Roma-Apertura Straordinaria dei Sotterranei di Fontana di Trevi
Roma-sabato 19 ottobre ore 13.10 “Sotterranei di Fontana di Trevi: Antica Città dell’Acqua del Vicus Caprarius. Apertura Straordinaria” Hotel Trevi, Vicolo del Babuccio 20/21.
In occasione dell’Apertura Straordinaria – luoghi solitamente chiusi al pubblico e visibili eccezionalmente Solo per le nostre visite- visiteremo tre piani di un quartiere ormai nascosto, posto sul lato orientale di Via del Corso: i Sotterranei di Fontana di Trevi. Entreremo in ambienti risalenti al I sec. d.C., osserveremo le tecniche edilizie e i materiali utilizzati, capiremo l’importanza dell’area archeologica in questione. Narrerò le diverse funzioni che il luogo ha avuto nei secoli, la trasformazione da botteghe e complesso abitativo intensivo – a lussuosa domus di cui si conservano i n situ reperti di rivestim enti marmorei parietali e un pavimento musivo in tessere di marmi policromi. Cammineremo sul suolo di ambienti adiacenti al Vicus Caprarius e comprenderemo la vicinanza dell’Acquedotto Vergine. Sosteremo infine nel piano rialzato risalente all’età Medioevale ed ammireremo la struttura dall’alto. Capiremo meglio la storia della magnifica Fontana di Trevi e la stratificazione dei secoli… un percorso unico!
Costo: Euro 18 (ingresso, prenotazione, visita guidata e cuffie)
Riduzioni: Euro 17 – studenti 18/25 anni, insegnanti
Euro 15- ragazzi 14/18 anni
Euro 14- ragazzi under 14 anni, studenti universitari di Archeologia
Appuntamento davanti l’ingresso Hotel Trevi, vicolo del Babuccio 20/21
Prenotazione Obbligatoria entro Venerdi 18 ottobre
Termineremo la visita guidata alle ore 14.30 circa
Non è possibile partecipare alla visita se il cliente manifesta i sintomi del Covid 19 o stato febbrile.
E’ richiesto sempre il pagamento anticipato per evitare contatti personali.
E’ gradita la prenotazione almeno il giorno prima della data scelta.
La prenotazione è sempre obbligatoria e avviene SOLO tramite richiesta scritta a info@chiaraproietti.it o Whatsapp al 335 67 47 268 ( più diretto) o SMS indicando il nome e cognome del/i prenotati, il numero dei partecipanti e il recapito telefonico, la mail ed eventuali riduzioni.
Vi consiglio questa pratica, siamo al lavoro e non sempre riusciamo a rispondere in tempo reale alle chiamate dirette.
Poichè i gruppi sono SEMPRE limitati, non è consigliabile presentarsi sul luogo della visita senza aver ricevuto da parte nostra la conferma di partecipazione.
I biglietti NON sono rimborsabili ma cedibili a terzi.
Vi consiglio di portare i Vs auricolari monouso: dal 2023 per evitare un eccessivo consumo di plastica, saranno a pagamento.
Nota bene: Prima di iniziare la visita guidata – se ancora non ho il piacere di conoscerVi direttamente- Vi prego di assicurarVi che a guidare il gruppo sia Chiara Proietti e chiedete sempre di Visite Guidate di Chiara
Al momento la Legge che disciplina i Beni Culturali vieta l’ingresso in tutti i musei, monumenti e aree archeologiche comunali e nazionali ad animali di qualsiasi taglia. Sono ammessi Solo i cani guida per i non vedenti.
In caso di disdetta, Vi prego di avvertire almeno 24 ore prima dall’appuntamento, altrimenti sarò costretta a far pagare il costo per intero.
Vi Ringrazio e Vi Aspetto!
Chiara – Whatsapp 335 6747268 (orario 10-18)
Gruppo Facebbok: Visite Guidate di Chiara (NON la pagina)
Instagram: chiaraproiettiarte
Il 5 febbraio 2004 all’età di 85 anni ci lasciava Nuto Revelli. Ha saputo scrivere della guerra come pochi in Italia, una guerra vissuta sia da ufficiale dell’esercito che da partigiano. Ha passato il resto della vita a lavorare sulla memoria e a raccogliere le testimonianze di vita di quella che riteneva la sua gente. Questo articolo riflette su una parte della sua eredità.
Sono rimasto sull’uscio per qualche minuto. Entrando mi pareva di disturbare. Anche se in quel piccolo studio con le pareti rivestite di legno, non c’era nessuno.
Non ero mai stato prima nella casa di Nuto Revelli in corso Brunet 1 a Cuneo. Oggi è la sede della fondazione che porta il suo nome. Laddove c’era la camera da letto condivisa con l’amata Anna, sono ora conservati i documenti di una vita che compongono l’archivio in fase di riordino. La stanza del figlio Marco si è invece trasformata in un ufficio. Mentre il salotto non sembra aver mutato destinazione d’uso: gli amici di un tempo lo ricordano come luogo di lunghe chiaccherate.
Se una persona l’hai conosciuta esclusivamente attraverso le parole dei suoi libri, fa un certo effetto essere a un paio di metri dalla sua macchina da scrivere. Per questa ragione tentenno sull’uscio, osservo da lì le foto in bianco e nero, i tanti libri riposti nella libreria sulla destra. Molti dei titoli rimandano al chiodo fisso, probabilmente la ragione principale per cui Nuto Revelli ha dovuto scrivere: la guerra, in tutte le sue forme.
Rimango lì, a quella che ritengo essere la giusta distanza.
Le tante vite di Nuto
Revelli è stato prima un ufficiale dell’esercito italiano, convinto alla guerra da un’educazione in anni di fascismo. Poi partigiano, convinto dalla guerra, quella combattuta, e dalla ritirata nel ghiaccio della Russia. Nella vita in borghese degli anni ‘50 è diventato commerciante di ferro, inizialmente per necessità, dopo come “scusa” per evitare di essere definito intellettuale, storico, scrittore. Ritrosia tutta cuneese da una parte, consapevolezza profonda da un’altra: la sua scrittura – più che vocazione o vezzo – è stato uno strumento, l’unico, con cui provare a estinguere il debito contratto. Una cambiale da onorare, un «pagherò»: «Ricorda – mi dicevo – ricorda tutto di questo immenso massacro contadino, non devi dimenticare niente».
I creditori di Nuto erano i tanti soldati che aveva visto morire al fronte, i partigiani in battaglia con lui nelle valli cuneesi e i loro genitori ad attendere notizie nelle povere case. Per lo più contadini i primi, i secondi e i terzi. Solo così si può capire perché Nuto arrivi a intraprendere, dopo i libri in cui racconta la guerra e la resistenza, il viaggio nel “mondo dei vinti”. Di come, a un certo punto, il suo chiodo fisso sia testimoniare le conseguenze di una guerra inedita, combattuta senza clamore né armi ma così intensa da mettere a rischio un’intera civiltà, un’intera cultura: quella contadina. Il debito contratto si poteva estinguere solo alimentando una memoria negata, solo concedendo voce e assicurando «un nome e un cognome ai testimoni».
Duecentosettanta storie di vita. Sette anni di ricerca. E poi il secondo viaggio, altri anni, il ritornare per sentire le voci al femminile: “l’anello forte” silenzioso ma sempre presente.
E una fortissima sensazione d’urgenza, quella che ricorda Marco Revelli pensando a suo padre negli anni a cavallo tra il decennio sessanta e tutti gli anni settanta. Le sere quasi sempre rintanato nel suo studio ad ascoltare le voci dei suoi testimoni e prendere annotazioni. E poi tutti i fine settimana vederlo prender l’auto armato solo del suo fidato magnetofono: «la scatola che ascolta e scrive tutto». Le valli, le colline e la pianura cuneese battute palmo a palmo per fotografare con parole ciò che per Nuto aveva tutte le caratteristiche di un «genocidio». Laddove non erano riusciti i due conflitti mondiali e la continua emigrazione, erano arrivate la modernizzazione e l’industrializzazione. Un «esodo» che dalle montagne e dalle aree più marginali spingeva le persone verso la città e la fabbrica. Interi territori abbandonati, le case lasciate lì ferme nel tempo come dopo un terremoto.
Era facile nel 1977 quando per i tipi di Einaudi uscì Il mondo dei vinti, ed è facile ora, liquidare Nuto Revelli col ritratto del nostalgico, del cantore dei “bei tempi andati”. È una scorciatoia per evitare il confronto con ciò che ha scritto e le storie che ha portato fuori dall’oblio. Nuto però non era contro l’industria di per sé, non ha mai creduto alla «libertà dei poveri» ma era preoccupato dall’«industria che aveva stravinto», dall’imposizione di una monocultura economica e dall’assenza del limite: «La terra gialla, intristita dai diserbanti, mi appariva come il simbolo dei vinti. Il mio chiodo fisso era che si dovesse salvare un equilibrio tra l’agricoltura e l’industria prima che fosse troppo tardi».
Resistenze, lucciole e masche
Prima erano serviti i fucili e le bombe. Dopo solo un registratore e delle parole da mettere in fila le une alle altre. Una resistenza che continua in altre forme, per certi versi molto più complessa. Il Nuto comandante partigiano a capo di un gruppo di ragazzi nascosti nelle montagne, è diventato il Nuto cercatore che si avvale di una brigata di mediatori: gente in grado di portarlo a conoscere uomini come in esilio nelle proprie valli. Con loro Nuto arrivava in luoghi sperduti a parlare con testimoni autentici ‘dl’aut secul. I mediatori, figure che meriterebbero romanzi, erano conoscitori eccellenti del proprio territorio e della sua gente, garantivano a Nuto il lasciapassare: quella fiducia iniziale senza la quale al forestiero non si confessava alcunché.
Non è eccessivo raccontare questo lavoro di ascolto e di emersione come una diversa forma di resistenza. Ha senso se si crede che la modernizzazione e la civiltà dei consumi siano arrivate su quelle persone con la stessa violenza di un’imposizione e con la conseguenza di un lento annichilimento. Riecheggiano le argomentazioni di Pier Paolo Pasolini e la sua critica a un’ideologia dello sviluppo che definiva, senza mezzi termini, come un «nuovo fascismo». Una tendenza all’omologazione culturale e all’erosione di qualunque residuo di autonomia che, secondo il poeta friulano, nemmeno il fascismo storico o la chiesa erano riusciti a minare.
Il mondo dei vinti di Revelli può essere anche raccontato come un resoconto in presa diretta di questo processo. Però con l’attenzione, e l’attitudine, a evitare astrazioni e il rischio di scivolare nel mito: «Sapevo che la stagione antica delle lucciole e delle cinciallegre era felice soltanto nelle pagine scritte dagli “altri”, dai letterati, dai “colti”».
