Napsound: Arriva al Teatro India di Roma il recital partenopeo tra musica e poesia-
Dal 18 al 23 febbraio 2025 il Teatro India di Roma ospita Napsound, un recital che intreccia la potenza della poesia napoletana con un ritmo musicale incalzante. Al centro dello spettacolo, le parole e i suoni si rincorrono, dando vita a un dialogo continuo che attraversa epoche e identità.
Le composizioni di Eduardo De Filippo, Totò, Raffaele Viviani e Ferdinando Russo si mescolano in un fluire narrativo che evidenzia le trasformazioni dei ruoli e delle figure umane. Così, il giudice di Eduardo si trasfigura nel dio cattivo di Russo, mentre la donna borghese di Totò si riflette nella figura più complessa della folla incitata da Viviani. Una metamorfosi costante, capace di sorprendere e commuovere.
Musiche elettroniche si intrecciano ai versi, suggerendo riflessioni sulle connessioni invisibili tra passato e presente, tra il singolo e la collettività. In questo flusso di parole e ritmi, Napsound diventa un ponte tra tradizione e innovazione, un luogo in cui ogni spettatore può riconoscere un frammento di sé.
Il Teatro India si trova nel crocevia dei quartieri più vivaci di Roma – Testaccio, Ostiense e Marconi – e vicino alla riva del Tevere, precisamente sul Lungotevere Vittorio Gassman.
Roma-Parco Archeologico del Colosseo, apre al pubblico la Schola degli araldi del Circo Massimo, sul Palatino-
Roma-Il Parco Archeologico del Colosseo apre al pubblico la Schola degli araldi del Circo Massimo alle pendici meridionali del Palatino, portando quindi a compimento il primo dei dieci progetti del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza Caput Mundi nell’ambito della Missione 1 Digitalizzazione, Innovazione, Competitività, Cultura e Turismo. Un intervento articolato che ha coinvolto tutti gli aspetti della ricerca interdisciplinare, dalle indagini preliminari tramite prospezioni, ai rilievi fotogrammetrici 3d (ante e post operam), fino agli scavi archeologici, ai restauri conservativi delle superfici, alla valorizzazione illuminotecnica con la sponsorizzazione di iGuzzini e la predisposizione di una nuova rampa e vetrata per la migliore visione del mosaico e delle pitture che hanno dato il nome al contesto.
La Schola Praeconum si trova sulla terrazza più bassa del versante meridionale del Palatino, in una posizione che suggerisce un possibile collegamento in antico con il vicino Paedagogium. Pur appartenendo a epoche diverse (il Paedagogium è d’impianto domizianeo ma rimase a lungo in uso anche successivamente, mentre la Schola risale all’età severiana), entrambi gli edifici avevano funzioni legate ai servizi imperiali: il Paedagogium, come indica il nome, era una sorta di collegio per l’istruzione degli schiavi imperiali ed è oggi visibile lungo il percorso meridionale del Palatino, con i suoi pavimenti musivi originari restaurati. La Schola Praeconum, invece, era la sede della corporazione degli araldi, i praecones, incaricati di annunciare le pompae circensi.
Colosseo apre al pubblico la Schola degli araldi del Circo Massimo sul Palatino
Costruita nel III secolo d.C. su edifici preesistenti, la Schola si inserisce nel progetto di ristrutturazione generale del versante meridionale del Palatino promosso dalla dinastiadei Severi. Il suo orientamento rispetta quello dell’asse del Circo Massimo. Dal punto di vista architettonico, la struttura era caratterizzata da una corte rettangolare circondata da un portico sorretto da pilastri (oggi non più visibili se non per lo spazio calpestabile), con un sistema tripartito di ambienti voltati. L’edificio rimase in uso fino al V secolo d.C., come testimoniato dalla sequenza degli apparati decorativi verticali e orizzontali.
Il primo intervento decorativo, risalente al 200-240 d.C., consisteva in pitture murali raffiguranti figure maschili in piedi, vestite con abiti servili e collocate all’interno di architetture ad edicole. Questi personaggi, che portano bastoni, mappe, serti o cassette, sono stati interpretati come tricliniarii. Successivamente, le pareti furono rivestite di lastre di cipollino, mentre sul pavimento venne posato un grande mosaico bianco e nero che ha dato il nome all’edificio. Questo mosaico, unico nel suo genere, raffigura otto figure maschili in corte tuniche, disposte in due gruppi di quattro, con in mano un caduceo, uno stendardo, un bastone. Si ritiene che il mosaico risalga agli inizi del IV secolo d.C., forse durante gli interventi di ristrutturazione avviati dall’imperatore Massenzio.
L’interpretazione delle figure rappresentate nel mosaico ha sollevato diversi interrogativi. Sono state viste come araldi (praecones), impiegati pubblici a servizio dello Stato (apparitores) o aurighi. Tuttavia, appare certo che l’edificio e coloro che vi ’abitavano’ svolgevano funzioni strettamente connesse con il Circo e le relative manifestazioni. Alcune ipotesi suggeriscono che la struttura potesse avere un secondo piano, utilizzato come tribuna imperiale per assistere agli spettacoli circensi.
Vincent Peters’- Selected Works: -The Collector’s Edition
Editore Te Neues Pub Group
Descrizione del libro di Vincent Peters’ photographs have left the fast-moving trends of fashion photography behind and become timeless works of art. Born in Bremen in 1969, Peters has been one of the most sought-after fashion and portrait photographers for over 25 years. With his signature black-and-white photography and exquisite lighting, his portraits look like snapshots from classic movies. Supermodels, stars, and legends have all stood before his camera ― from Penélope Cruz and Rosamund Pike to Mickey Rourke and Matt Dillon. This new Collector’s Edition with luxurious linen finish expands on Peters’ bestselling book with 30 new images, all personally selected by Peters.A collection of astonishing portraits, in which the intimate urgency of the moment creates a timeless image.
La biografia di Vincent Peters
Vincent Peters nasce nel 1969 a Brema, in Germania, da una famiglia che fin da piccolo lo porta a sviluppare una grande creatività. Entrambi i genitori sono insegnanti d’arte e la madre, collaborando con la sorella, è impegnata anche nella pittura. Sprovvisto di grande talento nel disegno, il ragazzo preferirà ritrarre la realtà attraverso la luce e un obiettivo. Il primo incontro con la macchina fotografica avverrà infatti durante gli anni Ottanta.
Il percorso che lo porta dall’adolescenza alla vita adulta non è tuttavia facile. Cacciato da diverse scuole per un’indole ribelle e poco propensa al rispetto passivo delle regole, Peters fa il suo esordio nel mondo dei grandi lavorando nelle principali catene di fast food. A seguito di un viaggio in Thailandia con una Mamiya RZ Medium Format sempre al collo, però, alcuni dei suoi scatti vengono pubblicati sulla rivista GEO Magazine, lasciando intravedere una piccola parte del suo futuro. Raggiunta la maggiore età, Vincent viene convinto dalla madre ad abbandonare il Paese per dirigersi a New York. Gli Stati Uniti si rivelano tuttavia una Nazione poco incline ad accoglierlo e, complici le ristrettezze economiche, pochi mesi più tardi il fotografo decide di trasferirsi a Parigi, dove espone i suoi lavori in alcune gallerie senza mai riscuotere particolare successo. Grazie al consiglio di un amico, però, riuscirà ben presto a incanalare la sua personalità artistica nel giusto settore. I lavori più importanti del fotografo
Nella Ville Lumière Vincent Peters si approccia alle agenzie di moda che permettono ai suoi scatti di circolare su numerose riviste di settore. Durante un nuovo viaggio a New York, inoltre, il ragazzo incontra Giovanni Testino, fratello di Mario, che grazie alle sue conoscenze riuscirà a procurargli i primi ingaggi importanti. Peters inizia così a essere richiesto da tutte le principali maison del mondo, da Armani a Bottega Veneta passando per Miu Miu, Prada, Lancôme, Hermès e Louis Vuitton. Il suo campo di specializzazione diventerà però il ritratto delle celebrità che, davanti al suo obiettivo, riusciranno a mettersi a nudo di fronte al pubblico, mostrando fragilità spesso nascoste dalle pagine patinate dei magazine. Tra il 2001 e il 2021 Vincent Peters riesce a immortalare praticamente chiunque. Le sue fotografie mostrano infatti attori come Christian Bale, Emma Watson, Penelope Cruz e Laetitia Casta, i cui tratti vengono esaltati da una luce impeccabile e dall’inconfondibile bianco e nero.
Vincent Peters’
Jared Paul Stern, Maxim: “This elegant approach to his chosen medium is evident in an alluring new book from German luxury publisher teNeues, Vincent Peters: Selected Works”
Vincent Peters’
Square Mile: “With his signature black-and-white photography and exquisite lighting, his portraits look like snapshots from classic movies.”
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Vincent Peters: biografia
Nato in Germania nel 1969, Vincent Peters è un fotografo e filmmaker. Proviene da una famiglia per la quale la creatività riveste una certa importanza, i genitori sono insegnanti d’arte, la madre disegna, la figlia pure, Vincent no, perché non ne è capace. Si accontenta di pigiare il tasto sulla macchina fotografica.
L’infanzia è stata turbolenta ed è stato cacciato da diverse scuole. Il mondo del lavoro lo vede inizialmente impiegato presso Sturbucks a servire caffè e da McDonald. La passione fotografica inizia negli anni ’80, durante un viaggio in Thailandia, con appesa al collo l’analogica Mamiya RZ medium format, macchina che usa tuttora. Gli scatti tailandesi verranno in seguito pubblicati su GEO Magazine.
