non trova estimatori. Il suo sogno di dirigere un giorno la Cappella Marciana si infrange quasi subito. Gli unici che si accorgono di lui sono i membri del direttivo dell’Oratorio della Pietà, luogo di carità istituito già nel lontano 1300. Lì verrà accolto nell’organico degli insegnanti come « maestro de violin » e compensato con 40 ducati annui, aumentati poi a 100 per l’incarico aggiuntivo di maestro concertatore.
Antonio VIVALDI
Questa assunzione presso l’oratorio sarà la sua fortuna. Tra l’impenetrabile silenzio delle sue mura, lavorerà per decenni portando avanti la sua non dichiarata “rivoluzione musicale”, dando vita a tutto il suo estro creativo, mettendo la sua musica su un piano che allora, ma anche oggi, sorprese tutti per le evidenti novità che introdusse. Dagli studi fatti al seminario Vivaldi si era accorto di come tutto ciò che aveva appreso appartenesse ad un’epoca ormai spenta. Le dinamiche espressive dei concerti che ascoltava risentivano della lentezza con cui venivano eseguiti. Certi strumenti, come il clavicembalo, non potevano esprimere più nessuna nuova potenza sonora, ragione che lo spinse, progressivamente, ad escluderlo dagli strumenti della sua orchestra a favore degli archi e dei fiati di cui intravvedeva nuovi e più importanti sviluppi. Nelle sue partiture emergono nuovi simboli dove si riconoscono ben tredici graduazioni che stabiliscono le intensità dei “piani” e dei “forti”. Nel solo tempo “allegro”, 18 sono le variazioni sonore a riprova che tutto era stato da lui vagliato e migliorato.
Dentro all’Oratorio spetta a lui scegliere tra le allieve le più meritevoli (non sorprenda questo fatto ma l’istituto raccoglieva solo ragazze, abbandonate in tenera età). Per disciplina interna sono tenute al rispetto e all’obbedienza e lui non chiede di più: l’impostazione musicale ottenuta porterà nel giro di qualche anno le sue allieve al massimo grado di perfezione, superando, per capacità, l’orchestra ed il coro della stessa Cappella Marciana. A Vivaldi molti guarderanno con rinnovato interesse. Dall’estero gli giungeranno richieste per poter partecipare alle sue lezioni, domande che non sempre furono concesse.
Antonio VIVALDI-Venezia-Calle della Pietà-Lapide Vivaldi-Foto-Giovanni Dall’Orto
Dal libro di Walter Kolneder Vivaldi (edit. Rusconi), a proposito della sua musica, leggo : «… le prime opere di questo genere dovettero apparire al pubblico come rivelazioni di una nuova umanità, l’ampiezza degli sviluppi dovette produrre un effetto tale da mozzare il respiro».
Che cosa aveva di così travolgente la musica di Vivaldi su chi l’ascoltava? Anzitutto quella gran massa di suoni eseguiti a ritmi elevati per quei tempi (ma ci sorprendono anche oggi!), poi le variazioni tonali, l’uso degli archi così sorprendente, frutto di una tecnica eccelsa in possesso delle sue allieve, e le novità messe in atto dallo stesso Vivaldi che aggiungeva difficoltà crescenti allo svolgimento dei suoi concerti. Sorpresero tutti le “martellate”, così definite allora, quelle specie di frustate buttate addosso alle corde degli archi, con gesti eseguiti soprattutto dalle violiniste, che le impegnarono anche fisicamente, in una fatica nuova ma esaltante. Tutto, alla fine, produceva un effetto estraniante, che stordiva piacevolmente chi ascoltava.
Antonio VIVALDI
Nel corso degli anni successivi, Vivaldi comincerà a comporre anche per le corti europee più importanti. La sua musica aveva raggiunto le vette più alte guadagnata in anni di silenzioso lavoro. Il re di Francia Luigi XV per il compleanno del figlio Delfino chiese a Vivaldi una cantata. “La Senna festeggiante”, così si chiama, fu composta ed eseguita nel 1726, tra la compiaciuta contentezza dei convenuti.
Ma ad impreziosire i suoi rapporti di quegli anni va ricordata l’amicizia e stima di J. S. Bach il quale intuì, e fu forse l’unico, l’enorme portata del rinnovamento messo in campo dal “prete rosso”; lo apprezzò così tanto che trascrisse alcune sue sonate portandole alla sola voce del clavicembalo (Bach era innamorato di questo strumento scrivendo per lui decine e decine di pezzi). Si sa della loro corrispondenza e di come Bach studiasse gli spartiti di Vivaldi. Tracce dell’influenza vivaldiana si possono trovare nei Concerti Brandeburghesi.
Di Vivaldi esiste un unico disegno fatto da Pier Leone Ghezzi nel 1723 quando giunse a Roma. Aveva allora 45 anni. Dal profilo si nota la grande massa dei suoi capelli (erano rossi e arricciati), gli cadono sulle spalle. L’ampia fronte fa scendere lo sguardo sul naso aquilino, poi sulle labbra, forse sottili. Più volte ho cercato di immaginarlo Vivaldi. Alto circa un metro e settanta, dentro al suo lungo abito nero, col breviario stretto sotto al braccio, la mente che inseguiva le sue musiche, il suo passo veloce per tornare all’Oratorio e metterle nel foglio pentagrammato. Di lui Charles De Brosse disse che era più veloce a scrivere un concerto di quanto non facesse un copista a ricopiarlo…
Tralascio ciò che fece Vivaldi nei decenni successivi dove si dedicò quasi esclusivamente alla musica profana, scrivendo più di 90 fra opere e cantate. Potrà sorprendere questo cambio di indirizzo, ma Vivaldi aveva capito che le nuove tendenze che circolavano in città volevano altro. La musica sacra, che gli aveva dato la notorietà, non era più richiesta come prima. In questa sua nuova veste Vivaldi si dedicherà anima e corpo in un lavoro che sembrava non aver mai fine. La grande produzione del “prete rosso” ammonta a più di 750 composizioni, ma ciò non deve sorprendere perché ogni compositore dell’epoca aveva come requisito necessario, quello di saper scrivere musica con continuità. Allora, nelle chiese e nelle sale da concerto, non era previsto che una stessa musica fosse suonata due volte.
Vivaldi avverte che il suo tempo sta per scadere. A Venezia altri sono i compositori le cui musiche trovano maggiori consensi. Si fanno largo Benedetto Marcello, Tommaso Albinoni e per Vivaldi gli spazi si vanno restringendo. Molti non approvano che un prete, come continuava ad essere lui, dovesse vestire anche i panni dell’impresario e uomo d’affari. (Per gli accordi presi con il Teatro di S. Angelo e per garantire i contratti con le maestranze con cui era venuto a collaborare, Vivaldi si prese cura di tutta la gestione). Ma erano troppe le voci contrarie per poter respingere i pregiudizi più velenosi.
Vivaldi lasciò per sempre Venezia accogliendo l’invito di Carlo VI d’Asburgo che lo volle alla sua corte a Vienna. Era il 1728. Nella capitale asburgica rimase fino al 1741, anno della sua morte, un anno dopo la morte del sovrano Carlo VI che lasciò il nostro Vivaldi in condizioni economiche precarie. Fu sepolto nel cimitero dell’ospedale in una fossa comune. Le note del suo funerale , trascritte nel registro parrocchiale così dicono: «Si è constatata la morte del molto reverendo Sig. Antonio Vivaldi prete secolare età 60 anni, avvenuta per infiammazione interna, nella casa Satler presso la porta di Carinzia.» Si concluse così la vita di uno dei più grandi musicisti del 700.
Ed il suo stile? Vi chiederete. Già… Sta tutto nei fogli pentagrammati, negli ascolti ripetuti che ce lo rivelano puntualmente. Se confrontati con altre composizioni dell’epoca, si potrà intuire quasi subito nei duetti fra l’assolo del violino e l’orchestra, fra soprano e contralto, fra flauto dolce e orchestra.
Per quanti volessero farsi un’idea più precisa della musica di Vivaldi potrei suggerire l’ascolto di alcuni brani che, a mio avviso, sono tra i più significativi della sua arte.
Tra le Quattro Stagioni scelgo L’Estate (LINK). Poi passo ai Concerti di Dresda, allo Stabat Mater (Philippe Jaroussky LINK), al Concerto Grosso in fa minore, il Concerto per flauto dolce e orchestra RV 443, la Cantata Juditha Triumphans. Aggiungo, e lo consiglio vivamente, il bellissimo documentario girato dalla BBC che ha per titolo Gloria at Pietà. All’ascolto del celeberrimo brano, si aggiungono le immagini, e la ricostruzione fedele delle atmosfere dei concerti vivaldiani all’interno della chiesa della Pietà.
Massimo Rosini
Massimo Rosin nato a Venezia nel 1957. Appassionato di cinema, musica, letteratura, cucina, sport (nuoto in particolare). Vive e lavora nella Serenissima.
Poesie di Christina Rossetti-Poetessa italo-britannica-
Biografia e Poesie di Christina Rossetti Poetessa italo-britannica-Biblioteca DEA SABINA-nacque a Londra il 5 dicembre 1830 ove mori il 29 dicembre 1894-fu educata in casa dalla madre. Intorno al 1840 la famiglia aveva grosse difficoltà economiche dovute al peggioramento della salute fisica e mentale di suo padre. A 14 anni Christina soffrì di una crisi nervosa che fu seguita dalla depressione. In questo periodo lei, la madre e la sorella si interessarono al movimento anglo-cattolico, che era parte della Chiesa anglicana. La devozione religiosa ebbe un ruolo importante nella vita di Christina: appena diciottenne si impegnò sentimentalmente con il pittore James Collinson, ma la relazione finì perché quest’ultimo tornò ad essere cattolico. In seguito si legò al linguista Charles Cayley ma non lo sposò, nuovamente per motivi religiosi. Morì di cancro nel 1894 e venne seppellita nell’Highgate Cemetery. All’inizio del Novecento, con il modernismo, la sua popolarità venne offuscata, come anche quella di molti altri scrittori dell’epoca vittoriana. Christina Rossetti rimase a lungo dimenticata fino a quando negli anni settanta venne riscoperta da studiose femministe.
Christina Rossetti-Poetessa italo-britannica
Il posto più umile
Dammi il posto più in basso; non lo merito,
lo so, ma Tu scegliesti di morire
perch’io potessi vivere e godere
la gloria dalla stessa parte Tua.
Dammi il posto più in basso, e se per me
troppo alto fosse, un altro più giù ancora,
dove possa sedermi per vedere
il mio Signore, e così amare Te.
Maggio
Io non ti posso dire come è stato:questo soltanto so, che è già passato.In un giorno di pura luce e brezza,un maggio dolce, in piena giovinezza.Non erano i papaveri ancor natitra lievi steli del granturco incerto,l’ultimo uovo ancor non s’era apertoe gli uccelli volavano accoppiati.Io non ti posso dire come è stato:questo soltanto so, tutto è passato.Con quel sole di maggio è andata viaogni dolce ed amata compagniae sola, vecchia e grigia m’ha lasciato.
Nel mezzo di un gelido inverno
Nel mezzo di un gelido invernoIl vento gelato portava lamenti,La terra era dura come il ferro,L’acqua come una pietra;La neve era caduta,Neve su neve,Nel mezzo di un gelido inverno,Molto tempo fa Nostro Dio, il paradiso non può trattenerlo,Né la terra sorreggerlo;Il cielo e la terra fuggirannoQuando verrà il suo Regno;Nel mezzo di un gelido invernoUna stalla fù sufficientePer il Signore Dio incarnato,Gesù Cristo. Bastò per lui, che i cherubinilo adorassero notte e giornoUn seno pieno di latteE una mangiatoia piena di fieno.Bastò per lui, che angelicaduti in passato,Il bue, l’asino e il cammellolo adorassero. Angeli ed arcangelierano tutti lì riuniti,Cherubini e serafiniAffollavano l’ariaMa solo sua madreNella sua fanciulla beatitudine,Adorò l’amatoCon un bacio. Cosa posso dargli,Povera come sono?Se fossi un pastorePorterei un agnello,Se fossi un MagioFarei la mia parte,Ecco cosa posso dargli —Gli dono il mio cuore
Christina Rossetti -Poetessa italo-britannica
Quando io sono morta
Quando io sono morta, mio carissimo,non cantare canzoni tristi per me;non piantare rose alla mia testanè ombroso albero di cipresso:sia la verde erba su di mecon acquazzoni e gocce di rugiada umida;e se tu vuoi, ricordae se tu vuoi, dimentica.Io non vedrò le ombre,non sentirò la pioggia;non udirò l’usignolocantare come se fosse addolorato:e sognando durante il il crepuscoloche nè sorge nè tramonta,per caso possa ricordaree per caso possa dimenticare.
Ricordami
Tu ricordami quando sarò andatalontano, nella terra del silenzio,né più per mano mi potrai tenere,né io potrò il saluto ricambiare. Ricordami anche quando non potraigiorno per giorno dirmi dei tuoi sogni:ricorda e basta, perché a me, lo sai,non giungerà parola né preghiera. Pure se un po’ dovessi tu scordarmie dopo ricordare, non dolerti:perché se tenebra e rovina lasciano tracce dei miei pensieri del passato,meglio per te sorridere e scordareche dal ricordo essere tormentato.
A Birthday
My heart is like a singing bird
Whose nest is in a water’d shoot;
My heart is like an apple-tree
Whose boughs are bent with thickset fruit;
My heart is like a rainbow shell
That paddles in a halcyon sea;
My heart is gladder than all these
Because my love is come to me.
Raise me a dais of silk and down;
Hang it with vair and purple dyes;
Carve it in doves and pomegranates,
And peacocks with a hundred eyes;
Work it in gold and silver grapes,
In leaves and silver fleurs-de-lys;
Because the birthday of my life
Is come, my love is come to me.
(Traduzione)
È un uccello canoro il mio cuore
che ha fatto il nido su una fresca cima –
un melo ricco di rami è il mio cuore
ricco di frutti come mai fu prima
È come una conchiglia iridescente
su un mare luminoso e trasparente.
Più felice di sempre oggi è il mio cuore
perché è giunto l’amore.
Fatemi un trono di piume e seta
di morbide pellicce e drappi rossi
colombe e melagrane sian scolpite
intrecciate a cento occhi di pavone,
grappoli d’oro e grappoli d’argento
in viluppi di bianchi fiordalisi.
È il compleanno della vita mia,
l’amore è giunto e non andrà più via
The lowest place (1863)
Give me the lowest plase: not that I dare
Ask for that lowest place; but Thou hast died
That I might live anch share
Thy glory by Thy side.
U That lowest plase too high, make one more low
Where I may sit and see
My God and love Thee so.
(Traduzione)
Dammi l’ultimo posto: non che osi
chiederlo, ma Tu sei morto
perché io viva e divida con Te
la gloria al tuo fianco-
Dammi l’ultimo posto: o se per me
l’ultimo è troppo, creane un altro più giù
dove possa sedere e vedere
il mio Dio e così amarTi [
Composizioni di Christina Rossetti
Christina Rossetti-Poetessa italo-britannica
L’Italo-britannica Christina Rossetti iniziò a scrivere molto presto, ma solo all’età di 31 anni vide pubblicata la sua prima raccolta di poesie, Goblin Market and Other Poems (1862). L’opera ottenne una critica molto favorevole e Christina venne salutata come la naturale erede di Elizabeth Barrett Browning nel ruolo di female laureate. Il titolo che dà il nome alla raccolta è il lavoro più famoso di Christina Rossetti, e nonostante a prima vista sembri semplicemente una filastrocca sulle disavventure di due sorelle in mezzo agli gnomi (goblins), la poesia è complessa e ha diversi livelli di lettura. La critica l’ha interpretata in modi molto diversi: vi ha visto un’allegoria sulla tentazione e la redenzione, un commento sui ruoli sessuali nell’epoca vittoriana, e la tematizzazione del desiderio erotico e la redenzione sociale.
Christina Rossetti continuò a scrivere e pubblicare per il resto della sua vita e si concentrò soprattutto sulla poesia devozionale e per bambini. Tuttavia le cose più interessanti che ha scritto sono poesie d’amore. Non si tratta di fantasie o di petrarchismo cortese: nascono da storie d’amore dolorosamente vissute e da sprazzi di lucidità che trasformano il dolore in un sentimento leggero e giocoso. La famosa When I am dead, my dearest esprime tutta la sua insicurezza: Christina non è sicura del proprio amore quanto non è sicura dell’amore dell’amato, il quale dunque non viene caricato di doveri, che del resto neppure lei potrebbe sopportare.