Anche per questo Nuto predilige le testimonianze dirette con la loro forza di vita raccontata. Nonostante si distanzi dalla nostalgie delle «lucciole» di Pasolini, Nuto trova in realtà nelle baite e nei ciabot il paesaggio umano degli Scritti corsari e delle Lettere luterane. Nelle storie di quei montanari e di quei contadini emerge come il fascismo era passato da quelle parti senza lasciare traccia, di fatto subito nell’indifferenza. La Chiesa era il vero potere storicamente rispettato, anche se un potere esterno, anch’esso accettato più per necessità che per sincera adesione. Prova ne è l’autonoma religiosità e spiritualità di quel mondo popolato di masche, le streghe delle credenze popolari piemontesi.
E poi il dialetto, di cui proprio in quegli anni i giovani hanno iniziato a provare vergogna perché simbolo di arretratezza. Io mi ricordo quando mia nonna si sforzava di parlare con me in italiano: non voleva passare per ignorante. Quella lingua rappresentava invece un codice esclusivo e protetto di una propria rappresentazione delle cose, la garanzia di una biodiversità culturale. Certo era anche una barriera capace di escludere: «chi non parla piemontese è straniero».
Ci ha pensato la «modernizzazione», con il ruolo centrale della televisione, a indebolire, sino quasi alla completa scomparsa, quella cultura millenaria. Ha promosso nuovi, vincenti, modelli antropologici (che poi siamo noi).
La diserzione
Nuto Revelli aveva paura che il «testamento di un popolo» emerso anche con le sue interviste, venisse considerato con il distacco del «documento antropologico» quando invece era, ed è, una «requisitoria urlante e insieme sommessa». Non un materiale buono solo per farci convegni ma un atto di accusa che meritava risposte e nuove consapevolezze. Nuto se la prendeva con chi aveva praticato la «diserzione», con chi stava lasciando quel mondo al suo destino senza fare nulla. Se alle destre e alla Democrazia Cristiana imputava le responsabilità per essere i garanti degli equilibri di quello sviluppo così ineguale e dannoso; dalle forze della sinistra esigeva risposte e linfa nuova perché anche loro «non capivano o fingevano di non capire». Si rendeva conto che anche in quella parte, la sua parte, la forza persuasiva dell’industrializzazione e di quel modello di sviluppo a crescita infinita aveva fatto breccia. I comunisti così come le forze della nuova sinistra dei gruppi extraparlamentari sembravano condividere in quegli anni l’euforia produttivista. È sempre Marco Revelli, all’epoca militante di Lotta Continua, a offrire uno spaccato: «io non capivo l’ostinazione di mio padre, quel dedicare così tanto tempo a un mondo in declino. A me sembrava positivo allora che quelle persone se ne andassero via da quei posti per scendere in fabbrica, da militanti di sinistra poi pensavamo che una volta operai avremmo potuto parlarci mentre diversamente i nostri discorsi non facevano breccia».
In un’intervista a «Nuova Società», Nuto rivolgeva nel settembre del 1977 il suo appello: «Oggi anche un politico di sinistra non sa cosa fare. Ma, se il PCI non risolve certi problemi, in Italia non li risolve nessuno. […] Le parole d’ordine d’allarme non sono state sentite da chi deteneva il potere, ma anche all’interno della sinistra il discorso ha sempre privilegiato l’industria. L’interesse per la discussione sui problemi delle campagne è sempre stato flebile». E in un dialogo su «Ombre Rosse» nel dicembre dello stesso anno spronava: «Un cordone ombelicale la mantiene (la manodopera della Michelin, della Ferrero ndr) collegata alla terra in cui è nata e cresciuta. Se un sindacalista, se il sindacato non conosce questo contesto, tutto quello che sta fuori e prima della fabbrica, parla a questi operai con un linguaggio sconosciuto, e non deve poi stupirsi della sindacalizzazione che non c’è, degli scioperi che non riescono. […] questi operai invece di andare a cercarli davanti alle porte della Michelin, dove escono storditi che cercano d’arrivare a casa prima che sia notte, andateli a trovare in campagna, dove lavorano ancora. Capirete che sono rimasti dei contadini. […] È in campagna che potete parlare della fabbrica».
Parole che ricordano quelle del 2001 di Paolo Rumiz, in La secessione leggera, in cui racconta il fenomeno leghista nel nord Italia: «Le radici non sono affatto una cosa di destra, ma lo diventano eccome quando la sinistra ne ha orrore». E diventa difficile non collegare, non mettere insieme le cose: quanto c’entra a sinistra la subalternità a un modello economico con la fuga dei «naufraghi dello sviluppo» dal proprio popolo?
È tutta qui l’attualità del messaggio di Nuto Revelli, dei suoi appelli urlanti e insieme sommessi alla sinistra perché cambiasse approccio, acquisisse nuove consapevolezze sul modello di sviluppo che stava vincendo. C’era da mettere in discussione un’impostazione, provare a guardare il mondo oltre le lenti dell’operaio della “grande fabbrica”.
Una lezione inascoltata, con il senno di poi, evidente anche nel come a sinistra l’ambientalismo sia arrivato come un oggetto estraneo. Ed è continuata quella difficoltà a parlare a quel mondo che non fosse città, ha pesato su questo una tara della cultura “ufficiale” comunista: l’avversità ai piccoli proprietari terrieri che la vulgata marxista avrebbe voluto veder presto proletarizzati per ingrossare le file del proprio blocco sociale. Negli anni ‘50 una polemica intercorsa tra alcuni intellettuali del PCI e figure come Ernesto De Martino, Carlo Levi, Rocco Scotellaro, Manlio Rossi Doria e lo stesso Pasolini, testimoniava il perdurare del pregiudizio e del fastidio rispetto ai temi del mondo contadino.
Carlo Petrini, il fondatore di Slow Food, ricorda quell’indifferenza quando era militante della sinistra extraparlamentare: «ricordo una riunione del gruppo del Manifesto in cui Lucio Magri disse: “Cos’ha Petrini che parla sempre di cibo?”. Io parlavo di cibo perché condividevo i ragionamenti di Revelli, avevo visto ciò che scriveva frequentando la gente di una Langa allora ancora povera e il mangiare era il punto d’attacco per parlare con quelle persone».
Un’eredità senza testimoni?
Viene da chiedersi cosa sia rimasto oggi di quell’eredità che quel «testamento di un popolo», rappresentato da Il mondo dei vinti, ha lasciato. Di certo ci sono oggi nuove consapevolezze sui limiti dello sviluppo e sugli squilibri sociali e territoriali. Cresce, seppur troppo lentamente, una coscienza ambientale che impone una revisione delle nostre priorità. Nel senso comune affiora l’idea che un modello economico sempre destinato a crescere sia qualcosa di irrazionale.
D’altra parte il mondo rurale e contadino gode di un rinnovato interesse. Siamo nel bel mezzo di un revival della campagna, dei suoi prodotti e dei suoi protagonisti. Il cibo è al centro della scena.
È la riscossa dei «vinti»?
Chissà cosa penserebbe Nuto di questo cibo diventato spettacolo, di fabbriche contadine e di reality dove ai contadini si cerca moglie. Riderebbe, forse, pensando ai bacialè conosciuti nei suoi giri. Veri e propri mediatori di matrimoni contadini che giravano le cascine con un “campionario” di ragazze con fotografie e indirizzi, che combinavano matrimoni tra i contadini scapoli dell’alta Langa e le ragazze calabresi in cerca di marito, e di nuove vite.
Più che un inedito rispetto per la diversità del mondo contadino, sembra di assistere a un processo di assimilazione. Non proprio il riscatto che immaginava Nuto. Anche se c’è speranza in alcuni giovani che ritornano nelle case abbandonate dei propri nonni, in nuovi stili di vita e in tanti esperimenti che raccontano una diversa possibilità.
C’è da chiedersi infine se quella civiltà contadina abbia preservato o meno alcuni dei suoi caratteri di autonomia culturale su cui era possibile innestare percorsi di sviluppo alternativi. C’è che da chiedersi, insomma, se quel popolo c’è ancora. O se forse «manca».
Un’autonomia e una cultura di cui non bisogna dimenticare anche gli aspetti negativi, gli elementi di arretratezza che nessuno rimpiange. Ma ci sono tratti di quel mestiere di vivere da riscoprire nel nostro mondo zeppo di nevrosi. E servirebbe anche un progetto politico e culturale capace di farsene carico, valorizzando, come in qualche modo chiedeva Nuto, il buono che si scorge in controluce nelle testimonianze dei vinti.
Ci vorrebbe un poco della saggezza inconsapevole dei tanti testimoni di Nuto, come quel montanaro preso ad esempio da Alessandro Galante Garrone in una recensione del luglio 1977. La sua è una domanda, pensata in qualche borgata nascosta nelle nostre Alpi, che oggi ci fa sospirare: «se le fabbriche si fermano a forza di far macchine, che cosa succederà?»
Torino- 1928-1° mostra “Gruppo Piemontese per la fotografia artistica”-
Articolo di Comirias De Albroit-Rivista Il Corriere Fotografico-Torino
Torino- gennaio 1928- La Mostra del “Gruppo Piemontese per la fotografia artistica”ha rivelato , come lo sanno le migliaia di visitatori succedutesi in quel troppo breve spazio di tempo, non diciamo una nuova tendenza ad una nuova scuola , ma la collettività di un senso d’arte e d’interpretazione della natura, che finora si ammirava sparsa e disgiunta nelle opere di pochi fra le fitte schiere di fotografi dilettanti e professionisti.
Colla prima Mostra del “Gruppo Piemontese per la fotografia artistica” si inizia una seconda tappa , che segnerà, non v’ha dubbio, il meriggio dell’arte nostra.
Iniziamo in questo fascicolo , con sobrietà di commento, la riproduzione di un buon numero fra le opere esposte, per quanti non ebbero modo di ammirare la mostra e per il modello a coloro che della mostra si persuasero a calcare le nuove vie. Veggasi adunque in “Lo STAGNO” di Carlo Baravalle ed in “LA SCIA” di Cesare Giulio quanto possa il senso delle cose artisticamente date anche colla maggiore semplicità di mezzi. Nell’uno e nell’altro l’omogeneità dello sfondo riempie l’intero quadro; questo rotto obliquamente dalla sottile scia degli sky, quelle di pochi ciuffi di alghe. Ma l’occhio spazia oltre i margini delle vedute e la mente si raccoglie e pensa e gode nel suo intimo pensiero.