A 18 anni non aveva la più pallida idea di come sarebbe stato il suo futuro. La madre gli consiglia di lasciare il paese, suggerimento che Vincent accoglie nel 1989. Parte per New York e cerca impiego come assistente. Non è facile. I guadagni sono pochi, avere soldi per un caffè è un evento raro. Torna quindi in Europa, a Parigi, nel tentativo di intraprendere un fruttuoso percorso artistico. Espone in diverse gallerie, ma i soldi necessari per vivere tardano ad arrivare. Seguendo il consiglio di un compagno, porta alcune foto in un’agenzia di moda, perché, gli dice l’amico, sono quattrini facili. Iniziano così a giungere apprezzamenti.
Il punto di svolta avviene più tardi, di nuovo a New York, per un fortuito caso di eventi che il fotografo ama raccontare nelle interviste. Per pura causalità è stato notato da Giovanni Testino, fratello del celebre fotografo Mario Testino, e presto Vincent si trova catapultato nel mondo della fashion photography, firmando campagne pubblicitarie per Miu Miu e Prada.
Sono molte le star del cinema e della musica che da allora a oggi si sono fatte ritrarre e molte le riviste con le quali ha collaborato, per citarne alcune: Vogue francese, italiano, inglese, tedesco, giapponese e spagnolo, Numero, Arena, GQ, Dazed & Confused, Ten and The Face.
Una curiosità su Peters? Il suo bianco e nero è inconfondibile!
Ilse Koch -Nella fotografia uno dei cani che usava aizzare contro i detenuti.
Ilse Koch -la “cagna di Buchenwald”-la “donnaccia di Buchenwald” Articolo di Fabio Casalini
Il 15/01/1951 veniva condannata all’ergastolo Ilse Koch, la “cagna di Buchenwald”, la “donnaccia di Buchenwald”. Uno dei peggiori esseri umani che mai abbia calpestato il suolo terrestre.
La Koch era già stata processata e condannata all’ergastolo nel 1947, pena poi commutata in 4 anni “perché non erano state fornite prove evidenti”.
Fu rilasciata però nel 1949 dal Generale Lucius Clay, comandante statunitense della zona tedesca, ma venne subito arrestata e processata dalla corte tedesca, viste le proteste che si erano scatenate per la sua liberazione.
Chi era questo essere immondo?
La sua crudeltà iniziò nel 1936, quando diventò sorvegliante presso il campo di concentramento di Sachsenhausen. Qui conobbe e sposò il comandante Karl Otto Koch. Nel 1937 arrivò al campo di concentramento di Buchenwald, come moglie del comandante: influenzata dal potere e dalla posizione del marito, iniziò a torturare gli internati.
Nel processo a suo carico venne riferito che la Koch fosse solita annotarsi i numeri dei prigionieri che avevano tatuaggi particolarmente originali, che li facesse uccidere e utilizzasse la loro pelle per realizzare paralumi, copertine di libri, album di foto e guanti.
l’ex internato Herbert Froeboeß testimoniò che: “Nell’estate del 1940 stavamo lavorando nello stadio delle SS. Era una giornata calda, e abbiamo lavorato con la parte superiore del corpo esposta. Avevamo un giovane francese o belga che lavorava per noi, di nome Jean Collinette. Era conosciuto in tutto il campo per i suoi tatuaggi. Particolarmente vistosi erano un serpente cobra colorato arrotolato intorno al suo braccio sinistro fino in cima, e un veliero a quattro alberi particolarmente ben tatuato sul petto. Ilse Koch passò a cavallo, tenne il suo cavallo davanti a Jean, guardò i tatuaggi e scrisse il suo numero. Quella sera Jean fu chiamato al cancello e non lo vedemmo più. Sei mesi dopo,nel dipartimento di patologia del campo, ho riconosciuto un pezzo di pelle con il veliero di Jean. Più tardi ho visto la stessa nave in un album di foto dei Koch“.
Karl Otto Koch nello stesso anno, 1937, fu nominato comandante del campo di concentramento di Majdanek.
Il tenore di vita dei coniugi Koch mutò radicalmente dal loro arrivo a Buchenwald. L’espropriazione di quelli che erano stati i beni dei prigionieri del campo e il loro sfruttamento come schiavi fecero sì che la coppia si arricchisse in modo spropositato.
Tale comportamento non passò inosservato, sia a livello locale che nazionale.
L’operato di Koch a Buchenwald in qualità di comandante del campo destò l’attenzione dell’Obergruppenführer Josias di Waldeck e Pyrmont, nel 1941. Scorrendo la lista dei morti di Buchenwald, Josias aveva fatto una croce accanto al nome del dottor Walter Krämer, del quale si ricordava poiché era stato suo paziente in passato. Josias investigò il caso e scoprì come Koch avesse ordinato l’uccisione di Krämer e Karl Peixof, altro aiutante all’ospedale del campo, come “prigionieri politici”, perché lo avevano curato dalla sifilide ed egli temeva che potessero diffondere la voce
Nel 1943 furono arrestati entrambi dalla Gestapo per malversazione e altri crimini.
Nel 1945 suo marito fu condannato a morte dalla corte SS a Monaco di Baviera e giustiziato in aprile.
Ilse fu rilasciata e andò a stabilirsi con la propria famiglia a Ludwigsburg. Fu nuovamente arrestata dalle autorità statunitensi il 30 giugno 1945.
Si impiccherà nella sua cella in Baviera nel 1967.
Troppo tardi.
Articolo di Fabio Casalini
Nella fotografia uno dei cani che usava aizzare contro i detenuti.
Ilse Koch la “cagna di Buchenwald”
Appendice e nota di redazione
Ilse Koch la “cagna di Buchenwald”
Lo scenario della II Guerra Mondiale è sicuramente uno dei più sanguinosi e violenti che l’umanità ancora oggi ricordi. Tutti conoscono Hitler e l’olocausto e purtroppo tutti conosciamo gli orrori che si consumarono in quegli anni. Stasera, nella FASCIA DARK, parliamo però nello specifico di un caso in cui il nazismo incontrò il sadismo. Stasera parliamo di Ilse Koch, la “strega di Buchenwald”, “cagna di Buchenwald”, “donnaccia di Buchenwald” o “iena di Buchenwald”. Graziosa e gentile, viene scelta come moglie per Karl Otto Koch, con il fine di formare la coppia modello del regime nazista, quella a cui tutti i tedeschi dovrebbero aspirare. Niente fa presupporre la sua natura sadica e violenta. Tutto ha inizio nel 1937 quando suo marito viene nominato comandante del campo di concentramento di Buchenwald. Ilse viene influenzata dal potere e dalla posizione del marito conducendo una vita agiata, circondata da lusso e privilegi e godendo della sofferenza altrui finché non inzia a torturare lei stessa gli internati.
Agli inizi si concede dei piccoli vezzi, come farsi chiamare dai prigionieri con titoli nobiliari, ma poi, accortasi del piacere che le procura ammirare i flagelli e le piaghe degli “elementi antisociali” si spinge ben oltre, frustando i detenuti che incrociano il suo cammino o aizzando il suo cane contro le donne incinte.
Il marito non è da meno, è solito torturare i prigionieri con un frustino modificato con lame di rasoio, approva l’uso degli schiaccia pollici e dei ferri per marchiare, ma più di tutto ama l’uso degli animali. Tra le numerose perversioni di Ilse, pare ci sia una vera e propria ossessione per il corpo umano che la porta ad organizzare orge saffiche con le mogli degli ufficiali per poi passare agli altri componenti delle SS. Si dice che scateni la sua fame sessuale anche all’interno del campo, costringendo gli internati ad eseguire qualsiasi sua richiesta a sfondo sessuale e girando in topless all’arrivo di ogni nuovo convoglio di prigionieri, massacrando chiunque si giri a guardarla. Queste potrebbero essere solo dicerie è vero, ma è nella dimora dei coniugi Koch che si nascondono le prove dei loro orrori: casa Koch è infatti decorata con paralumi di pelle umana, quadri con lembi di pelle tatuata e tsantsa (teste rimpicciolite), tutto ovviamente preso dagli internati del campo. È troppo anche per la Gestapo che nel 1943 arresta i coniugi Koch per malversazione, eccessiva brutalità, infamia e corruzione. Ilse viene imprigionata nel 1944 l’anno dopo il marito viene condannato a morte e giustiziato. Un tribunale delle SS che arresta due aguzzini può sembrare un paradosso che però aiuta a comprendere il livello di follia omicida che avevano raggiunto Ilse e Otto Koch.
Ilse viene assolta per mancanza di prove, finché nel 1947 viene nuovamente arrestata. Durante la sua permanenza in carcere rimane incinta di un detenuto e approfitta della situazione per rimandare il processo finchè, finalmente, dopo svariati errori giudiziari,viene processata e condannata. La pubblica accusa dichiarò “Se mai un grido è stato udito nel mondo, è quello degli innocenti torturati e morti per mano sua”.
