La poesia del cinema contro le imposizioni del potere
– articolo di Alberto Corsani-
Il regista Andrej Tarkovskij a trentasei anni dalla scomparsa
La spiritualità di derivazione ortodossa è ben presente nel cinema di Andrej Tarkovskij, come egli stesso attesta nei propri diari (Diari. Martirologio, ed. della Medusa, 2002 e seg.), benché compaia inaspettatamente, nei dettagli, fuori da ogni sistematicità programmatica; ma sono talmente tanti nelle sue opere i retaggi definibili come «spirituali» che la componente «religiosa» è da considerarsi affiancata ad altre, alcune delle quali certamente di tradizione russa (il senso della natura, la poesia intrecciata alla storia) e altre legate alla passione viscerale del regista per la cultura occidentale: si pensi alla pittura italiana (particolarmente in Toscana), alla musica sacra (Bach, ma anche Pergolesi e Purcell), alla magia commista alla scienza (nel capolavoro Lo specchio, 1974, la levitazione della mamma del protagonista, l’ipnosi che serve a guarirlo, da ragazzo, dalla balbuzie).
Ora che lo ricordiamo a trent’anni dalla precoce scomparsa, avvenuta all’età di 54 anni a Parigi, dove aveva lottato per mesi con la malattia, cogliamo forse meglio il fatto che non uno solo di questi elementi, ma proprio la loro continua commistione sanciscono il fascino dei suoi film, mentre la maestria che aveva nel creare l’inquadratura, dilatare i tempi, lavorare sul sonoro lo rendono amatissimo dagli addetti ai lavori.
Il grande tema che percorre i film di Tarkovskij è l’identificazione di un popolo, quello russo, con la tradizione: tutta la tradizione, quella religiosa e quella civile, come somma magmatica di contraddizioni. Vivere di una identificazione significa tuttavia anche lottare con l’eredità di cui si gode. Tarkovskij non idealizza mai il passato di cui peraltro riconosce il carattere indispensabile: Andrej Rublëv (1966) racconta la vita del celebre pittore quattrocentesco di icone, e il momento più emozionante è la lunghissima sequenza della fusione della campana, estenuante scena di massa in cui tutto il popolo e i maggiorenti assistono al «miracolo» tecnico e umano. Solaris (1972) racconta, a partire dal romanzo fantascientifico del polacco Stanislaw Lem, di un pianeta sul quale gli scienziati che vi lavorano vedono materializzarsi i propri ricordi e i propri cari; Nostalghia (1983), ambientato in Toscana, e Sacrificio (1986, anno della morte), ripropongono esplicitamente il tema del sacrificio di sé, come ricerca di una possibile espiazione dei mali del mondo, non solo in chiave cristiana.
Il cinema di Tarkovskij, benché il primo film, L’infanzia di Ivan, risalga al 1962, ha fatto irruzione lasciando le proprie tracce nel nostro ambiente culturale soltanto a partire dalla fine degli anni ‘70: Lo specchio è giunto nelle sale italiane solo nel 1979, poco dopo arrivava Stalker. Ma anche gli scritti teorici del regista, figlio del poeta Arsenij, sono stati tradotti in quegli anni (Scolpire il tempo, Ubulibri, 1988 e sgg.), e sono di una ricchezza concettuale notevolissima, appena turbata dalla vis polemica che percorre anche i Diari, soprattutto rivolta ai burocrati di stato che hanno sempre minato le sue produzioni, considerandolo un dissidente pericoloso.
Lo era, in effetti, pericoloso: non per un’attività politica esplicita e diretta, ma perché quella che chiamiamo la sua spiritualità, o anche la sua poesia, incrinavano le rigidità e le sovrastrutture grottesche dei regimi: come in un episodio de Lo specchio, quando la protagonista (correttrice di bozze in una tipografia) rievoca l’angoscia provocatale dal dubbio di essersi lasciata sfuggire un errore orrendo sull’edizione del giornale andata in stampa, un errore che avrebbe accostato il nome di Stalin a un animale «screditato». Nel racconto del film l’errore poi non sussiste, ma l’averlo adombrato ci dice, sottilmente, quanto il potere fosse in realtà un gigante dai piedi d’argilla.
