“Canto è [R]Esistenza”, il nuovo libro di Gerardo Magliacano
Il titolo dell’opera di Gerardo Magliacano è ispirato a un verso de I sonetti a Orfeo di R. M. Rilke, «Gesang ist Dasein», canto è esistenza, canto è “esser-ci”, l’essere-noi-qui-ora, una corale polifonica, senza voci soliste o fuori dal coro, intonate e in accordo, a cantare la nostra R-Esistenza, d’individui e di popoli. Inoltre, prende spunto da un passo de La Nascita della Tragedia di F. Nietzsche: “Cantando e danzando, l’uomo si mostra come membro d’una superiore comunità: ha disimparato il camminare e il parlare ed è sulla via di volarsene in cielo danzando [e cantando].” Il titolo, pertanto, traduce l’intento di ritrarre figure salvifiche, una sorta di ‘oltre-umanità’, e non di superuomini, disciplinata e incorruttibile che possa rappresentare l’alternativa al totalitarismo massificante d’ ‘0 Sistema.
Attraverso le voci di dissenso della nostra epoca, Magliacano compone, canto dopo canto, il manifesto di una nuova Resistenza, che si è ‘rifatta carne’, carne del mondo, cui i neopartigiani, con le loro gesta, hanno dato gambe e fiato; hanno dato un volto e un’anima. Pagina dopo pagina, si delinea l’immagine di una Resistenza che è rivoluzione costante; è lotta indefessa, senza tregua e senza indugio; è sopravvivenza; è il sacrificio di un’intera esistenza, consacrata alla libertà, alla giustizia e alla verità. È memoria e coscienza.
L’opera passa in rassegna una schiera di vite, di (r)esistenze esemplari: dai “Vivi” – canti dedicati ad attivisti combattenti, che ancora lottano per difendere una terra, un’ideologia, un’etnia, un principio – ai “Morti” – biografie in versi di eroi e martiri della contemporaneità, tra i meno celebrati –, passando per le grandi incognite della vita – idee per cui lottare, per cui morire –, fino ai partigiani in quarantena. Il testo, un insieme d’instant book, si apre con l’eroica provocazione di “Ammazzateci tutti” e si chiude con un congedo sussurrato ad libitum. Inoltre, l’autore, dalle pagine del libro, scaglia le sue filippiche contro mafiosi e imprenditori collusi che hanno ridotto il Bel Paese in ‘poderi’, in appezzamenti di terre dei fuochi; accusa, denuncia i mali pandemici del nostro tempo, mentre ha già definito figure salvifiche, ha già testato l’antidoto, l’antivirale.
Ciro Corona, simbolo della lotta alla camorra di Scampia, consiglia, nella prefazione: “Lasciatevi accompagnare dallo scrittore Magliacano […] in un percorso catartico, forse unico e senza precedenti, fino a scoprire che questi ‘canti di Resistenza’ sono, nella loro dirompente portata rivoluzionaria […] «un libro per spiriti liberi»”. Canto è [R]Esistenza: il diritto di esistere, il dovere di resistere!
La maggior parte dei canti può essere definita una sorta di autobiografie in versi, una sorta di poema cavalleresco contemporaneo, che ha come protagonisti eroi, eroine e martiri, in cui il “vero storico”, la cronaca, si intreccia con il “vero poetico”, tipico tratto delle odi risorgimentali. L’idea di fondo è proprio quella di inaugurare un nuovo Risorgimento, partendo da alcune vite esemplari: dai Borsellino agli Impastato; da Falcone a Gratteri; dal Valore civile ai testimoni di Giustizia; dai giornalisti ammazzati a quelli sotto scorta; dalla favela della Franco alla Cecenia della Politkovskaja; dalla fotogenia curda al murale palestinese; dalle Lettere luterane di Pasolini a La rivolta nera della Davis; dai braccianti di Dolci ai tupamaro di Mujica; dalla Terra degli uomini integri al Villaggio Globale, da Yako a Riace; dalle praterie di Toro Seduto al deserto di Sawadogo; dall’empate dei seringueiri alle tuerredda dei pastori sardi; dalle Roverelle valsusine agli Ulivi salentini; dai beni confiscati ai comitati cittadini; dalle terre dei fuochi all’Amazzonia; dai campi profughi alle Shoah; Da Dachau a Sabra e Shatila; da Nanchino a Soweto; dai Briganti ai Partigiani; dalle pandemie all’antivirale. Un’istantanea, una foto di gruppo per ritrarre l’Inferno in cui viviamo, i demoni che lo governano, e i santi che ancora r-esistono, i martiri di una nuova Resistenza, affinché non siano lasciati soli nella lotta comune.
Gerardo Magliacano è docente di Storia e Letteratura, ed Esteta. Laureato presso l’Università di Salerno in Lettere e Filosofia, ha insegnato e insegna discipline umanistiche. Nato e formatosi a Salerno, classe 1974, ha lavorato per più di un decennio in Lombardia, dove ha insegnato e pubblicato le sue prime opere. A partire dal 2014 ha deciso di trasferirsi in Campania per “faticare” per la sua Terra Felix, dove tuttora insegna, con la promessa di pubblicare solo con editori meridionali e di devolvere parte del ricavato ad associazioni che promuovono il territorio.
In veste di scrittore e saggista, Magliacano ha pubblicato: due saggi di filosofia della canzone – Vasco. L’ultimo poeta male-detto, (Milano 2006), Generazione di Suonati. La Cultura gira in-formato mp3 (Milano 2008) – e un’inchiesta romanzata d’impianto storico dal titolo Santa Escort. La ‘Matria’ degli italiani, (Milano 2011). Nel 2010 ha curato, in collaborazione con AMREF, una raccolta di scritti adolescenziali dal titolo Il mondo salvato dall’Adolesce(ME)nza (Milano 2010): con il ricavato è stato costruito un pozzo in Tanzania. Ultimi lavori: “TERRO(M)NIA. Ritorno alla (mia) terra” (Napoli 2014), il ricavato è stato destinato al progetto “Melo aDotto”, che si propone la riforestazione di tutte quelle terre mortificate dalle mafie. Nel 2016 esce “Una Nea-Polis sospesa”, che gli vale il Premio “Gelsomina Verde” per essersi contraddistinto “con impegno e passione ed esempio di vita, nella lotta alle mafie e nell’affermazione delle verità storiche e del sentimento di giustizia”. Del 2018 è “SERVI della GLEBA”(Napoli 2018), prefazione di Ciro Corona e postfazione di Don Aniello Manganiello.
Fonte-sito web IlSaltodellaQuaglia.com-ANGELO BARRACO Giornalista
L’Aquila celebra l’opera di Paola Agosti con due mostre alla Fondazione Giorgio de Marchis e al MAXXI L’Aquila – La Fondazione Giorgio de Marchis Bonanni d’Ocre e il MAXXI L’Aquila omaggiano Paola Agosti, protagonista della fotografia contemporanea italiana. Due le iniziative in programma a L’Aquila da giovedì 23 ottobre: a Palazzo Ardinghelli, sede del MAXXI L’Aquila, alle ore 17.00 in Project Room l’opening del Focus dedicato all’artista che presenta, per la prima volta, le fotografie acquisite nel 2023 per la Collezione di Fotografia del MAXXI Architettura e Design contemporaneo.
Alle ore 18.00, presso Palazzo Cappa Cappelli, sede della Fondazione, inaugura la mostra Lisbona, la notte è finita! – La Rivoluzione dei Garofani nelle fotografie di Paola Agosti, a cura Giorgio de Marchis e Pasquale Ruocco, che arriva in Abruzzo dopo la prima presentazione a Ravello, a Villa Ruffolo, nello scorso mese di settembre.
I due appuntamenti sono, dunque, un’occasione preziosa per conoscere e approfondire diversi aspetti dell’opera di Paola Agosti: dalle immagini di piazza che testimoniano e documentano le giornate della fine del regime dittatoriale di António Salazar in Portogallo, a quelle dedicate alla figura femminile negli ambienti di vita e lavoro fra gli anni ’70 e ’90 del secolo scorso.
L’artista sarà presente alle 17.00 al MAXXI L’Aquila e alle 18.00 alla presentazione alla Fondazione Giorgio de Marchis insieme ai curatori, nonché all’Ambasciatore del Portogallo Bernardo Futscher Pereira.
La mostra Lisbona, la notte è finita!testimonia e documenta gli avvenimenti del 25 aprile 1974 e dei giorni seguenti fino alla storica manifestazione del 1° maggio 1974 a Lisbona, così detta Rivoluzione dei Garofani. Infatti il 25 aprile un colpo di stato incruento pose fine, in Portogallo, al più duraturo regime dittatoriale dell’Europa occidentale: un avvenimento straordinario che ben presto assunse caratteri rivoluzionari, entrando nell’immaginario collettivo, non solo portoghese, come uno degli episodi più entusiasmanti e commoventi della lotta per la libertà e la giustizia nel XX secolo. Cineasti, scrittori, giornalisti e artisti da tutto il mondo si recarono immediatamente a Lisbona per “vedere da vicino la rivoluzione” e tra questi vi fu Paola Agosti, che presto si sarebbe affermata come una delle più significative e attente fotografe italiane e che, nel 1974, giovanissima, fu l’unica fotografa straniera a immortalare e catturare in maniera eloquente il clima di festa e di fratellanza che si viveva in Portogallo in quei giorni iniziali. L’esposizione riunisce 28 fotografie realizzate da Paola Agosti in occasione di due soggiorni in Portogallo, nella primavera del 1974 e nell’estate del 1975.