Il film GIORNO DELLA MEMORIA – Una volta nella vita
Descrizione del film “Una volta nella vita”, per celebrare il GIORNO DELLA MEMORIA -Ispirato a una storia vera. Liceo Léon Blum di Créteil, città nella banlieue sud-est di Parigi: una scuola che è un incrocio esplosivo di etnie, confessioni religiose e conflitti sociali. Una professoressa, Anne Gueguen (Ariane Ascaride), propone alla sua classe più problematica un progetto comune: partecipare a un concorso nazionale di storia dedicato alla Resistenza e alla Deportazione. Un incontro, quello con la memoria della Shoah, che cambierà per sempre la vita degli studenti.
Bellissimo film da far vedere nelle scuole- Il film lo dovrebbero vedere anche tutti gli insegnanti.
“Bisogna ripartire dalla scuola”: Ariane Ascaride ci racconta Una volta nella vita.
Il suo volto particolare, al di fuori delle convenzioni cinematografiche, ha reso Ariane Ascaride una musa insolita per il suo compagno, il regista Robert Guédiguian. La metà della sua filmografia è segnata da questo rapporto sinergico, artistico oltre che sentimentale. Ma nel giorno della memoria esce in Italia un film in cui il marito non è coinvolto. Una volta nella vita è la storia vera – cosceneggiata da Ahmed Dramé, uno dei ragazzi che l’ha vissuta solo alcuni anni fa – di una classe apparentemente irrecuperabile di un liceo disagiato della banlieue parigina. Una professoressa, la stessa Aristide, non si arrende a darli per spacciati. Li convince pian piano a partecipare a un concorso sulla resistenza e la deportazione, indetto ogni anno dal governo francese. Occasione per guardare alla scuola in maniera positiva. Concorda l’attrice, che abbiamo incontrato qualche giorno fa a Parigi, in occasione dei Rendez-Vous di Unifrance.
“Soprattutto è una storia vera, non si può obiettare in alcun modo, è qualcosa che è accaduto. Una cosa così eccezionale che Ahmed ha voluto raccontarla. Non è stato solo un film, per me, ma un momento della mia vita.”
Le riprese immagino siano state effettuate in un clima particolare, con tutti quei ragazzi.
C’erano pochi attori, molti erano ragazzi che frequentano ancora la scuola. Si sono davvero sentiti coinvolti in questa storia. Dovevo trovare il modo giusto per relazionarmi con loro, in modo che avessero fiducia in me. Mi ha dato modo di capire quanto sia difficile fare l’insegnante, per cui ho grande ammirazione. Naturalmente giravamo solo un film, ma dovevo avvicinarli a me, stabilire un contatto in modo da rendere tutto credibile.
Il film GIORNO DELLA MEMORIA – Una volta nella vita
Una classe piena di colori, religioni, esperienze diverse, come spesso accade nelle periferie.
Sono stati straordinari. Oltretutto abbiamo girato durante il ramadan, per cui in molti passavano la giornata senza mangiare né bere. La prima settimana mi guardavano come fossi veramente una professoressa, non sapevano bene quando si girava o no. Dopo una decina di giorni, fra un ciak e l’altro, non ero un’amica, ma neanche più la professoressa; piuttosto qualcuno con cui parlare e scoprire cose che non conoscevano.
Cosa comporta per un’attrice con tanti anni di esperienza lavorare con ragazzi non professionisti?
È formidabile, ti obbliga a un grande coinvolgimento, ponendoti molti interrogativi sul tuo lavoro. Sono così veri, sono alta tensione, e non puoi che essere reale anche tu. La mattina arrivavo e li guardavo, li seguivo, poi mi comportavo come una ballerina di tango: ad azione segue reazione. Due passi avanti, uno indietro. È andata così. Abbiamo girato durante l’estate nella vera scuola, il Liceo Léon Blum a Créteil, nella banlieue parigina. I ragazzi hanno presto preso le abitudini che avevano durante l’anno scolastico, mettendosi a fare confusione e a chiacchierare durante le pause. La sola cosa che dicevo era: “se sento ancora qualcuno urlare gli metto le mani alla gola”. Ecco, questo le professoresse non possono dirlo, ma io sì.
Ha incontrato la professoressa che interpreta?
Non prima delle riprese, soltanto dopo, e siamo diventate molto amiche.
Come mai non l’ha incontrata prima?
Perché non volevo riprodurla, volevo costruire il personaggio intorno a quello che avevo letto e alla sceneggiatura. Se avessi cercato solamente di riprodurla non sarei mai riuscita a farlo, non è questo il mio lavoro; devo creare il personaggio, non riprodurlo.
Spesso sulle prime pagine si parla della scuola solo come fonte di problemi. Lei è ottimista?
Non era un vostro grande intellettuale, Gramsci, che parlava di pessimismo dell’intelligenza e ottimismo della volontà? La penso così. Se guardiamo bene il mondo viene da chiedersi come se la caveranno questi ragazzi, ma allo stesso tempo non voglio cedere a pensieri del genere. Sono pieni d’energia e di risorse, il mondo di domani è loro. Faranno delle proposte che noi neanche immaginiamo; ho una fiducia assoluta in loro, bisogna solo ascoltarli.
Lei è madre, questo l’ha portata a una maggiore identificazione con questi mesi bui, specie per i giovani?
Penso di sì. Mia figlia è stata particolarmente sconvolta dopo il 13 novembre: ha perso dei cari amici. Non voleva più uscire di casa, per lei il mondo in cui è cresciuta è finito quella notte, non vuole più avere figli. Penso che mai come oggi il ruolo di madre sia di importanza cruciale.
Non pensa che nelle grandi manifestazioni, dopo Charlie Hebdo e gli attentati di novembre, siano mancate le banlieue?
È proprio questo il problema. Nelle periferie ci sono moltissimi giovani che lavorano, superano gli esami, che vogliono integrarsi, e si integrano, all’interno della società francese. Allo stesso tempo c’è una frangia di persone in sofferenza, senza armi se non la violenza, verbale o del tipo peggiore. Sono fascisti, assassini, folli. Uccidono dei giovani con cui magari sono andati a farsi un bicchiere sei mesi prima. Giovani esattamente come loro. L’errore dello stato francese è non aver compreso come mai siano diventati così, dell’abbandono di queste persone. Non sono che il risultato delle azioni dei nostri governi, i quali, quando non c’è stato più lavoro, li ha assistiti, con il sussidio di disoccupazione, cancellando la loro identità, rendendoli una massa informe.
In fondo nel film quello che fa il suo personaggio è proprio far emergere la specificità di ogni ragazzo, riconoscerlo, senza considerare tutti come un’unica classe problematica.
È esattamente riconoscere il termine giusto, quello che non facciamo. Lo sa che i ragazzi delle banlieue hanno paura di andare sugli Champs-Élysées, non per paura degli attentati, ma anche da prima?
Pensano non sia il loro mondo. Parlo di giovani nati qui, in Francia. È falso, ma gli abbiamo così tanto fatto sentire che non è il loro mondo, che i più fragili o perduti hanno ascoltato sirene mostruose finendo per uccidere altri giovani. Per questo la scuola è fondamentale: se la scuola va male, anche la società andrà male. Se sapesse da quanto tempo dico questa cosa; fino a che non si farà uno sforzo particolare nelle scuole, aiutando i professori, non cambierà niente. Fino a che ci saranno i licei ghetto e le scuole private, senza che i ragazzi si mescolino realmente, non accadrà niente di diverso. È complicato, soprattutto considerato che noi siamo andati a cercare il loro petrolio, tracciando dei confini senza sentire il loro parere. Abbiamo fatto di tutto e preso di tutto, e ora puntiamo il dito dicendo che sono cattivi.
Il film GIORNO DELLA MEMORIA – Una volta nella vita
La storia e l’integrazione sono aspetti importanti della sua carriera.
Da figlia di immigrati italiani posso solo dire che è molto difficile essere un’immigrata. Una frase di mio padre la conservo sempre nella mia testa: è incredibilmente duro, perché sei insultato anche vivendo in una città mista come Marsiglia. Sei meno che niente, un ladro, di qualsiasi immigrazione tu faccia parte. È terribile. Tutto questo avendo la stessa religione, immaginate i musulmani. Provo una grande ammirazione per i giovani che riescono ad uscire da tutto questo, ci vuole un coraggio inimmaginabile. Io ho imparato l’italiano, ma non da mio padre, che non ha mai voluto parlarci in quella lingua. Voleva che fossimo francese. Gli scappavano delle parole in italiano solo quando si arrabbiava.
Un’artista e una donna appassionata, Ariane Ascaride. Colpita come tutti i francesi dagli attentati di novembre, ha scritto per “Le Monde” delle parole che suonano ancora più attuali oggi, giorno della memoria, mentre le prime targhe di marmo sui fatti di Charlie Hebdo sono entrate a far parte del tessuto urbano di Parigi, e il ricordo si confonde con l’attualità. Di seguito alcune delle sue parole.
“Obblighiamo i politici a riconsiderare il loro lavoro, le loro responsabilità storiche. I nostri figli non ci hanno chiesto di venire al mondo, tutti dobbiamo loro un rispetto totale e un mondo luminoso. Facciamo ascoltare la nostra voce in modo che conoscano ancora la spensieratezza della giovinezza. Obblighiamo quelli che nelle sfere privilegiate del potere tavolta se ne dimenticano, a considerare le vere ragioni che portano un giovane a uccidere una ragazza o un ragazzo, che magari ascoltano la sua stessa musica.
Parliamo alto e forte, parliamo a quelli che pensano al mondo nella stessa maniera. Cambiamo, impariamo uno dall’altro, salviamo i nostri figli”.