Mantenne una grande cerchia di amici e per dieci anni lavorò come volontaria in una casa di accoglienza per prostitute. Rimase ambivalente riguardo al suffragio femminile, ma molti hanno riconosciuto tematiche femministe nella sua poesia. In più era contro la guerra, la schiavitù, la crudeltà contro gli animali, lo sfruttamento sessuale delle minorenni e ogni forma di aggressione militare.
Oliviero Toscani, il nostro Ansel Adams?Articolo del fotografo Marco Scataglini
La recente scomparsa di Oliviero Toscani mi ha fatto molto riflettere. E’ stato davvero il nostro Ansel Adams, ovviamente non dal punto di vista fotografico – mai due fotografi sono stati tanto diversi – quanto da quello della fama.
Oliviero Toscani
Come ho scritto in un recente post, a differenza di musicisti o anche esponenti di altre arti, i fotografi sono abituati al fatto che poche persone conoscano davvero i “propri eroi”e così i nomi di Luigi Ghirri o di Mimmo Jodice, di Walker Evans o Stieglitz, non dicono granché alle persone che non appartengono al nostro mondo. E non è qualcosa che riguarda solo l’Italia, ovviamente, anzi è generalizzata. Nel mondo anglosassone, e non solo, c’è un unico esempio di fotografo noto quasi a tutti: Ansel Adams, appunto.
E non tanto per le sue fotografie (anche) quanto per il suo impegno ecologista, le sue battaglie per la salvaguardia della natura e la creazione di Parchi Nazionali, e per essere stato anche il fotografo che nel 1979 ha realizzato il ritratto ufficiale del presidente Jimmy Carter (a colori!), recentemente scomparso.
Presidente Jimmy Carter-Foto di Oliviero Toscani
In Italia la stessa sorte è toccata a Oliviero Toscani. Della sua morte ne parlano giornali, radio e televisioni – da giorni – con ricordi, testimonianze, coccodrilli scritti in precedenza, visto che Toscani era da tempo malato. Di tutte queste testimonianze di autentica stima e affetto mi ha colpito il fatto che l’elemento strettamente fotografico rimanesse quasi sullo sfondo.
A parte, s’intende, chi scrive di fotografia e riconosce in Toscani uno dei maestri, gli altri ne sottolineano il carattere estroso, polemico, sempre sopra le righe, i diversi processi subiti per diffamazione e così via. La sua vita è stata un susseguirsi di dichiarazioni urticanti ma mai banali, una continua ricerca dell’autentico, senza nascondersi dietro il “politicamente corretto”. Era indubbiamente un uomo libero. Tuttavia leggendo o ascoltando le lamentazioni per la sua morte, ho avuto sempre l’impressione che non si parlasse tanto di un fotografo, quanto di un personaggio pubblico qualunque, di un “intellettuale” sui generis, un po’ come quando si parla di Sgarbi non si pensa al fatto che sia un critico d’arte, ma un acceso polemista.
E invece Toscani non sarebbe stato quel che è stato se non fosse stato soprattutto un fotografo. Quel che aveva da dire – per davvero – lo ha detto con le sue foto. O meglio, per essere più precisi, con le idee dietro le sue foto. Perché di fatto, sebbene immediate e dirette, le sue immagini erano molto concettuali, ma non il “Concettuale” con la “C” maiuscola dei soliti “Artisti” (con la A maiuscola anch’essi) ma un concettuale fatto per essere compreso, chiaro, con pochi fraintendimenti.
Foto di Oliviero Toscani
Questo perché Toscani non amava i giri di parole ma in particolare detestava i “giri d’immagine”, insomma le sue foto dovevano dire quel che avevano da dire sbattendotelo in faccia. Per questo scandalizzavano e però sono rimaste nella nostra memoria anche dopo molti anni, basti pensare a tutte le pubblicità della Benetton. Foto come quella dei tre cuori umani, di tre origini diverse (un africano, un europeo e un asiatico) rendevano perfettamente l’idea del fatto che dentro siamo fatti tutti allo stesso modo. Colpiva, infastidiva pure, ma era immediatamente comprensibile. E lo stesso vale per le sue foto di condannati a morte, per il bacio tra un prete e una monaca e così via.
La verità però è che Toscani ha legato la sua fama a immagini come queste, ma era anche molto altro. Ho vecchie riviste degli anni ’70 con la pubblicità della Olympus OM 2 dove un giovane Toscani ne illustrava le meraviglie nell’uso per il reportage, genere a cui allora si dedicava. Era in grado di raccontare luoghi e persone, di immergersi in realtà complesse come – per citare un progetto relativamente recente, del 1996 – il paese di Corleone e di trarne così un catalogo Benetton che era contemporaneamente una storia basata sui volti delle persone, sui loro gesti, sui loro atteggiamenti e appunto la promozione di un marchio iconico.
Fotocamere Olympus-Foto di Oliviero Toscani
Se dovessimo dire che fotografo era, probabilmente dovremmo considerarlo un ritrattista: sapeva cogliere l’essenza di chi aveva davanti, ma ci metteva molto del proprio, e sapeva fondere le due cose con efficacia, specialmente perché – come ricorda Andrea Scanzi in un suo articolo – non gli riusciva proprio di mentire. Motivo per cui ebbe molte critiche, ad esempio, per un servizio sulla ex-ministro Maria Elena Boschi uscito su “Maxim” e in cui non avrebbe reso adeguatamente il suo soggetto. Insomma, lo si accusava di non aver ripreso la Boschi per quello che il pubblico si aspettava: elegante e sexy. Non è questo il ruolo di un fotografo, sembrerebbe di poter dedurre da tali critiche, trasformare tutto in “Glamour”?
Poteva piacere o meno (ad esempio non è mai stato uno dei miei fotografi di riferimento) ma difficilmente se ne poteva disconoscere il ruolo avuto per scuotere la sonnolenta fotografia italiana, e per questo basti pensare alla sua straordinaria rivista “Colors”, realizzata per i Benetton a partire dal 1991, ampiamente anticipatrice di tante riviste che oggi si atteggiano a “cosa nuova”.
Mi rendo conto che anch’io sto scrivendo una sorta di elegia su Toscani, non era il mio intento. Quello che mi premeva sottolineare è l’importanza del suo ruolo, soprattutto per far conoscere la fotografia fuori dai soliti recinti più o meno intellettuali. Veniva sempre chiamato “fotografo” anche quando nelle interviste lo si sollecitava a parlare di altro. Era comunque la voce di un fotografo quella che rispondeva, una voce che non poteva essere disgiunta da quello sguardo sensibile, attento, ironico, istrionico. E in quanto fotografo ha anche cercato costantemente di far crescere i giovani che si affacciavano a questo mondo, come Adams è stato un vero ambasciatore della nostra arte presso il grande pubblico. Questo gli ha inimicato tanti fotografi che vedevano in lui una sorta di antitesi a quello che dovrebbe essere il ruolo del serio intellettuale che si esprime con le immagini.
Foto di Oliviero Toscani
Ma la verità è anche che Toscani era inimitabile. Non lo dico nel senso che realizzava fotografie tecnicamente inarrivabili, anzi. Il fatto è che erano foto davvero “sue”, in cui il ruolo del fotografo, la sua prorompente personalità, erano parte integrante del soggetto.
I fotografi amatoriali amano Ghirri – e quelli della sua “scuola” – perché pensano di potersi ispirare a lui, perché il suo approccio può essere “copiato”, anche se il più delle volte con risultati francamente non proprio apprezzabili. Fatto sta che la Rete è piena di fotografie “alla Ghirri”, di foto di architettura “alla Basilico”, di foto di paesaggi “alla Guidi” e così via. Ed è singolare pensare che questi tre fotografi che ho citato come esempio in realtà siano poco noti al pubblico generalista, che invece conosce Toscani. Viceversa nessun fotografo si sogna di imitare Toscani perché è sostanzialmente impossibile se non si diventa almeno un po’ come lui era. La corrispondenza tra le sue immagini e il suo modo di essere era quasi perfetta.
Sia chiaro, ogni fotografo è unico e inimitabile, ma – permettetemi la forzatura semantica – Toscani era il più unico di tutti, specialmente quando non premeva il pulsante di scatto della fotocamera. Per questo ho spesso incontrato fotografi che non lo apprezzavano, sostenendo che era soprattutto un “personaggio”, più che un artista o “un creativo”, parola che tra l’altro Toscani detestava. Uno buono per stare in televisione o alla radio, per scrivere libri ironici (come “Non sono obiettivo“, uscito per Feltrinelli nel 2001, il cui titolo dice tutto) ma scontato e banale dal punto di vista meramente tecnico. E si sa che i fotoamatori guardano soprattutto l’aspetto tecnico, invece di quello intellettuale.
Ho sempre risposto che il personaggio e il fotografo, le parole e le fotografie in Toscani erano un tutt’uno, lo rendevano una miscela perfetta e per certi versi esplosiva di leggerezza e profondità, di caustica polemica e insondabile ironia. Un fotografo di altri tempi eppure contemporaneo, direi necessario.
Foto di Oliviero Toscani
Qualche mese fa, al Festival di Reggio Emilia, c’era una sua mostra risalente alla fine degli anni ’90: una serie di fotografie di cacche (Toscani ha sapientemente intitolato il progetto “Cacas“), insomma escrementi sia umani che animali. Le foto sono su fondo bianco, semplici, ben realizzate, ma con una potenza eccezionale. Dopo i primi facili sorrisini, ed ecco la parte divertente e divertita dell’operazione, lo spettatore entra in un tumulto di riflessioni e considerazioni, ed è questa la parte profonda – irriverente ma mai autocompiaciuta – di ogni progetto del fotografo milanese. Scommetto che avrà considerato questa serie di immagini una galleria di ritratti dei suoi detrattori, ma in verità ha poi scritto che “la cacca è l’unica cosa che l’essere umano fa senza copiare gli altri, non c’è niente di più personale e ogni volta è un’opera d’arte“. Capito cosa significa essere Oliviero Toscani? Intellettuale senza fare l’intellettuale, profondo apparendo superficiale. Saper giocare con le contraddizioni come un prestigiatore o un circense. Appunto: unico.
E certo: ci vuole anche il coraggio. Vorrei veder voi mettervi lì a collezionare cacche fresche (e scommetto odorose) e a fotografarle con tutto l’armamentario di “bank” e stativi, per poi farsi ridere dietro.
Per questo, per la sua indiscutibile capacità di farci riflettere e arrabbiare è stato davvero un maestro della fotografia, la cui verve indubbiamente ci mancherà.
Faro di Posizione.Teresa Wilms Montt: la poetessa libera e reclusa-Non dormo ancora, è tardi ma inquietamente cerco versi quasi per placare la mia sete insaziabile di bellezza. Inciampo sul web sui suoi versi, ne resto rapita. Sì, è la dinamica dell’amore. Leggo voracemente la poesia in cui Teresa si presenta. Nome, cognome e biografia condensate in versi struggenti. Fanno male, sembrano arrivare allo stomaco come un pugno. Una poetessa cilena che muore suicida a soli 28 anni a Parigi con una dose eccessiva di droga. Guardo il suo volto. E’ di una bellezza commovente.
I suoi lineamenti sono così delicati. Occhi profondi e intensi, labbra carnose, corpo sinuoso. Bella e opulente nel suo amare senza misura. Ribelle e insofferente ai conformismi, alle castrazioni, alle oppressioni di chi la vuole donna obbediente, forse solo moglie, forse solo madre. Teresa lo è. Madre di due bellissime bambine che in una foto di archivio stringe tra le braccia, come il migliore frutto delle sue opere. Ha scritto molto nella sua breve vita. La scrittura l’ha divorata e salvata.
Come l’amore. Storia infelice e tragica quella della nostra poetessa di cui forse troppo poco si parla o si conosce. Eppure in una notte di ottobre i suoi versi sembrano arrivare dritti come un proiettile sparato dal passato verso il futuro. Narra da visionaria una storia che si ripete sempre uguale. Una donna che ha vissuto perfino la reclusione in un monastero, forzatamente, come punizione. Privata delle sue due figlie. Poetessa martoriata perché l’eccesso di gelosia del marito l’ha segnata a fuoco con la violenza atroce della separazione dalle figlie.
Per cinque anni Teresa non le vedrà più. Lì si insinua il primo tentativo di suicidio. Non muore, la vita la pretende ancora. Fugge dal monastero e da quella reclusione forzata, grazie ad un amico poeta. Diventerà il suo migliore amico. Che poi una parte della critica lo voglia amante di Teresa, poco importa. L’ha aiutata a salvarsi. La nostra poetessa viaggia in lungo e largo per il mondo. Salotti letterari, salotti di politici anarchici dove incontra e conosce tanti uomini del suo tempo, intellettuali, poeti, scrittori, filosofi.
Legge e scrive. Escono le prime raccolte e sono poesie segnate dal dolore, dall’amore profondo e carnale, dal disagio esistenziale, dalla mancanza struggente delle figlie, da un senso di inadeguatezza verso il mondo, di estenuante stanchezza e solitudine come Teresa avesse cento anni. Ne ha meno di trenta. La reclusione e quel terribile tradimento da parte del marito che l’ha voluta castrare e punire, quel marito che ha sposato a soli diciassette anni, contro il volere dei genitori, l’hanno marchiata in maniera incontrovertibile.
E’ rotta già segnata. Cova in segreto un male di vivere che la porterà a non reggere più un ulteriore atroce distacco dalle figlie che riabbraccerà a Parigi dopo cinque anni. Trova pace ma per poco. Quando le figlie con il nonno paterno vanno via da Parigi, Teresa sprofonda in uno stato depressivo senza via d’uscita. Tra droghe sempre più pesanti, alcol e sofferenza, si spegne nella notte di natale del 1821, sola per overdose. Vola leggera la sua anima resa pesante dalla condanna, dal giudizio, dalla colpa. Una donna e poetessa che avrebbe dovuto scegliere tra l’amore che incontrerà oltre il matrimonio, per un uomo che lei chiamerà Anuarì, suicida anche lui, poiché crederà di non essere corrisposto e la vita di una donna “per bene”. Sposata, devota e fedele, esclusivamente madre, senza alcuna velleità letteraria e poetica.
Senza amici, senza salotti, senza viaggi, senza lettere d’amore scritte per chi ama senza resa, senza versi che in maniera prolifica fa gemmare dal suo corpo che fragile non è, nonostante le violenze. Teresa resiste infatti a tutto. Alla non comprensione dei suoi genitori aristocratici, al non amore del marito, all’amore profondo segnato dalla morte per Anuarì, alla reclusione forzata. Teresa resiste a tutto ma non a quella amputazione di utero.
Non a quel rapimento brutale delle figlie. Non al tradimento più bieco, subdolo e sadicamente fonte di compiacimento per chi giurava di amarla. Resiste e sopporta tutto, fuorché essere defraudata delle sue figlie. L’hanno colpita non solo nella sua femminilità sacra e inviolabile, nella sua capacità di procreare e generare vita; l’hanno violentata nel peggiore dei modi. Le hanno impedito di essere madre perché una donna di pensiero, una donna intellettuale, una donna che amava e viveva di poesia.
D’impeto mi viene in mente la mia poetessa, Alda Merini. Anche a lei proprio il marito Ettore Carniti ha inflitto il manicomio e l’ha brutalmente sottratta all’amore delle sue quattro figlie. Dieci anni di orrore. Teresa cinque. Ma il dolore dell’anima non segue il corso cronologico. Dieci anni non fanno più male di cinque. E’ il gesto vile di sopraffazione e violenza che strazia prima le viscere, poi l’anima, poi il corpo. Sopravvivere è impresa per poche. Alda ce la fa. Teresa no.
Eppure entrambe si aggrappano all’amore e alla poesia. Entrambe cantano il dolore per sublimarlo, per renderlo materia magmatica ma sopportabile. Vi sono decenni importanti di distanza tra le due poetesse. Poco importa. Hanno vissuto traumi feroci simili. E hanno lasciato versi che non si scordano. Mi affiorano quelli di Alda Merini: “E va bene anche così, aggrappata al muro con te che prendi la mira con una pistola caricata a tradimenti. Forse mi vuoi sparita o forse non mi vuoi più, ma io sono quell’amore che ha reso immortale i tuoi occhi e solitudine infelice questi piccoli giorni della mia vita.”Adesso tornano ad eco i versi autobiografici di Teresa: “Sono Teresa Wilms Montt e anche se sono nata cento anni prima di te, la mia vita non è stata tanto diversa dalla tua.
Anche io ho avuto il privilegio d’essere donna. E’ difficile essere donne in questo mondo. Tu lo sai meglio di tutti. Ho vissuto intensamente ogni respiro e ogni istante della mia vita. Ho distillato una donna. Hanno cercato di reprimermi ma non ci sono riusciti con me. Quando mi hanno voltato le spalle, io ci ho messo la faccia. Quando mi hanno lasciato sola, ho dato compagnia. Quando hanno voluto uccidermi, ho dato vita. Quando hanno voluto rinchiudermi, ho cercato la libertà. Quando mi amavano senza amore, ho dato ancora più amore.