Come scrive lo storico dell’arte Pasquale Ruocco nel testo in catalogo, le fotografie di Paola Agosti sono «un reportage a caldo, senza fronzoli, svolto con profonda partecipazione e con la consapevolezza dell’urgenza di quegli avvenimenti. Incontriamo, come se fosse oggi, ora, una camionetta che trasporta un gruppo di soldati sorridenti, qualcuno ci guarda negli occhi, invitandoci a partecipare a quella gioia collettiva, mentre qualcun altro, in piedi, guarda avanti, con la stessa fierezza di una Libertà che guida i popoli. I bambini, i giovani, gli anziani riconquistano le loro strade mentre lo splendore di una donna in marcia spazza via il terrore, incenerito, di corsa, nel camino della sede della polizia politica. E poi le manifestazioni contro il colonialismo, contro ogni forma di fascismo, desiderose di giustizia, di riscatto, di rinascita. A tutto ciò il bianco e nero della Agosti, bilanciatissimo, senza indugiare in contrasti troppo drammatici e teatrali, conferisce la dimensione della memoria storica, viva e densa, che fa di una fotografia prima di tutto un documento ma, al contempo, un potente mezzo di sollecitazione emotiva, facendoci quasi ascoltare le note di José Afonso o il profumo di un garofano rosso».
Il progetto, in coincidenza con il Cinquantesimo anniversario della Rivoluzione portoghese, è realizzato, nell’ambito di Culture sonore 2024, con il sostegno del Comune di Ravello, Ambasciata del Portogallo, Dipartimento di Lingue, Letterature e Culture Straniere – Università Roma Tre Cátedra Camões, I.P. “José Saramago” – Università Roma Tre, Camões, Instituto da Cooperação e da Língua – Portugal, in collaborazione con la Fondazione Ravello e la Fondazione Giorgio de Marchis Bonanni d’Ocre Onlus.
Il 21 novembre, in vista del finissage della mostra alla Fondazione de Marchis (23 novembre), alla presenza dell’Ambasciatore portoghese, della docente di Storia contemporanea del DSU, Simona Troilo, e della stessa Paola Agosti, il MAXXI ospiterà in sala polifunzionale la proiezione del film Outro País, del regista Sérgio Tréfaut che racconta la rivoluzione portoghese attraverso gli occhi di alcuni dei più grandi fotografi e registi internazionali che hanno assistito all’evento.
Continuerà fino al 2 febbraio 2025 il FOCUS Paola Agosti nelle Collezioni del MAXXI che presenta, invece, il nucleo di 20 fotografie vintage acquisite dal museo nel 2023, incentrate principalmente sul racconto trasversale condotto da Paola Agosti attraverso più decenni e in differenti continenti e che ha per soggetto donne ritratte, al di fuori di ogni mistificazione, nel proprio contesto di vita, nella dimensione del lavoro, impegnate nel tentativo di affermare un diverso ruolo sociale o di proporre una nuova visione culturale.
Le fotografie sono tratte da diverse serie fotografiche che l’artista ha sviluppato nel corso del tempo. Considerata tra le principali fotogiornaliste italiane, Paola Agosti ha seguito a lungo il movimento femminista e più in generale il mondo femminile: dalle rivendicazioni delle donne per i loro diritti – come quello al divorzio e all’aborto – alle lotte contro la violenza di genere, dalla denuncia dell’isolamento domestico all’analisi del lavoro in fabbrica. La passione per il femminile non abbandona mai l’artista: quando la sua attività di fotografa indipendente la porta a compiere diversi viaggi in Europa, in Sud America, negli Stati Uniti, in Africa – in cui il suo interesse rimane costante – , emergono alcuni intensi ritratti scattati in Argentina, immagini di lavoro in un centro di ricerca di Cuba insieme al reportage dedicato al mondo contadino della Marsica. Il focus presenta anche foto poi pubblicate nei suoi libri: Riprendiamoci la vita, racconto per immagini dell’irruzione delle donne come soggetto sociale sulla scena politica italiana del 1976, e La donna e la macchina dedicato alle donne al lavoro nelle fabbriche dell’Italia settentrionale tra i primi anni Settanta e i primi anni Ottanta.
Come già avvenuto con Mimmo Jodice. Mediterraneo, il Focus dedicato alle acquisizioni della Collezione Permanente della Fondazione MAXXI permette di guardare al Patrimonio come spazio di ricerca e di approfondimento, offrendo al pubblico una narrazione sintetica ma puntuale di alcune delle ricerche più significative di alcune figure chiave della ricerca visiva contemporanea.
Lisbona, la notte è finita!
La Rivoluzione dei Garofani nelle fotografie di Paola Agosti
a cura Giorgio de Marchis e Pasquale Ruocco
23 ottobre – 23 novembre 2024
Inaugurazione 23 ottobre 2024 ore 18.00
Fondazione Giorgio de Marchis Bonanni d’Ocre
Corso Vittorio Emanuele II, 23 – L’Aquila
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FOCUS Paola Agosti nelle Collezioni del MAXXI
a cura di Simona Antonacci
23 ottobre 2024 – 2 febbraio 2025
Apertura 23 ottobre 2024 ore 17.00 | MAXXI L’Aquila
Piazza Santa Maria Paganica 15 – L’Aquila
Descrizione-del libro Ernesto Rossi-L’Europa di domani-La crisi finanziaria ed economica che si è abbattuta sul continente europeo e sui singoli Paesi ha fatto traballare l’Unione europea, mettendone a dura prova la solidità, e allo stesso tempo ha mostrato la fragilità delle sue istituzioni. Nella spirale recessiva le politiche di austerità, promosse dai consessi dei capi di Stato, hanno acuito la crisi sociale. La frantumazione del welfare ha disgregato la coesione tra le nazioni, permettendo il riesplodere di antiche, e forse mai sopite, rivalità.
La riedizione delle analisi elaborate da Ernesto Rossi nel 1944 trova fondamento nella grande attualità delle tematiche e delle soluzioni proposte dall’autore, che crede fortemente nel progetto federalista come garanzia di un maggiore esercizio della democrazia.
Questo pamphlet – documento del tempo – non ha la pretesa di offrire soluzioni definitive a problematiche politiche ed economiche aperte ma si propone di suggerire spunti di riflessione su tematiche che interessano il lettore in quanto cittadino europeo.
Biografia di Ernesto Rossi
Ernesto Rossi (Caserta 1897-Roma 1967) -Residente a Bergamo, professore, antifascista. Interventista e volontario nella prima guerra mondiale, ne esce mutilato e invalido. Studioso di storia ed economia, è seguace di Salvemini e di Einaudi, tra i fondatori di ‘Italia libera’, aderente all’’Unione democratica’ di Giovanni Amendola.Redattore del Non Mollare, del Caffè, della Rivoluzione liberale. Professore a Bergamo, tiene i contatti con l’antifascismo all’estero. Tra i massimi esponenti di Giustizia e Libertà insieme a Riccardo Bauer, “dotato di spirito indomabile” è arrestato il 30.10.1930 per attentato all’ordine costituzionale dello Stato e dimostrazioni a carattere insurrezionale e condannato dal Tribunale Speciale il 30.5.1931 a 20 anni di reclusione. “ ammise di aver esplicato intensa opera antifascista…nelle varie riunioni segrete fra affiliati egli, Rossi, aveva preso viva parte alle discussioni sull’organizzazione e sul movimento della “Giustizia e Libertà” nonché sulla scissura tra la concentrazione (blocco unitario delle varie tendenze antifasciste del fuoriuscitismo) e la stessa Giustizia e Libertà…”.
Recluso a Roma. Nel 1934 gli è inflitta dal Consiglio di disciplina del carcere 3 mesi di cella di segregazione per frasi offensive verso il duce. Liberato il 29.10.1939, data della liberazione. A fine pena, il 29.10.1939, è confinato a Ventotene per 5 anni, dove è tra i redattori del noto ‘Manifesto di Ventotene’ nel 1941. Il 9 luglio 1943, Rossi fu arrestato con Vincenzo Calace e Riccardo Bauer e nuovamente tradotto a «Regina Coeli». Il 25 luglio 1943 lo salva da un nuovo processo davanti al Tribunale Speciale. Liberato il 30.7.1943. Nell’agosto 1943 partecipa alla fondazione del Movimento federalista europeo. Dirigente del Partito d’azione.
L’8 settembre capeggiò una manifestazione popolare a Bergamo, il che lo segnalò all’attenzione dei neofascisti e dei tedeschi. Ricercato e in pessime condizioni di salute, per le privazioni sofferte nei lunghi anni di carcere e confino, fu costretto a cercare rifugio in Svizzera.
Rientra a Milano nel 1945. Consultore nazionale, sottosegretario del governo Parri, è assertore di una moderna società democratica, svolge un’intensa attività pubblicista e di scrittore.
Nel 1955 fondatore del Partito radicale. Autore di numerose opere tra cui La riforma agraria, Critica del capitalismo, Settimo non rubare, I padroni del vapore, Il manganello e l’aspersorio, Viaggio nel feudo Bonomi ed altri. Muore a Roma il 9.2.1967.
Stefano Savella articolo per PugliaLibre
Già subito dopo le elezioni europee del maggio scorso le questioni riguardanti le politiche comunitarie hanno rapidamente abbandonato i rulli dei programmi di comunicazione. Quando il nuovo presidente della Commissione, Jean-Claude Juncker, presenterà tutti i nomi della sua squadra, è assai probabile che si tornerà a parlare di governance europea soltanto per le eventuali raccomandazioni dell’Unione nei confronti del nostro paese. Ci troviamo dunque di fronte a un’assenza assai evidente di una “narrazione” europea che approfondisca aspetti politici ed economici ma allargandosi anche a quelli sociali, a tutti quei fenomeni che sotto traccia, giorno dopo giorno, contribuiscono alla costruzione di un’Europa più solida. Per chi voglia ricercare frammenti di questa narrazione, è perciò necessario rifarsi ai grandi classici dell’europeismo, agli scritti di quegli intellettuali che, già nella prima metà del Novecento, si erano posti il problema di un’organismo sovranazionale che rendesse l’Europa un continente di pace.
L’Europa di domani. Un progetto per gli Stati Uniti d’Europa, di Ernesto Rossi, è uno di questi documenti nei quali è possibile riscoprire ciò le origini della formazione del pensiero europeista ma anche l’idea di un’Europa federale che resta ancora ai margini del dibattito pubblico, malgrado la sua urgenza. Ripubblicato dalla Stilo Editrice (pp. 104, euro 10), questo libello scritto dall’intellettuale casertano nel 1944 è preceduto da una introduzione di Mauro Rubino, laureato in Lettere all’Università di Bari, che dopo studi specialistici sul romanzo postmoderno si occupa ora di saggistica politica. Qui Rubino affronta analiticamente i diversi aspetti che Rossi, in un contesto storico quale quello dei mesi conclusivi del secondo conflitto mondiale, indicava come necessari per addivenire alla costruzione di un’Europa autenticamente federale; lo fa, inoltre, alla luce della fortuna che le intuizioni di Rossi hanno avuto nei decenni successivi e al loro recepimento sia in ambito comunitario sia all’interno di alcuni Stati nazionali, come la Germania e il Regno Unito, particolarmente decisivi per la tenuta delle istituzioni europee.