Il film GIORNO DELLA MEMORIA – Una volta nella vita
Valeria Arnaldi -“TINA MODOTTI HERMANA” -Edizioni Red Star Press-
Valeria Arnaldi -“TINA MODOTTI HERMANA” Edizioni Red Star Press
Tina Modotti: icona, attrice, fotografa, amante e rivoluzionaria-Passione, scandalo, rivoluzione.Tina Modotti,Nata a Udine nel 1896, operaia in fabbrica, emigrata negli Stati Uniti con il primo marito, il pittore francese Roubaix “Robo” de l’Abrie Richey.
Un promettente esordio a Hollywood nel film The Tiger’s Coat (1920) dove la critica ne esalta il fascino esotico.
Nel 1921 l’incontro fatale con il grande fotografo Edward Weston, di cui diviene la modella prediletta, poi l’amante e infine l’assistente.
Dopo la Los Angeles del cinema c’è il Messico della Rivoluzione.
Assieme a Weston frequenta i circoli dei muralisti, entra in contatto con Diego Rivera prima, e con Frida Kahlo poi, con la quale consuma una relazione scandalosa e appassionata.
Nel 1929 inaugura una sua personale a Città del Messico che viene definita «la prima mostra fotografica rivoluzionaria».
Poi è tempo di altri amori, di altre passioni: finisce a Mosca, viene arruolata dai servizi segreti russi.
Corre a combattere in Spagna a sostegno della Repubblica, con il suo nuovo amante, Vittorio Vidali.
Conclusa l’esperienza spagnola torna in Messico, si fa il suo nome in relazione all’assassinio di Lev Trockij.
Gli avvenimenti storici iniziano a farsi confusi, la vita accelera nella corsa al traguardo.
Il corpo senza vita viene ritrovato il 5 gennaio 1942. Aveva 46 anni.
Sulla sua lapide una poesia composta per l’occasione da Pablo Neruda inizia così: Tina Modotti hermana…
Pagine 272-Formato 13×20 cm, oltre 100 immagini-Collana Bizzarro Books- ISBN 9788867181315
Arnaldi Valeria
L’Autore-Valeria Arnaldi- Giornalista professionista, critica d’arte e scrittrice, collabora con testate italiane e straniere e organizza mostre d’arte contemporanea.
Red Star Press
Viale di Tor Marancia 76
00147 Roma, Italia
Poemas de Maria do Rosário Pedreira- Poetessa e scrittrice portoghese-
Maria do Rosário Pedreira è un’editrice, scrittrice, poetessa e paroliera portoghese. Laureata in Lingue e letterature moderne, con specializzazione in studi francesi e inglesi, ha insegnato per cinque anni negli anni ’80.Nel 1987 diventa editrice grazie all’impegno del prof. Antonio Manuel Baptista, iniziando questa attività nel campo dei libri di divulgazione scientifica.
Non c’è piùnessun nome
Non c’è più nessun nome. Dopo di te mi destinarono solo nomi che non amai, volti sui quali non volli posare gli occhi per paura di fissarli, mani che erano sempre l’ombra delle tue mani sotto le lenzuola. Mai neanche le vidi né toccai quelle dita che, nel buio, celebravano nella mia la tua carne – se un altro motivo le portò, per quanto vago, anche non volli udirlo, mai lo seppi. Dopo di te, dopo gli altri uomini, è ancora il tuo nome che dico. E nessun altro.
Lascia il tempo cadere sul tuo nome
Lasciai cadere il tempo sul tuo nome, come si adagia il marmo sulla terra e l’acqua si sparge sulle braci. Mi vestii di lutto come le donne che disfano le culle vuote da tanto le guardano; e vidi il sangue scendere finalmente sulla ferita, come la cera che si rapprende sul palmo della mano prima di perdersi nelle dita in polvere. Se ti dimenticai, fu perché volli qualcuno che mi chiamasse, un corpo che fosse un altro sul mio corpo, una voce offerta per la mattina. Ma niente, ma nessuno. Se il tempo non si fosse abbattuto sul tuo nome, avrei potuto almeno ora ricordarti – poiché non c’è lapide senza corpo né cenere che non abbia arso. E la casa è oggi più fredda che mai: lasciai passare il tempo sul tuo nome, e non c’è focolare, non c’è nido, non ci sono figli che si possano perdere da me, né candele per riempire di memoria questo silenzio.
So chi sei, ma mi manca il tuo nome
So chi sei, ma mi manca il tuo nome – né sempre le parole arrivano agli occhi. Ma non dare importanza: ci sono altre cose che non dimenticherò mai – le mie braccia ancorate al tuo corpo, una cecità, e il mondo improvvisamente tanto piccolo – e queste, tu non lo sai, mi mancano anche. Il tuo volto, dammelo per un secondo, La tua bocca, chiaro. Sono tanti gli anni senza te nelle pieghe della mia gonna, tanta vita custodita per un giorno così. Adesso ritorna, dunque. Lascia cadere quel sorriso delle tue labbra, – nelle mie deve distendersi come il sole, all’imbrunire, quando di nuovo sopra di loro respirerai con il profumo salato delle maree. Ma non dire niente del mio corpo stanco – è una camicia d’estate dimenticata sulla spiaggia, e l’abito è sempre il meno, tanto fa. Non vedi chi sono? Il tempo non può aver castigato solo il mio sguardo. Vieni più vicino e spia adagio: sono tanti gli anni senza le tue braccia nelle maniche del mio vestito, tanto sangue custodito nelle vene per una notte così. E tu già te ne vai?
Fra noi c’è una ferita
Fra noi c’è una ferita che ormai non sanguina, ma non si rimargina – un amore che dura ancora ed è perso. Se rimaniamo insieme, non vediamo mai passare la lamina del tempo, ma diventiamo sempre più vecchi di quando partimmo. Dicono che ci sono bende e bavagli tra di noi, ma sono tanti i lacci, tante le fasciature, che mi domando perché si allontanano gli occhi nel toccarsi, perché solo dice il silenzio ciò che non dura. Non ci sono parole possibili – fra di noi – il vento è sempre più vento nella camicia e il dolore più dolore nelle mani quando le sciogliamo. Ma niente di questo conta, perché gli occhi che ridono tanto nelle pieghe del vestito sono i più tristi del mondo se li guardiamo. So che mento quando paragono ciò che la vita ci rubò a ciò che ci ha dato; ma, se mi tocco e ormai non sono un corpo, mi limito a indovinare un nome per ciò che non sento e mi rifiuto di credere che sia il tuo.
Maria do Rosário Pedreira
Ho messo un abito scollato
Ho messo un abito scollato e non so se ritorni, ma le parole sono pronte sulle labbra come segreti imperfetti o germogli di acqua custoditi per l’estate. E, se di notte le ripeto in sordina, nel silenzio della stanza, prima di addormentarmi, è come se all’improvviso gli uccelli fossero già arrivati a sud e tu ritornassi in cerca di questi antichi messaggi lavati dal tempo: Andiamo a casa? Il sole dorme sui tetti la domenica e c’è un intenso odore di lino sparso sui tetti. Possiamo rivoltare i sogni al rovescio, dormire dentro il pomeriggio e lasciare che il tempo si occupi dei gesti più piccoli. Andiamo a casa. Ho lasciato un libro aperto a metà sul pavimento della stanza, sono sole nella scatola le vecchie foto del nonno, c’erano le tue mani strette con forza, quella musica che eravamo soliti ascoltare d’inverno. E io voglio rivedere le nuvole ritagliate nelle finestre rosse del crepuscolo; e voglio andare di nuovo a casa. Come le altre volte. E così mi preparo per il sonno, notte dopo notte, dipanando la lenta matassa dei giorni per scontare l’attesa. E, quando la nidiata allontanerà alla fine le ali della chiglia al suo primo volo, di certo mi troverò ancora qui, ma potrò dire che, per lo meno qualche volta, già inviai i messaggi, già dalla mia bocca udii queste parole, che tu ritorni o non ritorni.
Non ho saputo il tuo nome
Non ho mai saputo il tuo nome. Entrasti un pomeriggio, per sbaglio, a domandare se io ero un’altra persona – un sole che improvvisamente aggiungeva calce ai muri, un incendio capace di divorare il cuore del mondo. Non ti mentii; mi alzai e ti condussi alla porta giusta come un veliero trascina i sogni in mare; ma, prima di lasciarti, ti dissi ancora che in quel pomeriggio mi sarebbe piaciuto molto chiamarmi un’altra cosa – o essere un gatto, per poter avere più di una vita.
Il cammino fino a te
È sempre stato così incerto il cammino fino a te: tanti mesi di pietre e di spine, di cattivi presagi, di rami che graffiavano la carne come tridenti, di voci che mi dicevano che non valeva la pena continuare, che il tuo sguardo era già una menzogna; e il mio cuore sempre così sordo a tutto questo, sempre a gridare qualcos’altro più alto affinché le gambe non potessero ricordare le loro ferite, perché i piedi ignorassero le pene del viaggio e avanzassero tutti i giorni di un poco, quel poco che era tutto per raggiungerti. Fu per questo che, al contrario di te, non volli dormire quella notte: i tuoi baci si trovavano ancora tutti sulla mia bocca e il disegno delle tue mani sulla mia pelle. Io sapevo che addormentarsi era smettere di sentire, e non volevo perdere i tuoi gesti sul mio corpo un secondo che fosse. Allora mi sedetti sul letto a guardarti dormire, e sorrisi come mai avevo sorriso prima di quella notte, sorrisi tanto. Ma tu parlasti improvvisamente nel sonno, allungasti il braccio verso me e chiamasti sottovoce. Chiamasti due volte. O tre. E sempre così sottovoce. Ma nessuna fu per dire il mio nome.