Quando hanno cercato di zittirmi, ho urlato. Quando mi hanno picchiato, ho risposto. Sono stata crocefissa, morta e sepolta, dalla mia famiglia e la società. Sono nata cento anni prima di te comunque ti vedo uguale a me. Sono Teresa Wilms Montt e non sono adatta alle signorine.” Niente altro da aggiungere. Aveva ragione Teresa, alla luce di una violenza che dura e si perpetra immutabile sulle donne da secoli, senza alcun reale cambiamento. “Le leggi dello Stato, non sono quelle del cuore”, mi sovviene Antigone.
L’uomo non impara. Ripete lo stesso copione. Il percorso verso la parità di genere è tutto roba da scrivere per addetti ai lavori: psicologi, psicoterapeuti, criminologi, forze dell’ordine, magistrati, giudici, avvocati e sì, anche intellettuali, giornalisti, scrittori, poeti e docenti. Ma siamo nel 2023 e di donne uccise, violentate, calpestate, usate, ridotte a cose inerti, annullate, defraudate della loro dignità, femminilità, maternità, ce ne sono tante, troppe. Ogni giorno è la conta della vergogna disumana.
Resta un numero antiviolenza: 1522. Resta la voce straziante di un coro di poetesse e scrittrici che come Teresa hanno avuto il coraggio di dire no e di scriverlo senza reticenze. In quel “non sono adatta alle signorine” non crediate che faccia allusione alle donne ancora in giovane età. Io da donna e scrittrice vedo ahimè, una sferzata feroce contro quegli uomini che si illudono di essere padroni della vita delle donne in quanto “signorine”.
Fragili, vulnerabili, non idonee a scrivere la storia, non all’altezza di esprimere il proprio libero pensiero. Ma le signorine, signori uomini, siete voi, paradossalmente, quando vivendo in questa patologica illusione di dominare e possedere le donne, non fate altro che perpetrare la vostra fragilità emotiva, la vostra abissale insicurezza, la vostra ferocia narcisistica. Teresa muore nel 1821. Ne moriranno ancora chissà quante ma “l’armonia vince di millesecoli il silenzio”.
La Poesia resta e resiste. Un grazie al mio amato Foscolo va elargito. Anche se non hanno potuto cambiare il destino delle donne, mi auguro che qualche sussulto interiore lo provochino ancora oggi, Teresa Montt, Alda Merini, Maria Fuxa, Camille Claudel e tutte le altre. Spero che chi legga qualche domanda se la ponga. Qualche fremito lo provi, in nome di tutte le donne che pur subendo la lettera scarlatta della colpa mai commessa e l’onta ingiusta della punizione, il coraggio di sferzare il sistema e di dire no ce lo hanno avuto e continuano ad averlo.
Bia Cusumano
Maria Teresa Wilms Montt de las Mercedes. Poetessa, Femminista ed anarchica(Viña del Mar, Cile, 8 settembre 1893 – Parigi, Francia, 24 dicembre 1921) è stata una scrittrice, poeta e anarchica cilena. È considerata un’antesignana del femminismo-anarchico.PARIGI 24 dicembre 1921-La notte di Natale del 1921, a Parigi, muore suicida, per overdose di Véronal, Maria Teresa Wilms Montt de las Mercedes.-Poetessa, femminista e anarchica cilena-Biblioteca DEA SABINA- Le figlie, che non vedeva da 5 anni, avevano appena lasciato la città. Aveva 28 anni, era una nobildonna, intellettuale cilena, che aveva lottato per il riconoscimento dei propri diritti, dopo che il marito (sposato per amore quando aveva 17 anni) l’aveva portata di fronte ad un tribunale con l’accusa di adulterio. I giudici l’avevano fatta rinchiudere in un convento, dal quale lei riuscì a fuggire, con l’aiuto del suo amante. Dovette adottare pseudonimi maschili per pubblicare.
Maria Teresa Wilms Montt de las Mercedes
Poetessa, femminista, anarchica, così è definita oggi. Lei, invece, scrisse questa “Autodefinizione”:
Sono Teresa Wilms Montt
e anche se sono nata cento anni prima di te,
la mia vita non è stata tanto diversa dalla tua.
Anche io ho avuto il privilegio d’essere donna.
E’ difficile essere donne in questo mondo.
Tu lo sai meglio di tutti.
Ho vissuto intensamente ogni respiro e ogni istante della mia vita.
Ho distillato una donna.
Hanno cercato di reprimermi ma non ci sono riusciti con me.
Quando mi hanno voltato le spalle, io ci ho messo la faccia.
Quando mi hanno lasciato sola, ho dato compagnia
Quando hanno voluto uccidermi, ho dato vita.
Quando hanno voluto rinchiudermi, ho cercato la libertà.
Quando mi amavano senza amore, ho dato ancora più amore.
Quando hanno cercato di zittirmi, ho urlato.
Quando mi hanno picchiato, ho risposto.
Sono stata crocefissa, morta e sepolta,
dalla mia famiglia e la società.
Sono nata cento anni prima di te
comunque ti vedo uguale a me.
Sono Teresa Wilms Montt,
e non sono adatta alle signorine.
“Inquietudini sentimentali”
Con il capo reclino fra le braccia, in affannosa insonnia,
ripeto, come un bimbo, una prece: il tuo nome.
Sì, Anuarì, ho tanta voglia di dormire; provo lo stesso languido
sopore che turbò la tua anima prima che eternamente
si estinguesse il tuo sguardo adorato.
Come in un’orazione, le mie labbra van ripetendo, sillaba
per sillaba, il rosario sgranato del tuo nome, e le mie
mani giacciono protese al nido tiepido dei tuoi capelli
per cercare un rifugio ove morire. Anuarì! Anuarì!
Simili al brulicare di una fonte sgorgano dal mio seno
implorazioni e grida di dolore. Il caos le inghiotte tutte,
prima che possano arrivare a te. (…)
Senza di te la vita è qualcosa di tetro, un ignobile straccio che mi segue.
Da “Poesia”, n.229, luglio/agosto 2008, traduzione di Cristina Sparagana.
Tu, così forte e bello, col tuo viso sereno e la tua fronte
sempre fissa al cielo.
Anuarí, il dolore non uccide, il dolore non reca la pazzia;
ma sprofonda nell’anima come un corpo di piombo in
un sisma infinito. Turbata, ascolto nelle lunghe notti
l’eco della mia voce che ti cerca attendendo nel buio
una risposta. Poi, la nera realtà mi percuote furente.
Forse l’anima tua pure è svanita? No! Ma com’è possibile
che tanta forza, tanto ardore astrale, possa perire
nell’eterno gelo?
(Teresa Wilms Montt, in POESIA 278, gennaio 213, Vite di poeti)
Maria Teresa Wilms Montt de las Mercedes
Stefano Beccastrini:CHI E’ STATA TERESA WILMS MONTT
Nata nel 1893 a Vina del Mar (Cile), Teresa Wilms Montt è stata una delle più grandi scrittrici del Novecento latinoamericano. Fin dall’adolescenza fu innamorata della vita, dell’amore, della poesia e della musica (soprattutto del melodramma italiano: la sua eroina preferita fu la pucciniana Tosca). Ribelle, femminista, impegnata nel movimento anarchico e socialista, viaggiò il mondo (Buenos Aires, New York, Madrid, Londra, Parigi) dopo esser fuggita dal Cile, ove la famiglia di suo marito l’aveva fatta rinchiudere in un convento. Ovunque si recò, attirò su di sé passione e ammirazione, segnando con la sua elegante e fascinosa presenza gli ambienti culturali – sia sudamericani che europei – che andavano aprendosi all’avanguardia letteraria e politica. Le pesò molto la lontananza forzata dalle due amatissime figlie. Le reincontrò fugacemente, dopo molti anni di distacco, a Parigi nel 1920. Fu l’ultima volta: da allora la gran voglia di vivere, di amare, di scrivere di Teresa si spense. Ella si recluse volontariamente in una stanza dell’Hotel Montaigne, ove alfine decise di uccidersi, con una forte dose di Veronal. Morì dopo esser stata inutilmente ricoverata all’Ospedale Laennec: era la vigilia di Natale del 1921.
E’ sepolta nel cimitero parigino di Pére Lachaise. Se capitate a Parigi, andate a trovarla…
La tua canzone si leva con monotona cadenza, o vita,
ed essa esalta il mio desiderio di morte.
Il silenzio estende il suo cristallo opaco dentro l’anima,
ove giace una passione ormai spenta…
Teresa Wilms Montt
Maria Teresa Wilms Montt de las Mercedes
Siete poetas suicidas
Hay una primavera en cada vida – Antología de poetas-suicidas fue propuesta en la asignatura de «Tipologías de la Edición» del máster en Estudios Editoriales (Universidad de Aveiro, Portugal).
Esta no será más una antología de elección de poemas que condensen toda la obra poética de las siete poetas-suicidas presentadas, enseñando trazos psicológicos referentes a perturbaciones y recalcaduras que originarían su trágico final de vida. Por el contrario. La selección poética intentará señalar los temas alusivos a la esperanza, pasión, amor, alegría, felicidad, transformación, sensualidad, fuerza y arrojo. Como el verso de Florbela Espanca elegido para el título supone, se enfocará el lado luminoso, fuerte y fértil de las siete autoras. A pesar de que la expresión poetas-suicidas pueda no coadunarse con la intención basilar de esta antología, su utilización transmite el peso simbólico emanado de la relación umbilical entre la poesía, la muerte y la vida.
Por orden cronológico de nacimiento, las poetas escogidas son: Alfonsina Storni (Argentina), Teresa Wilms Montt (Chile), Florbela Espanca (Portugal), Anne Sexton y Sylvia Plath (Estados Unidos), Alejandra Pizarnik (Argentina) y Ana Cristina Cesar (Brasil).
Sandra Santos
AUTODEFINICIÓN
Soy Teresa Wilms Montt
y aunque nací cien años antes que tú,
mi vida no fue tan distinta a la tuya.
Yo también tuve el privilegio de ser mujer.
Es difícil ser mujer en este mundo.
Tú lo sabes mejor que nadie.
Viví intensamente cada respiro y cada instante de mi vida.
Destilé mujer.
Trataron de reprimirme, pero no pudieron conmigo.
Cuando me dieron la espalda, yo di la cara.
Cuando me dejaron sola, di compañía.
Cuando quisieron matarme, di vida.
Cuando quisieron encerrarme, busqué libertad.
Cuando me amaban sin amor, yo di más amor.
Cuando trataron de callarme, grité.
Cuando me golpearon, contesté.
Fui crucificada, muerta y sepultada,
por mi familia y la sociedad.
Nací cien años antes que tú
sin embargo te veo igual a mí.
Soy Teresa Wilms Montt,
y no soy apta para señoritas.
AUTO-DEFINIÇÃO
Maria Teresa Wilms Montt de las Mercedes
Sou Teresa Wilms Montt
e ainda que tenha nascido cem anos antes de ti,
a minha vida não foi assim tão diferente da tua.
Eu também tive o privilégio de ser mulher.
É difícil ser mulher neste mundo.
Tu sabe-lo melhor que ninguém.
Vivi intensamente cada intervalo e cada instante da minha vida.
Transpirei mulher.
Quiseram reprimir-me, mas não o conseguiram.
Quando me viraram as costas, eu dei a cara.
Quando me deixaram sozinha, fiz companhia.
Quando quiseram matar-me, dei vida.
Quando quiseram fechar-me, procurei liberdade.
Quando me amavam sem amor, eu dei mais amor.
Quando quiseram calar-me, gritei.
Quando me golpearam, contestei.
Fui crucificada, morta e sepultada,
pela minha família e pela sociedade.
Nasci cem anos antes de ti
no entanto sou igual a ti.
Sou Teresa Wilms Montt,
e não sou apta para madames.
ALTA MAR
De tanta angustia que me roe, guardo un silencio que se unifica a la entraña del océano.
En la noche cuando los hombres duermen, mis ojos haciendo tríptico con el farol del palo mayor, velan con el fervor de un lampadario ante la inmensidad del universo.
El austro sopla trayendo a los muertos cuyas sombras húmedas de sal acarician mi cabellera desordenada.
Agonizando vivo y el mar está a mis pies y el firmamento coronando mis sienes.
ALTO MAR
De tanta angustia que me rói, guardo um silêncio que se unifica às entranhas do oceano.
De noite quando os homens dormem, os meus olhos fazendo tríptico com a luz do cajado, velam com o fervor de um candelabro ante a imensidão do universo.
O austro sopra trazendo os mortos cujas sombras húmidas de sal acariciam os meus cabelos desordenados.
Agonizando vivo e o mar está a meus pés e o firmamento coroando as minhas têmporas.
Maria Teresa Wilms Montt de las Mercedes
BELZEBUTH
Mi alma, celeste columna de humo, se eleva hacia
la bóveda azul.
Levantados en imploración mis brazos, forman la puerta
de alabastro de un templo.
Mis ojos extáticos, fijos en el misterio, son dos lámparas
de zafiro en cuyo fondo arde el amor divino.
Una sombra pasa eclipsando mi oración, es una sombra
de oro empenachado de llamas alocadas.
Sombra hermosa que sonríe oblicua, acariciando los sedosos
bucles de larga cabellera luminosa.
Es una sombra que mira con un mirar de abismo,
en cuyo borde se abren flores rojas de pecado.
Se llama Belzebuth, me lo ha susurrado en la cavidad
de la oreja, produciéndome calor y frío.
Se han helado mis labios.
Mi corazón se ha vuelto rojo de rubí y un ardor de fragua
me quema el pecho.
Belzebuth. Ha pasado Belzebuth, desviando mi oración
azul hacia la negrura aterciopelada de su alma rebelde.
Los pilares de mis brazos se han vuelto humanos, pierden
su forma vertical, extendiéndose con temblores de pasión.
Las lámparas de mis ojos destellan fulgores verdes encendidos
de amor, culpables y queriendo ofrecerse a Dios; siguen
ansiosos la sombra de oro envuelta en el torbellino refulgente
de fuego eterno.
Belzebuth, arcángel del mal, por qué turbar el alma
que se torna a Dios, el alma que había olvidado las fantásticas
bellezas del pecado original.
Belzebuth, mi novio, mi perdición…
Maria Teresa Wilms Montt de las Mercedes
BELZEBUTH
A minha alma, celeste coluna de fumo, eleva-se até
à abóbada azul.
Levantados, implorando, os meus braços, formam a porta
de alabastro de um templo.
Os meus olhos extáticos, fixos no mistério, são duas lâmpadas
de safira em cujo fundo arde o amor divino.
Uma sombra passa eclipsando a minha oração, é uma sombra
de ouro ornado de chamas impetuosas.
Sombra formosa que sorri oblíqua, acariciando os sedosos
caracóis dos enormes cabelos luminosos.
É uma sombra que observa com um olhar de abismo,
em cuja margem se abrem as flores rubras de pecado.
Chama-se Belzebuth, sussurrou-mo na cavidade
da orelha, produzindo-me calor e frio.
Gelaram-me os lábios.
O meu coração converteu-se rubro de rubi e um ardor de frágua
me queima o peito.
Belzebuth. Passou Belzebuth, desviando a minha oração
azul até à negrura delicada da sua alma rebelde.
Os pilares de meus braços converteram-se humanos, perdem
a sua forma vertical, estendendo-se com tremores de paixão.
As lâmpadas de meus olhos reluzem fulgores verdes acesos
de amor, culpados e devotos a Deus; seguem
ansiosos a sombra de ouro envolta no torvelinho refulgente
de fogo eterno.
Belzebuth, arcanjo do mal, porquê turvar a alma
que se volta para Deus, a alma que havia esquecido as fantásticas
belezas do pecado original.
Belzebuth, o meu noivo, a minha perdição…
Maria Teresa Wilms Montt de las Mercedes
María Teresa de las Mercedes Wilms Montt, seconda di otto sorelle, era nata nel 1893 a Viña del Mar (Cile) in una famiglia benestante.
María Teresa iniziò preso a ribellarsi ai genitori e a mostrare una certa insofferenza verso la vita borghese.
Fece molto scalpore la scelta di sposarsi, contro la volontà dei suoi genitori, con un funzionario di stato con il quale ebbe due figlie, Elisa e Sylvia Luz. La famiglia visse nella capitale cilena prima e ad Iquique poi, nel nord del paese.
In questa città María Teresa si immerse nella scrittura ed entrò in contatto con influenti artisti dell’epoca che la introdussero agli ideali femministi e anarchici a cui restò fedele per tutta la sua vita. Sempre in questo periodo iniziò a pubblicare alcuni scritti sotto pseudonimo. A causa delle sue amicizie e della relazione con il cugino del marito, venne richiamata a Santiago e fu reclusa in un convento. Disperata per la separazione dalle figlie, cadde in una profonda depressione e tentò il suicidio nel marzo del 1916.