Ma quali forze potevano metterlo in crisi? Beh, proprio quelle che si dicevano prima, un po’ arbitrariamente comprese in una categoria abbastanza arbitraria e approssimativa come quella della spiritualità (ben studiata da S. Salvestroni, Il cinema di Tarkovskij e la tradizione russa, Biella, Qiqajon, 2006): la creatività umana, l’appartenenza alla terra, la poesia (ricorrono spesso, ne Lo specchio, i versi del padre Arnesij Aleksandrovic), la mistica di un mestiere da imparare, la gestione gelosa dei propri sentimenti; a volte questi elementi possono entrare in conflitto («Perché chi vorrà salvare la sua vita, la perderà» – Luca 9, 24): certo, tutti sono temuti dal potere, da qualunque forma di potere, dalle ideologie e dai loro bracci operativi. Tarkovskij reagiva a modo suo, con il linguaggio delle immagini, a ogni imposizione triviale finalizzata ad annichilire le coscienze. Ma non si pensi che solo ai regimi comunisti fosse da riferirsi la sua critica poetica: tutto ciò che rende l’uomo una macchina, inquadrabile e riconducibile a parametri esclusivamente numerici può essere messo in crisi dalle sequenze dei suoi film. La battaglia è tuttora in corso, purtroppo senza di lui.
“Le dieci giornate della vera agricoltura e piaceri della villa”.
Breve biografia di Agostino Gallo-(1499-1570) Nasce ,con tutta probabilità, prima del 14 maggio del 1499, a Cadignano, odierna frazione di Verolanuova, nella piana bresciana, a poco più d’una ventina di chilometri da Brescia.E’ stato uno dei protagonisti dell’agronomia cinquecentesca.
Il Gallo pubblica, nel 1564, “Le dieci giornate della vera agricoltura e piaceri della villa.” L’opera conosce l’immediato successo, che nel Cinquecento si traduce nella ristampa abusiva, a Venezia, di una successione di edizioni che sottraggono all’autore ogni guadagno. Pubblichiamo 12 belle tavole xilografiche a piena pagina alcune delle quali acquarellate (vedi foto).Costretto dalle abitudini dei librai veneziani l’autore bresciano amplia, per ripubblicarla, l’opera, che si converte prima nelle Tredici giornate, la cui seconda edizione porta un’appendice di sette giornate, che in un’edizione successiva sono ricomposte, nel 1572, secondo un piano espositivo nuovo, nelle Venti giornate. La discutibile correttezza dei librai veneziani ha obbligato l’autore a ristrutturare l’opera, nella versione definitiva un capolavoro che riedita, in veste originalissima, tutto lo scibile agronomico di quei tempi. Lo scibile agronomico di Gallo, fu il primo ad introdurre in Italia la coltivazione del riso e del trifoglio,si fonda su quello dei grandi autori latini, in primo luogo di Lucio Columella, il massimo agronomo dell’antichità, ma l’agricoltura che prende corpo nelle pagine dell’opera rinascimentale è radicalmente diversa da quella del mondo latino, è la nuova agricoltura irrigua della Val Padana, l’agricoltura in cui l’acqua spezza la sovranità del frumento inserendo nella rotazione le foraggere che consentono il più ricco allevamento, l’allevamento da cui derivano i formaggi Piacentini e Lodigiani, gli antenati del Parmigiano Reggiano e grana padano. È l’agricoltura in cui hanno conquistato il proprio posto, nei campi lombardi, il mais, pianta americana, il riso, coltura araba proveniente dall’Andalusia, il gelso, destinato al baco da seta, una coltura fino a pochi decenni prima siciliana e calabrese, di cui Gallo comprende per primo le straordinarie potenzialità nel pedecollina prealpino.Autentico teorico delle nuove colture foraggere, Gallo propone la prima analisi razionale della tecnologia casearia lombarda, la tecnologia del formaggio grana, una tecnologia unica nel vastissimo panorama caseario europeo.Altrettanto interessanti di quelle casearie le pagine sulla trasformazione dell’uva in vino, nelle quali Gallo attesta la radicale differenza tra i vini italiani e quelli della Francia, dove si è già imposto il gusto moderno del vino, tanto che, come ricorda l’autore bresciano, i cavalieri francesi sono incapaci di bere il vino lombardo, che è ancora il vino medievale, acetoso, oscuro e torbido, privo di ogni aroma, perduto nella troppo lunga fermentazione. Non meno significative le pagine sull’agrumicoltura del Garda, al tempo di Gallo ricchissima attività economica fondata su una tecnologia sericola eccezionalmente avanzata.Iniziata con Gallo, l’agronomia europea del Rinascimento si compirà col capolavoro dell’epoca, l’opera del francese Olivier de Serres, che non cita mai l’autore italiano.