Alla Mostra sociale erano ammesse le Mostre personali di tre grandi fotografi stranieri:Marcus Adams di Londra, Leonard Misonne di Glly nel Belgio, Josè Ortiz-Echague di Madrid. Diamo dell’Adams, l’aristocratico fotografo ritrattista, uno <Studio> e l’<Abito di gala> cose soavemente pensate e squisitamente rese; del Misonne, che conosce i piani lontani e l’atmosfera del paesaggio e le carezze di luce , un< All’ombra> e un <Mattino d’autunno>; dell’Ortiz infine, il forte fotografo tutto impregnato della pittura spagnola da Goya a Zoloaga <El viejo arrabelero> e< En el atrio de Anso>: lo zampognaro dal volto rude e incartapecorito e le quattro donne in attesa nell’atrio del tempio. Ma i visitatori della Mostra non dimenticheranno mai l’effetto d’assieme di quelle tre pareti che accoglievano ciascuna i venti originali dei tre fotografi d’oltr’alpe. Comirias De Albroit
Torrita Tiberina-(RM)- Fondazione Mario & Maria Pia Serpone
Parco d’Arte Contemporanea nel cuore della Sabina
La Collezione-La Fondazione Mario e Maria Pia Serpone, un parco d’arte contemporanea nel cuore della Sabina, a soli 40km da Roma. Le opere della collezione sono orientate in corrispondenza con le stelle madri della costellazione del Toro dando forma ad un’architettura invisibile che accompagna i visitatori a scoprire installazioni all’aperto di artisti come Mimmo Paladino, Jannis Kounellis, Bruno Munari e Luca Maria Patella, per citarne alcuni. Oltre a ciò, la Fondazione è orgogliosa di ospitare due rarità nel panorama artistico internazionale: un ‘bottle crash’ di Shozo Shimamoto, la quale opera è un work in progress oggetto di performance annuali; e la cappella Nitsch, una cappella che il fondatore dell’azionisimo viennese Hermann Nitsch ha allestito con sue opere create in loco. Un luogo d’incontro per quanti celebrano l’amore, la libertà, la pace e l’equilibrio nel rispetto reciproco di tutte le forze che governano la natura, l’istituzione ha come centro d’interesse lo studio, la riflessione e la diffusione dell’arte contemporanea. La fondazione è visitabile esclusivamente su prenotazione.
Per info e per organizzare una visita, scrivere a: info@fondazioneserpone.org.
La collezione permanente
Una fondazione dove opere d’arte contemporanea contornano il prato, ne seguono le curve, lo impreziosiscono con significati estetici e lo ridisegnano, nobilitando lo spazio con installazioni ambientali a cielo aperto, con performance e con tutto quanto possa prendere forma d’arte attraverso il linguaggio del contemporaneo, in perfetta relazione con l’ambiente.
La cappella Nitsch
Uno spazio nel bosco concepito come una piccola cappella, il cui progetto, sottoposto al parere dell’artista, ha riscontrato la sua piena approvazione. Hermann Nitsch ha dato, infatti, la sua totale disponibilità per l’allestimento e arredamento della stessa, con opere ed installazioni da realizzarsi in loco.
Hermann Nitsch, artista austriaco, massimo esponente dell’azionismo viennese, filosofo, musicista e pittore dal 1957 si dedica alla concezione del suo “Orgien Mysterien Theater”(OMT): forma di arte totale che coinvolge tutti e cinque i sensi. Per Nitsch, teatro, palcoscenico, musica, architettura e natura divengono imprescindibili l’uno dall’altro.
Nelle sue opere si evidenzia l’aspetto drammatico di una “liturgia ematica”, che ripercorre concettualmente il processo di sublimazione dolorosa del “sangue glorioso”. Il sacrificio diviene elemento centrale di un processo di identificazione-coinvolgimento, che travolge i tradizionali schemi comportamentali.
L’opera di Nitsch è riconosciuta a livello mondiale. L’Austria e precisamente Mistelbach gli ha dedicato un museo personale, così come anche la Fondazione Morra a Napoli gli ha dedicato un museo a lui intitolato, inaugurato nel 2008; inoltre le sue opere sono presenti nei più importanti musei di arte contemporanea.
Contattaci-Per organizzare una visita della Fondazione Serpone, un evento privato o per avere maggiori informazioni sui nostri progetti e collaborazioni, inviaci una mail: info@fondazioneserpone.org
Cercaci su Google Maps: Fondazione Serpone Viale Marconi, 5 (S.P. Tiberina 15a, Km. 37,100) 00060 Torrita Tiberina, Roma
– A cura di Claudio Bolzan -Zecchini Editore-Varese
Il curatore della Guida è Claudio Bolzan, Oltre 800 pagine, più di 150 compositori, 400 anni di musica, 450 monografie, 650 consigli discografici: è ciò che trovate nella poderosa e ponderosa Guida alla Musica da Camera.
«In un mercato fino a pochi anni fa asfittico, si inserisce questo nuovo passo di Zecchini Editore nella erigenda biblioteca della classica, iniziata nel 2010. Nella Musica da Camera ci si ritrova in mano uno strumento indirizzato dal curatore Claudio Bolzan a musicisti, insegnanti e semplici appassionati: nella prefazione l’autore spiega di non credere a quel tipo di manuali che “si leggono come romanzi”. [… ] In conclusione, una guida equilibrata e strategica, di facile consultazione, che offre la possibilità di scoprire compositori generalmente assenti da auditorium e discografie generaliste, ma anche le composizioni meno note dei grandi della musica […]». (Ferdinando Vincenzoni ,ANSA)
Guida alla Musica da Camera
A cura di Claudio Bolzan
Presentazione di Enrico Dindo
Hanno collaborato: Marco Angius, Davide Anzaghi, Nicola Cattò, Elena Filini, Edoardo Lattes, Stefano Pagliantini, Alessandro Solbiati, Massimo Viazzo.
Copertina cartonata – pp. XXVI+836 – formato cm. 15×21
Collana “Le Guide Zecchini, 4” – Euro 49,00
La musica da camera rappresenta senza dubbio la parte più cospicua e raffinata dell’intero repertorio musicale occidentale, percorrendo da cima a fondo la storia della musica dalla fine del ’500 all’età contemporanea e dando vita ad opere di fondamentale importanza, tali da rappresentare nel modo più completo le varie fasi e i vari movimenti succedutisi nell’arco di ben quattro secoli. Anche per questo tanto più indispensabile diventa una Guida che permetta di orientarsi con efficacia nel mare magnum di questo repertorio, selezionando gli autori più rappresentativi ed analizzando le loro opere più importanti, permettendo di penetrare nel loro interno e offrendo una conoscenza approfondita dei generi, delle forme adottate, dei più svariati organici (dal duo, al trio, al quartetto, con e senza pianoforte, fino alle formazioni comprendenti dieci e più strumenti). Tanto più necessaria diventa una tale Guida nel nostro Paese, data l’assoluta mancanza di un testo di questo tipo, organico ed esauriente, concepito per soddisfare l’interesse dei semplici appassionati, senza per questo trascurare il bisogno di approfondimento di chi è, invece, più addentro nelle conoscenze e nella pratica della musica. Se i primi troveranno gli autori più amati e la presentazione e l’analisi delle opere più celebri e frequentate in sede concertistica e discografica, i secondi potranno incontrare anche i personaggi meno noti, le analisi più ricche, i riferimenti più approfonditi e capillari, uniti ad un’ampia documentazione di prima mano, spesso presentata e tradotta per la prima volta nella nostra lingua.
Richiedete il libro nei migliori negozi o a questo link:
Introduzione di Sabrina Campolongo. Postfazione di Valérie Cossy.
Descrizione-del libro di Alice Rivaz- “La pace degli alveari“-Credo di non amare più mio marito”. Così si apre il diario segreto di Jeanne Bornand, moglie e lavoratrice, donna che è stata amante e amata e che si ritrova, ancora giovane ma vicina a non esserlo più, faccia a faccia con la sua estraneità alla vita cui le sue scelte l’hanno condotta. A finire implacabilmente sotto accusa è il matrimonio, nella sua prosaicità, nel suo insanabile scollamento dall’amore, ma una volta cominciato sembra che Jeanne non riesca più a fermarsi. L’intera società degli uomini, di cui le donne sono al tempo stesso vittime e complici, finisce sotto la sua critica spietata, tanto più feroce perché tinta della più lucida ironia”.
In tanti anni di femminismo, di teorie e pratiche, mai ho incontrato pagine di una consapevolezza così profonda e insieme di una capacità di nominare l’innominabile della relazione tra uomini e donne, nella quotidianità dei matrimoni come nella vita pubblica, così libera, diretta, felicemente senza remore e coperture.
Verità, svelamenti, messa a nudo impietosa, senza nascondere le ambiguità e le contraddizioni che passano attraverso la violenza invisibile del patriarcato.
Un frammento:
“Non l’avevamo previsto, il lavoro notturno degli aviatori, le bombe sopra i lettini dei bambini, sulle cucine a gas, sulle mensole con i libri. Non avevamo previsto niente, noi donne; come sempre li abbiamo lasciati fare; che si minacciassero, che sfilassero in parata, che venissero alle mani. Siamo rimaste a guardarli mentre si scatenavano. È proprio quello che, da madri, reprimiamo nei nostri figli piccoli, che ammiriamo nei nostri bambini diventati uomini. Quel gesto che meriterebbe il biasimo, se non una sberla, basta che il ragazzino sia diventato adulto ed ecco che le donne gli danno un altro nome. Come le parole “crudeltà” e “violenza” che diventano di colpo coraggio o eroismo.
(…)
Noi facciamo e loro disfano. Disfano persino, poco alla volta, le loro stesse teorie, rimpiazzando il credo di una generazione con quello di un’altra, cercando nomi sempre nuovi per giustificare le loro dementi carneficine.
E noi, invece di dire “Altolà!”, noi ancora ci sforziamo di seguirli, di comprenderli, di ottenere da loro delle attestazioni di devozione, e questo al fine di piacergli.”
“Quella complicità tra i sessi, se ne conosce fin troppo bene la causa, tuttavia non è per forza inevitabile…”
*Alice Rivaz, “La pace degli alveari” pagina uno 2019, pag.80
con Stefano Mancuso, Chiara Valerio, Laura Pepe e Riccardo Falcinelli –
Pesaro-Conto alla rovescia per il debutto dell’iniziativa presentata da Marsilio Arte e Intesa Sanpaolo nella cornice degli eventi che scandiscono l’anno di Pesaro come Capitale della Cultura. Riflettori puntati dunque su on Art Pesaro. L’arte legge il mondo, il ciclo di lezioni ideato per approfondire i grandi temi dell’epoca contemporanea usando l’arte come bussola. Ad alternarsi sul palco del Teatro Sperimentale saranno quattro relatori d’eccezione, invitati ad affrontare un argomento specifico e ogni volta diverso, rifacendosi al modello della lectio magistralis. La narrazione sarà accompagnata da un racconto visivo che rinsalderà il legame tra parola e immagine, stimolando il coinvolgimento del pubblico in un luogo votato per sua stessa natura alle esigenze e alle logiche della collettività.