Tanto il lettore già attento alle dinamiche della politica europea, quanto quello che intende comprendere meglio il percorso storico che ha preceduto l’attuale fisionomia degli organismi di governo e di rappresentanza di Bruxelles e Strasburgo, troveranno molte affermazioni di Ernesto Rossi straordinariamente profetiche. «I rappresentanti dei medesimi partiti votano insieme nelle assemblee legislative, indipendentemente dalla loro cittadinanza nazionale: il socialista di un altro Stato membro della federazione contro il conservatore suo connazionale, ed il conservatore è appoggiato dai conservatori degli altri Stati contro il socialista suo connazionale»: parole scritte nel 1944 e nient’affatto scontate, ma ormai da alcuni decenni pratica comune nel corso dei lavori del Parlamento europeo. Ma è evidente che c’è ancora molta strada da fare, contrariamente agli auspici di Rossi, su un’Europa federale, i cui rappresentanti rispondano, appunto, a un governo sovranazionale e non a quelli dei propri paesi di appartenenza. Eppure, anche in questo caso le parole di Rossi avrebbero potuto tracciare un percorso assai più coerente, anche in relazione alle questioni economiche che oggi l’Unione, proprio per mancanza di poteri effettivi, fa fatica ad affrontare. Scriveva infatti Rossi in questo libro che «L’unificazione economica dà vigore all’unificazione politica. […] creando fin dalle origini dello Stato federale europeo un complesso di tali interessi gli si permetterebbe di affondare subito le radici nel territorio più saldo, in modo da renderlo poi capace di resistere all’infuriare delle tempeste».
STORIA- La lezione di Ernesto Rossi- Alberto Cavaglion, scrittore Fonte Pagine Ebraiche- 22/01/2019 – 16 שבט 5779
Non ho potuto purtroppo prendere parte, come avrei desiderato, all’importante convegno “L’emigrazione intellettuale dall’Italia fascista. Studenti e studiosi ebrei dell’Università di Firenze in fuga all’estero” che si è svolto a Firenze. Era mia intenzione proporre agli studiosi un’ipotesi di ricerca su un aspetto della storiografia sul 1938 che mi sembra poco esplorato. Provo a spiegarmi qui, ma prima desidero scusarmi con i miei abituali lettori: la tiro in lungo più del solito, il tema è importante e non semplice. Mi ero in passato rivolto a mettere in fila alcune pagine di Franco Venturi, Emilio Lussu, Giuseppe Di Vittorio, Ernestina Bittanti-Battisti, qualche cosa su di loro ho scritto, ma non mi era mai capitato di cercare una spiegazione complessiva, di vedere se esiste un filo che tenga unita la sdegnata reazione di quei pochi (ma poi non così pochi come comunemente si crede) alla campagna razziale. Parto, senza avere una risposta esaustiva, da una constatazione di fatto, ancorché del tutto ovvia, quasi elementare. L’ipotesi che mi piacerebbe verificare è la seguente: mi chiedo e chiedo a chi in questi anni s’è occupato di 1938 che cosa voglia dire, e da dove derivi, il fatto che la reazione al razzismo antiebraico delle «pecore matte» muove sempre da una motivazione economicistico-pratica. Mi chiedo se questo tipo di reazione sia da ricondursi a una specifica formazione economica di alcune delle «pecore matte». Andando più nel profondo immagino – e per questo vi pongo come ipotesi di lavoro – che il denominatore comune in senso lato vada cercato in una matrice empirista, «cattaneano-salveminiana », che accomuna, pur nella disomogeneità delle posizioni, l’antirazzismo di Venturi, Lussu, Di Vittorio, della stessa Ernestina Bittanti Battista e, appunto, la posizione della più matta delle mie adorate pecore, Ernesto Rossi: «Il pensiero di tanti altri che avranno troncata la loro carriera e non sapranno a che santo votarsi mi ha fatto andar via ogni volontà di ridere», scriveva Rossi alla moglie il 9 settembre di ottant’anni fa. Se, come dicevo, il sarcasmo era stato – fino ad allora – la cifra stilistica preferita da Ernesto Rossi per deridere il Duce, l’antisemitismo e la cacciata degli ebrei dai pubblici uffici e in specie dal mondo delle università, segna un mutamento nella forma prima che nella sostanza. Non sono stati molti gli intellettuali antifascisti che hanno percepito in modo altrettanto lucido la gravità del problema, ma non sono stati nemmeno così pochi a rivendicare, alla maniera delle Interdizioni cattaneane, la priorità dell’economia sulle ideologie. Nei diari, nei carteggi che conosciamo – anche di leader e antifascisti importanti–si osserva, intorno al 1938, un imbarazzante silenzio di cui poco fino ad oggi s’è parlato. Anche dopo l’8 settembre l’antifascismo politico sottovaluterà la questione ebraica, come ci ha spiegato Enzo Forcella in memorabili pagine del suo diario dedicate al 16 ottobre 1943. Anche di questo diffuso fenomeno di sottovalutazione non capisco perché non si discuta mai, a fronte del molto che s’è scritto e si continua a scrivere del mondo cattolico o della (presunta) cultura fascista. Sono lettere, quelle di Rossi, che vanno intrecciandosi con le coeve lettere ai famigliari di altri antifascisti, per esempio di Vittorio Foa o dello stesso Massim Mila, che sul 1938 in vero non scrive molto nelle sue lettere dalla prigione. Allarmano Ernesto Rossi i destini di amici, colleghi: «A Firenze sono stati espulsi anche il Finzi e il Limentani, che conoscevo ». Al razzismo Ernesto Rossi dedicherà riflessioni importanti anche dopo la guerra ne Il manganello e l’aspersorio, uno dei primi libri che affronterà dopo la Liberazione il 1938. Il caso che più s’avvicina alla riflessione di Rossi e merita una diretta comparazione è quello di Luigi Einaudi. Fra i saggi di Einaudi che si possono rileggere oggi in rete, uno spicca fra gli altri. S’intitola I contadini alla conquista della terra italiana nel 1920-1930 e venne stampato sulla «Rivista di storia economica» nel dicembre 1939. Il tema è la rivoluzione agraria, ma il futuro Presidente della Repubblica non perde di vista l’attualità soffermandosi sul ruolo positivo che gli ebrei hanno avuto nella costruzione della Nuova Italia. In una decina di pagine, ricche di aneddoti autobiografici, Einaudi racconta “il gran tramestio di terre”, che in momenti successivi mutò il volto del paesaggio in Piemonte. Interessante è quello che Einaudi scrive sia del primo “tramestio” (successivo alla Rivoluzione francese), sia del secondo, avvenuto in conseguenza della vendita dei beni ecclesiastici con le leggi Siccardi, negli anni Sessanta dell’Ottocento. Nonostante la facilità di accesso ai beni messi all’asta, gli acquirenti si trovarono di fronte ad un dilemma di coscienza: prima di procedere nell’acquisto dovevano pur sempre superare qualche remora. Se avessero comprato sarebbero incorsi nella scomunica: ogni deliberatorio, non munito del beneplacito della Santa Sede, sarebbe stato considerato nullo. Gli ebrei appena emancipati dal ghetto potevano invece comprare: si trattava quasi sempre di beni facili da dividere e altrettanto facili da rivendere. Il fenomeno, apprendiamo dalle pagine einaudiane, ebbe dimensioni notevoli nella provincia di Alessandria (43%), Cuneo (20-21%) e Torino (16%); minore rilevanza a Vercelli e Asti. A Luigi Einaudi pare importante sottolineare, nel 1939, che senza la mediazione degli ebrei i contadini del Piemonte non avrebbero potuto salvare l’anima e garantire un futuro decoroso ai propri figli. Naturalmente gli acquisti riattizzarono l’ostilità della stampa cattolica. Decisamente pragmatica e al tempo stesso anticonformista e politica, come quella espressa da Rossi nelle lettere dal carcere, è la prospettiva di Luigi Einaudi: «Socialmente, l’opera dei mercanti ebrei fu più benefica di quella dei loro predecessori cristiani, perché, con differenze lievi – né la stabilità del metro monetario avrebbe consentito voli ardimentosi – e con agevolezze nei pagamenti a miti saggi di interesse, agevolarono, assai più dei cristiani, il passaggio della terra ai contadini». In modo semplice, quasi scolastico, Luigi Einaudi s’oppone alla rozza propaganda del tempo, descrivendo, potremmo dire, gli effetti benefici della sola rivoluzione agraria dell’età moderna attuatasi senza spargimento di sangue. L’emigrazione ebraico-italiana derivante dalle leggi di Mussolini anche da parte di Ernesto Rossi è spiegata con le leggi dell’economia e cioè con il calcolo della perdita secca per le Università italiane: «È un bel numero di cattedre che rimangono vacanti: una manna per tutti i candidati, che si affolleranno ora ai concorsi portando come titoli i loro profondi studi sulla razza, sull’ordinamento corporativo, sull’autarchia ecc.». Una corrispondente «circolazione delle élites», scrive, si avrà per gli agenti di cambio, per i medici negli ospedali, per i dirigenti delle aziende e per tutti gli altri posti lasciati dagli ebrei. Ernesto Rossi proseguiva così la sua lucida e pratica analisi dei danni economici, che sorprende per gli evidenti calchi dall’empirismo cattaneano: «Si raggiungono press’a poco, con la cacciata degli specialisti, gli stessi risultati che con la distruzione delle macchine: quasi nessuno riesce a vedere i danni generali, indiretti, diffusi, mentre gli interessati all’eliminazione della concorrenza si rallegrano del vantaggio immediato che posson ritrarre nel periodo di transizione. Speriamo che nei paesi democratici ci sian dirigenti capaci di comprendere quale straordinario fattore di progresso può esser per loro la sistemazione di tanti elementi di prim’ordine, malgrado le inevitabili lamentele di tutti coloro che, in un primo tempo, si sentiranno danneggiati». L’economia, sì. Certo, ma anche, come sempre in Ernesto Rossi, un profondo senso della storia. Infatti, quella medesima lettera alla mamma, scritta dal carcere il 22 ottobre, si chiude con una notazione che non ha eguali e che brilla per la sua lucidità di interpretazione storiografica, con il più classici dei paragoni con il passato: «Secondo quanto ci narrano gli storici, la politica di fanatismo e d’intolleranza dei re francesi e spagnoli contribuì nel secolo XVII alla prosperità dell’Olanda e dell’Inghilterra, che accolsero i profughi ebrei ed ugonotti, più di qualsiasi scoperta o invenzione». Alberto Cavaglion, scrittore-Pagine Ebraiche, gennaio 2019
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Descrizione-L’anima di New York Le immagini più evocative della città che non dorme mai Ripercorrete l’epica storia di New York attraverso centinaia di fotografie emozionanti che ci mostrano i tanti volti di questa magica città dalla metà dell’Ottocento a oggi. Seguitene le mutevoli sorti dalle folli notti degli anni d’oro del jazz all’edonismo delle discoteche, dai tetri giorni della Depressione alle devastazioni dell’11 settembre e dei giorni che seguirono. Questa meravigliosa collezione di immagini rende omaggio all’architettura, all’energia e al patrimonio civile, sociale e fotografico della metropoli. Dal Brooklyn Bridge agli immigrati che sbarcavano a Ellis Island, dai bassifondi del Lower East Side ai magnificenti grattacieli art déco, le strade, i marciapiedi, il caos, l’energia, il crogiuolo di etnie, la cultura, la moda, l’architettura, la rabbia e la complessità della Grande Mela sono tutte rappresentate nella forza del loro spirito e delle loro contraddizioni. Oltre a centinaia di scatti firmati da fotografi del calibro di Alfred Stieglitz, Berenice Abbott, Weegee, Margaret Bourke-White, William Claxton, Ralph Gibson, Ryan McGinley, Steve Schapiro, Garry Winogrand, Larry Fink, Keizo Kitajima, e tanti altri, New York: Portrait of a City offre oltre un centinaio di citazioni e riferimenti provenienti da libri, film, spettacoli di vario tipo e canzoni.