Il Libro-
Agostino Gallo “Le venti giornate dell’agricoltura e dei piaceri della Villa” stampato a Torino appresso gli eredi di Bevilacqua nel 1580.
Rara edizione cinquecentesca torinese di questa celebreopera, apparsa per la prima volta a Brescia nel 1564 col titolo di ”Le dieci giornate” e successivamente ampliata fino a diventare ”Le tredici giornate” (Venezia, 1566; col complemento delle ”Sette giornate” apparse nel 1569) ed infine ”Le vinti giornate” (Venezia, Percaccino, 1569). Sotto forma di dialogo tra Vinceno e Giovan Battista, l’opera affronta una moltissimi argomenti riguardanti l”agricoltura, la gastronomia: alimenti e loro conservazione, animali, , apicoltura, caccia e pesca, floricoltura e frutticoltura, olio, vino, risicoltura.
Bello stemma del dedicatario Emanuele Filiberto di Savoia sul frontespizio. acquerellato all’epoca.
Illustrato con 12 belle tavole xilografiche a piena pagina alcune delle quali acquarellate (vedi foto).
Vivian Maier-i selfie della “Tata fotografa”-La “bambinaia fotografa” che è diventato un caso clamoroso emerso sulla scena dal nulla--Le strade di New York e Chicago come un palcoscenico, l’autoritratto come via per trovare il proprio posto nel mondo, i dettagli di vita ritracciabili in un volto: è questa la poetica dello scatto che è uscita allo scoperto solo nel 2007, grazie a John Maloof, un giovane statunitense che, cercando del materiale su cui effettuare una ricerca sulla città di Chicago, trovò dentro una scatola acquistata all’asta il grande repertorio di negativi e rullini ancora da sviluppare di Vivian Maier.
Chi era Vivian Maier? Anche il suo “casuale scopritore” non lo seppe, ma nel corso di una ricerca attenta, Maloof ricostruì tessera dopo tessera la vita della fotografa statunitense classe 1926. Di lei scoprì che lavorò tutta la vita come tata, solo nel tempo libero si dedicava alla sua passione: la fotografia, la street photography. C’è chi addirittura accosta la figura della fotografa a Emily Dickinson, la poetessa che relegò in un cassetto le sue riflessioni e le sue opere, senza ricorrere mai alla pubblicazione.
In una foto la sua immagine si riflette da uno specchio all’altro. Quasi all’infinito. Un super selfie ante litteram, verrebbe da dire: lei, la sua Rolleiflex, un orologio e dei pacchi. C’è la sintesi di una vita in questo scatto senza tempo. Una vita che avrebbe dovuto restare segreta. Vissuta e finita lì. Invece il caso si ci è messo di mezzo e ha voluto che venisse fuori. Perché Vivian Maier, nata a New York il primo febbraio del 1926 e morta a Chicago il 21 aprile del 2009, è per l’anagrafe una bambinaia. Una bambinaia mezza francese (la mamma era di un piccolo paese delle Alpi, il papà di origine austro-ungarica lasciò la casa di famiglia quando Vivian aveva 4 anni) per le famiglie benestanti di New York e Chicago. Strana, misteriosa, per certi versi eccentrica, ma fondamentalmente riservata, se non invisibile. E così lei voleva restare.
Invece Vivian Maier è oggi Una fotografa ritrovata, come sintetizza efficacemente il titolo del libro che la celebra da alcuni mesi in Italia (di John Maloof, Contrasto, pagine 285, euro 39,00) e che accompagna – dopo una esposizione al Man di Nuoro – la mostra che apre domani a Milano al Forma Meravigli (fino al 31 gennaio 2016, tutti i giorni dalle 11 alle 20, giovedì dalle 12 alle 23) a cura di Anne Morin e Alessandra Mauro, con 120 fotografie in bianco e nero. Vivian Maier conservava i suoi 150mila scatti, 3mila stampe e filmati super 8 e 16 millimetri all’interno di un box di Chicago, insieme a tantissime cianfrusaglie, oggetti da collezione, pezzi di vita. Un “tesoro nascosto” che dopo anni di affitto non pagati venne stato confiscato, messo all’asta in diversi lotti e quindi “rivelato”. Nel 2007, i ricordi custoditi dalla bambinaia s’incontrarono con l’ansia del racconto e della scoperta di John Ma-loof, un giovane agente immobiliare che stava raccogliendo materiale su Chicago per coltivare il suo vero talento, la scrittura.