Maria do Rosário Pedreira
A cosa mi è servito correre
A cosa mi è servito correre per tutto il mondo, trascinare, di città in città, un amore che pesava più di mille valigie; mostrare a mille uomini il tuo nome scritto in mille alfabeti e un’immagine del tuo volto che io giudicavo felice? A cosa mi è servito respingere questi mille uomini, e gli altri mille che fecero di tutto perché mi fermassi, mille volte pettinando le pieghe del mio vestito stanco di viaggi, o dicendo il tuo nome così bello in mille lingue che io mai avrei compreso? Perché era solo dietro te che correvo il mondo, era con la tua voce nelle mie orecchie che io trascinavo il fardello dell’amore di città in città, il tuo nome sulle mie labbra di città in città, il tuo volto nei miei occhi durante tutto il viaggio.
Si ricordava di lui
Si ricordava di lui e, per amore, anche se pensava a un serpente, avrebbe detto solo un arabesco; e avrebbe nascosto nella gonna il morso caldo, la ferita, l’impronta di tutti gli inganni, avrebbe fatto quasi tutto per amore: avrebbe dato il sonno e il sangue, la casa e la felicità, e avrebbe custodito silenziosi i fantasmi della paura, che sono i padroni delle piú grandi verità. Già un’altra volta aveva mentito e per amore si sarebbe seduta alla tavola di lui e avrebbe negato che lo amava, perché amarlo era un inganno ancora piú grande che mentirgli. E, per amore, si mise a disegnare il tempo come una linea stordita, sempre al cadere di una pagina, a prolungare il mancato incontro. E faceva stelle, anche se pensava alle croci; arabeschi, anche se ricordava solo serpenti.
Non dire per cosa vieni.
Non dire per cosa vieni. Lasciami indovinare dalla polvere dei tuoi capelli che vento ti ha mandato. È lontana la … tua casa? Ti do la mia: leggo nei tuoi occhi la stanchezza del giorno che ti ha vinto; e, sul tuo volto, le ombre mi raccontano il resto del viaggio. Dai, vieni a dar riposo ai tormenti del cammino nelle curve del mio corpo – è una meta senza dolore e senza memoria. Hai sete? Avanza dal pomeriggio solo una fetta d’arancia – mordila nella mia bocca senza chiedere. No, non dirmi chi sei né per che cosa vieni. Decido io.
Paura dell’amore
Non aver paura dell’amore. Posa la tua mano lentamente sul petto della terra e senti respirare i nomi delle cose che lì stanno crescendo: il lino e la genziana, la verzura odorosa e le campanule blu; la menta profumata per le bevande dell’estate e l’ordito delle radici di una pianticella d’alloro che si organizza come un reticolo di vene nella confusione di un corpo. Mai la vita è stata solo inverno.
Maria do Rosário Pedreira
Questa mattina
Questa mattina il sole è passato improvvisamente dall’altra parte della via – sono così in ombra le case quando di loro si perde il nome di qualcuno, così scuri i cuori di quelli che restano là dentro per abitare il dolore.
Maria do Rosário Pedreira
Maria do Rosário Pedreira (Lisbona , 21 settembre 1959) è un’editrice, scrittrice, poetessa e paroliera portoghese.Laureata in Lingue e letterature moderne, con specializzazione in studi francesi e inglesi, ha insegnato per cinque anni negli anni ’80.
Nel 1987 diventa editrice grazie all’impegno del prof. Antonio Manuel Baptista, iniziando questa attività nel campo dei libri di divulgazione scientifica.
Dal 1989 al 1998 è stata autrice della raccolta giovanile “Clube das Chaves”, con Maria Teresa Maia Gonzalez, pubblicandone 21 titoli. In seguito, nel 2000, ha pubblicato la raccolta giovanile “Detective Maravilhas”, con 17 volumi.
Cura attualmente autori come Nuno Camarneiro, Ana Cristina Silva, Vasco Luís Curado, Gabriela Ruivo Trindade, Norberto Morais, Nuno Amado, Cristina Drios, Carlos Campaniço, João Rebocho Pais e Paulo Moreiras.
Come scrittrice ha pubblicato diverse opere di narrativa, poesia, cronaca e letteratura giovanile, ricercando in quest’ultimo genere la trasmissione di valori umani e culturali. Per l’autrice, già premiata con alcuni premi letterari, la casa può essere considerata come un mondo dove tutto ciò che dura è contenuto, anche se sotto forma di memoria, con nostalgia.
È autrice di diversi testi musicali di fado, cantati da Carlos do Carmo, António Zambujo, Aldina Duarte, Ana Moura e, più recentemente, da Salvador Sobral.
Maria do Rosário Pedreira-Nació en Lisboa, Portugal, en 1959. Esta reconocida poeta, escritora y editora estudió Lenguas y Literaturas Modernas en la Universidad Clásica de Lisboa.En 1996 publicó su primer libro de poesía, A Casa e o Cheiro dos Livros, y desde entonces ha sido autora tanto de poesía como de novelas, literatura juvenil, ensayos, crónicas y letras para fado. Como editora, estuvo detrás del surgimiento de varios de los autores contemporáneos más destacados de Portugal, como José Luís Peixoto y Valter Hugo Mãe, y también publicó las colecciones de literatura juvenil O Clube das Chaves y Detective Maravilhas, las cuales han tenido una excelente acogida en Portugal. Entre sus libros publicados está su antología Poesía reunida, que en 2012 ganó el premio de literatura de la Fundación Inês de Castro.
Poemas de Maria do Rosário Pedreira
Maria do Rosário Pedreira
Arte poética
Num romance, uma chávena é apenas uma chávena — que pode derramar café sobre um poema, se o poeta, bem entendido, for a personagem.
Num poema, mesmo manchado de café, a chávena é certamente a concha de uma mão — por onde eu bebo o mundo em maravilha, se tu, bem entendido, fores o poeta.
No nosso romance, não sou sempre eu quem leva as chávenas para a mesa a que nos sentamos à noite, de mãos dadas, a dizer que a lata do café chegou ao fim, mas a pensar que a vida é que já vai bastante adiantada para os livros todos que ainda pensamos ler.
No meu poema, não precisamos de café para nos mantermos acordados: a minha boca está sempre na concha da tua mão, todos os dias há páginas nos teus olhos, escreve-se a vida sem nunca envelhecermos.
Arte poética
En una historia, una taza es tan sólo una taza, que puede derramar café sobre un poema, si el poeta, entiéndase bien, es el personaje.
En un poema, así esté manchado de café, la taza es con seguridad el cuenco de una mano; por donde yo bebo el mundo en éxtasis si tú, entiéndase bien, eres el poeta.
En nuestra historia, yo no soy siempre quien lleva las tazas a la mesa donde nos sentamos cada noche, enlazando las manos, para comentar que la lata del café se terminó, pero pensando que es la vida la que ya ha avanzado mucho para los libros que todavía quisiéramos leer.
En mi poema no necesitamos café para mantenernos despiertos: mi boca está siempre en el cuenco de tu mano, todos los días hay páginas en tus ojos, la vida se escribe y nunca envejecemos.
***
O meu mundo tem estado à tua espera; mas não há flores nas jarras, nem velas sobre a mesa, nem retratos escondidos no fundo das gavetas. Sei
que um poema se escreveria entre nós dois; mas não comprei o vinho, não mudei os lençóis, não perfumei o decote do vestido.
Se ouço falar de ti, comove-me o teu nome (mas nem pensar em suspirá-lo ao teu ouvido); se me dizem que vens, o corpo é uma fogueira — estalam-me brasas no peito, desvairadas, e respiro com a violência de um incêndio; mas parto antes de saber como seria. Não me perguntes
porque se mata o sol na lâmina dos dias e o meu mundo continua à tua espera: houve sempre coisas de esguelha nas paisagens e amores imperfeitos — Deus tem as mãos grandes.
Maria do Rosário Pedreira
***
Mi mundo ha estado esperándote; pero no hay flores en los jarrones, ni velas sobre la mesa, ni retratos escondidos al fondo de los cajones. Sé
que un poema se escribiría entre nosotros dos; pero no compré el vino, no cambié las sábanas, no perfumé el escote del vestido.
Si oigo hablar de ti, me conmueve tu nombre (pero ni pensar en suspirarlo a tu oído); si me dicen que vienes, el cuerpo es una hoguera: me crepitan brasas en el pecho, trastornadas, y respiro con la violencia de un incendio; pero parto antes de saber cómo sería. No me preguntes
por qué el sol se mata en el filo de los días y mi mundo continúa esperándote: siempre hubo cosas de soslayo en los paisajes y amores imperfectos; Dios tiene las manos grandes.
Fado
Dizem os ventos que as marés não dormem esta noite. Estou assustada à espera que regresses: as ondas já engoliram a praia mais pequena e entornaram algas nos vasos da varanda. E, na cidade, conta-se que as praças acoitaram à tarde dezenas de gaivotas que perseguiram os pombos e os morderam.