Fu un suo celebre amico, lo scrittore Vincente Huidobro, ad aiutarla a fuggire dal monastero. I due andarono a Buenos Aires, dove iniziò a frequentare i circoli intellettuali femministi e pubblicò degli scritti in cui trattava di temi a lei cari, dalla spiritualità all’erotismo. Dopo qualche mese prese la decisione di trasferirsi a New York per lavorare come infermiera della Croce Rossa, ma la fortuna l’abbandono ancora una volta: venne scambiata per una spia tedesca e le fu impedito di mettere piede sul suolo statunitense.
Sconsolata, venne deportata in Spagna. Anche a Madrid, María Teresa entrò rapidamente in contatto con scrittori e artisti dell’epoca e continuò a scrivere con lo pseudonimo di Teresa de la Cruz. Nel circolo di intellettuali che frequentava c’era Julio Romero de Torres, un pittore di Córdoba che ne fece la sua musa ispiratrice, usandola più volte come soggetto dei suoi lavori.
Dopo un breve incontro con le figlie nel 1920, Teresa continuò la sua ricerca intellettuale e viaggiò spesso a Londra e Parigi, ma non riuscì mai a superare il dolore della separazione. Morì la vigilia di Natale del 1921 in un hotel di Parigi per una overdose di barbiturici.
Maria Teresa Wilms Montt de las Mercedes
Maria Teresa Wilms Montt de las Mercedes (Viña del Mar, Cile, 8 settembre 1893 – Parigi, Francia, 24 dicembre 1921) è stata una scrittrice, poeta e anarchica cilena. È considerata un’antesignana del femminismo-anarchico.
Femminista ed anarchica
Tra il 1912 e il 1915 risiede ad Iquique, una città allora in piena espansione. La gelosia del marito e il maschilismo imperante negli ambienti intellettuali la spingono verso una vita errabonda, ma comunque ricca e stimolante. Mantiene una stretta amicizia con artisti e intellettuali influenti, come il poeta Victor Domingo Silva. Pubblica i suoi primi testi con lo pseudonimo di Iquique Tebal o Tebal.
In questa fase incontra donne e sindacalisti del nascente movimento operaio e aderisce agli ideali femministi e anarchici, grazie all’influenza esercitata dalla spagnola femminista Zarraga Betlemme e del lavoro dell’attivista cileno Luis Emilio Recabarren. In questa fase è anche vicina agli ambienti della massoneria.
Tornata a Santiago, il marito scopre la sua relazione extraconiugale con Vicente Zañartu Balmaceda e spinge la sua famiglia per rinchiuderla in convento. Depressa per la situazione, Maria Teresa mette in atto il suo primo tentativo di suicidio il 29 marzo 1916.
Nel mese di giugno del 1916, Vicente Huidobro l’aiuta a fuggire dal convento e con lei ripara a Buenos Aires. Il suo soggiorno in questa città gli permette di incontrare un cosmopolita circolo intellettuale che avrà su di lei una grande influenza.
Nel 1917 pubblica Inquietudes Sentimentales e Los Tres Cantos. Emigrata a New York, vorrebbe lavorare per la Croce Rossa, ma le autorità statunitensi la bloccano ad Ellis Island perché sospettano possa essere una spia tedesca (la sua famiglia è di origine tedesca).
Attività intellettuali a Madrid e Parigi
Si trasferisce in seguito in Spagna, a Madrid, dove vive da bohèmien e incontra numerosi scrittori. Celandosi dietro lo pseudonimo di Teresa Cruz pubblica diverse sue opere: En la Quietud del Mármol e Mi destino es errar.
Nel 1920 si stabilisce a Parigi, dove in seguito viene raggiunta dalle sue figlie che non vedeva da cinque anni. Dopo la loro partenza per il Cile, Maria Teresa cade preda di una forte crisi depressiva.
La notte di Natale del 1921, muore suicida per overdose di Véronal. Aveva soli 28 anni.
Pierluigi Panza- La Scala- Architettura e città- Marsilio Arte-
Il libro La Scala di Pierluigi Panza ci restituisce il fascino e la complessità di un teatro che è uno dei centri culturali più importanti del mondo.
«La maggior parte degli amanti dell’opera rimane sorpresa quando vede il Teatro alla Scala per la prima volta. A prima vista si rimane colpiti dalla sua bellezza formale, dall’equilibrio tra una pretesa di opulenza (i drappeggi, le colonne, la cornice del palcoscenico, il palco centrale, il lampadario) e una certa sobrietà (gli stucchi, l’illuminazione, le parti dorate che non sembrano mai eccessive). Dopo pochi secondi, è impossibile non pensare agli artisti, ai compositori, ai coreografi, ai direttori d’orchestra, ai cantanti e ai ballerini che, sera dopo sera, hanno forgiato la leggenda del Teatro alla Scala». Dominique Meyer, Sovrintendente e Direttore Artistico del Teatro alla Scala.
Nel volume La Scala. Architettura e città, Pierluigi Panza racconta la storia architettonica del Teatro alla Scala, dalla nascita con Giuseppe Piermarini agli scenari attuali con Mario Botta a quelli futuri. Il teatro è sempre stato specchio delle trasformazioni della città, della società, del gusto e le ha, a sua volta, determinate. La pubblicazione, edita da Marsilio Arte, ripercorre la storia dell’edificio dai tempi di Maria Teresa d’Austria a quelli di Napoleone, poi del Regno d’Italia e della Repubblica. Rispetto per la storia e spirito di innovazione sono stati gli elementi dello sviluppo del teatro attraverso trasformazioni strutturali, tecniche ed estetiche che lo hanno mantenuto fedele alla propria identità, pur modernizzandosi e modellandosi ai riti e ai costumi dei tempi.
Nella prefazione, Dominique Meyer sottolinea il perfetto equilibrio tra sobrietà e opulenza, nonché l’efficienza tecnica di un luogo che ha contribuito a rendere Milano un raffinato e prestigioso polo artistico-culturale nel panorama europeo. Meyer instaura un parallelismo tra la società milanese, «più preoccupata del fare che dell’apparire», e la struttura architettonica dell’edificio.
Il volume, introdotto da Mario Botta, si articola in 11 capitoli, che ripercorrono più di tre secoli di storia: costruito nel 1776, il Teatro nasce a seguito di due distruzioni e due rifiuti. La prima distruzione fu accidentale – l’incendio del teatro che sorgeva all’interno di Palazzo Ducale (poi chiamato Palazzo Reale), la seconda fu voluta – la decisione di abbattere la chiesa di Santa Maria alla Scala. I rifiuti furono quelli di Luigi Vanvitelli e Christoph Willibald Gluck, i quali permisero l’arrivo alla corte di Milano, rispettivamente, di Giuseppe Piermarini (1734-1808) e Antonio Salieri (1750-1825).
Il racconto di Panza prende in esame le tappe fondamentali e le vicissitudini del Teatro, passando per l’epoca risorgimentale e romantica, il Novecento sino alla contemporaneità. Particolare attenzione è dedicata all’ultimo ventennio, caratterizzato da continue opere di ammodernamento, restauri e ampliamenti. Durante l’intervento di realizzazione del 2002 e 2004 Mario Botta ha realizzato i due nuovi volumi dell’ellisse e della torre scenica, mentre l’interno è stato oggetto di un restauro conservativo e del rifacimento del palcoscenico. Ora si sta concludendo la seconda fase dei lavori, con gli ammodernamenti che richiede la società globale e con l’apertura della nuova torre su via Verdi, all’interno della quale la Sala prove dell’orchestra è uno scrigno alto quattordici metri, posto a meno diciotto dal livello stradale.
Il volume è arricchito da un cospicuo corredo fotografico e didascalico, indispensabile per comprendere l’evoluzione di un edificio: schizzi, disegni, bozze di progetti, fotografie degli esterni e degli interni, rendering sono alcuni degli strumenti adoperati per rendere la pubblicazione un vero e proprio omaggio a quello che Stendhal definiva «il più bel teatro del mondo».
Pierluigi Panza, autore del volume pubblicato da Marsilio Arte e intitolato “La Scala. Architettura e città”, ripercorre insieme a noi la vicenda della celeberrima istituzione milanese-
Pur avendo alle spalle una storia secolare e alterne fortune, il Teatro alla Scala resta un emblema di Milano. A narrare il suo legame con la città e la sua veste architettonica è Pierluigi Panza, autore del libro targato Marsilio Arte. Gli abbiamo fatto qualche domanda.
Il Teatro alla Scala è da sempre un simbolo e una destinazione della vita culturale di Milano. Come descriverebbe, in poche righe, la storia delle sue trasformazioni?
Le trasformazioni del Teatro alla Scala seguono quelle politico-sociali e, a loro volta, si plasmano e determinano lo sviluppo urbano della città. Milano si riflette nella Scala e la Scala in Milano. L’episodio più evidente di questa relazione è la nascita, a metà Ottocento, di piazza della Scala per dare un adeguato spazio antistante al teatro e per far sì che i due poli del centro laico della città ‒ costituiti dal palazzo del Comune e dal teatro ‒ si affacciassero uno di fronte all’altro. Anche la scelta di ricostruire la Scala come primo edificio pubblico distrutto dai bombardamenti nel 1943 testimonia questo legame.
Il volume pubblicato da Marsilio Arte offre una “rivisitazione storico-morfologica della Scala”, come l’ha definita Mario Botta nell’introduzione. Che cosa l’ha ispirata a compiere questa impresa editoriale e come ha costruito la narrazione che la caratterizza?
Riassumo nella mia figura almeno due caratteristiche necessarie per realizzare questo volume: dal punto di vista accademico sono uno storico dell’architettura e per il Corriere della Sera seguo da trent’anni anche le attività del Teatro alla Scala. Dunque, quando si è avanzata l’opportunità di scrivere una storia della Scala a conclusione dei lavori condotti da Mario Botta, del quale sono anche amico, ero persona indicata e ho svolto il compito. Ho cercato, secondo le mie convinzioni, di scrivere una storia dell’architettura come correlazione e conseguenza della storia culturale e sociale, come credo che l’architettura sia sempre interpretabile e debba essere affrontata. In questo caso ho tenuto particolarmente conto che il testo fosse narrativo e non tecnico: l’architettura va raccontata come fatto culturale non in maniera autoreferenziale.
Quale ruolo gioca il Teatro alla Scala, dal punto di vista architettonico e non solo, nel panorama milanese odierno?
Dopo gli interventi che si sono susseguiti dal 2002, la Scala costituisce una risposta alle necessità di trasformazione richieste dalla società e dallo sviluppo tecnologico orientata al rispetto per la storia della città europea. Il teatro nasce su un’area religiosa sviluppata in età medioevale, conferisce il nuovo volto neoclassico della Milano teresiana, reca le tracce dei cambiamenti politici ottocenteschi che portano alla nascita dello Stato unitario quindi i travagli del “Secolo breve” fino alla postmodernità. Al contrario di altre aree del mondo nelle quali il globalismo finanziario opera, più facilmente, per demolizioni e sostituzioni, qui si tiene tutto. La città europea è un territorio della memoria e anche il teatro ha cercato di essere – non sempre riuscendoci nella sua storia – un palinsesto di stratificazioni successive. Noi parliamo spesso del teatro del Piermarini, ma dopo Giuseppe Piermarini sono stati molti gli architetti che hanno dato forma al teatro e voglio ricordarne, almeno, altri tre: Alessandro Sanquirico, Luigi Lorenzo Secchi e, appunto, Mario Botta.
Come immagina il futuro del Teatro alla Scala?
Il futuro è già partito. La sovrintendenza di Dominique Meyer ha colto le sollecitazioni che, di nuovo, venivano dalla società globale come quella della ecosostenibilità, della inclusività, della trasformazione digitale e della trasmissione in streaming. Nel Terzo millennio l’architettura non si confronta più solo con lo spazio fisico, ma anche con le componenti immateriali. Sarà questa la prospettiva che dovranno seguire anche i nuovi laboratori della Scala che si dovranno costruire nell’ex zona industriale di Rubattino. Questo sarà l’intervento del prossimo futuro che riguarderà il teatro.
Intervista a cura di Arianna Testino
Nota Biografica Pierluigi Panza, scrittore, giornalista e critico d’arte e d’architettura, scrive per il Corriere della Sera e insegna al Politecnico di Milano. Ha all’attivo molte pubblicazioni di storia dell’arte, è membro delle principali accademie italiane e vincitore di numerosi riconoscimenti.
La Leggenda della Fondazione-La Scuola Medica Salernitana è considerata la più antica ed importante Istituzione medica medioevale dell’Occidente per l’insegnamento e l’esercizio della Medicina, che ha innovato profondamente nei principi, staccandoli dagli influssi religiosi. Ha unito i principi della scienza medica dell’Occidente e dell’Oriente; ha accolto le donne, sia come studenti che come docenti; ha teorizzato che le malattie si possono prevenire, mantenendo in salute il corpo, attraverso l’adozione di precise regole igieniche, di una corretta dieta alimentare ed un sano regime di vita. Molto probabilmente è nata nel IX secolo ed ha avuto il massimo splendore nei secoli XI-XIII, diventando famosa in tutta l’Europa.
SCUOL A MEDICA SALERNITANA-
Da molti studiosi è considerata la prima vera Università, che ha formato molte generazioni di medici, famosi in tutta l’Europa fino al XIV secolo,quando,lentamente, inizia la sua decadenza.
Esiste la seguente Leggenda sulla fondazione della Scuola Medica Salernitana:
Un pellegrino greco, di nome Pontus (o Areteo), proveniente da Alessandria d’Egitto,dove ha perso tutti i suoi familiari, arriva a Salerno e si rifugia per la notte sotto gli archi dell’antico acquedotto dell’Arce. Essendo scoppiato un temporale, si ripara nello stesso luogo un altro viandante:è il latino Salernus (o Antonio), che è ferito ad un braccio. Il greco Pontus gli si avvicina per osservare come sta medicando la sua ferita. Intanto arrivano altri due viandanti, l’ebreo Helinus (o Isacco), che viene da Betania, e l’arabo Abdela (o Abdul) originario di Aleppo (Siria), che sono amici. Anche costoro si interessano alle medicazioni della ferita che sta praticando Salernus, al quale tutti cercano di dare dei consigli. Così,,i quattro scoprono che tutti praticano l’arte della Medicina. Diventano amici e decidono di creare un sodalizio, costituendo una Scuola (Schola) Medica per mettere in comune e divulgare le loro specifiche conoscenze sanitarie, allo scopo di curare e guarire i malati.
Altre Leggende
Oltre alla Leggenda della Fondazione, ci sono altre leggende che attestano la bravura dei Medici della Scuola. Vediamone alcune.
Leggenda del Povero Enrico
Una delle leggende più celebri è la cosiddetta Leggenda del Povero Enrico, tramandata dai menestrelli tedeschi medievali e riscoperta nell’Ottocento.
Secondo la leggenda,il Principe Enrico di Germania, un giovane splendido e forte, fidanzato con la giovane Principessa Elsie, è colpito dalla lebbra e comincia a deperire rapidamente, tanto che i sudditi, vedendolo ormai destinato a morte certa, lo ribattezzano “il Povero Enrico”. Il Principe, una notte sogno il diavolo che gli suggerisce di andare a farsi curare dai medici salernitani,ma gli dice anche che sarebbe guarito solo se avesse fatto un bagno nel sangue di una giovane vergine,che fosse morta volontariamente per lui. La Principessa Elsie si offre immediatamente per il sacrificio, ma Enrico lo rifiuta, preferendo ascoltare il parere dei medici salernitani. Pertanto,Enrico, con la sua Corte,va a Salerno. Però, prima di andare alla Scuola Medica, si reca nella Cattedrale per pregare sulla tomba di S. Matteo, dove ha una visione mistica e miracolosamente guarisce. Sposa quindi Elsie sull’altare di S. Matteo.
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Leggenda di Roberto e Sibilla
Molto nota è anche la Leggenda di Roberto di Normandia e di Sibilla da Conversano.
Il Re Roberto di Normandia, durante la Crociata, è colpito da una freccia avvelenata e le sue condizioni appaiono subito gravi. Pertanto, decide di ritornare in Inghilterra. Durante il viaggio,si ferma a Salerno per consultare i Medici della Scuola, i quali gli dicono che l’unico modo per salvare la vita è quello di succhiargli via il veleno dalla ferita, ma colui che l’avrebbe fatto sarebbe morto. Roberto rifiuta l’intervento di tutti, preferendo morire, ma durante la notte sua moglie Sibilla da Conversano gli succhia il veleno e poi muore.