Il 26enne acquistò per 38 dollari il contenuto di un baule con trentamila negativi e vari oggetti da collezione, diventando poi il principale curatore del “lascito” della Maier. La curiosità fu forte. Cosa contenevano quelle pellicole? Quali facce avrebbero svelato? Quali luoghi avrebbero mostrato? Maloof ordinò minuziosamente ogni cosa come mostra il film-documentario distribuito in Italia da Feltrinelli Real Cinema – Alla ricerca di Vivian Maierdi Maloof con Charlie Siskel (sarà proiettato al Cinema Apollo a Milano, il 25 novembre alle 21.30) – e si metterà alla ricerca del misterioso autore. «Volevo sapere – racconta – chi si nascondeva dietro quel lavoro, ma avevo solo il nome di Vivian Maier: sarà una giornalista, una fotografa professionista? Così ho cercato su Google e ho trovato solo l’avviso della sua morte, pubblicato giusto qualche giorno prima. Ho recuperato un indirizzo tra le sue cose e dopo aver rintracciato il numero di telefono, ho chiamato e ho detto che ero in possesso dei negativi di Vivian Maier». La risposta fu sorprendente: «Era la mia bambinaia! ». «La sua bambinaia? E perché farebbe tutte queste fotografie? Ciò che quell’uomo mi ha detto di lei mi ha profondamente stupito: era una solitaria, non sapeva nulla della sua vita amorosa, della sua famiglia, dei suoi figli, ma era stata una madre per lui. Tutto questo ha stuzzicato la mia curiosità».
Il giallo si infittì, ma si aprì un mondo. Continuarono le ricerche, i pezzi del puzzle si composero lentamente uno dopo l’altro. E venne fuori la vita di Vivian Maier: una bambinaia, amorevole con i bimbi, con qualche mania, dei segreti, e una passione nascosta e solitaria per la fotografia. Talmente nascosta che mai ha pubblicato una foto e mai ha fatto vedere i suoi lavori a qualcuno. La tata nel suo giorno libero metteva la sua Rollei al collo e girava per le strade. Con uno sguardo curioso, a volte malinconico, altre ironico. Si soffermava sui piccoli dettagli, le scarpe buffe, la mise eccentrica, le imperfezioni; le persone, soprattutto bambini e anziani; i racconti di vita, quella che le scorreva davanti agli occhi per strada, la città e i suoi abitanti in un momento di cambiamento sociale e culturale. Ma c’era soprattutto lei, che spuntava da uno specchio, che si rifletteva su una vetrina, che s’intravedeva in un riflesso. Una donna in continua ricerca di identità, “giocando” con la sua Rolleiflex, una macchina che ha fatto la storia della fotografia mondia-le, con il caratteristico visore per l’inquadratura posto nella parte superiore. «Perfetta per chi vuole restare invisibile», fa notare il grande fotografato americano, Joel Meyerowitz, apprezzando i suoi lavori di street photography. È stata una vita non facile, quella della Maier.