A lareira crepita lentamente. O pão ainda está morno à tua mesa. Mas a água já ferveu três vezes para o caldo. E em casa a luz fraqueja, não tarda que se apague. E tu não tardes, que eu fiz um bolo de ervas com canela; e há compota de ameixas e suspiros e um cobertor de lã na cama e eu
estou assustada. A lua está apenas por metade, a terra treme. E eu tremo, com medo que não voltes.
Fado
Dicen los vientos que las mareas no duermen esta noche. Estoy asustada esperando que regreses: las olas ya se tragaron la playa más pequeña y derramaron algas en las macetas del balcón. Y, en la ciudad, se cuenta que la plazas acogieron por la tarde a decenas de gaviotas que persiguieron a las palomas y las mordieron.
La chimenea crepita lentamente. El pan todavía está tibio en tu mesa. Pero el agua ha hervido ya tres veces para el caldo. Y en casa la luz se debilita, no tardará en apagarse. Y tú no tardes, que hice una tarta de hierbas con canela; y hay mermelada de ciruelas y merengues y una manta de lana en la cama y yo
estoy asustada. Sólo está la mitad de la luna, la tierra tiembla. Y yo tiemblo, temiendo que no vuelvas.
Maria do Rosário Pedreira
***
Mãe, oxalá eu nunca tivesse largado a tua mão: com o menino ao colo, fez-se a estrada maior do que o meu desespero, amarrotou-se de velho meu coração tão claro. Eu tinha catorze anos antes
do estrondo, catorze anos e meio antes do teu grito, quinze anos cumpridos quando afastei o véu dos teus cabelos: se me dizias sempre que não fosse para longe, porque pediam o contrário os teus olhos parados? Ainda por cima, mãe, chegar
ao campo foi como bater a uma porta cansada – mil tendas que eram velas remendadas, barcos para ficar de novo pelo caminho. Trouxeram-nos mantas cheias de perguntas; tentaram-me com doces para me pôr no lugar; mudaram ao meu irmão a fralda com as mãos frias. Mãe, eu disse-lhes que
o menino era meu; e agora, quando ele procura os teus seios no meu corpo sem formas, cubro com o teu véu os meus cabelos e canto-lhe baixinho canções de açúcar. Não sei que idade tenho, mãe, mas oxalá eu nunca tivesse largado a tua mão.
***
Madre, ojalá yo nunca hubiera soltado tu mano: con el niño en brazos, se hizo el camino más largo que mi desesperación, se arrugó de viejo mí corazón tan claro. Yo tenía catorce años antes
del estruendo, catorce años y medio antes de tu grito, quince años cumplidos cuando alejé el velo de tus cabellos: si me decías siempre que no me alejara, ¿por qué pedían lo contrario tus ojos parados? Además, madre, llegar
al campo fue como llamar a una puerta cansada; mil tiendas que eran velas remendadas, barcos para quedarse de nuevo por el camino. Nos trajeron cobijas llenas de preguntas; me tentaron con dulces para ponerme en mi lugar; con las manos frías le cambiaron el pañal a mi hermano. Madre, yo les dije que
el niño era mío; y ahora, cuando él busca tus senos en mi cuerpo sin formas, cubro con tu velo mis cabellos y le canto bajito canciones de azúcar. No sé qué edad tengo, madre, pero ojalá yo nunca hubiera soltado tu mano.
Il sacrificio del sacerdote Massimiliano Kolbe e il silenzio di molti-Articolo di Roberto Guidotti-
Ascoli Piceno – Il sacrificio del sacerdote Massimiliano Kolbe- Entrando in quel gioiello architettonico che è la Chiesa di San Francesco ad Ascoli Piceno, sono in diversi a notare e chiedere chi siano i personaggi moderni raffigurati in una vetrata del finestrone della navata destra.
L’uomo prigioniero davanti a un ufficiale delle SS è il sacerdote polacco Massimiliano Kolbe. Kolbe aiutò i profughi ebrei durante la seconda guerra mondiale. Nel 1941 fu mandato nel campo di concentramento di Auschwitz, dove offrì la sua vita al posto di quella del detenuto Franciszek Gajowniczek, condannato a morte. Dopo averlo lasciato a morire di fame, alla fine gli praticarono un’iniezione di fenolo e lo cremarono. Le sue ceneri si mescolarono insieme a quelle di tanti altri condannati, nel forno crematorio.
Kolbe fu beatificato nel 1971 da Paolo VI e canonizzato nel 1982 da Giovanni Paolo II che a proposito del suo martirio disse che aveva riportato “la vittoria mediante l’amore e la fede, in un luogo costruito per la negazione della fede in Dio e nell’uomo”.
San Massimiliano Kolbe
Come si vede nella vetrata, il sacerdote aveva al petto un triangolo rosso quello che i nazisti affibbiarono ai prigionieri politici tipo i comunisti o i socialdemocratici.
Paradossalmente la deportazione di Kolbe nei lager, pur non costituendo un unicum in ambito cattolico e sacerdotale, contrasta con l’atteggiamento di pensiero e azione della maggioranza dei sacerdoti e vescovi che non si opposero al nazismo o si schierarono a favore approfittando dell’acquiescenza delle gerarchie, come dimostrato ampiamente dalle ricerche di Kevin Spicer (I sacerdoti di Hitler), Guenter Lewy (I Nazisti e la chiesa) e più recentemente da Hans Kung (Ebraismo) e Daniel Jonah Goldhagen (Una questione morale – La Chiesa cattolica e l’Olocausto).
Nel gennaio 1995, nel cinquantesimo anniversario della liberazione di Auschwitz, la segreteria della Conferenza dei vescovi tedeschi fece una dichiarazione in cui si rammaricava che durante il regime nazista così pochi cristiani avessero aiutato gli ebrei. “Le omissioni e le colpe di questi giorni riguardavano anche la Chiesa. Durante il Terzo Reich, i cristiani non portarono avanti la resistenza necessaria all’antisemitismo razzista… Non pochi si lasciarono affascinare dall’ideologia nazionalsocialista e rimasero indifferenti ai crimini commessi contro la vita e i beni degli ebrei. Altri favorirono alcuni crimini o divennero criminali essi stessi”. (I Nazisti e la chiesa)
Nella loro suddivisione delle “categorie” di prigionieri i nazisti attribuirono solo a una confessione religiosa, i Testimoni di Geova un triangolo specifico, quello viola, che li distingueva dagli ebrei, dai rom, dai sinti, omosessuali, politici, fino a un totale di otto, nove categorie. Il motivo era chiaro: in blocco i testimoni di Geova, circa 20.000 in Germania, rifiutarono di schierarsi con il regime nazista, pagando duramente la resistenza religiosa e morale mostrata sin dall’inizio del cancellierato di Hitler nel 1933 con l’oppressione, la deportazione e la morte.
Una vicenda quella dei Bibelforscher che ha portato alcuni storici, come la professoressa di studi ebraici e storia dell’antisemitismo Susannah Heschel a chiedere: “Che cosa sarebbe accaduto se la chiesa luterana o quella cattolica si fosse comportata come i testimoni di Geova? A mio avviso questo avrebbe mutato l’intero corso della storia”. Su questo punto in una recente intervista, è intervenuto anche Claudio Vercelli storico e docente che pur segnando la differenza tra “la posizione delle chiese concordatarie rispetto a un gruppo minoritario”, ha affermato che “il clima di compromissione (per la coscienza) e collusione amorale che il regime medesimo incentivò in tutta la società tedesca era una strategia di cooptazione, che funzionò per una parte rilevante del cattolicesimo e del protestantesimo germanici”.
Mentre si avvicina la Giornata della Memoria con i suoi programmi e rituali, è giusto ricordare che oltre alle povere e sventurate vittime, ci furono martiri veri e propri che si opposero per motivi religiosi al mostro nazista: Kolbe e altri preti, la suora Edith Sthein, alcuni pastori protestanti e compatti ideologicamente i Testimoni di Geova europei.
Storie consolanti anche in tempi moderni e poco luminosi come i nostri. Nello stesso tempo è la conferma che nella storia dell’uomo di ogni epoca, lo stimolo e la forza della propria coscienza e delle proprie idee può essere più forte di ogni vessazione, prevaricazione e afflizione. Anche se il saldo di questa integrità può costare la libertà e la vita stessa.