Questa leggenda è raffigurata in una miniatura sul frontespizio del Canone di Avicenna, in cui si vede Roberto con la sua Corte che, alle porte della città di Salerno, saluta e ringrazia i medici, mentre sullo sfondo le navi stanno partendo;sulla sinistra, altri quattro medici si occupano della Regina Sibilla,riconoscibile dalla Corona sulla testa, che è avvizzita dal veleno.
LA STORIA
Nella storia della Scuola Medica si distinguono tre periodi:
IX-X secolo: le origini, di cui si hanno scarse notizie;
XI-XIII secolo: il massimo splendore;
XIV-XVI secolo: la decadenza
Primo Periodo: IX-X secolo (le origini)
Le origini della ScuolaMedica sembra che risalgano al IX secolo, ma di questo periodo esiste una scarsa documentazione. In particolare, si sa poco della natura, laica o monastica, dei medici che ne fanno parte e non è certo che la Scuola avesse già un’organizzazione.
Nel X° secolo, Salerno è una città molto famosa,non solo per il suo clima salubre, ma anche per la bravura dei suoi medici. Di essi si racconta che «erano privi di cultura letteraria, ma erano forniti di grande esperienza e di un talento innato». Infatti in questo periodo la natura degli insegnamenti medici è essenzialmente pratica e le nozioni sono tramandate oralmente.
Secondo periodo: XI-XIII secolo (il massimo splendore)
Nel XI secolo,la fama della Scuola Medica si diffonde in tutta l’Europa.
La posizione geografica di Salerno ha avuto sicuramente un ruolo molto importante nella diffusione della fama della Scuola Medica. Infatti, la città, con il suo porto ubicato al centro del Mediterraneo, subisce e rielabora gli influssi della cultura greco-bizantina ed araba.
Attraverso il commercio marittimo, arrivano i libri di scienza sanitaria di Avicenna ed Averroè.
A Salerno arriva anche il medico cartaginese Costantino l’Africano che vi si ferma per diversi anni e traduce in latino dal greco e dall’arabo molti testi di Medicina: gli Aphorisma e i Prognostica di Ippocrate; i Tegni ed i Megategni di Galeno; il Kitāb-al-malikī (ossia Liber Regius, o Pantegni) di Ali ibn Abbas (Haliy Abbas); il Viaticum di Al- Jazzar; il Liber divisionum e il Liber experimentorum di Rhazes (Razī); il Liber dietorum, il Liber urinarium e il Liber febrium di Isacco da Toledo.
Si riscoprono così le opere classiche di Medicina, conservate nei monasteri, ma dimenticate.
In questo periodo, la ScuolaMedica di Salerno si sviluppa fino a raggiungere il massimo splendore tra il XII ed il XIII secolo:la città ottiene il titolo di Hippocratica Civitas (Città di Ippocrate), di cui ancora oggi si fregia.
Giungono alla Schola Salerni persone provenienti da tutta Europa, sia malati che sperano di essere guariti, sia studenti che vogliono apprendere l’arte della Medicina. Il prestigio dei medici di Salerno è ampiamente testimoniato dalle cronache dell’epoca e dai numerosi manoscritti conservati nelle maggiori biblioteche europee.
Nel 1231 l’Imperatore Federico II sancisce ufficialmente il prestigio della Scuola Medica Salernitana, attraverso la Costituzione di Melfi, nella quale si stabilisce che la professione di medico può essere esercita solo da persone che hanno conseguito il diploma rilasciato dalla Schola Salerni.
Terzo periodo: XIV-XIX secolo (la decadenza)
Con la costituzione e lo sviluppo dell’Università di Napoli, la ScuolaMedica Salernitana incomincia a perdere la sua importanza. Con il passare del tempo, infatti, il suo prestigio è lentamente oscurato da quello delle nuove Università, in particolare Montpellier in Francia,Padova e Bologna in Italia. Comunque, la Schola Salerni rimane attiva ancora per alcuni secoli fino alla soppressione, il 29 novembre 1811, da parte del Re Gioacchino Murat, in occasione della riorganizzazione dell’Istruzione pubblica nel Regno di Napoli. Però, le “Cattedre di Medicina e Diritto” della Scuola Medica Salernitana continuano ad essere operative ,nel “Convitto nazionale Tasso” di Salerno, ancora per un cinquantennio, fino alla loro soppressione definitiva nel 1861,da parte Ministro dell’Istruzione del Regno d’Italia,Francesco De Sanctis.
I PRINCIPI INNOVATIVI
IL SINCRETISMO
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Uno dei Principi fondamentali della Scuola Medica Salernitana è il sincretismo, ricordato nella Leggenda della fondazione da parte dei quattro medici. Infatti, le basi teoriche della Scuola si fondano sul “sistema degli umori” elaborato da Ippocrate e da Galeno, ma la tradizione medica greco-latina è completata dalle nozioni provenienti dalle culture ebraica ed araba. La Scuola Ha quindi unito i principi della scienza medica dell’Occidente e dell’Oriente.
La posizione geografica di Salerno ha avuto sicuramente un ruolo molto importante nella diffusione della fama della Scuola. Infatti, la città, con il suo porto ubicato al centro del Mediterraneo, subisce e rielabora gli influssi della cultura greco-bizantina ed araba. Attraverso il commercio marittimo, arrivano a Salerno i libri di Medicina di Avicenna ed Averroè.
IL LAICISMO
Un altro principio importante praticato nella Scuola è il laicismo. Infatti, fino ad allora,la pratica e l’insegnamento della Medicina è appannaggio dei Monaci e degli Ecclesiastici, che ne tramandano oralmente l’insegnamento. Inoltre, gli influssi religiosi sono molto forti, tanto da ritenere che sia inutile “curare il corpo”,dato che la salvezza riguarda solo l’anima. Pertanto, si accetta passivamente la morte, come manifestazione del destino dell’uomo e della volontà divina.
La Scuola Medica Salernitana, invece, innova profondamente i principi dell’insegnamento della Medicina,staccandoli dagli influssi religiosi. In particolare, elabora la teoria che le malattie possono e devono essere curate e che,addirittura, si possono prevenire, cercando di mantenere la salute del corpo, attraverso l’adozione di precise regole igieniche,di una corretta dieta alimentare ed un sano regime di vita.
La Scuola, in questo modo, dà origine alla cultura della Prevenzione delle malattie, che pertanto non devono essere più accettate passivamente.
La Scuola, inoltre, elabora concetti vicini alla moderna psicosomatica, consigliando,oltre al buon mangiare, anche il riposo e l’allegria. La “cura del corpo”è quindi fondamentale per il benessere fisico. Con il tempo, questi nuovi insegnamenti, considerati rivoluzionari ed in parte eretici, si affermano sempre di più, tanto che il Concilio di Reims proibisce ai religiosi l’esercizio della Medicina.
L’ACCOGLIENZA DELLE DONNE COME STUDENTI E COME DOCENTI
Altra importante innovazione della ScuolaMedica Salernitana,è l’accettazione delle donne ,sia come studenti che come docenti. Pertanto, è di particolare importanza, dal punto di vista culturale,il ruolo svolto dalle donne sia nell’esercizio che nell’insegnamento della Medicina, in cui hanno introdotto molte innovazioni, soprattutto nella Ostetricia.
Le donne che operano ed insegnano nella Scuola sono conosciute con l’appellativo di Mulieres Salernitanae, le più famose delle quali sono Trotula de Ruggiero, vissuta nell’XI secolo,Abella Salernitana, Rebecca Guarna, Costanza Calenda e Maria Incarnata, vissute nel XIV secolo.
In particolare, Trotula de Ruggero diventa una famosa ostetrica e scrive il De mulierum passionibus in, ante e post partum, in cui elabora importanti principi di Ostetricia e dà istruzioni per le partorienti. Scrive anche un famoso Trattato di cosmesi De ornatu mulierum. Trotula fa parte di una famiglia di medici famosi. Infatti sono importanti esponenti della Scuola sia suo marito, Giovanni Plateario,che i due figli Giovanni Plateario il Giovane e Matteo Plateario. In particolare, quest’ultimo,nel suo Trattato di fitoterapia De medicinis simplicibus, descrive oltre 500 piante, classificate in base alle loro proprietà medicamentose,ed informa sulla sofisticazione dei prodotti medicinali.
L’IMPORTANZA DELLA PRATICA
La Scuola Medica Salernitana, rappresenta inoltre un momento fondamentale nella storia della Medicina anche per le innovazioni che introduce nella metodica medica, che si basa fondamentalmente sulla Pratica e sull’esperienza maturata nella quotidiana attività di assistenza ai malati.
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LO SVILUPPO DELLA FARMACOLOGIA
La Scuola, inoltre, con la traduzione dei testi arabi di Medicina,elabora una vasta cultura fitoterapica, sulle proprietà curative delle erbe, che porta allo sviluppo della Farmacologia,cioè l’arte di preparare i rimedi (medicamenti)per la cura delle malattie.
LO SVILUPPO DELLA CHIRURGIA
Nella ScuolaMedica Salernitana si sviluppa fin dal XII secolo una nuova pratica sanitaria: la Chirurgia, che per la prima volta, si eleva alla dignità di una vera e propria Scienza Medica.
Ruggero Frugardo scrive nel XIII secolo il primo Trattato di Chirurgia, che si diffonde rapidamente in tutta l’Europa.I suoi insegnamenti sono raccolti dal suo discepolo Guido d’Arezzo nel Trattato Chirurgia Magistri Rogerii, che è il testo ufficiale di Chirurgia fino alla fine del XIV secolo.
Nel settore della Chirurgia , ricordiamo anche Giovanni da Casamicciola, che inventa una particolare tecnica per la legatura dei vasi sanguigni,con un filo di seta.
Per apprendere le tecniche chirurgiche, arrivano a Salerno molti studenti stranieri, specialmente tedeschi.
LO SVILUPPO DELL’OCULISTICA
La Schola Salerni sviluppa anche l’Oculistica. Al riguardo, ricordiamo Benvenuto Grafeo che scrive il Trattato De arte probatissima oculorum, che ha una notevole diffusione in Europa.
IL CORSO DI STUDI
Il Corso di Studi (Curriculum studiorum) della Scuola Medica Salernitana è ben strutturato, per far apprendere allo studente sia i principi dell’Arte Sanitaria che la necessaria esperienza pratica per poter curare efficacemente le diverse malattie. Infatti, il Corso di Studi è costituito da:
3 anni di Logica;
5 anni di Medicina (studio dei Trattati, dell’Anatomia, con dissezione di cadaveri per studiare gli organi, esercitazioni pratiche );
Esame finale con il Maestro del Corso e con un Collegio di medici (l’Almo Collegio) che rilascia un attestato (Privilegio Dottorale), che deve essere convalidato dal Re.
Un anno di pratica presso un medico anziano, necessario per esercitare la professione.
Nella Scuola, oltre all’insegnamento della Medicina si tengono anche corsi di Filosofia,Teologia e Giurisprudenza . Per questo motivo, la Scuola è considerata da molti storici come la Prima Vera Università, anche se non è stata mai chiamata
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“Università”.
LE MATERIE DI INSEGNAMENTO
Le materie di insegnamento nella Scuola Medica Salernitana ci sono note attraverso lo Statuto.
L’insegnamento della Medicina allora si distingue in Teoria e Pratica. La prima serve per far conoscere l’anatomia del corpo, con i vari organi e le loro funzioni. La seconda, invece, serve per apprendere le tecniche per curare le malattie e per conservare la salute.
Anche nella ScuolaMedica Salernitana si seguono, nell’insegnamento, i principi di Ippocrate e di Galeno. Le lezioni consistono essenzialmente nell’interpretazione dei loro testi.
Riguardo alla Filosofia, si insegnano i principi di Aristotele.
L’ALMO COLLEGIO MEDICO SALERNITANO
Il Collegio Medico è un Corpo accademico indipendente della Scuola, che deve sottoporre gli studenti, che hanno compiuto i prescritti anni di studio, a un rigoroso esame,necessario non solo per ottenere il “Dottorato” (la Laurea) per poter esercitare la professione medica, ma anche per poter insegnare.
Il primo provvedimento legislativo che convalida le prerogative del Collegio Medico,diretto da un Priore (Prior), dando il riconoscimento giuridico ai titoli accademici da esso rilasciati, è emanato dall’Imperatore Federico II nella Costituzione, emanata a Melfi nel 1231.
La cerimonia per il conferimento della Laurea (Privilegio Dottorale) si svolge in origine nella Chiesa di S. Pietro a Corte ed in seguito in quella di S. Matteo e nella Cappella di S. Caterina.
Il giuramento che deve prestare il neo laureato è rappresentativo dell’alta concezione morale della funzione del medico: infatti, da un lato giura di aiutare il malato povero, senza chiedere nulla, e contemporaneamente giura davanti a Dio e agli uomini di vivere onestamente e di conservare una severità di costumi. Invece, per poter esercitare la Farmacia, cioè l’arte di preparare i rimedi (medicamenti),si richiedono qualità morali molto elevate, onestà e illibatezza di costumi. Alla Scuola spetta quindi il grande merito di aver stabilito per la prima volta le norme che il Medico deve seguire nella cura del malato,da cui si evince la grande importanza che essi attribuivano alla “missione” del medico o del farmacista.
L’autenticità del Diploma di Laurea (Privilegio Dottorale),rilasciato dall’Almo Collegio Medico di Salerno, è attestata dal Notaio ed ha valore dovunque il laureato si presenta per esercitare la professione. Nei Privilegi Dottorali non solo è segnata la data in cui si è sostenuto l’esame, ma anche l’anno del Pontificato del Papa dato che il calendario civile varia secondo i diversi Stati.
I Diplomi inoltre hanno il sigillo in ceralacca dell’Almo Collegio Medico, di forma circolare, con al centro lo stemma della città di Salerno,rappresentato dal Patrono S. Matteo nell’atto di scrivere il Vangelo.
L’ORGANIZZAZIONE DELLA SCUOLA
Fino al Medioevo, l’insegnamento della Medicina è esercitato da singoli Medici, molti dei quali sono avviati all’Ars medica per tradizione di famiglia.
La Scuola Medica Salernitana, invece, all’inizio dell’XI secolo, è un Istituto con una propria organizzazione,costituita da Docenti con particolari meriti,di cui è responsabile il Praeses ( Preside), che è una figura diversa dal Prior (Priore), che è invece la suprema dignità dell’Almo Collegio, sorto più tardi, e che è eletto per merito oltre che per anzianità.
Nella Scuola Medica Salernitana si distinguono il medicus e il medicus et clericus , che segnano due periodi distinti della Schola Salerni.
Il medicus è il titolo attribuito alle origini della Scuola, in cui l’arte medica è basata essenzialmente sull’empirismo ed il medico ricorre a espedienti pratici per curare il malato.
Il medicus et clericus, invece, conosce profondamente la Medicina perchè ha studiato sui Trattati,scritti da eminenti scienziati, e perciò è un “dotto”.
LE SEDI DELLA SCUOLA
La ScholaSalerni ha avuto varie sedi, anche se al riguardo le notizie non sono suffragate da riscontri documentari. Le sedi d’insegnamento, in ordine cronologico e spesso in contemporaneità tra di loro, sono state: la Reggia di Arechi II o le sue adiacenze; la Cappella superiore e inferiore di S. Caterina; l’atrio e la scalinata marmorea del Duomo.
A causa dell’inagibilità della Cappella di S. Caterina, la sede della Scuola è diventata il Palazzo della Pretura, in via Trotula de Ruggiero. L’ultima sede della Scuola è stato invece l’ex Seminario Arcivescovile,nel Palazzo Copeta.
I DOCENTI DELLA SCUOLA
La Scuola Medica Salernitana ha avuto numerosi importanti docenti. Nell’XI secolo,nel suo periodo aureo, c’è Garioponto, di origine longobarda (forse era monaco), la cui opera più famosa è il Passionarius, un Trattato in 5 volumi ( con un appendice di altri 3 libri sulla febbre),in cui descrive le varie malattie, indicandone la cura. Garioponto è anche famoso per il fatto che, nel tradurre in latino i concetti medici formulati nella lingua greca, ha coniato dei termini che ancora oggi sono usati in Medicina come cauterizzare, cicatrizzare,polverizzare, gargarizzare.
Contemporanea di Garioponto,alla metà dell’XI secolo, c’è la la famosa donna medico Trotula de Ruggiero,che diventa Docente della Scuola e scrive il De mulierum passionibus in,ante e post partum, in cui elabora importanti principi di Ostetricia. Scrive anche un famoso Trattato di cosmesi De ornatu mulierum.
Nell’XI secolo c’è Alfano, I’Arcivescovo benedettino, di nobili origini longobarde, che scrive due importanti Trattati: De quattuor umoribus e De pulsibus.