This book di Reuel Golden presents the epic story of New York on nearly 600 pages of emotional, atmospheric photographs, from the mid-19th century to the present day. Supplementing this treasure trove of images are over a hundred quotations and references from relevant books, movies, shows, and songs. The city’s fluctuating fortunes are all represented, from the wild nights of the Jazz Age and the hedonistic disco era, to the grim days of the Depression and the devastation of 9/11 and its aftermath, as its brokenhearted but unbowed citizens picked up the pieces.
New York’s remarkable rise, reinvention, and growth are not just the tale of a city, but the story of a nation, From the building of the Brooklyn Bridge to the immigrants arriving at Ellis Island; from the slums of the Lower East Side to the magnificent art deco skyscrapers. The urban beach of Coney Island and the sleaze of Times Square; the vistas of Central Park and the crowds on Fifth Avenue. The streets, the sidewalks, the chaos, the energy, the ethnic diversity, the culture, the fashion, the architecture, the anger, and the complexity of the city are all laid out in this beautiful book. This is the greatest city in the world after all and great are its extremes, contradictions, and attitude.
More than just a remarkable tribute to the metropolis and its civic, social, and photographic heritage, New York: Portrait of a City pays homage to the indomitable spirit of those who call themselves New Yorkers: full of hope and strength, resolute in their determination to succeed among its glass and granite towers.
Features hundreds of iconic images, sourced from dozens of archives and private collections―many never before published―and the work of over 150 celebrated photographers, including Victor Prevost, Jacob Riis, Lewis Hine, Alfred Stieglitz, Paul Strand, Berenice Abbott, Walker Evans, Weegee, Margaret Bourke-White, Saul Leiter, Esther Bubley, Arnold Newman, William Claxton, Ralph Gibson, Ryan McGinley, Mitch Epstein, Steve Schapiro, Marvin Newman, Allen Ginsberg, Joel Meyerowitz, Andreas Feininger, Charles Cushman, Joseph Rodriguez, Garry Winogrand, Larry Fink, Jamel Shabazz, Allan Tannenbaum, Bruce Davidson, Helen Levitt, Eugene de Salignac, Ruth Orkin, Joel Sternfeld, Keizo Kitajima, and many more.
La masseria delle allodole-Film sul genocidio armeno
Dai fratelli Taviani un coraggioso recupero della storia. Il loro genocidio armeno parla di tante altre tragedie
Descrizione del Film sul genocidio armeno -E’ la saga dei due fratelli Avakian, che facendo scelte di vita diverse, preparano due destini tragicamente opposti di vita e di morte, per i loro figli. Il fratello maggiore, Assadour, lascia l’Armenia da ragazzo per andare a studiare medicina a Venezia. Diventa un medico di successo a Padova, si sposa con una nobildonna e ha due figli. Il fratello più tranquillo, Aram, legato alle tradizioni familiari, nella sua farmacia nel villaggio natale in Anatolia, fa conoscere le novità occidentali, ma la sua numerosa famiglia incarna i valori e la cultura del popolo armeno. Dopo molti anni di lontananza, nel 1915 i due fratelli combinano una rimpatriata: Assadour con la famiglia si prepara a tornare in Anatolia con due automobili, carico di doni e di nostalgia. Aram arreda con eleganza la “masseria delle allodole”, la villa in campagna, preparando per tutti loro un’accoglienza memorabile. Ma l’incontro con questi familiari italiani non avverrà mai. Si scoprirà più tardi, infatti, che sono stati coinvolti nell’orrendo genocidio perpetrato sugli armeni dai turchi, alleati dei tedeschi, nel corso della prima guerra mondiale.
Tratto da: liberamente ispirato al romanzo omonimo di Antonia Arslan
Produzione: GRAZIA VOLPI PER AGER 3, RAI CINEMA, EAGLE PICTURES, NIMAR STUDIO (SOFIA), SAGRERA TV, TVE (MADRID), FLACH FILM, FRANCE 2 CINEMA, CANAL+, 27 FILMS PRODUCTION, ARD DEGETO (PARIGI)
Distribuzione: 01 DISTRIBUTION
Data uscita: 2007-03-23
NOTE
PRESENTATO COME EVENTO SPECIALE AL 57MO FESTIVAL DI BERLINO (2007).- FILM REALIZZATO CON IL CONTRIBUTO DI MIBAC.- CANDIDATO AI NASTRI D’ARGENTO 2007 PER: MIGLIOR SCENOGRAFIA E COSTUMI.
CRITICA
“‘La masseria delle allodole’ è molto, molto interessante, ricco di meravigliose immagini, recitato da un cast internazionale (i più bravi sono André Dussolier e Mohamed Bakri). E segnato dall’inconfondibile grandioso stile dei Taviani, inasprito dal senso di rivolta verso la persecuzione degli armeni e verso gli assassinii di massa dei giorni nostri.” (Lietta Tornabuoni, ‘La Stampa’, 14 febbraio 2007)
“Forte, sincero, pietoso: ecco ‘La masseria delle allodole’, l’atteso film dei fratelli Taviani sul genocidio degli armeni. (…) Nessuna pressione esterna e, alla fine, solo il silenzio con cui i giornalisti in sala hanno accompagnato lo sguardo su questo film dall’argomento forte, scenograficamente calligrafico e teatralmente interpretato. Una pellicola dagli alti additivi di fiction e di pathos che, pur articolandosi anche lungo microcosmi familiari allargati e storie d’amore ‘miste’, cerca il rimbalzo per arrivare a rappresentare il capitolo tragico di un intero popolo, senza per questo ideologizzarne la memoria, ma senza nemmeno risparmiare qualche crudezza nella messinscena. (…) E allora niente premeditazioni politiche, solo il tentativo di raccontare una verità documentata storicamente per farla riemergere dalla feritoia-tabù in cui era stata inabissata, abbracciando una prospettiva defilata e sentimentale.” (Lorenzo Buccella, ‘L’Unità’, 14 febbraio 2007)
“‘La masseria delle allodole’ non ha nulla dei film che hanno reso giustamente illustre, anche se spesso contestato, il nome dei Taviani. Inquadrature sempre ravvicinate uso tv; doppiaggio alla meno peggio degli attori non italiani (Tchéky Karyo, Moritz Bleibtreu, Angela Molina, André Dussollier, Paz Vega, Arsine Khanjan) e recitazione enfatica degli altri; provincialismo dei bambini (si sente un ‘subbito’); sfondi di cartapesta; inverosimiglianze. Questi sarebbero pessimi requisiti in ogni circostanza, ma sono micidiali quando si pretende di ricostruire, con tanta disinvoltura, un ‘genocidio’ che i turchi tuttora negano. Comunque, se i prossimi film che si occupano della controversia, avranno la forza drammatica della ‘Masseria delle allodole’, l’onore di Enver Pascià – considerato il promotore delle stragi di armeni – sarà al sicuro. Coproduzione italo-bulgaro- spagnola, ‘La masseria delle allodole’ ha da una parte l’impronta anonima dei film per tutti fatti per non piacere a nessuno; dall’altra – specie nell’inizio arcadico – evoca il ‘Giardino dei Finzi Contini’, che Vittorio De Sica, ormai vecchio, diresse addormentandosi sulla macchina da presa, dopo notti insonni al casinò. Però vinse l’Oscar. Ai fratelli Taviani si può solo fare lo stesso augurio.” (Maurizio Cabona, ‘Il Giornale’, 14 febbraio 2007)
“Forse non bisognerebbe cercare di rinchiudere tragedie così grandi, come il massacro degli Armeni, in un film, in una storia: si rischia sempre di dire troppo o troppo poco, di banalizzare o di schematizzare. Succede anche con ‘La masseria delle allodole’, che i fratelli Taviani hanno tratto dall’omonimo romanzo di Antonia Arslan. Forse per una scelta di stile che guarda soprattutto a una destinazione televisiva di tipo generalista. E che finisce per evidenziare quella mancanza di originalità e rigore che in passato aveva contraddistinto le letture storiche fatte dai due registi. Adottando per questo film il punto di vista del romanzo, che fa vivere il dramma del genocidio attraverso le peripezie della famiglia Avakian, i Taviani scelgono di ‘spiegare’ per immagini una tragedia epocale, con diverse sfumature di coinvolgimento nelle file turche e contraddittori atteggiamenti in quelle armene, ma finiscono irrimediabilmente per stemperarne la forza emotiva e spettacolare. Solo in una scena la capacità di sintetizzare in un’immagine tanti discorsi torna a farsi ammirare: è quando una madre, che ha partorito un maschio durante la deportazione verso Aleppo, è costretta a chiedere aiuto a un’amica perché le è stato ordinato di uccidere il neonato. Basta quell’inquadratura senza parole per dire l’atrocità del genocidio armeno. Il resto è solo inerte illustrazione.” (Paolo Mereghetti, ‘Corriere della Sera’, 14 febbraio 2007)