Roberto Guidotti-Iscritto Albo Giornalisti Marche
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Helmut Newton. Legacy-Autori Matthias Harder e Philippe Garner-Editore Taschen
Helmut Newton. Legacy
Descrizione-Un’eredità permanente L’estesa opera omnia di Helmut Newton– Autori Matthias Harder e Philippe Garner-Abbracciando un periodo di più di cinquant’anni e coprendo una quantità di ambiti impareggiabile, la fotografia del visionario Helmut Newton (1920–2004) ha raggiunto milioni di persone grazie alla pubblicazione su riviste del calibro di Vogue e Elle. La sua opera ha trasceso i generi, portando eleganza, stile e voyerismo nella fotografia di moda e nel ritratto, configurandosi in un corpus che resta inimitabile e insuperato. La padronanza dell’arte della fotografia di moda raggiunta all’inizio della sua carriera, ha fatto sì che, nei suoi scatti, Newton andasse regolarmente oltre la pratica comune, sfumando i confini fra realtà e illusione e spesso infondendo in essi una vena di surrealismo o la suspense di un film di Alfred Hitchcock. Un’estetica pulita pervade ogni ambito del suo lavoro, in particolare la fotografia di moda, di nudo e i ritratti. Le donne occupano una posizione centrale e fra i suoi soggetti figurano Catherine Deneuve, Liz Taylor, e Charlotte Rampling. Superando gli approcci narrativi tradizionali, la fotografia di moda di Newton è permeata non solo da un’eleganza sfarzosa e una sottile seduzione, ma anche da riferimenti culturali e un sorprendente senso dell’umorismo. Negli anni ’90 Newton ha pubblicato le sue fotografie nelle edizioni tedesca, americana, italiana, francese e russa di Vogue, scattandole prevalentemente a Monte Caldo e nei dintorni, dove si era trasferito nel 1981. Era solito trasformare locali, come il suo garage, in veri e propri palcoscenici teatrali dai particolari fortemente contrastanti o decisamente minimalisti, e in queste ambientazioni insoliti ritraeva spesso le vite eccentriche di personaggi ricchi e belli in scatti traboccanti di erotismo ed eleganza. Usava, e allo stesso tempo metteva in discussione, cliché visivi, talvolta con autoironia o una certa dose di parodia, ma sempre mostrando empatia. Coniugava con estrema sobrietà nudità e moda, trasformando così il suo lavoro in una testimonianza e un’analisi dei cambiamenti nel ruolo della donna nella società occidentale. Helmut Newton. Legacy, pensato per accompagnare la mostra internazionale itinerante dei lavori di Helmut Newton, presenta le opere principali di uno dei corpus più pubblicati della storia della fotografia, unitamente a svariate immagini riscoperte di recente. Questo volume celebra l’intramontabile influenza sulla fotografia moderna e l’arte visiva di Helmut Newton, prolifico creatore di immagini e autentico visionario. “Sono un voyeur professionista.” — Helmut Newton Il fotografo: Helmut Newton (1920–2004) è stato uno dei fotografi più influenti di tutti i tempi. Raggiunse la fama internazionale negli anni ’70, quando lavorava principalmente per l’edizione francese di Vogue, dove si fece apprezzare per le ambientazioni controverse delle sue fotografie. La sua abilità più originale consisteva nel far sembrare spontanei e dinamici scatti che erano in realtà accuratamente pianificati. Fra i numerosi titoli e riconoscimenti che ottenne spicca quello di Commandeur de l’Ordre des Arts et des Lettres. Il curatore e autore: Matthias Harder ha studiato storia dell’arte, archeologia classica e filosofia a Kiel e Berlino. È un membro della German Society of Photography e membro del comitato consultivo dello European Month of Photography. Curatore capo della Helmut Newton Foundation di Berlino dal 2004 e suo direttore dal 2019, ha scritto numerosi contributi per svariati libri e cataloghi di mostre. L’autore: Philippe Garner è un esperto di fotografia del XX secolo, design e arte decorativa. Ha scritto numerosi saggi e libri, spaziando dagli studi delle vite del designer Émile Gallé e dei fotografi Cecil Beaton e John Cowan, al volume Sixties Design pubblicato da TASCHEN. Ex dirigente di Christie’s, ha curato anche alcune mostre per musei di Londra, Parigi e Tokyo.
Helmut Newton. Legacy
Helmut Newton è una figura difficile da inquadrare. La maggior parte di noi crede di conoscere il suo lavoro, almeno nei suoi aspetti più importanti. Ma l’opera del fotografo tedesco-australiano è così prestigiosa ed emblematica che qualunque analisi sistematica con qualche pretesa di esaustività è destinata a fallire. […] Un approccio adeguato all’opera di Newton potrebbe essere uno studio di come il fotografo metteva in scena le sue immagini, attuato attraverso l’analisi di una selezione di fotografie scattate in quarant’anni di attività e che illustrano in modi molto diversi le tre principali tipologie del lavoro di Newton: moda, nudi e ritratti, a volte tutti in un unico scatto. […]
Newton ha sviluppato il suo inimitabile stile nella Parigi degli anni sessanta. La sua visione dinamica si manifesta, ad esempio, in una serie di fotografie dei modelli di André Courrèges, rivoluzionari per l’epoca, che scattò nel 1964 per la rivista britannica Queen. In retrospettiva, è evidente che aveva bisogno di trovare il giusto “sparring partner”: lavorare con spiriti affini gli era essenziale per eseguire con successo un incarico e, in definitiva, per aprire le porte all’avanguardia. Questa simbiosi si è ripetuta nelle sue intense collaborazioni con Yves Saint Laurent, Karl Lagerfeld e Thierry Mugler. Allo stesso tempo, le condizioni a volte rigide imposte dai suoi clienti e le loro aspettative sempre elevate erano per lui un forte stimolo a contrapporsi alle modalità tradizionali di rappresentazione. Per una mente irrequieta e creativa come la sua, era fondamentale spingersi oltre i limiti del consueto, quando lavorava all’interno delle regole consolidate definite dai servizi commissionatogli dalle riviste.
La serie di fotografie per Courrèges venne realizzata in uno studio rivestito di pannelli dalla superficie leggermente riflettente che raddoppiavano schematicamente le modelle; ma spesso Newton lavorava all’aperto, nelle vie parigine. Le sue modelle apparivano da sole o in gruppo, in pose a volte eleganti ed erotiche, a volte anarchiche e giocose. Sebbene siano principalmente fotografie di moda, queste immagini sono anche un sottile commento alla società dell’epoca, accennando a tematiche come le manifestazioni nelle metropoli europee e la radicalizzazione dei giovani borghesi. La sua fotografia di moda a colori scattata a Parigi nel 1970 per la rivista americana Essence fa pensare che Newton abbia catturato immagini di una manifestazione spontanea, come un fotoreporter. In realtà, le cinque donne nere che corrono verso l’osservatore gridando slogan e indossando le ultime creazioni della collezione Rive Gauche di Yves Saint Laurent erano modelle regolarmente ingaggiate. Sebbene Newton si sia sempre ispirato a situazioni reali, con lui non si poteva mai dire con sicurezza dove finisse la realtà e iniziasse l’illusione.
In quegli anni erano i redattori, tra cui grandi nomi come Alexander Liberman, Francine Crescent, Caroline Baker e Willie Landels, a decidere quali sequenze di immagini e quali dettagli dovessero essere pubblicati, e quindi a determinare il modo in cui le interpretazioni della moda di Newton sarebbero state accolte. Tuttavia, il fotografo aveva possibilità quasi illimitate per quanto riguardava lo scatto in sé. Nel 1971, per una serie di fotografie di costumi da bagno apparse su Vogue US, Newton fece trasportare la modella in elicottero sui set alle Hawaii; e per una serie di fotografie di lingerie scattate nello stesso anno per Nova, si servì di un hotel di Parigi che affittava camere a ore. In questa serie lo stesso Newton appare come una figura interattiva, con una macchina fotografica in mano, intento a scattare fotografie verso gli specchi fissati alle pareti o al soffitto.
Matthias Harder
Tratto da Helmut Newton Legacy, Taschen 2023
HELMUT NEWTON. LEGACY sarà in mostra alla Helmut Newton Foundation, Jebensstraße 2, 10623 Berlino dal 31 ottobre 2021 al 22 maggio 2022
Un’immagine, una fotografia, alcune parole ci aprono a ricordi che pensavamo di aver dimenticato… Antonio Vivaldi –Qui è una lapide appesa ad una chiesa (si chiama della Pietà ed è ben visibile dalla Riva degli Schiavoni a due passi da Piazza San Marco) a ricordarmi chi in questo luogo passò gran parte della sua vita a suonare il violino e a dirigere i concerti che lui stesso componeva. Di lui oggi si sa quasi tutto anche se un oblio prolungato durato 200 anni ne aveva fatto scomparire la memoria. Forse avrete già intuito a chi alludo: lui è Antonio Vivaldi, uno dei più grandi compositori del suo tempo… (Venezia 1678-Vienna 1741).
Antonio VIVALDI
Ma non starò certo a raccontarvi la sua storia che, pur interessante, immagino già conoscerete, anche se certe parti della sua vita, forse, sono rimaste ancora nell’ombra. Quello che cercherò di fare sarà un breve viaggio nella Venezia della sua decadenza, alla ricerca del suo stile, tra quello spazio che va dalla fine del 1600 ai primi decenni del 1700, tempo in cui Vivaldi visse e dove seppe esprimere tutto il suo genio.
Sembrerà curioso sapere che, nonostante la città non fosse più la stessa dei secoli precedenti (in quanto a ricchezza e potenza bellica) e faccia fatica a fronteggiare le calamità verificatesi più volte (la più gravosa fu l’epidemia di peste che il secolo prima aveva decimato la sua popolazione) si aprono nuovi teatri, dove la gente si precipita: per divertirsi, o per dimenticare. Emergono figure di scrittori divenuti poi in seguito famosi: Carlo Goldoni, i fratelli Gozzi, Giacinto Gallina…
Ma quanto accade in città non è ancora, per Vivaldi, motivo di interesse. Iniziò qui la sua storia quando, uscito dal seminario, ha già 25 anni, ma soprattutto è un sacerdote. Sembra però che la vita ecclesiastica non sia stata quella adatta a lui. Il pretesto, o la causa, che lo allontana dai suoi obblighi sacerdotali è una malattia di cui soffriva fin da ragazzino e diagnosticata allora come « strettezza de petto » (un’asma bronchiale). Per il giovane Antonio la dispensa dal dire messa fu una vera fortuna che gli consentì di dedicarsi esclusivamente alla musica, unica ragione della sua vita. Ma al periodo passato in seminario Vivaldi sarà sempre grato: gli consentì di studiare e approfondire la conoscenza della musica, imparando a suonare il violino e a perfezionare una tecnica virtuosistica, da molti definita insuperabile.Ma, in cuor suo, Vivaldi si sente attratto dalla composizione. Scrive musica, anzitutto quella strumentale, che sottopone al padre (suona il violino nella Cappella Marciana, l’unica istituzione musicale della città), ma non trova estimatori. Il suo sogno di dirigere un giorno la Cappella Marciana si infrange quasi subito. Gli unici che si accorgono di lui sono i membri del direttivo dell’Oratorio della Pietà, luogo di carità istituito già nel lontano 1300. Lì verrà accolto nell’organico degli insegnanti come « maestro de violin » e compensato con 40 ducati annui, aumentati poi a 100 per l’incarico aggiuntivo di maestro concertatore.