Ricordiamo anche Romualdo di Guarna, un prelato, che è chiamato due volte al capezzale del Re di Sicilia Guglielmo I.
Nello stesso periodo, c’è il famoso medico cartaginese Costantino l’Africano, che traduce in latino molti Trattati di medicina in lingua greca ed araba.
Nella seconda metà del XII secolo, si distinguono: Maestro Salerno e Matteo Plateario junior . Maestro Salerno, nelle sue Tabulae Salernitanae e ne Il Compendium ( che forma con le Tabulae un Trattato di Terapia generale e di preparazione dei farmaci) classifica i rimedi (detti “semplici”) secondo le loro proprietà curative.
Matteo Plateario junior (uno dei figli di Trotula de Ruggiero e di Giovanni Plateario- anch’egli famoso medico-), nel suo Trattato di fitoterapia De medicinis simplicibus descrive oltre 500 piante, classificate in base alle loro proprietà medicamentose,ed informa sulla sofisticazione dei prodotti medicinali.
Nel XII secolo, ricordiamo anche Niccolò Salernitano, a cui si deve lo sviluppo della Farmacopea, con il suo Trattato Antidotarium, che l’Imperatore Federico II diffonde in tutta l’Europa.
Nel XIII secolo, ricordiamo Ruggero Frugardo, che è considerato il fondatore della moderna Chirurgia. I suoi insegnamenti sono raccolti dal suo discepolo Guido d’Arezzo nel Trattato Chirurgia Magistri Rogerii, che è il testo ufficiale di Chirurgia fino alla fine del XIV secolo.
Alcuni famosi medici salernitani partecipano ad operazioni belliche. Al riguardo, ricordiamo Bartolomeo da Vallona e Filippo Fundacario, che nel 1299 prestano servizio in Sicilia,nell’Esercito di Roberto d’Angiò, Duca di Calabria.
Alla fine del XIV secolo, opera il famoso medico Antonio Solimena, molto stimato dalla Regina di Napoli Giovanna II,e che è nominato Maestro Razionale della Magna Curia.
Purtroppo, molte opere scientifiche dei Maestri Salernitani sono andate perdute.
LA REGOLA SANITARIA SALERNITANA
I precetti della Scuola Medica Salernitana sono elencati nel Flos Medicinae Salerni, meglio noto come Regola Sanitaria Salernitana (Regimen Sanitatis Salernitanum), chiamato anche Lilium Medicinae.
La Regola è stata scritta in versi latini, probabilmente nei secoli XI-XII e quasi certamente è il risultato di un “lavoro collettivo”. E’ dedicato ad un “Re Britanno”( di Inghilterra) non meglio individuato.
Della Regola esistono numerose redazioni, anche molto diverse nel contenuto. In origine, i versi latini erano 363, ma in seguito ne sono stati aggiunti altri.
Il primo Capitolo della Regola è dedicato ai “rimedi generali” (De remediis generalibus), tra i quali ricordiamo l’opportunità, per la salute del corpo,di scacciare l’ira, di fare una cena frugale, di alzarsi dopo il pasto per fare del movimento e di non trattenere l’orina.
Nei successivi Capitoli, si danno suggerimenti per mantenere viva la mente, sul sonno ( da evitare, possibilmente, nel pomeriggio), sulla cena (che deve essere possibilmente “parca” e si deve fare solo se si è digerito il cibo mangiato in precedenza).
Altri Capitoli sono dedicati ai cibi, sia quelli “nutrienti” (buoni) per il corpo, sia quelli che devono essere evitati.Tra gli alimenti, il pane deve essere “ben cotto” e con “poco sale”.Riguardo alle carni, sono da preferire quelle di vitello, che “assai nutrisce”, di gallina e di volatili (tortora, storno,quaglia, merlo, pernice…) mentre quella di maiale deve essere bevuta con il vino affinché sia più facilmente digeribile. Anche il formaggio deve essere mangiato insieme con il vino. Ottimi alimenti sono il cervello di gallina e la lingua di mucca e l’uovo deve essere “fresco”.
Riguardo alle bevande, il vino non si deve bere bere in eccesso, con preferenza per quello rosso, la birra deve essere “fermentata bene”, “ben chiara” e si deve bere con sobrietà e l’acqua deve essere bevuta frequentemente mentre si mangia. E’ da evitare l’aceto.
Riguardo ai pesci, sono da preferire quelli “molli” e le anguille vanno mangiate insieme con abbondante vino.
Alcuni Capitoli sono dedicati ai vari tipi di latte ( di mucca, di capra, di giumenta, di cammella, ognuno con proprie proprietà medicamentose), al burro, al formaggio ( che è un’ottima vivanda , insieme con il pane, ma per coloro che hanno buona salute).
Altri Capitoli riguardano le proprietà dei vari tipi di frutta: la pera ( quella cotta fa bene allo stomaco), la ciliegia (che fa “ottimo sangue”), la prugna,la pesche,l’uva, i fichi,le nespole.
La Regola stabilisce anche le proprietà curative di molti tipi di verdure. Ad esempio,le rape fanno bene allo stomaco ed ai reni, l’anice e la menta fanno bene allo stomaco,il cavolo e la malva sono depurativi, la ruta fa bene agli occhi,la salvia e le cipolle hanno vari effetti salutari.
La Regola attribuisce molta importanza alla dieta (distribuendo i vari pasti durante la giornata e mangiando “cose buone”), tanto da essere considerata la “metà del medicar”. Ha quindi una chiara funzione nella prevenzione delle malattie.
Un Capitolo è dedicato ai rimedi contro i veleni (Contra venenum).
La Regola detta anche prescrizioni igieniche, come il lavarsi le mani, sia prima che dopo i pasti. Stabilisce anche dei rimedi per il miglioramento della vista e della voce roca, contro il mal di denti, i reumatismi, il mal di testa e per guarire le fistole.
Altri Capitoli sono dedicati all’esame delle ossa ( sono 200), dei denti ( sono 32) e delle vene ( sono 65) ed ai quattro “umori del corpo”(sangue, collera, flemma e atrabile) ed anche all’analisi dei caratteri umani (sanguigni,biliosi, flemmatici,ipocondriaci.
Alcuni capitoli riguardano le terapie, come il salasso ( che non deve essere fatto prima di 17 anni di età), di cui si stabiliscono le modalità ed i periodi migliori in cui effettuarlo (in primavera ed in estate si deve fare nella vena destra, mentre in autunno ed inverno nella vena sinistra) nonché gli effetti benefici sulla salute, con particolare riguardo al cuore (meglio se fatto in primavera), al fegato (meglio in estate),alle gambe (meglio in autunno) ed alla testa (meglio in inverno).
Poesie di Joy Harjo,Poetessa della nazione Mvskoke/Creek-Poesie tradotte da Pina Piccolo
Joy Harjo
Joy Harjoè nata a Tulsa, in Oklahoma nel 1951 e fa parte della nazione Mvskoke/Creek. E’ fra le più importanti voci della poesia contemporanea statunitense e ha ricevuto numerosi premi a livello nazionale. Nel giugno del 2019 ha ricevuto l’incarico di Poet Laureate nazionale degli USA, cioè ambasciatrice per la Poesia. Le poesie tradotte, con l’originale a fronte, sono tratte dall’antologia Not in Our Name: poeti statunitensi contro la guerra, Libro Aperte Edizioni, 2013, per gentile concessione dell’autrice.
Poesie di Joy Harjo (trad. Pina Piccolo)Joy HarjoPoesie di Joy Harjo (trad. Pina Piccolo)Poesie di Joy Harjo (trad. Pina Piccolo)Poesie di Joy Harjo (trad. Pina Piccolo)Poesie di Joy Harjo (trad. Pina Piccolo)
Breve Biografia-Joy Harjoè nata a Tulsa, in Oklahoma nel 1951 e fa parte della nazione Mvskoke/Creek. E’ fra le più importanti voci della poesia contemporanea statunitense e ha ricevuto numerosi premi a livello nazionale. Nel giugno del 2019 ha ricevuto l’incarico di Poet Laureate nazionale degli USA, cioè ambasciatrice per la Poesia. Le sue raccolte di poesia comprendono Conflict Resolution for Holy Beings (W. W. Norton, 2015); How We Became Human: New and Selected Poems (W. W. Norton, 2002); A Map to the Next World: Poems (W. W. Norton, 2000); The Woman Who Fell From the Sky (W. W. Norton, 1994) In Mad Love and War (Wesleyan University Press, 1990); Secrets from the Center of the World(University of Arizona Press, 1989); She Had Some Horses (Thunder’s Mouth Press, 1983); and What Moon Drove Me to This? (Reed Books, 1979). Ha anche scritto un libro di memorie, Crazy Brave (W. W. Norton, 2012), che descrive il suo percorso nel divenire poeta e che nel 2013 ha vinto il premio letterario PEN Center USA per la narrativa creativa nonfiction. E’ anche performer, è apparsa nel canale HBO nella serie Def Poetry Jam e in spazi statunitensi e internazionali. Suona il sassofono con la sua band Poetic Justice e ha lanciato 4 CD di musica originale. nel 2009 ha vinto il Native American Music Award (NAMMY) come migliore artista femminile.
Le poesie tradotte, con l’originale a fronte, sono tratte dall’antologia Not in Our Name: poeti statunitensi contro la guerra, Libro Aperte Edizioni, 2013, per gentile concessione dell’autrice.
Pina Piccolo -traduttrice e scrittrice –
Pina Piccolo è una traduttrice, scrittrice e promotrice culturale che per la sua storia personale di emigrazioni e di lunghi periodi trascorsi in California e in Italia scrive sia in inglese che in italiano. Suoi lavori sono presenti in entrambe le lingue sia in riviste digitali che cartacee e in antologie. La sua raccolta di poesie “I canti dell’Interregno” è stata pubblicata nel 2018 da Lebeg. È direttrice della rivista digitale transnazionale The Dreaming Machine e una delle co-fondatrici e redattrici de La Macchina Sognante, per la quale è la cosiddetta macchinista -madre con funzioni di coordinamento. Potete trovare il suo blog personale digitando http://www.pinapiccolosblog.com
Franco Leggeri Fotoreportage-Murales Ospedale Spallanzani di Roma-
9) Carlo Forlanini-Medico- Inventore del pneumotorace artificiale –
Premessa-Franco Leggeri Fotoreportage- Murales Ospedale Spallanzani di Roma- 9) Carlo Forlanini- Medico ha inventato lo pneumotorace artificiale che ha guarito tanti tubercolotici–Roma -Portuense-Vigna Pia e Dintorni–Questo reportage, come quelli a seguire, vuole essere un viaggio che documenta e racconta la storia di un quartiere di Roma: Portuense-Vigna Pia e i suoi Dintorni con scatti fotografici che puntano a fermare il tempo in una città in continuo movimento. Non è facile scrivere, con le immagini di una fotocamera, la storia di un quartiere per scoprire chi lascia tracce e messaggi. Ci sono :Graffiti, Murales, Saracinesche dipinte, Vetrine eleganti che sanno generare la curiosità dei passanti ,il Mercatino dell’usato, il Mercato coperto, le Scuole, la Parrocchia, il Museo, la Tintoria storica della Signora Pina, La scuola di Cinema, la scuola di Musica, Palestre , il Bistrò oltre i Bar , Ristoranti e Pizzerie e ancora Parrucchieri e specialisti per la cura della persona , Artigiani e per finire, ma non ultimo, il Fotografo “Rinaldino” . Il mio intento è di presentare un “racconto fotografico” che ognuno può interpretare e declinare con i suoi ”Amarcord” come ad esempio il rivivere “le bevute alla fontanella”, sita all’incrocio di Vigna Pia-Via Paladini, dopo una partita di calcio tra bambini oppure ricordando i “gavettoni di fine anno scolastico; oppure vedendo il tronco della palma tagliato ma ancora al suo posto, poter ricordare, con non poca tristezza, la bellezza “antica” di Viale di Vigna Pia.
Roma lungo via Folchi ,dall’inizio di via Portuense, si trovano i Murales che raffigurano gli scienziati che hanno combattuto e vinto le battaglie contro le malattie infettive. Eroi veri ma dimenticati su questo muro di cinta – I Murales ora rischiano il degrado e la “polverizzazione” dell’intonaco. Il muro di cinta costeggia l’Ospedale “Lazzaro Spallanzani” e fa da “sostegno” e “tela” è un muro di cinta di 270 metri, lungo il quale, dal mese di aprile del 2018 sono immortalati 13 volti di scienziati che hanno scritto la storia della ricerca sulle malattie infettive. Un progetto dei Murales è finalizzato a celebrare gli 80 anni della struttura ospedaliera, iniziato a febbraio – e inaugurato il 3 maggio – grazie alla collaborazione fra la Direzione dello Spallanzani e l’Associazione Graffiti Zero, associazione che promuove l’integrazione fra la Street Art e i luoghi che la ospitano. Unica pecca, peccato grave, non vi è immortalata nessuna donna.
Franco Leggeri Fotoreportage-Murales Ospedale Spallanzani di Roma – Carlo Forlanini
Verranno pubblicati le foto dei Murales di tutti i 13 scienziati , uno alla volta, questo al fine di poter evidenziare la biografia e la loro Opera in maniera più completa possibile. Le biografie pubblicate a corredo delle foto sono prese da
Carlo Forlanini, l’uomo che curò la tubercolosi
Franco Leggeri Fotoreportage- Ospedale Carlo Forlanini di Roma
A Roma il Forlanini è un grande complesso ospedaliero che tutti conoscono ed usano come punto di riferimento, come il Colosseo, o il McDonald’s di Piazza di Spagna: se cerchi una via tra Piazzale della Radio e la Portuense, ti diranno di costeggiare il Forlanini tre romani su tre. Ma chi era Forlanini, Carlo Forlanini? La cosa è meno nota. Carlo Forlanini, medico milanese vissuto a cavallo tra otto e novecento, è colui che grazie ad una invenzione, lo pneumotorace artificiale, ha contribuito alla cura della tubercolosi. Una invenzione. Si immagina che gli inventori siano gente stravagante, chiusa in laboratori improvvisati, almeno così l’iconografia del fumetto e del cinema ci ha abituato a ritrarli, ma è una immagine che va rivista, almeno in questo caso. Tutta la famiglia Forlanini era dotata di talento inventivo, non solo Carlo. Il fratello Enrico, che fu pioniere dell’aviazione, per esempio fu anche il primo a concepire l’aliscafo. E non solo, ebbe idee necessarie per l’ideazione dell’elicottero, dotando un velivolo con elica sul tetto di un motore a vapore, e poi sperimentò i primi dirigibili. Carlo non era da meno. Da ragazzo, al liceo, si guadagnò un premio per uno studio sui palloni aerostatici. Poi si iscrisse alla facoltà di medicina di Pavia e trovò in seguito impiego all’ospedale Maggiore di Milano. I talenti inventivi, almeno nel 1876, facevano agilmente carriera e Carlo Forlanini divenne primario del Comparto delle malattie cutanee. Ebbe così l’occasione di concentrarsi sull’ambito che più lo attraeva: lo studio della tubercolosi polmonare. Ma bisogna aspettare la cattedra di Propedeutica e Patologia Speciale Medica all’università di Torino nel 1884 per vedere i primi risultati della sua ricerca. La pneumoterapia (una pratica terapica fatta con apparecchi pneumatici per il bagno d’aria compressa) era usata già con successo nell’asma, nell’enfisema, nelle bronchiti, nelle laringiti e anche nella tisi al primo e secondo stadio. Forlanini fece di più: inventò nuovi apparecchi pneumatici che potevano essere trasportati e dunque anche meglio applicati. A fine ottocento tornò a Pavia. E’ stato un grande insegnante, prova ne fu la passione con la quale i suoi studenti seguivano le lezioni, e prova ne fu anche l’ostinazione che ebbe nel continuare ad insegnare anche in precarie condizioni di salute. Il suo nome rimarrà sempre legato allo pneumotorace artificiale, la cui applicazione fu universalmente promossa attraverso la fondazione dell’Associazione internazionale dello pneumotorace (Londra,1913). Tuttavia la scienza va avanti, e sia la sicurezza che l’efficacia della terapia sono state fortemente discusse e poi superate. Ma per sempre, se passate in zona portuense a Roma, la pietra miliare da seguire sarà Carlo Forlanini: costeggiatelo.