Dopo che il padre lasciò casa, la madre, Maria Jaussaud, si rifugiò da un’amica francese, nel Bronx, una fotografa professionista che probabilmente accese la passione di Vivian sin da piccola. Maria fece poi ritorno in Francia, a Saint-Julien-en-Champsaur, portando con sé Vivian, fra il 1932 e 1938. Qui Vivian tornerà da sola, nel 1950, per reclamare l’eredità di una prozia: userà quel denaro per viaggiare e comprare la sua prima macchina fotografica. Eseguirà tante foto di paesaggi e ritratti degli abitanti della valle. E poi in giro per Cuba, Canada, California. Nel 1956 si trasferì definitivamente a Chicago dove lavorerà per la famiglia Gensburg per 17 anni. Nel bagno allestirà la camera oscura. Ma nei periodi di vacanza sarà sempre con la valigia verso l’Asia, nelle Filippine e India, in Medio Oriente e nell’Europa meridionale. Come se ci fossero due Vivian. La tata e la fotografa globetrotter. «Seppur scattate decenni or sono occhi – scrive lo scrittore e curatore Marvin Heifermann, nella prefazione al catalogo –, le fotografie di Vivian Maier hanno molto da dire sul nostro presente. Maier si dedicò alla fotografia anima e corpo, la praticò con disciplina e usò questo linguaggio per dare struttura e senso alla propria vita. Proprio come Maier, noi oggi non stiamo semplicemente esplorando il nostro rapporto col produrre immagini ma, attraverso la fotografia, definiamo noi stessi». La fotografia che ci ha regalato questa bellissima storia, destinata altrimenti a restare in un box di Chicago.Articolo di Giuseppe Matarazzo
Grazia Deledda- Nuova luce sul suo esordio letterario-
– Articolo di Fabrizio Federici-
Nel 2021 ricorreranno 150 anni dalla nascita (Nuoro,1871) di Grazia Deledda, l’autrice di “Canne al vento” ed “Elias Portolu”, Nobel per la Letteratura 1926, scrittrice poliedrica che tanti critici hanno cercato inutilmente d’ inquadrare nei piu’ vari filoni letterari, dal verismo ( ebbe, in effetti, le lodi di Luigi Capuana, per il suo romanzo del 1896 “La via del male”, e di Giovanni Verga) al regionalismo, al decadentismo, all’ esistenzialismo (dato anche il suo interesse per Dostoevskij e Tolstoi) . Neria De Giovanni, scrittrice e giornalista, presidente dell’ Associazione Internazionale Critici Letterari, organizzatrice del “Premio Nazionale Alghero Donna di Letteratura e Giornalismo”, ha pubblicato, ultimamente, un altro saggio sulla Deledda ( cui ha dedicato, sinora, 15 libri): “Grazia Deledda- Corrispondenze giovanili” (Nemapress ed., Alghero,e. 15,00).
Saggio in cui l’ Autrice evidenzia la falsità del clichè che vorrebbe la Deledda “scrittrice per caso”, esordita nella letteratura per una serie di circostanze fortuite: in realtà, la scrittrice nuorese inizia a scrivere a soli 17 anni, pubblicando alcuni racconti, “Sangue sardo” e “Remigia Helder”, sulla rivista romana “L’ultima moda”, diretta da Epaminonda Provaglio. Sulla stessa testata sarà poi pubblicato, a puntate, il romanzo “Memorie di Fernanda”, mentre nel 1890 uscirà sempre a puntate ,sul quotidiano di Cagliari “L’avvenire della Sardegna”, firmato con lo pseudonimo Ilia de Saint Ismail, il romanzo “Stella d’Oriente”; e a Milano, presso l’editore Trevisini, “Nell’azzurro”, libro di novelle per l’infanzia.La De Giovanni ricostruisce attentamente ,attraverso appunto le sue corrispondenze giovanili, gli esordi letterari e i primi amori della Deledda; a lungo combattuta – un po’come già Leopardi, diremmo -tra l’amore per la sua terra natale e l’uggia quotidiana provata nel vivere in “borgo selvaggio” che non puo’ che andarle sempre piu’ stretto.
Nel 1892 – vero anno chiave della storia d’Italia, che vede il primo governo Giolitti, la rivolta popolare dei fasci siciliani, lo scandalo della Banca Romana e la nascita, al congresso di Genova,in agosto,del Partito dei Lavoratori Italiani, il futuro PSI – la Deledda pubblica sul quindicinale “La vita sarda” la sua prima recensione, riguardante il romanzo “Vigliaccherie femminili”, del giornalista e scrittore Giulio Cesari. Nipote di quel Padre Antonio Cesari in passato protagonista di polemiche “cruscanti” sul purismo nella lingua italiana, e amico di Italo Svevo. E’ il primo passo di un viaggio che porterà gradualmente Grazia a contatto con l’ ambiente cosmopolita e poliedrico della mitteleuropea Trieste di fine ‘800- primi decenni del ‘900: la Trieste, in definitiva, di Svevo, Umberto Saba, Scipio Slataper, del gallerista e critico d’arte Leo Castelli e di un certo James Joyce, agli inizi della sua parabola…
Nel libro, Neria de Giovanni ha potuto pubblicare – vera “chicca” filologica- la riproduzione dell’originale (4 fogli scritti fronte/retro) della recensione deleddiana del romanzo di Cesari, donatole, nel 2004, dall’avvocato Pasquale Giordano, professionjsta romano e collezionista d’arte; che l’aveva avuta, a sua volta, dal prozio Arturo Giordano, a suo tempo in corrispondenza con Grazia Deledda.