“Tutti sappiamo o crediamo di sapere molto della Shoah avendo letto al riguardo migliaia di parole e visto montagne di immagini, fisse o in movimento, autentiche o fittizie. Mentre sul massacro degli armeni ma il discorso vale per molte pagine atroci, anche recenti abbiamo quasi sempre nozioni vaghe. Parole, più che immagini. Dati, più che emozioni. In questo senso il film che i fratelli Taviani hanno tratto dal romanzo omonimo di Antonia Arslan, ‘La masseria delle allodole’, dovrebbe fare finalmente da apripista, per così dire, a una maggior conoscenza del genocidio armeno. Impossibile, dopo averlo visto, dire non sapevamo, non immaginavamo. Nella storia (vera) della famiglia Avakian c’è infatti tutto (o quasi) ciò che occorre sapere. (…) Eppure a questo film sontuosamente ambientato e fotografato manca qualcosa di fondamentale al cinema (un po’ meno in tv, che ci sembra la destinazione più naturale dell’opera). E cioè quel sapore di verità che a volte si condensa in un gesto, una voce, uno sguardo, ma che raramente troviamo in questa grande coproduzione europea interpretata da un cast italo-franco-ispano-tedesco cui si aggiunge la armeno-canadese Arsinée Khanjian, moglie e musa di quell’Egoyan che con ‘Ararat’ raccontò, più che la tragedia degli armeni, la difficoltà del raccontarla.” (Fabio Ferzetti, ‘Il Messaggero’, 15 febbraio 2007)
“Purtroppo il film tende a schematizzare la rilettura storico-sentimentale, un po’ sulla scia delle fiction da guardare distrattamente in tv durante la cena domenicale: le tragiche peripezie della famiglia Avakian, corredate dagli svariati atteggiamenti in seno al popolo armeno e dai differenti gradi di coinvolgimento dei turchi «pulitori etnici», riescono solo sporadicamente a centrare l’ambizioso obiettivo artistico. Nonostante l’apprezzabile impegno degli interpreti – tutti dignitosi, con note particolari di merito per Paz Vega, Alessandro Preziosi, Mohammad Bakri, Mariano Rigillo e Christo Jivkov – le sequenze che impongono un segno stilistico forte alla sbrigativa routine (spesso a macchina fissa) degli sfondi e dei dialoghi si contano sulle dita di una mano.” (Valerio Caprara, ‘Il Mattino’, 15 febbraio 2007)
Articolo di Massimo Monteleone-23 marzo, 2007-Come sempre, nel cinema dei fratelli Taviani, il dramma storico-politico-collettivo viene raccontato attraverso le vicende e i destini di alcuni personaggi, dei componenti di una famiglia, di un nucleo ristretto. Perchè la Storia è fatta dalle persone, su cui però troppo spesso si accanisce la disumanità di strategie politico-ideologiche che annullano ogni rispetto etico e umano. La masseria delle allodole, tratto dal romanzo dell’italo-armena Atonia Arslan, non vuole essere – secondo i due registi – un accurato quadro storico. Anche se la denuncia del genocidio armeno nel 1915 da parte del partito dei “Giovani Turchi” è centrale nella narrazione, risulta evidente che i Taviani guardino al massacro del passato come esempio negativo e radice di analoghe intolleranze e tragedie posteriori: dall’Olocausto degli Ebrei ad opera dei nazisti fino alla “pulizia etnica” nell’ex-Jugoslavia e ai conflitti politico-religiosi del presente. La didascalia alla fine del film ricorda che “Il popolo armeno attende ancora giustizia” per ciò che ha subìto durante la Grande Guerra. Il romanzo e il film fanno riemergere questa verità taciuta e rimossa colpevolmente dalla Turchia. Un film necessario, dunque, con pagine dure di forte tensione e macabra crudezza (la strage dei maschi – bambini e adulti – rifugiatisi nella masseria e ancora ignari dell’ordine di sterminarli). Fra gli interpreti del cast multilinguistico si distinguono per intensità Paz Vega, Tcheky Karyo, Arsinee Khanjian, Andrè Dussolier e Mohammad Bakri. L’impegno e la moralità dell’opera sono fuori discussione. Però, trattandosi di una coproduzione europea che coinvolge enti televisivi, i Taviani hanno preferito un registro espressivo realistico che tende alla “fiction” TV. Hanno tralasciato quasi del tutto (ad eccezione dell’iniziale presagio di sangue e di certe inquadrature oniriche) lo stile che li ha resi maestri fra gli anni ’60 e gli ’80: il realismo trasfigurato in Mito, lo straniamento epico-brechtiano, le visioni metaforiche e meta-storiche, l’insolito connubio fra tentazione mélo e pamphlet politico-letterario. In una parola: la poesia. La masseria delle allodole non è Allonsanfan, Kaos o La notte di San Lorenzo. Certo, la tragedia evocata surclassa per importanza le esigenze dell’Arte. Ma i capolavori dei Taviani testimoniano che si può essere poeti drammatici e non solo narratori.
Articolo di Venceslav Soroczynski-RAI-Cultura-Letteratura
Articolo di Venceslav Soroczynski -Il libro di Albert Camus “Lo straniero” Bompiani Editore-C’è qualcosa che mi dice vai a cercarlo, perché ha cose da dirti. E io, di solito sordo alle chiamate dell’intuizione e cieco a quelle della coscienza, mi avvicino al secondo scaffale, quarto ripiano dall’alto. Lo trovo, subito: sarà uno dei pochi libri che leggo per la seconda volta. Ma devo andare dal medico e, fra malati immaginari e sani bisognosi di una carezza, mi aspetta un’attesa lunga, quindi mi serve un libretto breve, che mi stia nella tasca e nella testa.
Invece, i doloranti sono pochi e sembrano avere dolori epidermici, quindi sfilano in fretta e non riesco ad arrivare alla fine del romanzo. Eppure già sento il bisogno di aprire la porta e raccontare qualcosa. Sapete, io vivo in campagna: anche se spalanco le finestre e parlo ad alta voce del libro, mi sentono al massimo le monache di clausura della Comunità di Gesù di Nazareth – che poi non mi dispiacerebbe intervistarne una, non dico la badessa, che quella ne parlerebbe bene come il promotore dei fermenti lattici al supermercato. Piuttosto, una monachella, l’ultima arrivata, o la più anziana.
Ma sto divagando (a scuola mi accusavano di andare fuori tema. È il tema che non è in tema, avrei dovuto rispondere, ma da ragazzino non avevo la battuta pronta – mentre adesso non sono pronti quelli che dovrebbero capirla). Lo straniero è uno di quei romanzi che pensi essere uno dei dieci libri che andrebbe assolutamente letto. Poi ti rendi conto che l’hai già detto di altri venti e ti scopri essere un esaltato e perdi credibilità anche di fronte a te stesso (figuriamoci davanti alle monache).
Perché leggerlo? Perché lo straniero del 1942 è un corpo morto senza il certificato di morte che somiglia al corpo sociale del terzo millennio (sovviene immediata la battuta di Kraus: “La condizione in cui viviamo è la vera fine del mondo: quella cronica.”). È un uomo che non vive, si lascia vivere. Non gli si può attribuire il concetto heideggeriano: “Noi non parliamo un linguaggio, ma siamo parlati dal linguaggio” soltanto perché egli, quasi, non parla. “Non aprivo la bocca per non dir nulla”, pensa, infatti, mentre gli chiedono se vuole aggiungere qualcosa durante il suo processo. Vive per inerzia, come un’auto lanciata in folle in una discesa sull’autostrada. E, infatti, la sua vita è una discesa e, proprio perché non si aggrappa a nulla, scivola nel suo destino come un dito in un vasetto di miele.
Ma è miele di fiori amari, poiché il nostro uomo non pare provare dolore nelle cose brutte (“Mi ha chiesto se avevo sofferto [della morte della madre] e ho risposto che tanto io che la mamma non ci aspettavamo più nulla l’uno dall’altro e del resto neppure dal prossimo e che ci eravamo abituati tutt’e due alle nostre nuove vite”), né felicità nelle cose belle (“La sera Maria è venuta a prendermi e mi ha chiesto se volevo sposarla. Le ho detto che la cosa mi era indifferente, e che avremmo potuto farlo se lei voleva. Allora ha voluto sapere se l’amavo. Le ho risposto, come già avevo fatto un’altra volta, che ciò non voleva dir nulla, ma che ero certo di non amarla.“Perché sposarmi, allora?” mi ha detto. Le ho spiegato che questo non aveva alcuna importanza e che se lei ci teneva potevamo sposarci. Del resto era lei che me lo aveva chiesto e io non avevo fatto che dirle di sì. Allora lei ha osservato che il matrimonio è una cosa seria. Io ho risposto “no”. È rimasta zitta un momento e mi ha guardato in silenzio. Poi ha parlato: voleva soltanto sapere se avrei accettato la stessa proposta da un’altra donna cui fossi stato legato allo stesso modo. Io ho detto: “naturalmente”. Allora si è domandata se lei mi amava, e io, su questo punto, non potevo saperne nulla. Dopo un altro istante di silenzio, ha mormorato che ero molto strambo, che certo lei mi amava a causa di questo, ma che forse un giorno le avrei fatto schifo per la stessa ragione. Siccome io tacevo, non avendo niente da dirle, mi ha preso il braccio sorridendo e ha detto che voleva sposarmi”).