Si inizia domenica 27 ottobre alle ore 11 in compagnia di Stefano Mancuso, scienziato noto in tutto il mondo e direttore del Laboratorio internazionale di neurobiologia vegetale (LINV), che si interrogherà sull’uomo come misura di tutte le cose, mentre il 10 novembre l’appuntamento sarà con la scrittrice, direttrice artistica e curatrice editoriale Chiara Valerio, impegnata in una riflessione sulla scomparsa delle immagini. Il 24 novembre la parola andrà a Laura Pepe, storica e studiosa del mondo classico, docente di diritto romano e diritti dell’antichità all’Università degli studi di Milano, che affronterà la tematica dell’Uomo e della Natura nel mondo classico. Il 1° dicembre toccherà al graphic designer, autore e docente di Psicologia della percezione alla facoltà di Design ISIA di Roma Riccardo Falcinelli concludere il ciclo di on Art Pesaro con la lezione intitolata Come si guarda un paesaggio. (Nature artificiali e artifici naturali).
Il risultato sarà un mosaico di pensieri e punti di vista sul mondo elaborati da quattro personalità del panorama culturale e artistico internazionale, appartenenti ad ambiti di ricerca differenti e trasversali che rispecchiano il criterio multidisciplinare alla base di on Art Pesaro.
La partecipazione è gratuita, fino ad esaurimento posti, e gli incontri potranno essere seguiti in diretta streaming.
Intesa Sanpaolo e Marsilio Arte annunciano on ArtPesaro, un ciclo di lezioni per interpretare il presente attraverso la chiave dell’arte, pensate e condotte da alcune tra le più autorevoli figure del mondo artistico e culturale attraverso prospettive inedite, multidisciplinari e al contempo rigorose. Gli appuntamenti si terranno presso il Teatro Sperimentale di Pesaro dal 27 ottobre al 1° dicembre 2024 e si inseriscono nell’ambito di Pesaro Capitale della Cultura 2024, di cui Intesa Sanpaolo è Main Partner.
Che l’arte serva in primo luogo a leggere e interpretare il mondo in cui siamo, guardando al passato ma anche al futuro, è la convinzione da cui parte questa nuova iniziativa, che si propone di offrire uno sguardo interdisciplinare e inedito, che rifletterà le esperienze, le conoscenze e le curiosità delle relatrici e dei relatori che prenderanno parte al programma.
Storia, mitologia, scienza, innovazione, natura sono tutti ambiti non solo capaci di dialogare con l’arte, ma anche di porre domande, dubbi e quesiti cui l’arte stessa tenta di rispondere, trascendendo rigidi confini e immaginando nuovi possibili orizzonti.
La prima edizione del progetto s’intitola on Art Pesaro. L’arte legge il mondo, collegandosi al tema “La natura della cultura” di Pesaro Capitale della Cultura 2024. Svincolandosi dai limiti imposti dall’analisi artistica tradizionale, gli interventi proposti da on Art coinvolgeranno vari ambiti di studio, in particolare le interazioni tra arte, natura e tecnologia. Scopri gli appuntamenti di questa prima edizione! https://www.marsilioarte.it/mostre-ed-eventi/on-art/
Cover photo: Stefano Mancuso, Chiara Valerio, Laura Pepe, Riccardo Falcinelli
Stefano Mancuso
Scienziato di fama mondiale e direttore del Laboratorio internazionale di neurobiologia vegetale (LINV), che nel 2013 il “New Yorker” ha inserito nella classifica dei world changers.
Chiara Valerio
Scrittrice, direttrice artistica e curatrice editoriale.
Laura Pepe
Storica e studiosa del mondo classico, docente di diritto romano e diritti dell’antichità all’Università degli studi di Milano.
Riccardo Falcinelli
Celebre graphic-designer, autore e docente di Psicologia della percezione alla facoltà di Design ISIA di Roma.
Tutti gli eventi sono a ingresso gratuito su prenotazione. Gli incontri potranno essere seguiti in diretta streaming. Prevendite disponibili dall’autunno 2024.
Fonte-Marsilio Arte Santa Marta, Fabbricato 17, 30123 – Venezia info@marsilioarte.it – tel. +39 041 2406511
Nella Cappella delle reliquie si conserva gelosamente una Spina della Corona di Nostro Signore, recata a Farfa al tempo delle Crociate e tenuta sempre in grande considerazione.
Intorno a questo insigne cimelio della Passione si ricorda questo episodio.
Nel 1482 Alfonso, duca di Calabria, figlio di Ferrante, re di Napoli, avendo accampato il suo esercito nei prati di Granica, visitò l’Abbazia farfense. Fu mostrata al duca, assieme alle altre reliquie, anche la sacra Spina; il discorso cadde su altre Spine della stessa corona conservate in vari luoghi; allora Alfonso mostrò una di queste Spine che egli portava sempre addosso, fu messa a confronto con quella di Farfa e si vide che era differente.
Il duca, turbato da questo fatto, propose che fosse sperimentato, per mezzo della prova del fuoco, quale delle due e quella autentica. Fu acceso un fuoco nell’atrio della basilica e alla presenza di tutti i monaci, dello stato maggiore del duca Alfonso ed altri ecclesiastici , il duca getto per primo , tra le fiamme, la sua reliquia che brucio subito, quindi fu gettata alle fiamme la reliquia farfense che il fuoco “non ardì toccare”. La reliquia farfense fu gettata più volte tra le fiamme e il prodigio si rinnovò sempre. Dinanzi a questo fatto prodigioso il duca cadde in ginocchio e bacio il sacro cimelio e subito dopo lo riconsegnò , con devozione, al Priore raccomandandogli di custodire la sacra Spina con devozione e con miglio cautela.
Fonte-l’Abbazia di Farfa di D. Ippolito Boccolini –
L’Imperiale Abbazia di Farfa di Card. Ildefonso Schuster (Vaticano 1921)
Le foto sono di Franco Leggeri-
Conoscere l’Abbazia
Nel cuore dell’antica terra Sabina, ai piedi del monte Acuziano, in un’atmosfera di mistico silenzio, che avvolge anche il caratteristico Borgo che la circonda, sorge la storica Abbazia di Farfa, immersa nel fascino di una natura verdeggiante e sorridente, nella fresca aria mattutina che si respira intorno, riscaldata da un dolce sole i cui raggi oltrepassano i rami degli alberi, prima di giungervi.
L’abbazia di Farfa è un luogo particolarmente attraente, ricolmo di pace, di serenità, di semplicità, come sono semplici i monaci benedettini che vivono, in un clima di profonda spiritualità, la loro vita quotidiana tutta dedita al Signore e alla Madonna, alla quale essa è dedicata.
Fu dichiarata monumento nazionale nel 1928, per la bellezza architettonica ed artistica del monastero e della basilica, testimonianza di una storia più che millenaria tra periodi di grande splendore e periodi di decadenza o addirittura di distruzioni e dispersioni, seguiti sempre da rinascite e ricostruzioni, sì che ancor oggi l’abbazia è un centro di cultura e di spiritualità. Straordinaria anche la fioritura della santità, dal primo al secondo fondatore, rispettivamente S. Lorenzo Siro e S. Tommaso da Moriana, fino ai Beati Placido Riccardi e Ildefonso Schuster.
Tante le visite di re, imperatori e papi fino a quella di Giovanni Paolo II il 19 marzo 1993. Migliaia i visitatori che oggi la frequentano per ammirare il patrimonio di cultura e di arte che essa custodisce e rende accessibile e per il desiderio di trascorrere qualche ora o qualche giorno di riposo fisico e spirituale, usufruendo anche delle strutture di accoglienza e di ristoro, nonché del parco e delle passeggiate nella proprietà della Fondazione “Filippo Cremonesi“, che comprende pure le caratteristiche abitazioni del Borgo di Farfa con le graziose botteghe gestite da abili artigiani.
Quello schiaffo che Arturo Toscanini subì a Bologna, il 14 maggio del ‘ 31
La sera del 14 maggio 1931 a Bologna è in programma al Teatro Comunale un concerto, diretto da Arturo Toscanini, in memoria di Giuseppe Martucci, direttore emerito dell’orchestra bolognese alla fine dell’800.
Il maestro si rifiuta di dirigere l’inno fascista Giovinezza e l’Inno reale al cospetto del ministro Ciano e di Arpinati. Viene aggredito e schiaffeggiato da alcune camicie nere presso un ingresso laterale del teatro. Tra gli squadristi c’è il giovane Leo Longanesi (secondo I. Montanelli, ma per altri questa è “una leggenda senza conferma”).
Rinunciando al concerto, Toscanini si rifugia all’hotel Brun. Il Federale Mario Ghinelli, con un seguito di facinorosi, lo raggiunge all’albergo e gli intima di lasciare subito la città, se vuole garantita l’incolumità.
Il compositore Ottorino Respighi, media con i gerarchi e ottiene di accompagnare il direttore al treno la sera stessa.
Il 19 maggio l’assemblea regionale dei professionisti e artisti deplorerà “il contegno assurdo e antipatriottico” del maestro parmigiano. Sull’ “Assalto” Longanesi scriverà: “Ogni protesta, da quella del primo violino a quella del suonatore di piatti, ci lascia indifferenti”.
Toscanini dal canto suo scriverà una feroce lettera a Mussolini, già suo compagno di lista a Milano nelle elezioni politiche del 1919. Dal “fattaccio” di Bologna maturerà la sua decisione di lasciare l’Italia, dove tornerà a dirigere solo nel dopoguerra.
Il concerto in onore di Martucci sarà rifatto al Comunale sessanta anni dopo, il 14 maggio 1991, sotto la direzione di Riccardo Chailly.