Franco Leggeri Fotoreportage- Ospedale Carlo Forlanini di Roma
Biografia di Carlo Forlanini a cura di M.U. Dianzani
Carlo Forlanini nacque a Milano nel 1847 da famiglia agiata, imparentata con Paolo Mantegazza. La madre di questi, patriota e organizzatrice nel settore della beneficenza, era infatti nonna di Carlo Forlanini. Il suo nome (Laura Solera) è rimasto nella storia milanese. Fratello di Forlanini fu il famoso Enrico, ingegnere aeronautico di grandi vedute. Un altro fratello, Luigi, fu medico, Presidente, a Milano, della Croce Rossa. Il giovane Carlo studiò a Pavia, ove frequentò il Laboratorio di Patologia Sperimentale, diretto prima da Bizzozero, e poi, dopo la chiamata di questi a Torino, da Camillo Golgi. Si formò scientificamente in questo ambiente, ma preferì poi passare alla Clinica. Interessato soprattutto alle malattie polmonari, fu il primo a intuire che l’unico modo per chiudere le caverne tubercolari del polmone era quello di farne collabire le pareti. Ci riuscì costruendo un apparecchio che serviva a introdurre aria nel cavo pleurico, in modo da creare uno pneumotorace. Il parenchima polmonare si ritraeva all’ilo, e le pareti delle caverne collabivano e potevano chiudersi. La scoperta del pneumotorace come mezzo di cura (1882) gli attirò grande rinomanza.
Carlo Forlanini-Medico- Inventore del pneumotorace artificiale
Si presentò nel 1883 al concorso per un posto di professore straordinario di Clinica Medica Propedeutica, posto vacante per il passaggio di Camillo Bozzolo alla Clinica Medica. Fecero parte della Commissione Domenico Tibone, Giulio Bizzozero, Camillo Bozzolo, Lorenzo Bruno e Angelo Mosso, e Carlo Forlanini fu vincitore. La sua grande passione per le tecnologie nuove distinse la sua attività torinese. Fu sotto la sua direzione che il suo Aiuto, Scipione Riva Rocci, costruì lo sfigmomanometro per la misurazione della pressione arteriosa, usato ancora oggi. La presenza a Torino di Forlanini accrebbe certamente la rinomanza della Facoltà Medica torinese, che diveniva antesignana anche nella terapia della tubercolosi. Disgraziatamente, dopo un primo periodo di collaborazione, si creò un forte contrasto in Facoltà fra lui e Bozzolo. Forlanini, infatti, aveva chiesto di diventare titolare di una seconda Clinica Medica, ma Bozzolo non aveva gradito. Il problema era acuito dal fatto che il Ministro aveva abolito la cattedra di Clinica Medica Propedeutica.
Difeso dalla Facoltà, Forlanini rimase peraltro al suo posto per vari anni. Il problema fu risolto con l’apertura di un concorso per professore ordinario di Patologia Speciale Medica a Torino, contestualmente all’apertura di un altro concorso, identico, a Pavia. Il vincitore di Torino fu Forlanini, quello di Pavia fu Bernardino Silva, un allievo di Bozzolo.
Il Ministero accettò che Silva fosse comandato a Torino, e Forlanini a Pavia. Col 1899, si ebbero infine i decreti di trasferimento. Silva restò a Torino, praticamente subalterno a Bozzolo, fino al 1905, quando morì in un incidente di montagna. Forlanini ebbe via libera a Pavia, dove insegnò e operò scientificamente sino all’anno della sua morte, avvenuta nel 1918.
A cura di M.U. Dianzani
Carlo Forlanini, apparatus Credit: Wellcome Library, London. Wellcome Images images@wellcome.ac.uk http://wellcomeimages.org Forlanini’s apparatus for artificial pneumothorax. ‘Die Indikationem und die Technik des kunstlichen Pneumothorax bei der Behandlung der Lungenschwindsucht’ Die Therapie der Gegenwart Carlo Forlanini Published: 1908 Copyrighted work available under Creative Commons Attribution only licence CC BY 4.0 http://creativecommons.org/licenses/by/4.0/
Biografia di Carlo Forlanini
Carlo Forlanini-Medico- Inventore del pneumotorace artificiale
Franco Leggeri Fotoreportage-Murales Ospedale Spallanzani di Roma – Carlo Forlanini
Ultimato il liceo, si iscrisse alla facoltà di medicina dell’Università di Pavia (nell’Almo Collegio Borromeo è presente una lapide commemorativa in suo onore) e, dopo la campagna garibaldina, si laureò nel 1870 con la tesi “Teoria della piogenesi-fachite”. La Ca’ Granda lo attirava e il 23 agosto 1870 presentò domanda all’Ospedale Maggiore di Milano che fu accolta e lì iniziò la sua pratica ospedaliera occupandosi di chirurgia nella sala di San Paolo sotto la guida del Dott. Monti, continuando le ricerche nel campo dell’oculistica. Rimase per due anni all’ambulanza oculistica di Santa Corona. Nel gennaio 1876 fu nominato primario del Comparto delle malattie cutanee dove rimase sei anni, continuando gli studi che più lo attiravano: quelli sulla tubercolosi polmonare, malattia che nell’infanzia gli aveva portato via la madre.
Franco Leggeri Fotoreportage- Ospedale Spallanzani di Roma
Nel 1884 la Facoltà Medica dell’Università di Torino lo propose per la cattedra di Propedeutica e Patologia Speciale Medica che Forlanini accettò con entusiasmo. A Torino numerosi erano gli studenti che frequentavano le sue lezioni di semeiotica e di clinica: le più ascoltate furono quelle che riguardavano i metodi clinici per la diagnosi delle pleuriti e della tisi polmonare. La pneumoterapia (terapia con apparecchi pneumatici per praticare il bagno d’aria compressa) era usata con successo nell’asma, nell’enfisema, nelle bronchiti, nelle laringiti e anche nella tisi al primo e secondo stadio. Inventò nuovi apparecchi pneumatici trasportabili per renderli più facilmente applicabili e, per rendere più precisa la semeiotica della patologia polmonare, modificò il plessimetro di Seitz: il miglior plessimetro era in avorio, di cinque centimetri di diametro e due millimetri di spessore, da percuotere con le dita per ottenere un suono che rifletteva la natura della zona sottostante.
Franco Leggeri Fotoreportage-Murales Ospedale Spallanzani di Roma – Carlo Forlanini
Ritornò nel 1899 all’Università di Pavia, titolare della cattedra di Patologia Speciale Medica e dal 3 febbraio 1900 di quella di Clinica Medica Generale, al posto del Prof. Orsi, in un Ateneo che vantava una tradizione gloriosa, dove Bizzozero aveva compiuto geniali scoperte sulla fisiologia del sangue, dove Golgi aveva svelato il segreto della fine struttura del sistema nervoso, dove Mantegazza aveva segnalato l’importanza delle ghiandole a secrezione interna, dove Bassini aveva creato il metodo di cura dell’ernia inguinale.
Franco Leggeri Fotoreportage-Murales Ospedale Spallanzani di Roma – Carlo Forlanini
La sua opera di insegnante, che era tanto ammirata, fu negli ultimi anni limitata dalle condizioni di salute. Per l’incrollabile fede nell’efficacia di una cura che, esclusivamente per merito del suo studio, entrò nella pratica quotidiana, gli è dovuto l’appellativo di “inventore dello pneumotorace”, che gli è riconosciuto dagli studiosi di tutto il mondo[senza fonte].
Carlo Forlanini-Medico- Inventore del pneumotorace artificiale
Senatore dal 1913, fu anche membro del consiglio superiore dell’istruzione, dedicandosi anche a ricerche sull’uremia, sull’ipertensione arteriosa essenziale e su diverse patologie polmonari. Al suo nome è intitolato l’Ospedale Carlo Forlanini, sanatorio di Roma, sede della Clinica universitaria della tubercolosi e delle affezioni respiratorie.
I risultati di questi lavori portarono Forlanini a ricevere più volte la candidatura al Premio Nobel per la Medicina, almeno una ventina, tra il 1912 e il 1919[4].
Nel 1877 fondò l’Istituto medico pneumatico, dove iniziò gli studi sulla cura della TBC polmonare, arrivando nel 1882 ad ideare lo pneumotorace artificiale.[6][7][8] Applicò la tecnica con pieno successo nel 1888, ma essa solo nel 1912 ebbe piena accettazione dalla comunità medica.[9]
Appassionato di apparecchi pneumatici e stimolato dal fratello Enrico, collaborò con lui discutendo su problemi di idraulica, aerodinamica e fisica, cercando di trarre il massimo beneficio dall’associazione tra scienza medica e meccanica. Il problema di poter applicare l’aria compressa nella cura della tisi lo entusiasmava e i disegni degli apparecchi di aeroterapia, di spirometria e per la cura della tisi erano tutti di mano sua e fatti con tale cura da poter servire al costruttore. Fa brevettare due modelli di aeroterapia per la cura della pleurite con inspirazioni di aria compressa per far dilatare il polmone e per la cura dell’enfisema con espirazioni in aria rarefatta. Disegna apparecchi per le inalazioni medicamentose di cui intuisce l’avvenire. I suoi lavori sull’enfisema polmonare e quelli sulla cura dei versamenti pleurici sono pietre miliari nella storia della medicina. La toracentesi con introduzione di aria filtrata (estrazione di quanto più liquido è possibile e introduzione di aria al posto del liquido estratto) è uno dei lavori fondamentali della medicina pratica. Si deve alla sua scuola l’invenzione dello sfigmomanometro di Scipione Riva Rocci, ancora oggi usato in tutto il mondo, che permise la misurazione della pressione arteriosa con un metodo incruento.
Franco Leggeri Fotoreportage- Ospedale Spallanzani di Roma-Muro di cinta
Forlanini ebbe il merito di accorgersi che lo pneumotorace spontaneo che fortuitamente si aveva in ammalati di tubercolosi cavitaria (la tisi polmonare), imprimeva alla malattia un andamento più favorevole. Secondo le sue idee la malattia era dovuta alla particolare funzione del polmone, cioè al respiro che in ogni istante fa variare la tensione del parenchima polmonare attraverso la variazione della quantità e pressione del suo contenuto (aria polmonare). Il polmone diventa tisico perché si muove e la tensione statica e dinamica impedisce la riparazione delle lesioni polmonari: l’immobilizzazione assoluta arresta il processo distruttivo favorendo la cicatrizzazione delle lesioni cavitarie.
Per guarire un polmone dalla tisi è necessario pertanto sopprimere la sua funzione, cioè collassarlo per eliminare il costante trauma respiratorio. Il metodo si basa sulla tecnica della collassoterapia, elaborata dallo stesso Forlanini, e consiste nell’introdurre gas inerte nella cavità pleurica corrispondente al polmone leso, in modo che esso venga posto in stato di riposo funzionale, così da favorirne la cicatrizzazione.
Franco Leggeri Fotoreportage- Ospedale Spallanzani di Roma
Tecnica del pneumotorace artificiale
Il metodo di cura del Forlanini è detto pneumotorace artificiale che in medicina significa presenza d’aria nel sacco pleurico. L’apparecchio di Forlanini era costituito da un manometro ad acqua in comunicazione con un rubinetto a tre vie: da una parte c’è un tubo di gomma portante l’ago d’introduzione, dall’altra un cilindro graduato di vetro contenente il gas sotto pressione in comunicazione con un altro contenitore di vetro. Il gas usato era l’aria atmosferica filtrata dal pulviscolo. L’ossigeno si evitava perché veniva assorbito troppo velocemente e l’azoto perché poteva provocare embolie.
Franco Leggeri Fotoreportage- Ospedale Spallanzani di Roma
L’immobilizzazione del polmone veniva ottenuta introducendo nelle pareti toraciche a ridosso del polmone stesso, e cioè nel sacco pleurico una tal quantità d’aria la cui pressione doveva vincere quella espansiva dell’aria inspirata dal polmone: questo verrà in tal modo a trovarsi come sotto una campana d’aria in pressione, che gli impedirà di espandersi durante l’inspirazione e quindi di muoversi. L’introduzione dell’aria era effettuata con un ago che veniva inserito sulla linea ascellare media del torace, all’altezza del IV-VII spazio intercostale, fino a raggiungere la cavità pleurica, dove si registrava una pressione negativa. A quel punto si iniettava il gas fino a raggiungere una pressione intorno allo zero: il polmone collabiva e rimaneva così, con successivi rifornimenti di gas, per un periodo prolungato di almeno due, tre anni. Si procedeva quindi alla sua riespansione quando si era completamente cicatrizzato.
Franco Leggeri Fotoreportage- Ospedale Spallanzani di Roma
Al Congresso Internazionale di Roma del 1894 venne data dimostrazione pratica dell’utilità dello pneumotorace e al VI Congresso Nazionale della Medicina a Roma nel 1895 Forlanini espose i primi risultati ottenuti con il nuovo metodo di cura che fu accolto però con incomprensione dai contemporanei che consideravano probabilmente un’eresia l’aver studiato il problema della cura della tisi senza tentare qualcosa contro l’agente eziologico della malattia: il bacillo di Koch.
Franco Leggeri Fotoreportage- Ospedale Carlo Forlanini di RomaFranco Leggeri Fotoreportage- Ospedale Carlo Forlanini di Roma
Nonostante lo scetticismo sul suo metodo Forlanini continuò i suoi esperimenti. Se fino al 1894 erano svolti su malati nei quali l’estensione, la gravità e la bilateralità delle lesioni toglievano ogni ragionevole speranza di salvezza, dopo il 1895 la sua attività si rivolse ai malati con monolateralità delle lesioni e buone condizioni generali e così aumentò il numero dei successi. Nel 1907 si decise a rompere il silenzio che durava ormai da 13 anni e nel giugno si svolsero due conferenze all’Associazione Sanitaria Milanese, una teorica e la seconda nella quale furono presentati i casi di guarigione e il numeroso uditorio lo seguì con interesse e i giornali milanesi si fecero portavoce del successo ottenuto. Il pneumotorace artificiale fu riconosciuto ufficialmente dai tisiologi di tutto il mondo al Congresso Internazionale della tubercolosi tenutosi a Roma nel 1912. La applicazione fu universalmente promossa attraverso la fondazione dell’Associazione internazionale dello pneumotorace, avvenuta a Londra nel 1913.[10][11] Studi più recenti tuttavia hanno sollevato forti dubbi sia sulla sicurezza, sia sulla efficacia della terapia[senza fonte], comunque oggi abbandonata.
Principali lavori pubblicati
1875 Brevissimi cenni di aeroterapia e sullo Stabilimento Medico-pneumatica di Milano. Gazzetta Medica Italiana Lombardia. Serie VII: 6
1882 A contribuzione della terapia chirurgica nella tisi del polmone. Ablazione del polmone? Pneumotorace artificiale? Gazzetta degli Ospedali e delle Cliniche di Milano
1894 Primi tentativi di pneumotorace artificiale della tisi pulmonare. Gazzetta Medica di Torino. 45:381-4, 401-3
1894 Su un caso di stenosi dell’arteria polmonare con persistenza del dotto di Botallo e di tisi polmonare
1895 Primo caso di tisi pulmonare monolaterale avanzata curato felicemente col pneumotorace artificiale. Gazzetta Medica di Torino 46:857
1897 Contributo allo studio del polso venoso presistolico
1897 Contributo alla terapia dell’empiema
1906 Zur Behandlung der Lungenschwindsucht durch künstlich erzeugten Pneumothorax. Deutsche Medizinishe Wochenschrift 32:1401-5
1908 Apparati e tecnica operativa dello pneumotorace artificiale
1909 Cenni storici e critici sul pneumotorace artificiale nella tisi pulmonare. In: Cappelli, ed. Scritti di Forlanini. Bologna, 1928:1013
1912 Il pneumotorace artificiale nella cura della tisi pulmonare. Atti de VII Congresso Internazionale Contra la Tubercolosi. Vol 3 Rome, 182.
Franco Leggeri Fotoreportage-
Logo dell’Associazione Graffiti Zero, Associazione che promuove l’integrazione fra la Street Art e i luoghi che la ospitano-Foto Franco Leggeri
La guerra di Spagna è già stata oggetto di una grande quantità di pubblicazioni, tra studi di storici e la memorialistica di coloro che ne furono protagonisti. Tuttavia, negli ultimi venti anni, la documentazione archivistica a disposizione degli storici è notevolmente aumentata, grazie a nuove fonti resesi disponibili in Spagna, alla digitalizzazione parziale e alla messa in rete degli archivi dell’Internazionale Comunista e del Comintern, quest’ultima realizzata sotto gli auspici del Consiglio Internazionale degli archivi e del Consiglio d’Europa.
Altra documentazione si è resa disponibile grazie al lavoro dell’Istituto Gramsci, mentre varia documentazione, scritta e iconografica è disponibile ma non ancora completamente utilizzata presso l’AIVACS (Associazione Italiana Combattenti Antifascisti in Spagna).
Proprio con il contributo dell’AIVACS e utilizzando, almeno in parte, le nuove fonti citate, lo storico Marco propone un nuovo libro sulla guerra di Spagna, che esce presso le Edizioni Kappa Vu di Udine (Garibaldini in Spagna, Storia della XII Brigata Internazionale nella guerra di Spagna, Kappa Vu, pag. 240, €16).