Antonio VIVALDI
Questa assunzione presso l’oratorio sarà la sua fortuna. Tra l’impenetrabile silenzio delle sue mura, lavorerà per decenni portando avanti la sua non dichiarata “rivoluzione musicale”, dando vita a tutto il suo estro creativo, mettendo la sua musica su un piano che allora, ma anche oggi, sorprese tutti per le evidenti novità che introdusse. Dagli studi fatti al seminario Vivaldi si era accorto di come tutto ciò che aveva appreso appartenesse ad un’epoca ormai spenta. Le dinamiche espressive dei concerti che ascoltava risentivano della lentezza con cui venivano eseguiti. Certi strumenti, come il clavicembalo, non potevano esprimere più nessuna nuova potenza sonora, ragione che lo spinse, progressivamente, ad escluderlo dagli strumenti della sua orchestra a favore degli archi e dei fiati di cui intravvedeva nuovi e più importanti sviluppi. Nelle sue partiture emergono nuovi simboli dove si riconoscono ben tredici graduazioni che stabiliscono le intensità dei “piani” e dei “forti”. Nel solo tempo “allegro”, 18 sono le variazioni sonore a riprova che tutto era stato da lui vagliato e migliorato.
Dentro all’Oratorio spetta a lui scegliere tra le allieve le più meritevoli (non sorprenda questo fatto ma l’istituto raccoglieva solo ragazze, abbandonate in tenera età). Per disciplina interna sono tenute al rispetto e all’obbedienza e lui non chiede di più: l’impostazione musicale ottenuta porterà nel giro di qualche anno le sue allieve al massimo grado di perfezione, superando, per capacità, l’orchestra ed il coro della stessa Cappella Marciana. A Vivaldi molti guarderanno con rinnovato interesse. Dall’estero gli giungeranno richieste per poter partecipare alle sue lezioni, domande che non sempre furono concesse.
Antonio VIVALDI-Venezia-Calle della Pietà-Lapide Vivaldi-Foto-Giovanni Dall’Orto
Dal libro di Walter Kolneder Vivaldi (edit. Rusconi), a proposito della sua musica, leggo : «… le prime opere di questo genere dovettero apparire al pubblico come rivelazioni di una nuova umanità, l’ampiezza degli sviluppi dovette produrre un effetto tale da mozzare il respiro».
Che cosa aveva di così travolgente la musica di Vivaldi su chi l’ascoltava? Anzitutto quella gran massa di suoni eseguiti a ritmi elevati per quei tempi (ma ci sorprendono anche oggi!), poi le variazioni tonali, l’uso degli archi così sorprendente, frutto di una tecnica eccelsa in possesso delle sue allieve, e le novità messe in atto dallo stesso Vivaldi che aggiungeva difficoltà crescenti allo svolgimento dei suoi concerti. Sorpresero tutti le “martellate”, così definite allora, quelle specie di frustate buttate addosso alle corde degli archi, con gesti eseguiti soprattutto dalle violiniste, che le impegnarono anche fisicamente, in una fatica nuova ma esaltante. Tutto, alla fine, produceva un effetto estraniante, che stordiva piacevolmente chi ascoltava.
Antonio VIVALDI
Nel corso degli anni successivi, Vivaldi comincerà a comporre anche per le corti europee più importanti. La sua musica aveva raggiunto le vette più alte guadagnata in anni di silenzioso lavoro. Il re di Francia Luigi XV per il compleanno del figlio Delfino chiese a Vivaldi una cantata. “La Senna festeggiante”, così si chiama, fu composta ed eseguita nel 1726, tra la compiaciuta contentezza dei convenuti.
Ma ad impreziosire i suoi rapporti di quegli anni va ricordata l’amicizia e stima di J. S. Bach il quale intuì, e fu forse l’unico, l’enorme portata del rinnovamento messo in campo dal “prete rosso”; lo apprezzò così tanto che trascrisse alcune sue sonate portandole alla sola voce del clavicembalo (Bach era innamorato di questo strumento scrivendo per lui decine e decine di pezzi). Si sa della loro corrispondenza e di come Bach studiasse gli spartiti di Vivaldi. Tracce dell’influenza vivaldiana si possono trovare nei Concerti Brandeburghesi.
Di Vivaldi esiste un unico disegno fatto da Pier Leone Ghezzi nel 1723 quando giunse a Roma. Aveva allora 45 anni. Dal profilo si nota la grande massa dei suoi capelli (erano rossi e arricciati), gli cadono sulle spalle. L’ampia fronte fa scendere lo sguardo sul naso aquilino, poi sulle labbra, forse sottili. Più volte ho cercato di immaginarlo Vivaldi. Alto circa un metro e settanta, dentro al suo lungo abito nero, col breviario stretto sotto al braccio, la mente che inseguiva le sue musiche, il suo passo veloce per tornare all’Oratorio e metterle nel foglio pentagrammato. Di lui Charles De Brosse disse che era più veloce a scrivere un concerto di quanto non facesse un copista a ricopiarlo…
Tralascio ciò che fece Vivaldi nei decenni successivi dove si dedicò quasi esclusivamente alla musica profana, scrivendo più di 90 fra opere e cantate. Potrà sorprendere questo cambio di indirizzo, ma Vivaldi aveva capito che le nuove tendenze che circolavano in città volevano altro. La musica sacra, che gli aveva dato la notorietà, non era più richiesta come prima. In questa sua nuova veste Vivaldi si dedicherà anima e corpo in un lavoro che sembrava non aver mai fine. La grande produzione del “prete rosso” ammonta a più di 750 composizioni, ma ciò non deve sorprendere perché ogni compositore dell’epoca aveva come requisito necessario, quello di saper scrivere musica con continuità. Allora, nelle chiese e nelle sale da concerto, non era previsto che una stessa musica fosse suonata due volte.
Vivaldi avverte che il suo tempo sta per scadere. A Venezia altri sono i compositori le cui musiche trovano maggiori consensi. Si fanno largo Benedetto Marcello, Tommaso Albinoni e per Vivaldi gli spazi si vanno restringendo. Molti non approvano che un prete, come continuava ad essere lui, dovesse vestire anche i panni dell’impresario e uomo d’affari. (Per gli accordi presi con il Teatro di S. Angelo e per garantire i contratti con le maestranze con cui era venuto a collaborare, Vivaldi si prese cura di tutta la gestione). Ma erano troppe le voci contrarie per poter respingere i pregiudizi più velenosi.
Vivaldi lasciò per sempre Venezia accogliendo l’invito di Carlo VI d’Asburgo che lo volle alla sua corte a Vienna. Era il 1728. Nella capitale asburgica rimase fino al 1741, anno della sua morte, un anno dopo la morte del sovrano Carlo VI che lasciò il nostro Vivaldi in condizioni economiche precarie. Fu sepolto nel cimitero dell’ospedale in una fossa comune. Le note del suo funerale , trascritte nel registro parrocchiale così dicono: «Si è constatata la morte del molto reverendo Sig. Antonio Vivaldi prete secolare età 60 anni, avvenuta per infiammazione interna, nella casa Satler presso la porta di Carinzia.» Si concluse così la vita di uno dei più grandi musicisti del 700.
Ed il suo stile? Vi chiederete. Già… Sta tutto nei fogli pentagrammati, negli ascolti ripetuti che ce lo rivelano puntualmente. Se confrontati con altre composizioni dell’epoca, si potrà intuire quasi subito nei duetti fra l’assolo del violino e l’orchestra, fra soprano e contralto, fra flauto dolce e orchestra.
Per quanti volessero farsi un’idea più precisa della musica di Vivaldi potrei suggerire l’ascolto di alcuni brani che, a mio avviso, sono tra i più significativi della sua arte.
Tra le Quattro Stagioni scelgo L’Estate (LINK). Poi passo ai Concerti di Dresda, allo Stabat Mater (Philippe Jaroussky LINK), al Concerto Grosso in fa minore, il Concerto per flauto dolce e orchestra RV 443, la Cantata Juditha Triumphans. Aggiungo, e lo consiglio vivamente, il bellissimo documentario girato dalla BBC che ha per titolo Gloria at Pietà. All’ascolto del celeberrimo brano, si aggiungono le immagini, e la ricostruzione fedele delle atmosfere dei concerti vivaldiani all’interno della chiesa della Pietà.
Massimo Rosini
Massimo Rosin nato a Venezia nel 1957. Appassionato di cinema, musica, letteratura, cucina, sport (nuoto in particolare). Vive e lavora nella Serenissima.
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