Approfondimenti
TOSCANINI, LA VERITA’ SUL FAMOSO SCHIAFFO -Archivio “la Repubblica”
BOLOGNA Due giorni di relazioni e concerti hanno infine riparato, a sessant’ anni dagli eventi, a quello schiaffo che Arturo Toscanini subì a Bologna, il 14 maggio del ‘ 31, ad opera di squadristi, per essersi rifiutato di dirigere al Teatro Comunale gli inni nazionali. Ch’ erano allora Giovinezza e Marcia Reale. Nel gesto riparatore si sono unite le due città di Bologna e di Parma. La prima ha ospitato martedì il convegno internazionale dedicato a Bologna per Toscanini, la seconda, nella giornata di ieri, una tavola rotonda. Entrambe, nei teatri Comunale e Regio, hanno ospitato il concerto che, diretto da Riccardo Chailly, ha visto Raina Kabaivanska e l’ Orchestra dell’ ente lirico bolognese interpretare quelle pagine di Giuseppe Martucci che Toscanini non poté eseguire. Punto di partenza dell’ indagine di storici e musicologi, alla quale si sono aggiunte le testimonianze di Walfredo Toscanini e Gottfried Wagner, è stato dunque l’ offesa al maestro. Luciano Bergonzini, che alla ricostruzione di quell’ ingiuria ha dedicato un saggio, pubblicato in questi giorni dal Mulino (Lo schiaffo a Toscanini. Fascismo e cultura a Bologna all’ inizio degli anni Trenta), ha esposto la sua tesi, che è sostanzialmente nuova. In sintesi, non furono i gerarchi del regime, primi fra tutti Leandro Arpinati, all’ epoca vicinissimo a Mussolini, e Mario Ghinelli, federale a Bologna, i promotori dell’ azione. Arpinati, piuttosto, tentò fino all’ ultimo di giungere ad una soluzione che sventasse lo scontro diretto, a un compromesso che permettesse il regolare svolgimento del concerto in memoria di Giuseppe Martucci, ben sapendo che Toscanini non avrebbe mai eseguito né la Marcia Reale, né Giovinezza, come prevedeva il protocollo. Di fatto, egli prese la decisione più semplice: Costanzo Ciano e lui non si sarebbero recati al Teatro Comunale. La serata avrebbe perso così il carattere ufficiale, liberando Toscanini da ogni obbligo. Inoltre, nonostante non sia tutt’ oggi facile giungere ad una conclusione definitiva sull’ argomento, tra gli aggressori non ci furono personalità di spicco del fascismo bolognese. Non c’ era certamente Ghinelli; assente probabilmente pure Leo Longanesi, che pure in seguito si sarebbe vantato d’ esser stato lui a colpire il musicista. Il suo ruolo, sempre secondo Bergonzini, sarebbe stato soltanto quello dell’ ispiratore attraverso articoli di giornale e discorsi. Rimane, invece, il sospetto che tutto abbia avuto origine all’ interno delle faide che andavano dividendo le gerarchie fasciste, e delle quali del resto sarà vittima lo stesso Arpinati. Se la proposta dello studioso bolognese fosse la ricostruzione più verosimile, allora lo schiaffo, la progettazione e l’ esecuzione dell’ aggressione sarebbero nate proprio da quel consenso al regime, che aveva trovato fertile terreno non solo nelle classi medie, ma anche in quelle subalterne urbane. Toscanini sarebbe loro apparso un vessillo da abbattere, incuranti di quanto si andava decidendo nelle sfere alte del regime. Constatazione questa che riaprirebbe una querelle mai risolta: quella del ruolo degli intellettuali, da un lato, e del sostegno che il fascismo seppe trovare, se pur distribuito in maniera disomogenea, nei più diversi strati della società italiana. Sul versante opposto, giustamente l’ accento è stato spostato dall’ offesa in sé, atto sempre vile, al gesto di Toscanini, a quel rifiuto del direttore d’ orchesta che costituisce, come ha sottolineato Harvey Sachs nel suo intervento conclusivo, un esempio raro, certamente poco imitato in quegli anni, di coraggio. Umanità della musica, definizione questa con la quale Sachs bene ha riassunto la forte componente etica dell’ arte toscaniniana, una componente che coniugava esigenze artistiche e convinzioni morali. Infine, l’ attenzione è tornata a volgersi alle pagine di Giuseppe Martucci, interpretate a Bologna e a Parma da Riccardo Chailly, sul podio dell’ Orchestra del Teatro Comunale, affidate alla voce di Raina Kabaivanska, La canzone dei ricordi. Pagine di un sinfonismo italiano ormai obliato che, Fiamma Nicolodi lo ha evidenziato tratteggiando l’ itinerario musicale del compositore, avvicina la tradizione tedesca romantica e tardo-romantica a quella francese, a Saint-Saens e a Franck. Difficile valutarne gli esiti. Nel ricostruire la storia dell’ Italia musicale non se ne può prescindere, però, giocando Martucci, e con lui gli Sgambati, i Mancinelli, i Bossi, un ruolo tutt’ altro che secondario.
Luciano Bergonzini, Bologna 14 maggio 1931: l’offesa al Maestro, in Toscanini. Atti del Convegno Bologna per Toscanini, 14 maggio 1991, a cura di L. Bergonzini, Bologna, CLUEB, 1992, p. 13 sgg.
Luciano Bergonzini, Lo schiaffo a Toscanini. Fascismo e cultura a Bologna all’inizio degli anni Trenta, Bologna, Il mulino, 1991
Dino Biondi, Il Resto del Carlino 1885-1985. Un giornale nella storia d’Italia, Bologna, Poligrafici Editoriale, 1985, p. 224
Bologna Caput Mundi. I grandi e la città da Dante ai giorni nostri, Bologna, L’inchiostroblu, stampa 2011, pp. 196-199
Pietrangelo Buttafuoco, Il Longanesi animato. Lacerti di un’Odissea borghese, in: Il mio Leo Longanesi, a cura di P. Buttafuoco, Milano, Longanesi, 2016, p. 24
Tiziano Costa, Bologna ‘900. Vita di un secolo, 2. ed., Bologna, Costa, 2008, pp. 104-105
Davide Daghia, Bologna insolita e segreta, Versailles, Jonglez, 2017, p. 229
Brunella Dalla Casa, Leandro Arpinati. Un fascista anomalo, Bologna, Il mulino, 2013, pp. 232-237
Due secoli di vita musicale. Storia del Teatro comunale di Bologna, a cura di Lamberto Trezzini, 2. ed., Bologna, Nuova Alfa, 1987, vol. I, pp. 203-240
Renzo Giacomelli, Il Teatro comunale di Bologna. Storia aneddotica e cronaca di due secoli (1763-1963), Bologna, Tamari Editori, 1965, pp. 165-167
Mauro Grimaldi, Leandro Arpinati. Un anarchico alla corte di Mussolini, Roma, Società Stampa Sportiva, 1999, pp. 84-88
Antonello Lombardi, Bologna. Guida turistica ai luoghi della musica, Bologna, Ut Orpheus, 2006, p. 115
Giancarlo Mazzuca, Luciano Foglietta, Sangue romagnolo. I compagni del Duce: Arpinati, Bombacci, Nanni, Bologna, Minerva, 2011, pp. 186-187
Indro Montanelli, Marcello Staglieno, Leo Longanesi, Milano, Rizzoli, 1984, pp. 180-182
Piero Paci, Lo schiaffo ad Arturo Toscanini. I retroscena politici nella Bologna degli anni ‘30, in “La Torre della Magione”, 1 (2007), pp. 5-7
Fabio e Filippo Raffaelli, Emilia Romagna e Marche. Grandi voci & grandi teatri, s.l., Consorzio fra le banche popolari dell’Emilia Romagna Marche, 1995, pp. 175-178
Il Resto del Carlino. 45000 notti passate a scrivere la storia, a cura di Marco Leonelli, Bologna, Poligrafici, 2010, pp. 156-157
Le strade di Bologna. Una guida alfabetica alla storia, ai segreti, all’arte, al folclore (ecc.), a cura di Fabio e Filippo Raffaelli e Athos Vianelli, Roma, Newton periodici, 1988-1989, vol. 4., p. 902
Teatro Comunale di Bologna, testi di Piero Mioli, fotografie di Carlo Vannini, Bologna, Scripta Maneant, 2019, p. 146
Toscanini, atti del Convegno Bologna per Toscanini, 14 maggio 1991, a cura di L. Bergonzini, Bologna, CLUEB, 1992
Touring club italiano, Emilia Romagna. Itinerari nei luoghi della memoria, 1943-1945, Milano, TCI, Bologna, Regione Emilia-Romagna, 2005, p. 22
Lamberto Trezzini, Teatro dei Bibiena, in: Storia illustrata di Bologna, a cura di Walter Tega, Milano, Nuova editoriale AIEP, 1989, vol. 3., pp. 154-156
Roberto Verti, Emilia Romagna terra di musica, di voci e di mito, Casalecchio di Reno, L’Inchiostroblu, 1996, pp. 262-265
Roberto Verti, Il Teatro comunale di Bologna, Milano, Electa, 1998, p. 20, 72
Viene considerato uno dei maggiori direttori d’orchestra di sempre, per l’omogeneità e la brillante intensità del suono, la grande cura dei dettagli, il perfezionismo e l’abitudine di dirigere senza partitura grazie a un’eccezionale memoria fotografica.[1][2] Viene ritenuto in particolare uno dei più autorevoli interpreti di Verdi, Beethoven, Brahms e Wagner.
Fu uno dei più acclamati musicisti della fine del XIX e della prima metà del XX secolo, acquisendo fama internazionale anche grazie alle trasmissioni radiofoniche e televisive e alle numerose incisioni come direttore musicale della NBC Symphony Orchestra. Refrattario in vita all’idea di ricevere premi e decorazioni di sorta (tanto da rifiutare la nomina a senatore a vita propostagli da Luigi Einaudi, vd. infra), a trent’anni dalla morte fu insignito del Grammy Lifetime Achievement Award.
Arturo Toscanini nacque a Parma, nel quartiereOltretorrente, il 25 marzo del 1867, figlio del sarto e garibaldinoClaudio Toscanini, originario di Cortemaggiore (in provincia di Piacenza), e della sarta parmense Paola Montani; il padre era un grande appassionato di arie d’opera, che intonava in casa con amici dopo averle apprese al Teatro Regio, che frequentava spesso da spettatore. Questa passione contagiò anche il piccolo Arturo; del suo talento si accorse non il padre, ma una delle sue maestre, una certa signora Vernoni, che, notando che memorizzava le poesie dopo una singola lettura senza mai più dimenticarle, gli diede gratuitamente le prime lezioni di solfeggio e pianoforte. Arturo dimostrò nuovamente memoria eccezionale, riuscendo a riprodurre al pianoforte musiche che aveva sentito anche soltanto canticchiare; la maestra Vernoni suggerì ai genitori l’iscrizione del figlio alla Regia Scuola di Musica, il futuro conservatorio di Parma.[2][4][5]
A nove anni Arturo Toscanini vi si iscrisse vincendo una borsa di studio non nell’adorato pianoforte, bensì in violoncello (divenendo allievo di Leandro Carini) e composizione (allievo di Giusto Dacci). Nel 1880, studente tredicenne, gli venne concesso per un anno di essere violoncellista nell’orchestra del Teatro Regio. Si diplomò nel 1885 con lode distinta e premio di 137,50 lire.[4][6][7][8][9][10]
Nel 1886 si unì come violoncellista e secondo maestro del coro a una compagnia operistica per una tournée in Sudamerica. In Brasile il direttore d’orchestra, il locale Leopoldo Miguez, in aperto contrasto con gli orchestrali abbandonò la compagnia dopo una sola opera (il Faust di Charles Gounod), con una dichiarazione pubblica ai giornali (che avevano criticato la sua direzione) nella quale imputava tutto al comportamento degli orchestrali italiani. Il 30 giugno 1886 la compagnia doveva rappresentare al Teatro Lirico di Rio de Janeiro l’Aida di Giuseppe Verdi con un direttore sostituto, il piacentinoCarlo Superti; Superti fu però pesantemente contestato dal pubblico e non riuscì neanche a dare l’attacco all’orchestra. Nel caos più totale Toscanini, incitato da alcuni colleghi strumentisti per la sua grande conoscenza dell’opera, prese la bacchetta, chiuse la partitura e incominciò a dirigere l’orchestra a memoria. Ottenne un grandissimo successo, iniziando così la carriera di direttore a soli 19 anni, continuando a dirigere nella tournée. Al ritorno in Italia, su consiglio e mediazione del tenore russo Nikolaj Figner, si presentò a Milano dall’editrice musicale Giovannina Strazza, vedova di Francesco Lucca, e venne scelto da Alfredo Catalani in persona per la direzione al Teatro Carignano di Torino per la sua opera Edmea, andata in scena il 4 novembre dello stesso 1886, ottenendo un trionfo e critiche entusiaste.[2][5][6][11]
Successivamente riprese per un breve periodo la carriera di violoncellista; fu secondo violoncello alla prima di Otello, diretta al Teatro alla Scala da Franco Faccio il 5 febbraio 1887, e per l’occasione ebbe modo di entrare in contatto con Giuseppe Verdi.[2][12][13]
Nel frattempo, prima di intraprendere a pieno ritmo la carriera di direttore d’orchestra, tra il 1884 e il 1888 Toscanini si era dedicato alla composizione di alcune liriche per voce e pianoforte. Si ricordano Spes ultima dea, Son gelosa, Fior di siepe, Desolazione, Nevrosi, Canto di Mignon, Autunno, V’amo, Berceuse per pianoforte.