Mersault è del tutto singolare, ma assolutamente credibile. Per amicizia, o solo per non turbare un rapporto, continua a frequentare un uomo che ha picchiato la propria compagna per non essergli stata fedele.E quando gli chiedono com’è Parigi, risponde solo: “È sporco. Ci sono dei piccioni e dei cortili bui. La gente ha la pelle bianca”. Camus stende il suo personaggio su un giaciglio di indifferenza che perfino m’innervosisce come lettore. Ma quella indifferenza è la sua condanna, poiché, in un paio d’ore, il Pubblico Ministero nel processo in cui è imputato la trasforma agli occhi dei giurati in insensibilità e poi, con la retorica dell’accusatore che tanto solletica chi gode della disgrazia altrui, converte quella insensibilità in condotta criminale. Immediatamente, mi ritorna la scena di un bel film in cui l’avvocato dice: “Tutti sono fatti da una certa porzione di fango. Tutti hanno la fogna dentro. Per questo bisogna cercare nella vita delle persone. L’indagine è come un temporale: acqua, acqua, acqua, acqua, acqua finché si intasano i tombini, le fognature scoppiano e esce tutta la merda che c’è sotto.”
Questo fa il tribunale allo Straniero. Processa una vita, non un atto. Un uomo, non un’azione (triangolazione disonesta e violenta, che attraversa il subconscio per titillare le corde dei deboli. E che si vede tutti i giorni – i nostri inclusi). Quanto c’è del nostro mondo del nostro tempo e del nostro io, ne Lo straniero! Straniero sono anche io per il luogo dove sono nato, poiché da esso sono andato via molto tempo fa. E lo sono nel luogo in cui ora vivo, poiché vengo da altrove. E sono straniero anche in casa mia, poiché i miei quattro nonni vengono da quattro posti diversi d’Italia e d’Europa. E sono straniero in me, poiché mi vedo ogni giorno di più come un terzo, un testimone, dall’alto muovermi come un animale da abitudine, o dal basso come un uomo alla ricerca dell’estintore dell’inquietudine. Mi osservo, cerco la distanza ma, per non impazzire e per convenienza, trasporto la mia duplicità in un pezzo unico senza apparenti fessure, che so essere cucito male e rapidamente deperibile.
Straniero è già pirandellianamente l’uomo in quanto, agli occhi degli altri, è diverso da come appare ai propri. Mentre, però, l’uomo di Uno, nessuno e centomila, pensa, decide, reagisce, sovverte, rivoluziona, quello di Camus subisce, come fosse addormentato. Come se aspettasse che qualcuno lo salvi dall’alto. O come se non gli importasse neppure di questo. Che disonore, l’evoluzione, se penso che, più di trecento anni prima, Amleto, a Guildestern, che vorrebbe manovrarlo, aveva risposto: “Qualunque strumento io sia, anche se puoi strimpellarmi, non mi puoi suonare!”). Ma è inutile rimpiangere le età degli imperi: viviamo il nostro esistenzialismo puntando a qualcosa che sta a metà fra il desistenzialismo e l’assistenzialismo: ci guardiamo esistere. La vita fuga dalla vita. Il piano B pensato prima del piano A. Eppure, abbiamo avuto decenni per approfondire il declino. Scuola per tutti, università per tutti, medicina per tutti, reddito di cittadinanza per tutti – ma è scuola, non educazione; è università, non conoscenza; è medicina, non sanità; è reddito, non cittadinanza. Quindi, è un ripiego continuo. Siamo peggiori dell’uomo di Camus, il quale, almeno, esiste fortemente, con distacco e noia, senza finzione, poiché è se stesso dalla prima all’ultima riga del romanzo. Dal bagno in mare alla prigione, non ha mentito una sola volta. Non ha pronunciato, in sua propria difesa, un solo verbo che si discostasse dalla verità. La verità è che ha premuto il grilletto contro un uomo che ha guardato in faccia: lo straniero è un assassino. Ma lui stesso non ha compreso il perché. Quando articola una proposizione per spiegare i fatti, l’aula intera ride, ma egli ha detto esattamente il vero. Non sa spiegare le cose al giudice, né al suo avvocato. Eppure, è proprio vero che la causa è stata il sole troppo forte, il caldo, il fuoco che precipitava dal cielo, lo stordimento di un paese troppo caldo, troppo lontano, troppo straniero anch’esso. Ma Mersault apre la bocca solo per dire cose che abbiano importanza. E forse quelle non ne avrebbero.
Eppure, non si riesce a odiarlo: è come un bambino che ha fatto del male per qualcosa che è un po’ più dell’istinto e un po’ meno della necessità, sotto un sole troppo forte. È limpido come l’acqua di un lago in cui è vietata la balneazione per non inquinarlo, per non svegliarlo. Quindi, nessuno può entrare. E io non sono neanche arrivato alla riva. Sto leggendo, come si dice nel poker, mentre Mersault non ha ancora lasciato l’aula, il processo non è terminato e io, per fortuna, non ricordo com’è andata a finire. Mi sono fermato a queste parole, lette le quali ho chiuso gli occhi: “Dalla strada, attraverso tutte le sale e le aule, mentre il mio avvocato continuava a parlare, ha risuonato fino a me la trombetta di un venditore di panna. Mi hanno assalito i ricordi di una vita che non mi apparteneva più, ma in cui avevo trovato le gioie più povere e più tenaci: odori d’estate, il quartiere che amavo, un certo cielo di sera, il riso e gli abiti di Maria. Allora tutta l’inutilità di ciò che facevo in quel luogo mi è rimontata alla gola e ho avuto una fretta soltanto di farla finita presto e di ritrovare la mia cella e il sonno.”
Alluminio, sotto la superficie la mostra conclusiva-
Latina -Giunge al suo momento più importante la Premio COMEL, il concorso internazionale che valorizza l’uso estetico dell’alluminio.
Sabato 26 ottobre presso lo Spazio COMEL Arte Contemporanea sarà inaugurata la mostra Alluminio, sotto la Superficie, durante la quale finalmente si potranno vedere le 13 opere che secondo la giuria hanno saputo valorizzare meglio l’alluminio e interpretare il tema di quest’anno nella maniera più originale.
Alluminio, sotto la superficie, titolo della mostra ma anche tema dell’edizione 2024, prende spunto dalla capacità dell’alluminio di mettere in atto una sorta di meccanismo di difesa creando una pellicola, uno strato protettivo sottile per resistere alle aggressioni esterne. Sotto la superficie, l’alluminio rimane sé stesso e preserva le sue peculiarità. Analogamente le persone più sensibili si nascondono dietro una maschera per difendere i propri sentimenti, la propria interiorità. L’invito agli artisti è stato quello di andare al di là delle apparenze, dritti al cuore delle cose e mostrare, attraverso le loro opere, quello che è più nascosto, meno evidente, eppure più vero.
Gli artisti hanno saputo ben interpretare un tema così delicato attraverso una varietà incredibile di tecniche e, con rara sensibilità, hanno davvero scavato sotto la superficie delle cose. Le 13 opere in gara provengono da Italia, Macedonia, Bielorussia, Slovacchia, Bulgaria e Grecia che si contenderanno anche quest’anno il Premio COMEL insignito dalla giuria e quello del Pubblico, ovvero il premio per l’opera che riceverà più preferenze dai visitatori della mostra, che potranno votare i tre lavori preferiti fino a domenica 10 novembre.
La mostra Alluminio, sotto la superficie sarà inaurata sabato 26 ottobre alle ore 18.00 e sarà aperta al pubblico tutti i giorni dalle 17 alle 20 fino a sabato 16 novembre giorno durante il quale, sempre alle ore 18.00, saranno premiati i vincitori della XI edizione.
I finalisti:
Sasho Blazes (Ocrida, Macedonia); Maria ElenaBonet (Minsk, Bielorussia/Sant’Elia Fiumerapido, FR, Italia); Massimo Campagna (Napoli, Italia); Stefania De Angelis (Roma, Italia); Rebecca Diegoli e Francesca Vimercati (Pavia e Besana in Brianza, Italia); Gianluigi Ferrari (Altilia, CS, Italia), James Fausset Harris (Gedda, Arabia Saudita/Carrara, MS, Italia); Robert Hromec (Bratislava, Slovacchia); Rosy Losito (Bari/Latina, Italia); Dimitar Minkov (Pleven, Bulgaria); Gloria Rustighi (Massa, MS, Italia); Karolina Stefańska (Cracovia, Polonia); Achilles Vasileiou (Atene, Grecia).
INFOAlluminio, sotto la superficie – Premio COMEL Vanna Migliorin Arte Contemporanea XI edizione Promossa e organizzata da Maria Gabriella Mazzola e Adriano Mazzola Dal 26 ottobre al 16 novembre 2024 Inaugurazione: 26 ottobre 2024 ore 18.00 Fine votazioni del pubblico: 10 novembre 2024 Premiazioni: 16 novembre 2024 ore 18.00 Apertura: tutti i giorni dalle 17.00 alle 20.00 eccetto il 1° novembre Spazio COMEL Arte Contemporanea, Via Neghelli 68 – Latina Ingresso Libero Contatti: www.premiocomel.it | info@premiocomel.it | Evento FB: https://www.facebook.com/events/1040155054262302/?ref=newsfeed
Le astrazioni poetiche di Helen Frankenthaler una delle più importanti artiste americane del XX secolo-Andare oltre i canoni stabiliti, alla costante ricerca di una nuova libertà espressiva. È il mondo creativo di Helen Frankenthaler (1928-2011), una delle figure più influenti del movimento artistico americano del XX secolo, celebre per il suo innovativo approccio all’arte e per il ruolo fondamentale nella transizione dall’Espressionismo astratto alla pittura Color Field.