Come si comprende già dal titolo, il lavoro di Puppini si concentra sulla formazione e sugli avvenimenti che videro protagonista la XII Brigata Internazionale, inquadrata nella quarantacinquesima divisione dell’esercito repubblicano. Tale Brigata fu composta e comandata prevalentemente da italiani e prese per questo il nome di Garibaldi, deciso unitariamente dai tre partiti che ne furono promotori (comunista, socialista e repubblicano).
Tra i pregi di questo libro è però il suo punto di vista ampio, che permette di inquadrare la partecipazione italiana alle Brigate Internazionali nel vasto contesto dei fatti politici, militari e umani generali vissuti dal fronte repubblicano in Spagna e anche da quello antifascista italiano. Si può dire che questo libro permette di leggere molti fatti e problemi della guerra di Spagna attraverso la lente della storia della Brigata Garibaldi.
Il libro prende avvio da quella che Puppini definisce “la crisi dell’antifascismo italiano” alla metà degli anni trenta, in anni particolarmente difficili tra persecuzioni, prigioni ed esilio. In questo modo si può capire quale fosse la composizione politica e sociale dei circa 3500 volontari italiani che combatterono in Spagna, alcuni dei quali presenti in altre formazioni (come la Centuria Gastone Sozzi), oltre alla Garibaldi, già prima della costituzione delle Brigate Internazionali. Di questi combattenti, la maggior parte non proveniva direttamente dall’Italia ma da altri paesi europei dove si era dovuta rifugiare per ragioni politiche e di lavoro.
La maggior parte dei volontari proveniva dalla Francia, dove tra il 1920 e il 1940 si trasferì un milione di italiani e una percentuale assai minore invece arrivava dal Belgio, dove era presente una forte comunità italiana, altri dalla Svizzera e dall’Unione Sovietica. Non mancarono però arrivi dagli Stati Uniti e dal Sud America, attraverso difficili viaggi pagati dalle organizzazioni antifasciste. Infine, una parte dei combattenti si trovava già in Spagna, poiché vi aveva cercato riparo dopo la proclamazione della Repubblica spagnola, nel 1931.
Dal punto di vista sociale, essi erano soprattutto lavoratori più o meno qualificati, muratori, minatori, operai di fabbrica, contadini. Gli intellettuali erano pochi, la maggior parte dei quali costituita in realtà da “rivoluzionari di professione” come Togliatti, Longo e Vidali. Erano presenti anche una sessantina di donne italiane, impegnate soprattutto come infermiere, la più nota delle quali era la fotografa Tina Modotti. Il viaggio verso la Spagna era in ogni caso difficile e faticoso per tutti, poiché si dovevano costruire corridoi e passaggi clandestini per arrivarci, soprattutto dai paesi caduti sotto la dominazione nazifascista.
La decisione di costituire le Brigate Internazionali fu parte della risoluzione del Presidio dell’Internazionale, presa il 18 settembre 1936, che avviò una complessa e imponente operazione di invio in Spagna, dai porti dell’URSS o di altri paesi, ma a carico dell’URSS, del materiale bellico e logistico necessario alla difesa della repubblica spagnola.
La Brigata Garibaldi, a composizione italo-spagnola, fu costituita a partire dagli organici del precedente Battaglione Garibaldi, già operativo in Spagna, integrato da italiani presenti in altri reparti e da nuove reclute. A comandarla fu designato il repubblicano ed ex ufficiale dell’esercito Randolfo Pacciardi, mentre Ilio Barontini, comunista, ne fu nominato commissario politico.
Quello del “commissario politico” era un ruolo delicato, già esistente nelle brigate bolsceviche e nell’Armata Rossa. La sua presenza voleva dare corpo all’idea di un esercito nuovo, popolare e, nel caso della Spagna, internazionalista, e a un concetto di disciplina diverso da quello delle forze armate degli stati capitalisti. Infatti, il combattente doveva essere considerato nel suo aspetto interamente umano; gli era ovviamente richiesta disciplina, ma aveva anche diritto di udienza per i suoi problemi, a condizioni di vita le migliori possibili nella situazione bellica e alle cure necessarie.
Il commissario politico doveva quindi occuparsi dell’alloggio, dell’alimentazione e del benessere dei combattenti e costruire una disciplina basata sulla consapevolezza e lo spirito di sacrificio e non sull’autoritarismo, facendosi anche carico dei diversi problemi umani dei militari.
Quella del commissario politico fu una figura istituita in seguito anche nelle brigate partigiane, molti combattenti e comandanti delle quali si forgiarono nella guerra di Spagna. Purtroppo, le buone intenzioni di costituire un esercito popolare e umano si scontrarono non solo con una realtà di guerra molto difficile, ma soprattutto con le concezioni autoritarie e militaresche di molti comandanti e del comando generale, composto in gran parte da ufficiali formatisi negli eserciti tradizionali.
Infatti, non era facile conciliare, nella situazione di guerra, gli atteggiamenti di alcuni comandanti con un esercito di volontari che erano anche militanti politici e che quindi erano disposti al sacrificio ma pretendevano chiarezza nelle relazioni e nelle decisioni. Lo stesso comandante della Garibaldi, Randolfo Pacciardi, fu criticato per i suoi atteggiamenti da militare di vecchio stampo, per avere istituito alloggi e mense distinte per ufficiali e soldati e per la scarsa adattabilità a una organizzazione diversa da quella vissuta nell’esercito italiano durante la prima guerra mondiale.
Inoltre, i combattenti delle Brigate Internazionali non erano residenti in Spagna e avevano bisogno, di tanto in tanto, di permessi e licenze per vari problemi o semplicemente per poter rivedere la famiglia e riprendere le forze dopo battaglie estenuanti combattute in condizioni difficili, d’inferiorità di armamenti e mezzi rispetto ai franchisti.
Lo stato maggiore spagnolo era però sordo a queste richieste di licenza, nonostante le insistenze di Longo, commissario generale delle Brigate Internazionali. Questo fatto contribuì a creare malcontento e disagio che si unirono alla fatica dei combattimenti nel creare, nel 1937, una crisi nella Brigata.
Naturalmente, le difficoltà vissute dalla Brigata Garibaldi, come dalle altre brigate, non furono dovute solo ai problemi citati, ma furono causate soprattutto dalle diverse linee politiche dei partiti che avevano contribuito alla sua costituzione, prima di tutto tra la componente socialista e comunista e quella repubblicana, ma in alcuni casi anche tra socialisti e comunisti. Queste divergenze, a volte anche forti, furono una delle ragioni dei frequenti cambiamenti al vertice della Brigata, con i continui e controproducenti avvicendamenti nella direzione.
Se il primo comandante fu Randolfo Pacciardi, questi giunse, in seguito a delle valutazioni politiche discutibili e a insofferenze personali, a proporre a un certo punto persino lo scioglimento della Brigata; vari altri comandanti si avvicendarono, in seguito, al dirigente repubblicano e lo stesso avvenne per i commissari politici. I frequenti cambiamenti nel comando della Brigata Garibaldi, come in altre, furono dovuti peraltro, oltre ai contrasti politici, alla morte e ai ferimenti di cui i comandanti e i commissari politici furono vittime; non si deve dimenticare che le Brigate Internazionali nel loro complesso ebbero una percentuale di caduti altissima, che sfiorò il 25% degli organici.
Una percentuale di caduti che fu dovuta anche all’imperizia dei comandi generali dell’esercito spagnolo e all’impiego delle Brigate Internazionali come truppe d’assalto in condizioni a volte di scarsa considerazione per la vita dei volontari. In tale contesto, una terza ragione dei continui cambi al vertice delle Brigate fu anche la fatica psicofisica vissuta dai comandanti, esposti, in una situazione già difficile sul campo, a critiche politiche e di conduzione militare.
Il libro di Marco Puppini segue tutte le vicende politiche e militari vissute dalla Brigata Garibaldi attraverso le numerose battaglie a cui partecipò, a volte concluse con importanti vittorie, come quella di Guadalajara, contro l’esercito fascista italiano e purtroppo più spesso con dolorose sconfitte, come nel caso di Huesca, sino a quella decisiva e finale sul fronte dell’Ebro.
Battaglie che furono tutte segnate da grande spirito di sacrificio e spesso da eroismi dei volontari; mi sembra importante che Puppini abbia svolto un lavoro di ricerca per poter dare un nome e qualche informazione sul maggior numero di caduti possibile, operazione di memoria e di omaggio a quanti sacrificarono la loro vita in per la difesa della democrazia, non solo in Spagna ma in tutta Europa. Infatti, la guerra di Spagna non fu solo una tragedia nazionale, ma un episodio del più vasto quadro della lotta tra fascismo e nazismo e forze democratiche e popolari.
In una precedente occasione1 ho avuto modo di ricordare come molti combattenti della battaglia dell’Ebro (luglio-novembre 1938), che segnò la svolta finale della guerra a favore dei franchisti, ricordano con rimpianto che la sconfitta fu dovuta, in gran parte, al grande squilibrio di armamenti tra i due eserciti e aggiungono che se le armi bloccate alla frontiera franco-spagnola fossero giunte a destinazione, forse gli eventi avrebbero preso un’altra strada.
Infatti, se l’URSS si era impegnata per far giungere rifornimenti all’esercito repubblicano, tali invii seguivano ovviamente percorsi tortuosi e difficili e si scontravano in particolare con la linea di “non intervento” delle potenze occidentali, segnatamente Gran Bretagna e Francia, i cui governi bloccavano regolarmente le spedizioni.
Tale linea politica di “non intervento” fu una delle cause della vittoria dei franchisti che invece disponevano del sostegno dei rifornimenti e dell’aviazione della Germania e dell’Italia fascista. L’intervento italiano si concretò oltre che con la collaborazione dell’aviazione e della marina, anche con l’invio di circa 75.000 soldati. Mussolini sognava un Mediterraneo fascistizzato che andasse dalla Grecia alla Spagna e si prolungasse sino al Portogallo di Salazar.
La ragioni dell’offensiva lanciata dai repubblicani sull’Ebro, ci chiarisce Puppini, non furono solo militari, ma in gran parte politiche. La situazione internazionale era difficile poiché l’URSS era impegnata sul fronte orientale a fronteggiare l’invasione giapponese dalla Mongolia e probabilmente avrebbe avuto in futuro meno risorse da destinare alla Spagna; diventava quindi importante dimostrare la vitalità della Repubblica nella speranza che Francia e Gran Bretagna, di fronte anche alla conclamata aggressività dei nazisti che stavano aggredendo la Cecoslovacchia, avessero una reazione.2 Che non venne.
Fu così che il capo del governo spagnolo Juan Negrin giocò la carta, rivelatasi controproducente, del ritiro delle Brigate Internazionali, che comunicò il 21 settembre 1938 alla Società delle Nazioni. La situazione era tale che la presenza delle Brigate Internazionali non avrebbe, probabilmente, potuto ribaltare le sorti della guerra e Negrin chiese in cambio della loro partenza, il ritiro del sostegno tedesco, italiano e portoghese ai franchisti.
Ma la mossa di Negrin fu inutile, poiché proprio in quei giorni, alla conferenza di Monaco, i governi francese e inglese scelsero l’accordo con Hitler concedendogli la vittoria nella questione dei Sudeti. Dichiarando che con quell’accordo “avevano evitato la guerra” (sappiamo come finì la storia), l’inglese Chamberlain e il francese Daladier posero anche la pietra tombale sulla Repubblica Spagnola.
Il governo francese non fu meno ostile verso la Repubblica nel comportamento che tenne in seguito, quando gran parte dei volontari si ritirarono in Francia, paese dove, tra l’altro, erano massicciamente residenti prima della guerra. Furono internati in diversi campi di concentramento, dove furono praticamente prigionieri, in condizioni di vita pessime e umilianti, che solo l’inziativa degli antifascisti rese più accettabili dal punto di vista umano.
Questo prima di essere, in molti casi, consegnati alla polizia del paese natale, che, nel caso degli italiani, significava confino o prigione. Questi antifascisti il riscatto lo avranno, nella loro maggioranza, durante la Resistenza, quando si avvarranno dell’esperienza politica e militare maturata nella guerra di Spagna.
2 E’ il caso di ricordare che l’URSS invece aveva promesso il suo sostegno alla Cecoslovacchia e in caso di guerra avrebbe dovuto sostenere un ulteriore impegno militare.
ILSE WEBER: Da Terezin verso Auschwitz Birkenau-Articolo di Anna Foa
Elsa Weber, di religione ebraica, nata a Witkowitz nel 1903, scrisse poesie e fiabe per bambini fin da giovanissima, entrando a far parte del grande mondo intellettuale ceco. Come tutti gli ebrei cechi, era di lingua tedesca. Sposatasi con Willi Weber, Ilse si dedicò poi alla famiglia, pur senza interrompere la sua attività di scrittrice. Nel 1930 aveva già pubblicato tre fortunati libri di fiabe ed era divenuta una valente musicista. Patriota della sua Cecoslovacchia, diede al suo secondo bambino il nome di Tomáš in onore del presidente Masaryk.
La Cecoslovacchia degli anni Trenta era un’isola di democrazia e una crogiolo di attività intellettuali, che spiccava nel panorama degli altri Stati dell’Europa orientale, sottoposti a regimi dittatoriali e caratterizzati dal prevalere dell’antisemitismo.
Elsa Weber
Nel 1939, dopo l’occupazione nazista, i Weber decisero di mandare il primo figlio Hanuš in Inghilterra, affidandolo all’amica di Ilse, che lo avrebbe lasciato in Svezia presso sua madre e che sarebbe poi morta nel 1941. Il piccolo Weber partì così insieme ad oltre seicento bambini ebrei, sottratti ai nazisti grazie all’attività di salvataggio di un agente di borsa inglese, Nicolas George Winton, e spediti in treno nell’unico paese europeo che accettò di accoglierli, l’Inghilterra. Ilse non lo avrebbe più rivisto. Nel 1942, Ilse con il marito e il piccolo Tomáš furono deportati a Theresienstadt, “il ghetto modello” da cui partivano i trasporti per Auschwitz. Qui Ilse fece l’infermiera nell’ospedale dei bambini, creando per loro e per gli altri prigionieri poesie e canzoni, suonando per loro il liuto e la chitarra. Una sua poesia, Le pecore di Lidice, suscitò violente reazioni da parte delle SS, senza fortunatamente che Ilse ne fosse individuata come l’autrice. Un’altra, Lettera al mio bambino, indirizzata al figlio Hanuš, fu tradotta e pubblicata nel 1945 in Svezia e Hanuš poté così leggerla. Nel 1944, Willi fu per primo deportato ad Auschwitz. Poco dopo anche Ilse e Tomáš furono inseriti in un “trasporto all’Est”. Sembra che Ilse abbia scelto volontariamente la deportazione per non abbandonare i bambini a lei affidati. E qui, insieme con loro, Ilse e Tomáš furono subito mandati alle camere a gas. Tornato a Praga dopo la guerra, Willi riprese con sé il figlio, che era vissuto in Svezia affidato alla madre di Lilian, Gertrud. Un ricongiungimento difficile, perché il ragazzo, dopo quei sei anni lontano, rifiutava di parlare con il padre su quanto era avvenuto durante la Shoah. Nel 1968, dopo l’invasione da parte dei russi, divenuto giornalista e legato alla primavera praghese, Hanuš fuggì in Svezia dove si stabilì. Lentamente, alla rimozione dei suoi primi anni si sostituì il desiderio di ricostruire la sua storia. Nel 1974, Willi si preparava a raggiungere in Svezia il figlio per collaborare ad un film sui campi di concentramento che questi stava preparando, quando morì improvvisamente d’infarto. Ora questo libro, con la presentazione di Hanuš e un’ampia prefazione di Ulrike Migdal, viene a riproporci la storia di Ilse e della sua famiglia.Se la storia dei Weber è in sé una storia straordinaria, le poesie composte nel campo da Ilse sono di una struggente bellezza, mentre le sue lettere a Lilian, che vanno dal 1933 al 1944, cioè fino alla deportazione a Auschwitz, sono un eccezionale e vivissimo ritratto, oltre che della sua vita, dei suoi affetti e della sua arte, anche del suo paese, la Cecoslovacchia, man mano che l’ombra dell’antisemitismo e di Hitler si faceva più vicina. Dopo la partenza del figlio, nel 1939, la maggior parte delle lettere sono indirizzate al bambino, che Ilse cerca di seguire a distanza, della cui educazione si preoccupa, di cui lamenta la pigrizia nello scrivere, di cui sollecita il mantenimento dell’appartenenza ebraica. Le ultime lettere sono da Theresienstadt, dove Ilse fa ancora in tempo, prima della deportazione, a piangere in una lettera alla madre di Lilian la morte dell’amica. Subito dopo, Auschwitz.
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