Nel 1895, nel nome di Wagner, avvenne l’esordio da direttore al Teatro Regio di Torino, con il quale collaborò fino al 1898 e di cui, il 26 dicembre 1905, inaugurò la nuova sala con Sigfrido. Nel giugno 1898 iniziò a dirigere al Teatro alla Scala (fino al 1903 e nel 1906/1907), con il duca Guido Visconti di Modrone come direttore stabile, il librettista e compositore Arrigo Boito vice-direttore e Giulio Gatti Casazza amministratore. Toscanini divenne il direttore artistico del teatro milanese e, sulla scia delle innovazioni portate dal suo idolo Richard Wagner, si adoperò per riformare il modo di rappresentare l’opera, ottenendo nel 1901 quello che ai tempi era il sistema di illuminazione scenica più moderno e nel 1907 la fossa per l’orchestra;[15] pretese inoltre che le luci in sala venissero spente e che le signore togliessero i cappelli durante la rappresentazione, proibì l’ingresso agli spettatori ritardatari e rifiutò di concedere i bis; ciò creò non poco scompiglio, dato che i più consideravano il teatro d’opera anche come un luogo di ritrovo, per chiacchiere e far mostra di sé.[2][7] Come scrisse il suo biografo Harvey Sachs, “egli credeva che una rappresentazione non potesse essere artisticamente riuscita finché non si fosse stabilita un’unità di intenti tra tutti i componenti: cantanti, orchestra, coro, messa in scena, ambientazione e costumi”. Il 26 febbraio 1901, in occasione della traslazione delle salme di Giuseppe Verdi e di Giuseppina Strepponi dal Cimitero Monumentale di Milano a Casa Verdi, diresse 120 strumentisti e circa 900 voci nel Va, pensiero che non veniva eseguito alla Scala da vent’anni. Nel 1908 si dimise dalla Scala e dal 7 febbraio fu invitato a dirigere presso il teatro Metropolitan di New York, venendo molto contestato per la sua decisione di abbandonare l’Italia. Proprio durante tale esperienza Toscanini comincerà a considerare gli Stati Uniti d’America come la sua seconda patria.[7]
Schierato per l’interventismo, rientrò in patria nel 1915, all’ingresso dell’Italia in guerra, e si esibì esclusivamente in concerti di propaganda e beneficenza; dal 25 al 29 agosto 1917, per allietare gli animi dei combattenti, diresse una banda sul Monte Santo appena conquistato durante la battaglia dell’Isonzo; per tale atto venne decorato con una Medaglia d’argento al valor civile[16]. Subito dopo la fine della guerra, nel giro di pochissimi anni s’impegnò nella riorganizzazione dell’orchestra scaligera (con la quale era tornato a collaborare), che trasformò in ente autonomo.
Ancora per spirito patriottico, nel 1920 si recò a Fiume per dirigere un concerto e incontrare l’amico Gabriele D’Annunzio, che con i suoi legionari aveva occupato la città contesa dagli slavi e dal governo italiano[17].
Di idee socialiste, dopo un’iniziale condivisione del programma fascista, che lo aveva portato nel novembre 1919 a candidarsi alle elezioni politiche nel collegio di Milano nella lista dei fasci di combattimento con Benito Mussolini e Filippo Tommaso Marinetti senza venire eletto,[20] se ne allontanò a causa del progressivo spostamento verso l’estrema destra di Mussolini, divenendone un forte oppositore già da prima della marcia su Roma. Voce fermamente critica e stonata nella cultura omologata al regime, riuscì, grazie all’enorme prestigio internazionale, a mantenere l’Orchestra del Teatro alla Scala sostanzialmente autonoma nel periodo 1921-1929; al riguardo annunciò anche che si sarebbe rifiutato di dirigere la prima di Turandot dell’amico Giacomo Puccini se Mussolini fosse stato presente in sala (che invece poi diresse, in quanto il duce non si recò alla rappresentazione).
Per questi atteggiamenti di aperta ostilità al regime subì una campagna di stampa avversa sul piano artistico e personale, mentre le autorità disposero provvedimenti, come lo spionaggio su telefonate e corrispondenza e il ritiro temporaneo del passaporto a lui e famiglia; tutto ciò contribuì a mettere in pericolo la sua carriera e la sua stessa incolumità, come accadrà a Bologna.[21]
Il 14 maggio 1931, infatti, trovandosi nella città felsinea per dirigere al Teatro Comunale un concerto della locale orchestra in commemorazione di Giuseppe Martucci, Toscanini si rifiutò in partenza di far eseguire come introduzione gli inniGiovinezza e Marcia Reale al cospetto di Leandro Arpinati, Costanzo Ciano e vari altri gerarchi. Dopo lunghe negoziazioni, che il Maestro non volle accettare, si arrivò alla defezione di Arpinati e Ciano, alla perdita di ufficialità del concerto e, di conseguenza, alla non necessità di esecuzione degli inni. Toscanini, al suo arrivo in auto al teatro in compagnia della figlia Wally, in ritardo a causa delle negoziazioni, appena sceso, fu assalito da un folto gruppo di fascisti, venendo schiaffeggiato sulla guancia sinistra, si presume dalla camicia nera Guglielmo Montani, e colpito da una serie di pugni a viso e collo; fu messo in salvo dal suo autista, che lo spinse in macchina, affrontò brevemente gli aggressori e poi ripartì. Il gruppo di fascisti giunse poi all’albergo dove era alloggiato il Maestro e gli intimò di andarsene immediatamente; verso le ore 2 della notte, dopo aver dettato un durissimo telegramma di protesta a Mussolini in persona in cui denunciava di essere stato aggredito da “una masnada inqualificabile” (telegramma che non avrà risposta), avendo persino rifiutato di farsi visitare da un medico, partì in auto da Bologna diretto a Milano, mentre gli organi fascisti si preoccupavano che la stampa, sia italiana sia estera, non informasse dell’accaduto. Da quel momento Toscanini visse principalmente a New York; per qualche anno tornò regolarmente a dirigere in Europa, ma non in Italia, dove tornò in maniera saltuaria solamente dopo la seconda guerra mondiale, a seguito del ripristino di un governo democratico. Nondimeno, i dischi da lui incisi con orchestre statunitensi e inglesi per la casa discografica La voce del padrone non furono sottoposti a censura da parte del regime di Mussolini e rimasero regolarmente in catalogo fino al 1942 e oltre. [21][22][23][24][25]
Nel 1933 infranse i rapporti anche con la Germania nazista, rispondendo con un rifiuto duro e diretto a un invito personale di Adolf Hitler a quello che sarebbe stato il suo terzo Festival di Bayreuth.[26] Le sue idee avverse al nazismo e all’antisemitismo che esso perseguiva lo portarono fino in Palestina, dove il 26 dicembre 1936 fu chiamato a Tel Aviv per il concerto inaugurale dell’Orchestra Filarmonica di Palestina (ora Orchestra Filarmonica d’Israele), destinata ad accogliere e a dare lavoro ai musicisti ebrei europei in fuga dal nazismo, che diresse gratuitamente.[27] Nel 1938, dopo l’annessione dell’Austria da parte della Germania, abbandonò anche il Festival di Salisburgo, nonostante fosse stato caldamente invitato a rimanere. Nello stesso anno inaugurò il Festival di Lucerna (per l’occasione molti, soprattutto antifascisti, vi andarono dall’Italia per seguire i suoi concerti); inoltre, quando anche il governo italiano, in linea con l’alleato tedesco, adottò una politica antisemita promulgando le leggi razziali del 1938, Toscanini fece infuriare ulteriormente Mussolini definendo tali provvedimenti, in un’intercettazione telefonica che gli causò un nuovo temporaneo ritiro del passaporto, “roba da Medioevo“. Ribadì inoltre in una lettera all’amante, la pianistaAda Colleoni: “maledetti siano l’asse Roma-Berlino e la pestilenziale atmosfera mussoliniana”.[21][28]
L’anno successivo, anche a seguito della sempre più dilagante persecuzione razziale, abbandonò totalmente l’Europa, spostandosi negli Stati Uniti d’America.
Dagli States continuò a servirsi della musica per lottare contro il fascismo e il nazismo e si adoperò per cercare casa e lavoro a ebrei, politici e oppositori perseguitati e fuoriusciti dai regimi;[27] l’Università di Georgetown, a Washington, gli conferì una laurea honoris causa. Per lui, inoltre, nel 1937 era stata appositamente creata la NBC Symphony Orchestra, formata da alcuni fra i migliori strumentisti presenti negli Stati Uniti, che diresse regolarmente fino al 1954 su radio e televisioni nazionali, divenendo il primo direttore d’orchestra ad assurgere al ruolo di stella dei mass media.
«(…) sento la necessità di dirle quanto l’ammiri e la onori. Lei non è soltanto un impareggiabile interprete della letteratura musicale mondiale (…). Anche nella lotta contro i criminali fascisti lei ha mostrato di essere un uomo di grandissima dignità. Sento pure la più profonda gratitudine per quanto avete fatto sperare con la vostra opera di promozione di valori, inestimabile, per la nuova Orchestra di Palestina di prossima costituzione. Il fatto che esista un simile uomo nel mio tempo compensa molte delle delusioni che si è continuamente costretti a subire”[29]»
Durante la seconda guerra mondiale diresse esclusivamente concerti di beneficenza a favore delle forze armate statunitensi e della Croce Rossa, riuscendo a raccogliere ingenti somme di denaro. Si adoperò anche per la realizzazione di un filmato propagandistico nel quale dirigeva due composizioni di Giuseppe Verdi dall’alto valore simbolico: l’ouverture della Forza del destino e l’Inno delle Nazioni, da lui modificato variando in chiave antifascista l’Inno di Garibaldi e inserendovi l’inno nazionale statunitense e L’Internazionale. Nel 1943 il Teatro alla Scala, sui cui muri esterni erano state scritte frasi come “Lunga vita a Toscanini” e “Ritorni Toscanini“, venne parzialmente distrutto durante un violento bombardamento da parte di aereialleati; la ricostruzione avvenne in tempi rapidi, grazie anche alle notevoli donazioni versate dal Maestro.