In occasione della mostra Helen Frankenthaler. Dipingere senza regole, organizzata dalla Fondazione Palazzo Strozzi e dalla Helen Frankenthaler Foundation, aperta al pubblico dal 27 settembre 2024 al 25 gennaio 2025, Marsilio Arte pubblica il catalogo a cura di Douglas Dreishpoon, direttore dell’Helen Frankenthaler Catalogue Raisonné.
Celebre tra la seconda generazione di pittori astratti americani del dopoguerra, Frankenthaler è emersa sulla scena artistica americana, con un approccio alla pittura senza regole e una capacità di improvvisazione che hanno ridisegnato la narrazione del genere pittorico stesso. Con la sua innovativa tecnica a macchie, Frankenthaler ha esplorato un nuovo rapporto tra colore e forma, ampliando il potenziale della pittura astratta in modi che, ancora oggi, continuano a ispirare gli artisti. Lavorando con il colore e lo spazio, l’astrazione e la poesia, l’artista si è distinta per la sua capacità unica di combinare tecnica e immaginazione, ricerca e improvvisazione, espandendo la sua pratica al di là dei canoni stabiliti, perseguendo una nuova libertà nella pittura.
L’esposizione offre un’ampia panoramica della produzione artistica di Frankenthaler, indagando a fondo l’evoluzione del suo percorso personale e stilistico attraverso i diversi periodi della sua carriera. Una selezione di dipinti e di sculture, prodotti tra il 1953 e il 2002, dialoga con le creazioni di artisti coevi, tra cui Anthony Caro, Morris Louis, Robert Motherwell, Kenneth Noland, Jackson Pollock, Mark Rothko, David Smith, Anne Truitt.
Il catalogo Helen Frankenthaler. Dipingere senza regole, che accompagna la grande retrospettiva, esamina le affinità artistiche, le influenze e le amicizie della pittrice. Il cuore del volume sono i contributi di Douglas Dreishpoon con interessanti accostamenti tra opere di Frankenthaler e di altri artisti con cui aveva rapporti, in particolare David Smith, Anne Truitt e Anthony Caro.
Helen Frankenthaler. Dipingere senza regole · Editore Marsilio Arte –
Marsilio Arte Santa Marta, Fabbricato 17, 30123 – Venezia info@marsilioarte.it – tel. +39 041 2406511
La pittura “senza regole” di Helen Frankenthaler in mostra a Firenze
Racconti da Marte di Arturo Galansino
Negli ultimi anni le istituzioni culturali hanno cercato di colmare il divario che ancora oggi colpisce la rappresentanza femminile nel mondo dell’arte.
Anche a Palazzo Strozzi abbiamo dedicato una particolare attenzione ad artiste come Barbara Kruger, Cindy Sherman, Louise Nevelson, che hanno utilizzato il loro talento per sfidare le norme e aprire nuove strade nell’arte contemporanea, ponendo interrogativi cruciali sulla rappresentazione e sul ruolo delle donne nella società. Figure di spicco quali Paola Pivi, Marinella Senatore, Goshka Macuga, Vanessa Beecroft hanno animato il cortile con i loro lavori e nelle mostre sono state messe in evidenza opere di artiste di fama internazionale come Kara Walker, Lynette Yiadom-Boakye, Shirin Neshat, Rosemarie Trockel, Katharina Fritsch.
Ma, soprattutto, si sono distinte per il loro impatto e successo le monografiche che abbiamo dedicato a Marina Abramović e Natalia Goncharova.
Altro tema a noi caro è l’arte americana, anche a motivo dello stretto rapporto con la Palazzo Strozzi Foundation USA di New York: così a Peggy Guggenheim, che nel 1949 ha inaugurato la Strozzina come spazio espositivo con la sua rivoluzionaria raccolta d’arte, abbiamo riservato un tributo con la rassegna La grande arte dei Guggenheim (2016) che, insieme ad Americani a Firenze (2012) e American Art 1961-2001 (2021), ha costituito la trilogia da noi consacrata a momenti fondamentali della storia, non solo artistica, statunitense.
Ancora, abbiamo organizzato importanti mostre di Bill Viola e Jeff Koons, artisti americani dai forti legami con l’Italia.
È adesso la volta di Helen Frankenthaler, una delle artiste più importanti del XX secolo, la cui rivoluzionaria ricerca in pittura viene esplorata attraverso una selezione di trenta tele e sculture eseguite tra il 1953 e il 2002, in dialogo con opere di suoi contemporanei.
La grande mostra Helen Frankenthaler. Dipingere senza regole non ha precedenti in Italia e con prestiti da celebri musei e collezioni internazionali quali il Metropolitan Museum of Art di New York, la Tate Modern di Londra, il Buffalo AKG Art Museum, la National Gallery of Art di Washington, la ASOM Collection e la Levett Collection oltre a quelli della Helen Frankenthaler Foundation, permette al pubblico di scoprire un’artista che con il suo approccio innovativo e controcorrente si è distinta come figura pionieristica nel campo della pittura astratta, ampliandone le potenzialità con modalità che continuano a ispirare nuove generazioni.
L’esposizione, curata da Douglas Dreishpoon, direttore dell’Helen Frankenthaler Catalogue Raisonné, che desidero ringraziare insieme alla Helen Frankenthaler Foundation, alla presidente Lise Motherwell, alla direttrice esecutiva Elizabeth Smith e a tutto il gruppo di lavoro, tende a esaltare la pratica innovativa di questa artista anche attraverso il filtro di affinità, influenze e amicizie che hanno segnato la sua vita personale e artistica. Nella mostra viene assegnato per la prima volta un ruolo significativo alla collezione privata di Frankenthaler, che include opere di artisti diventati suoi amici, esposte nella sua casa di Manhattan. Alcune di queste opere sono protagoniste adesso a Palazzo Strozzi.
Rilevante è la volontà di far immergere il pubblico nella biografia e nella pratica artistica di Frankenthaler attraverso documenti d’archivio, fotografie e corrispondenze, restituendo quel mondo affascinante, incantevole nel suo glamour e straordinario nell’eleganza.
Arturo Galansino
Testo tratto dal catalogo della mostra Helen Frankenthaler. Dipingere senza regole, Marsilio Arte, Venezia 2024.
Nota – Arturo Galansino (Nizza Monferrato, 1976) dal 2015 è il direttore generale della Fondazione Palazzo Strozzi a Firenze. In precedenza ha maturato una serie di importanti esperienze curatoriali al Musée du Louvre di Parigi, alla National Gallery e alla Royal Academy of Arts di Londra.
Fonte-Marsilio Arte Santa Marta, Fabbricato 17, 30123 – Venezia info@marsilioarte.it – tel. +39 041 2406511
-Enrico Brignano in scena al Teatro Sistina con “I 7 Re di Roma”
Roma-A trentacinque anni dalla sua storica prima rappresentazione, Enrico Brignano riporta sul palco del Teatro Sistina la leggendaria opera musicale “I 7 Re di Roma”, scritta da Gigi Magni e musicata da Nicola Piovani. Questa attesissima nuova edizione debutterà proprio sul palco del prestigioso Teatro Sistina di Romadall’8 ottobre al 1° dicembre 2024, regalando al pubblico romano un’esperienza unica e coinvolgente.
Enrico Brignano, con la sua ineguagliabile comicità e presenza scenica, interpreterà i sette re di Roma, in un susseguirsi di travestimenti che porteranno il pubblico a rivivere le epoche e le storie della fondazione della Città Eterna. L’adattamento del testo, curato da Manuela D’Angelo, garantisce una fusione perfetta tra il rispetto per l’opera originale e la sensibilità moderna, assicurando uno spettacolo adatto al pubblico contemporaneo.
Sul palco, Brignano sarà affiancato da un cast stellare, tra cui Michele Gammino nel ruolo di Giano, una figura divina e narratore che guiderà il pubblico in questo viaggio tra mito e realtà. Accanto a loro, talenti del calibro di Pasquale Bertucci, Giovanna D’Angi, Ludovica Di Donato, Michele Marra, Simone Mori, Ilaria Nestovito, Andrea Perrozzi, Andrea Pirolli, Emanuela Rei ed Elisabetta Tulli. Quando
Data/e: 8 Ottobre 2024 – 1 Dicembre 2024
Orario: 20:30 – 22:30 (La domenica alle 16.00)
Dal 1998 al 2000 interpreta il ruolo di Giacinto in Un medico in famiglia; la serie TV gli offre una maggiore visibilità e soprattutto un riconoscimento da parte del pubblico che lo segue anche in teatro; del 1999 è il primo spettacolo tutto suo, Io per voi un libro aperto, da Ostia Antica, trasmesso in diretta anche da Mediaset su Canale 5. Nel 2000 gira il suo primo film da regista e protagonista Si fa presto a dire amore, al fianco di Vittoria Belvedere. Inizia l’ascesa nel mondo dello spettacolo grazie alle tournée estive di teatro e cabaret e nel 2001 Carlo Vanzina lo sceglie per il ruolo di Francesco nel film South Kensington, dove recita al fianco di Rupert Everett.
Interrompe la carriera cinematografica per dedicarsi maggiormente alla sua vera passione, il teatro, e così scrive e interpreta diversi spettacoli prima di tornare nuovamente sul grande schermo al fianco di Vincenzo Salemme e Giorgio Panariello con i quali girerà altri film negli anni successivi. Nel 2007 conduce un quiz su Rai 2, dal titolo Pyramid, con Debora Salvalaggio. Dal 2007 al 2011 fa parte del cast dei comici di Zelig. Nel 2008 interpreta una piccola parte nel film Asterix alle Olimpiadi, e insieme a Fiorello e Fabrizio Frizzi, ha partecipato ad un progetto a sfondo benefico per realizzare un centro di supporto ai bambini affetti da gravi patologie e alle loro famiglie.[2]
Inoltre è una seconda volta ospite (e vittima) a Scherzi a parte, condotto questa volta da Luca Bizzarri e Paolo Kessisoglu. Sabato 28 aprile 2012 ha fatto parte della giuria speciale nel talent show Amici di Maria De Filippi. Grazie al successo ottenuto dal suo primo monologo, sarà presente nel programma in tutte le serate successive in veste di comico. Il 19 maggio durante la finale all’Arena di Verona condanna gli assassini dell’attentato alla scuola di Brindisi: “Non siete uomini e non siete nemmeno bestie perché loro queste atrocità non le commettono. Mi auguro che finiate nella caldaia dell’Inferno”.