Il 13 settembre 1943 la rivista statunitense Life pubblicò un lungo articolo di Arturo Toscanini dal titolo Appello al Popolo d’America. L’articolo era in precedenza un’accorata lettera privata di Toscanini al presidente americanoFranklin Delano Roosevelt.
«Le assicuro, caro presidente, – scrive Toscanini – che persevero nella causa della libertà la cosa più bella cui aspira l’umanità (…) chiediamo agli Alleati di consentire ai nostri volontari di combattere contro gli odiati nazisti sotto la bandiera italiana e in condizioni sostanzialmente simili a quelle dei Free French. Solo in questo modo noi italiani possiamo concepire la resa incondizionata delle nostre forze armate senza ledere il nostro senso dell’onore. (…)»
Toscanini non aveva in simpatia la posizione ambivalente di Richard Strauss durante la seconda guerra mondiale e dichiarò al riguardo: “Di fronte allo Strauss compositore mi tolgo il cappello; di fronte all’uomo Strauss lo reindosso”.[30]
Il ritorno
L’11 maggio 1946 il settantanovenne Toscanini ritornò in Italia, per la prima volta dopo quindici anni, per dirigere lo storico concerto di riapertura del Teatro alla Scala, ricordato come il concerto della liberazione, dedicato in gran parte all’opera italiana, e probabilmente per votare a favore della Repubblica. Quella sera il teatro si riempì fino all’impossibile: il programma vide l’ouverture de La gazza ladra di Rossini, il coro dell’Imeneo di Händel, il Pas de six e la Marcia dei Soldati dal Guglielmo Tell e la preghiera dal Mosè in Egitto di Rossini, l’ouverture e il coro degli ebrei del Nabucco, l’ouverture de I vespri siciliani e il Te Deum di Verdi, l’intermezzo e alcuni estratti dall’atto III di Manon Lescaut di Puccini, il prologo e alcune arie dal Mefistofele di Boito. In quell’occasione esordì alla Scala il soprano Renata Tebaldi, definita da Toscanini “voce d’angelo”.
Alla Scala fu direttore di altri tre spettacoli: il concerto commemorativo di Arrigo Boito, comprendente la Nona sinfonia di Beethoven, nel 1948, la Messa di requiem di Verdi nel 1950 ed infine un concerto dedicato a Wagner nel settembre 1952.
Il 5 dicembre 1949 venne nominato senatore a vita dal Presidente della RepubblicaLuigi Einaudi per alti meriti artistici, ma decise di rinunciare alla carica il giorno successivo, inviando da New York il seguente telegramma di rinuncia:
«È un vecchio artista italiano, turbatissimo dal suo inaspettato telegramma che si rivolge a Lei e la prega di comprendere come questa annunciata nomina a senatore a vita sia in profondo contrasto con il suo sentire e come egli sia costretto con grande rammarico a rifiutare questo onore. Schivo da ogni accaparramento di onorificenze, titoli accademici e decorazioni, desidererei finire la mia esistenza nella stessa semplicità in cui l’ho sempre percorsa. Grato e lieto della riconoscenza espressami a nome del mio paese pronto a servirlo ancora qualunque sia l’evenienza, la prego di non voler interpretare questo mio desiderio come atto scortese o superbo, ma bensì nello spirito di semplicità e modestia che lo ispira… accolga il mio deferente saluto e rispettoso omaggio.»
Addio alle scene e morte
Toscanini si ritirò a 87 anni, ponendo fine a una straordinaria carriera duratane 68;[4] rese tuttavia nota la sua volontà di lasciare il podio solo a familiari e amici, volendo evitare di ricevere eccessive celebrazioni pubbliche.[31]
Per il suo ultimo concerto, interamente dedicato a Wagner, compositore sempre molto amato, diresse la NBC Symphony Orchestra il 4 aprile 1954 alla Carnegie Hall di New York, in diretta radiofonica. Proprio in occasione di quell’ultima esibizione il Maestro, celebre anche, come già accennato, per la sua straordinaria memoria ed il suo perfezionismo maniacale (caratteristiche che, insieme al suo carattere irascibile ed impulsivo, lo portavano regolarmente ad infuriarsi quando l’esecuzione non risultava esattamente come lui voleva), mentre dirigeva il brano dell’opera Tannhäuser, per la prima volta perse la concentrazione e smise di battere il tempo.
Ritratto di Arturo Toscanini, direttore d’orchestra (1867-1957). Foto di Leone Ricci, Milano.
Toscanini rimase immobile per ben 14 secondi ed i tecnici radiofonici fecero immediatamente scattare un dispositivo di sicurezza che trasmise musica di Brahms[31], una reazione a posteriori giudicata eccessiva e forse dettata dal panico, laddove l’orchestra in realtà non aveva mai smesso di suonare. Il Maestro si ricompose e riprese a dirigere normalmente fino alla fine del concerto, dopodiché si ritirò rapidamente nel proprio camerino, mentre in teatro gli applausi sembravano non smettere più.[32]
Nel dicembre del 1956, debilitato da problemi di salute legati all’età, espresse il desiderio di trascorrere il Capodanno con tutta la famiglia. Il figlio Walter organizzò quindi una grande festa a New York con figli, nipoti, vari parenti e amici; a mezzanotte il Maestro, insolitamente allegro ed energico, volle abbracciare tutti uno per uno, poi intorno alle due andò a letto. Al mattino di Capodanno del 1957, alzatosi attorno alle 7, si recò in bagno e quando ne uscì stramazzò al suolo, colpito da una trombosi cerebrale.[31]
Toscanini rimase in agonia per 16 giorni e morì alle soglie dei 90 anni, nella sua casa newyorkese di Riverdale, il 16 gennaio 1957; la salma ritornò il giorno dopo in Italia con un volo diretto all’Aeroporto di Ciampino, a Roma, e venne accolta all’arrivo da una folla di persone. Da lì fu traslata a Milano: la camera ardente e il funerale furono allestiti presso il Teatro alla Scala e la gente salì anche sui tetti degli edifici circostanti per poter vedere qualcosa.
Composto da una marea di persone, il corteo funebre si avviò verso il Cimitero Monumentale di Milano, dove il Maestro venne tumulato nell’Edicola 184 del Riparto VII, la tomba di famiglia precedentemente edificata alla morte del figlioletto Giorgio dall’architetto Mario Labò e dallo scultore Leonardo Bistolfi, con tematiche rappresentanti l’infanzia e il viaggio per mare (Giorgio era morto di una difterite fulminante a Buenos Aires mentre seguiva il padre in tournée ed era ritornato a Milano defunto in nave).[33][34][35][36][37] Nella stessa cappella hanno ricevuto sepoltura il padre del Maestro, Claudio, la sorella Zina, gli altri tre figli del Maestro (Walter, Wanda, Wally), la moglie Carla, l’insigne pianista Vladimir Horowitz (1903-1989), marito di Wanda, la loro figlia Sophie Horowitz (1934-1975), la ballerina Cia Fornaroli (1888-1954), moglie del figlio Walter, e il nipote Walfredo Toscanini (1929-2011), figlio di Walter e della Fornaroli e ultimo discendente diretto maschio del Maestro.
Il nome di Arturo Toscanini si è successivamente meritato l’iscrizione al Famedio del medesimo cimitero.[38]
Vita privata
Arturo era il primogenito e dopo di lui i genitori ebbero tre figlie: Narcisa (1868-1878), Ada (1875-1955) e Zina (1877-1900).[39][40]
Arturo Toscanini con la figlia Wally, 1955
Toscanini sposò la milanese Carla De Martini (nata nel 1877) a Conegliano il 21 giugno 1897; la moglie diverrà sua manager.[2][31] Ebbero quattro figli: Walter, nato il 19 marzo 1898 e morto il 30 luglio 1971, storico e studioso del balletto, che sposò la celebre prima ballerinaCia Fornaroli;[41][42] Wally, nata il 16 gennaio del 1900, chiamata come la protagonista dell’ultima opera dell’amico scomparso Alfredo Catalani, La Wally[43], nel corso della seconda guerra mondiale elemento importante della Resistenza italiana e successivamente fondatrice di un’associazione per la ricostruzione del Teatro alla Scala distrutto dai bombardamenti alleati, nonché moglie del conte Emanuele di Castelbarco e celebre animatrice del jet set internazionale,[43][44][45] morta l’8 maggio 1991; il predetto Giorgio, nato nel settembre 1901 e morto di difterite il 10 giugno 1906; Wanda Giorgina, nata il 7 dicembre del 1907, diventata celebre per avere sposato il pianistarusso e amico di famiglia Vladimir Horowitz, morta il 21 agosto 1998.[31][37][46][47]
Il 23 giugno 1951 la moglie morì a Milano e Toscanini rimase vedovo.[48]
Toscanini ebbe varie relazioni extraconiugali, ad esempio con il soprano Rosina Storchio, dalla quale nel 1903 ebbe il figlio Giovanni Storchio, nato cerebroleso e morto sedicenne il 22 marzo 1919,[49][50] e con il soprano Geraldine Farrar, che avrebbe voluto imporgli di lasciare moglie e figli per sposarla; il Maestro non gradì l’ultimatum e, per tale motivo, nel 1915 si dimise da direttore d’orchestra principale del Metropolitan e ritornò in Italia. Ebbe anche una relazione durata sette anni (dal 1933 al 1940) con la pianista Ada Colleoni, amica delle figlie e divenuta moglie del violoncellista Enrico Mainardi; tra i due, nonostante vi fossero trent’anni di differenza, nacque un profondo legame, come risulta da una raccolta di circa 600 lettere e 300 telegrammi che il Maestro le inviò.[51][52][53]
Era un appassionato intenditore e collezionista d’arte, nonché conoscente o amico di molti pittori; secondo il nipote Walfredo, la sua collezione nella casa milanese di via Durini arrivava a contare fino a 200 quadri[31].
Critica
Toscanini fu pressoché idolatrato dalla critica finché fu in vita; la RCA Victor, che l’aveva sotto contratto, non si faceva problemi a definirlo il miglior direttore d’orchestra mai esistito. Tra i suoi sostenitori non vi erano solo i critici musicali, ma anche musicisti e compositori: un parere d’eccezione viene da Aaron Copland.[54]
Tra le critiche che gli furono mosse spicca quella “revisionista”, secondo la quale l’impatto di Toscanini sulla musica americana è da giudicare in definitiva più negativo che positivo, poiché il Maestro prediligeva la musica classica europea a quella a lui contemporanea. Tale bacchettata venne dal compositore Virgil Thomson, il quale deprecò la poca attenzione di Toscanini per la musica “contemporanea”. Va tuttavia sottolineato come Toscanini abbia speso parole d’ammirazione per compositori a lui senz’altro contemporanei, quali Richard Strauss e Claude Debussy, di cui diresse e incise la musica. Altri compositori attivi nel XX secolo i cui brani furono eseguiti sotto la direzione di Toscanini furono Paul Dukas (L’apprendista stregone), Igor’ Stravinskij (Le rossignol e la Suite da Petruška), Dmitrij Shostakovich (sinfonie numero 1 e 7) e George Gershwin, del quale diresse i tre lavori maggiori (Rapsodia in Blu, Un americano a Parigi e il Concerto in Fa).
Un’altra critica spesso mossa a Toscanini è quella di essere troppo “metronomico”, cioè di battere il tempo fin troppo rigidamente, senza mai distaccarsi dalle partiture. Questa sua caratteristica gli valse la rivalità di Wilhelm Furtwängler, caratterizzato da un modo di dirigere totalmente opposto a quello del Maestro italiano; i due si detestarono per anni e non ne fecero mistero.
Nota è l’aspra discussione sorta fra Toscanini e Maurice Ravel in relazione ai tempi della partitura del celebre Boléro del compositore francese.[55] Alla prima esecuzione a New York, il 4 maggio 1930, infatti, il direttore affrettò il tempo, dirigendo due volte più velocemente di quanto indicato, per poi allargarlo nel finale. Ravel gli ricordò che il brano andava eseguito con un unico tempo, dall’inizio alla fine, e che nessuno poteva prendersi certe libertà (lo stesso compositore, dopo la prima esecuzione, aveva anche fatto preparare un avviso che imponeva di eseguire il Boléro in modo tale che durasse esattamente diciassette minuti), e Toscanini gli rispose: “Se non la suono a modo mio, sarà senza effetto”, risposta che Ravel commentò dicendo: “i virtuosi sono incorreggibili, sprofondati nelle loro chimere come se i compositori non esistessero”.[56]
Francobollo emesso nel 2007 nel 50º anniversario della morte Francobollo della Repubblica di San Marino che celebra Arturo Toscanini, sempre per il 50° dalla morte
Toscanini registrò 191 dischi, specialmente verso la fine della carriera, molti dei quali sono ancora ristampati. Inoltre sono conservate molte registrazioni di esibizioni televisive e radiofoniche. Particolarmente apprezzate sono quelle dedicate a Beethoven, Brahms, Wagner, Richard Strauss, Debussy tra gli stranieri, Rossini, Verdi, Boito e Puccini tra gli italiani.
I beni che documentano la vita di Toscanini sono stati dati dai suoi eredi a istituzioni pubbliche italiane e statunitensi. A New York presso la New York Public Library si conservano molte delle partiture annotate e la rassegna stampa degli eventi che videro protagonista il Maestro; alcuni documenti sono invece conservati presso la Fondazione Arturo Toscanini di Parma; a Milano si trovano documenti presso l’archivio del Museo Teatrale alla Scala, l’Archivio di Stato e il Conservatorio di musica “Giuseppe Verdi”; il 19 dicembre 2012 vi fu un’asta su lotti di lettere e spartiti del Maestro: tutto ciò rischiava di andare disperso, ma 60 lotti su 73 andarono all’Archivio di Stato[61].
^ D’Annunzio gli aveva scritto: “Venga a Fiume d’Italia, se può. È qui oggi la più risonante aria del mondo e l’anima del popolo è sinfonia come la sua orchestra”.
^ Comune di Milano, App di ricerca defunti Not 2 4get (i suoi resti attualmente riposano al Cimitero Maggiore di Milano nella celletta 729 del Riparto 211).
^ Enzo Restagno, Ravel e l’anima delle cose, Il Saggiatore, Milano, 2009, pag.34
^ Da un’intervista di Dimitri Calvocoressi a Ravel per il Daily Telegraph dell’11 luglio 1931, in Maurice Ravel. Lettres, écrits, entretiens Ed. Flammarion, Parigi, 1989
^ Un singolare aneddoto è legato alla prima di quest’opera, che esordì incompleta e postuma alla morte di Puccini. Toscanini interruppe infatti l’esecuzione a metà del terzo atto, all’ultima pagina completata dall’autore; alcuni testimoni riportano che, voltatosi verso il pubblico, il direttore affermò: «Qui termina la rappresentazione perché a questo punto il Maestro è morto». Toscanini non diresse mai più la Turandot, tanto meno nella versione completata da Franco Alfano (di cui egli fu, peraltro, promotore, nonché recensore avendone bocciata una prima versione, presso l’editore Ricordi di Milano). Vd. Julian Budden, Puccini, traduzione di Gabriella Biagi Ravenni, Roma, Carocci Editore, 2005, ISBN 88-430-3522-3, pp. 458s.
Marco Capra (a cura di), Toscanini. la vita e il mito di un Maestro immortale, Milano, Rizzoli, 2017
Piero Melograni, Toscanini. La vita, le passioni, la musica, Milano, Mondadori, 2007.
Adriano Bassi, Arturo Toscanini, Collana I Signori della Musica, Milano, Targa Italiana, 1991
(EN) B.H. Haggin, Contemporary Recollections of the Maestro, Boston, Da Capo Press, 1989 (ristampa di Conversations with Toscanini e di The Toscanini Musicians Knew)
Harvey Sachs, Toscanini, Boston, Da Capo Press, 1978 (edizione italiana EDT/Musica, 1981). – Nuova ed. ampliata in pubblicazione nel giugno 2017.
(EN) Harvey Sachs, Reflections on Toscanini, Prima Publishing, 1993.
Arturo Toscanini, Lettere (The Letters of Arturo Toscanini. Compiled, edited and selected by Harvey Sachs, Knopf, 2002), traduzione di Maria Cristina Reinhart, a cura di Harvey Sachs, Milano, Il Saggiatore, 2017 [col titolo Nel mio cuore troppo d’assoluto: le lettere di Arturo Toscanini, Saggi Garzanti, 2003], ISBN978-88-428-2344-5.
Howard Taubman, The Maestro. The Life of Arturo Toscanini, Westport, Greenwood Press, 1977.
(EN) Joseph Horowitz, Understanding Toscanini. A Social History of American Concert Life, Berkeley, University of California Press, 1994.
(EN) Tina Piasio, “Arturo Toscanini”, in Italian Americans of the Twentieth Century, ed. George Carpetto and Diane M. Evanac, Tampa, FL, Loggia Press, 1999, pp. 376-377.
(EN) William E. Studwell, “Arturo Toscanini.” In The Italian American Experience: An Encyclopedia, ed. S.J. LaGumina, et al., New York, Garland, 2000, pp. 637-638.
una mostra per celebrare il centenario di Marcello Mastroianni
A Castel Sant’Angelo a Roma è in programma la mostra Marcello Mastroianni. Ieri, Oggi, Sempre, dal 12 ottobre 2024 al 12 gennaio 2025. La mostra, dedicata al centenario della nascita di Marcello Mastroianni (Fontana Liri, 1924 – Parigi, 1996), rappresenta un evento ufficiale della diciannovesima Festa del Cinema di Roma ed è un appuntamento imperdibile per gli appassionati del cinema italiano e della fotografia d’autore. L’esposizione presenta una straordinaria raccolta di fotografie che ripercorrono la carriera e la vita di uno dei più grandi protagonisti del cinema italiano, simbolo della Dolce Vita.
Promossa dall’istituto Pantheon e dalla Direzione dei Musei Nazionali della città di Roma del Ministero della Cultura, la mostra è curata da Gian Luca Farinelli, Direttore della Cineteca di Bologna, con il patrocinio della Regione Lazio. È organizzata da Civita Mostre e Musei in collaborazione con la Fondazione Cinema per Roma, la Cineteca di Bologna, l’Archivio Storico dell’Istituto Luce, la Biblioteca Museo Teatrale SIAE, la Fondazione Centro Sperimentale di Cinematografia, Rai Teche e con il supporto di archivi privati. La mostra offre un viaggio visivo nella storia del cinema italiano attraverso l’obiettivo di noti fotografi, che hanno catturato momenti sia intimi che pubblici della vita del grande attore. Con 100 fotografie per celebrare i suoi 100 anni, l’esposizione si propone di esplorare i momenti più iconici e significativi della vita di Marcello Mastroianni, figura che ha rappresentato il cinema italiano nel mondo. Le immagini in mostra metteranno in luce le molteplici sfaccettature dell’attore, non solo attraverso i suoi ruoli cinematografici più celebri, ma anche nella sua vita privata, lontano dai riflettori, cercando di rivelare i meccanismi dietro le quinte attraverso un percorso coinvolgente e interattivo. Il percorso espositivo si articola su due temi principali: il primo si concentra su momenti salienti delle riprese e degli spettacoli; il secondo, presenta un’analisi dell’uomo Marcello Mastroianni, approfondendo la sua personalità e narrando la sua storia.
“Castel Sant’Angelo si conferma ancora una volta un punto di riferimento fondamentale per l’incontro e il dialogo tra diversi linguaggi e discipline, con le sue mostre che spaziano dalla fotografia, all’arte, all’archeologia, al cinema. Quello che oggi si inaugura è un progetto corale, di collaborazione tra una pluralità di istituzioni, dedicato a una figura iconica della cultura italiana e internazionale, in un luogo altrettanto simbolico per il nostro patrimonio”, evidenzia MassimoOsanna, Direttore generale Musei.
“L’obiettivo della mostra ‘Ieri, Oggi, Sempre’ non è solo commemorare attraverso la fotografia uno dei più grandi personaggi del cinema italiano e mondiale, ma valorizzare gli aspetti della sua vita e della sua arte che non sono conosciuti e ciò che – dopo cento anni dalla sua scomparsa – ha rappresentato per la nostra società e il nostro sistema culturale. L’esposizione è frutto di uno sforzo istituzionale comune volto all’esaltazione di quella naturalezza malinconica e umanità ironica che hanno scritto la storia della cultura italiana del secondo Novecento e che lo hanno fatto amare dagli italiani come uno di loro. Da sempre sosteniamo iniziative come questa”, afferma FedericoMollicone, Presidente della Commissione Cultura della Camera dei Deputati.
“Nel paese dei mostri sacri e degli istrioni, Mastroianni ha saputo diventare la presenza più umana e carismatica, il divo più internazionale, coltivando uno stile nell’ombra, senza eccessi, senza abusi, preferendo le inflessioni interiori. Anche per questo non lo si può confondere con nessun altro, né lo si può dimenticare. La sua silhouette così discreta, senza parole inutili, così autoironica, ha portato nel mondo intero un’idea della nostra civiltà, della nostra cultura, che ben pochi altri hanno saputo offrire con la stessa eleganza”, dichiara Gian Luca Farinelli, curatore della mostra.
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