Il 17 agosto 2013 riceve a Catanzaro il “Riccio d’argento” della 27ª edizione di Fatti di musica per il nuovo spettacolo Il meglio d’Italia. Sempre nel 2013 viene scelto per doppiare il pupazzo di neve parlante Olaf nel film DisneyFrozen – Il regno di ghiaccio. Dal 28 febbraio 2014 conduce per quattro venerdì il programma su Rai 1Il meglio d’Italia.
Dopo aver fatto il giurato a 60 Zecchini e Italia’s Got Talent ed essere stato una presenza costante a Che tempo che fa,[3] nel 2020 su Rai 2 lancia Un’ora sola vi vorrei, one man show che riprende il suo spettacolo teatrale partito nel 2019 e al quale partecipa anche la compagna Flora Canto. Due anni dopo su Prime Video viene pubblicato un suo spettacolo registrato all’Auditorium Parco della Musica di Roma dopo lo stop dovuto alla pandemia COVID-19. Nello stesso periodo torna a teatro con un nuovo show, Ma … diamoci del tu!.[4] Lo spettacolo viene riproposto anche negli anni seguenti e nel 2024 si allarga ai palcoscenici di diverse paesi stranieri (Paesi Bassi, Germania, Gran Bretagna, Francia, Belgio, Svizzera e Spagna).[5]
Città del Vaticano, Chiesa di Santa Maria della Pietà-
Honora Foà. Blood&Breath –
Città del Vaticano-La prima mondiale di “Blood&Breath”di Honora Foà,nella Chiesa di Santa Maria della Pietà in Camposanto dei Teutonici, Vaticano, ospiterà, sabato 19 ottobre 2024 alle ore 20:00 (prova generale per gli operatori del settore il 18 ottobre alla stessa ora), la prima mondiale , la terza produzione multimediale immersiva di Frequency Opera, ideata dalla celebre artista multimediale Honora Foà, una straordinaria esperienza multisensoriale destinata a far riflettere sul legame tra solitudine, trasformazione interiore e rispetto per la Natura.
Birth of Color, prima del ciclo di sette opere prodotte da Frequency Opera
Un evento eccezionale, che esplora attraverso musica, immagini e narrazione la leggenda di Maria Maddalena e Giuseppe d’Arimatea, nel periodo di solitudine che vissero ritirandosi nelle grotte del sud della Francia dopo la morte del loro Maestro.
Blood&Breath è parte del ciclo di sette opere intitolato RecombinantDNA, una serie unica di performance che combina l’arte e la scienza, il mito e la tecnologia, per esplorare differenti spettri di frequenze attraverso queste due lenti. Foà, con la sua vasta esperienza nell’arte multimediale, è riconosciuta per la sua capacità di unire linguaggi diversi in esperienze che toccano il profondo della sensibilità umana. In Blood&Breath, la solitudine diventa una condizione attraverso la quale Maria Maddalena sperimenta una profonda trasformazione interiore. Ed è proprio la riflessione e la gratitudine per la natura il tema centrale nonché uno dei messaggi fondamentali di quest’opera.
Le musiche dell’opera sono state composte da Lucas Richman, musicista dalla sensibilità emotiva e intellettuale nel trattare temi legati alla condizione umana. In questa cantata, in particolare, ha voluto esplorare, attraverso un linguaggio musicale profondamente evocativo, tematiche come la vita, la morte e la spiritualità. La sua scrittura musicale, delicata e al contempo fortemente drammatica, vuole mettere in risalto la capacità dell’arte di connettersi ai momenti più intensi della nostra esistenza, combinando i testi poetici con l’essenza di argomenti quali il sacrificio, la speranza, la fragilità della vita e il riscatto degli esseri umani.
Ad accompagnare questa potente narrazione, sonora e visiva, sarà un organico orchestrale di otto elementi da lui stesso diretto: il Maestro Lucas Richman guiderà infatti i “Solisti dell’Orchestra di Roma”, coordinati da Antonio Pellegrino, in un viaggio multisensoriale sui generis.
Ad intercalare i momenti orchestrali saranno le voci di due solisti lirici, il mezzo-soprano Joelle Morris che, con il suo colore vocale ambrato e vellutato, offrirà un contrappunto pregnante alla tessitura emotiva dell’opera, e il baritono Isaac Bray, noto per il suo timbro caldo e potente capace di infondere nei ruoli drammatici una presenza autorevole e intensa.
Le esibizioni musicali si alterneranno a letture vocali di testi poetici che vedranno protagonisti gli attori Stefania Rocca e Amedeo Fago, la cui rispettiva versatilità interpretativa e intensa presenza scenica promette di coinvolgere il pubblico in una riflessione profonda e spirituale.
Le scenografie, infine, prevedono l’uso di numerose opere realizzate dalla rinomata pittrice americana Margot McLean. La sua arte è infatti caratterizzata da un uso intenso e simbolico delle forme naturali, in particolare degli animali, che spesso fungono da specchio per esplorare emozioni umane complesse. Il suo lavoro per Blood&Breath si inserisce perfettamente in un contesto che intreccia leggenda, scienza e natura, offrendo una visione intima e onirica del rapporto tra uomo e ambiente.
Note biografiche | Honora Foà
Honora Foà è un’artista multimediale.
Attualmente sta sviluppando un ciclo di 7 opere di frequenza intitolato RECOMBINANTDNA, che esplora diversi spettri di frequenza attraverso due lenti: la scienza e il mito.
Pioniere dell’arte multidisciplinare, la compagnia di teatro-danza di Foà, con sede a New York, ha incorporato movimento/danza, voce, musica, cibo, installazioni artistiche e proiezioni multimediali. La compagnia ha ricevuto una sovvenzione dal National Endowment for the Arts.
Ha creato e collaborato a due importanti cicli di performance, WATER MURDERS, con il drammaturgo Bradford Riley, e il suo R E C O M B I N A N T D N A, che è il fulcro della sua attenzione costante. Una collaborazione con l’artista Amy Landesberg ha prodotto una mostra completa alla Sandler-Hudson Gallery di Atlanta.
Dopo dieci anni con la compagnia di New York, è nato il figlio della signora Foà, che ha ispirato un interesse per l’educazione e la percezione dello sviluppo dei bambini. Segue un master in danza presso l’Università del North Carolina e un dottorato di ricerca in educazione.
Foà è diventato direttore creativo di Visioneering International nel 1989. In questa veste, ha ricoperto il ruolo di capo progettista e produttore di due padiglioni dell’Esposizione Universale per le Nazioni Unite (Genova, Italia; Taijon, Corea), di lavori per il Planetario Hayden, di installazioni per il Fernbank Science Museum e di installazioni di video arte all’interno dell’Augusta Children’s Hospital e del Children’s Healthcare of Atlanta’s Emory Hospital.
Nel 2003, Foà ha iniziato a lavorare a Mythic Journeys, un festival di performance e una conferenza tenutasi nel 2004 e nel 2006. Riunendo più di 150 presentatori, relatori, artisti e performer, Mythic Journeys ha utilizzato le grandi storie archetipiche, le tradizioni sacre e i racconti popolari come terreno da cui la nuova arte in consonanza con la conversazione interdisciplinare può creare un contesto per gli eventi contemporanei. Psicologi, scienziati, poeti, studiosi, politici, uomini d’affari, artisti e musicisti hanno messo a disposizione la loro esperienza e creatività per affrontare le esperienze e i problemi del nostro tempo.
Nel 2005, Mythic Journeys è stato oggetto di un documentario di due ore trasmesso dalla National Public Radio. Mythic Imagination ha anche prodotto due conferenze Human Forum per The Alliance for a New Humanity. Nella primavera del 2010 è stato realizzato un lungometraggio su Mythic Journeys.
Nel 2013, il film Banaz, A Love Story, per il quale la signora Foà è stata sceneggiatrice e sviluppatrice della storia, ha vinto un Peabody e un Emmy come miglior documentario internazionale. Continua a fornire consulenze per vari film.
Il progetto Creativity in Captivity , nato dalla collaborazione con Francesco Lotoro e Dahlan Foah, è una serie di performance che Foà scrive e dirige in cui i musicisti suonano musica scritta nei campi di concentramento, internamento e prigionia della Seconda Guerra Mondiale.
Nel 2014, la sua opera multimediale, The Birth of Color: A Marriage of Darkness and Light con Lucio Ivaldi e David Brendan Hopes, è stata registrata a Budapest. Nel 2016 è stata rappresentata come selezione ufficiale del Budapest Arts Festival. Field of Desire, la seconda opera, è ora un’esperienza cinematografica immersiva. Le prossime 5 Frequency Opera del ciclo sono in fase di sviluppo. Blood&Breath, la sesta della serie, sarà rappresentata in Italia nel 2023.
Honora Foà: storia, concetto, regista, produttrice | Dahlan Foah: produttore esecutivo | Lucas Richman: compositore, direttore d’orchestra, direttore musicale | Stefania Rocca: Voce di Maddalena | Amedeo Fago: Voce di Giuseppe | Margot McLean: artista visiva | Joelle Morris: mezzosoprano solista | Isaac Bray: baritono solista
“I Solisti dell’Orchestra di Roma” coordinati da Antonio Pellegrino
Martino Nicoletti: traduttore | Valentina Vidali: designer video concept | Salvatore Passaro e Mahnaz Esmaeili (mopstudio): direzione tecnica e projection mapping | Lia Morandini: costumista | Luckyhorn: produzione reti e scenografie | Hernando Claros: proiezioni e illuminazione | Nicola Vidali: produttore | Jonathan Warren: video designer | Matt Roberts: tecnologia di proiezione | Lucio Ivaldi: Direttore Sviluppo Musicale e Ricerca sulle Frequenze
L’evento gode del sostegno dell’associazione onlus Mythic Imagination Company.
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