Sempre all’ aspra, quanto nobile, terra di Sardegna, appartiene un’altra autrice che ha pubblicato con Nemapress: Maria Teresa Petrini, medico, docente di geriatria all’ Università di Cagliari, membro dell’ AMSI, Associazione Medici Scrittori Italiani, nell’ XI legislatura eletta consigliere regionale e poi Presidente della commissione Cultura del Consiglio regionale sardo. “La magia dei ricordi nascosti” (2019, e. 18,99) . Un romanzo che trasporta invece il lettore nella Sardegna di oggi, sospesa tra sviluppo tecnologico e fascino del suo millenario passato, natura straordinaria e spinte indipendentiste: la Sardegna di Gavino Ledda, delle miniere del Sulcis e di…Graziano Mesina. Sì, perché al centro del romanzo c’è la vicenda di un sequestro di persona: che subisce Anna Marchi, medico originario di un paesino della Barbagia, improvvisamente rapita da professionisti del sequestro per torbidi interessi politici. In uno scenario da film, con tecnica appunto cinematografica, la Petrini narre le peripezie di Anna Marchi (suo possibile “alter ego”. diremmo), indulgendo a un joyciano ”giocare a rimpiattino” con sogni e ricordi.
Biografia di Grazia Deledda-Scrittrice italiana (Nuoro 1871 – Roma 1936). Scrittrice intensa e feconda, la sua fama si diffuse anche all’estero; nel 1926 le fu conferito il premio Nobel per la letteratura. La sua narrativa muove dal verismo a fondo regionale e folcloristico: cronache e leggende paesane, storie di passioni elementari e di esseri primitivi; ma a un mondo del peccato e del male, sentito come fatalità, e rappresentato con cupi accenti, si accompagnano o piuttosto si contrappongono un’ansia di liberazione e di riscatto, un estroso e romantico senso della vita, che trovano espressione soprattutto nella leggerezza idillica e trasognata del paesaggio.
Vita e opere
Sposatasi nel 1900 con P. Madesani, si trasferì a Roma. Esordì giovanissima con novelle e romanzi, pubblicati in modesti giornali e riviste; la prima notorietà le venne dal romanzo Anime oneste (1895), presentato da R. Bonghi, a cui seguirono La giustizia, 1899; Dopo il divorzio, 1903, ristampato col titolo Naufraghi in porto, 1920; Elias Portolu, 1903; Cenere 1904; L’edera, 1908; ecc., che presentano inconciliati i termini del dualismo tra il mondo del male e l’ansia del riscatto. Ma via via, come quella visione religiosa che la D. ha della vita viene temperando il suo biblico rigore in un senso di cristiana pietà, così quel contrasto tra verismo e lirismo viene sempre meglio componendosi in un’aria incantata, favolosa, dove le vicende umane arcanamente s’intrecciano con quelle della natura e del paesaggio. Le novelle di Chiaroscuro (1912), i romanzi Colombi e sparvieri (1912) e Canne al vento (1913) segnano i varî gradi di questo processo di fusione tematica e stilistica, il quale culminerà nei romanzi e racconti del cosiddetto secondo periodo o maniera della D. (Il segreto dell’uomo solitario, 1921; Il Dio dei viventi, 1922; Annalena Bilsini, 1927; La vigna sul mare, 1932; Cosima, post., 1937; ecc.), che mostrano come la sua narrativa, affrancatasi ormai da ogni regionalismo, per certi aspetti partecipi (fra gli autori prediletti della D., insieme con Verga e i romanzieri russi, ci fu sempre D’Annunzio) di quell’atteggiamento della sensibilità e del gusto che va sotto il nome di “decadentismo”.
RIGOLETTO di Giuseppe Verdi su libretto di Francesco Maria Piave
Rigoletto è un melodramma in tre atti di Giuseppe Verdi su libretto di Francesco Maria Piave, tratto dal dramma “Le Roi s’amuse” (“Il re si diverte”) dello scrittore francese Victor Hugo.Trama-In breve...Durante una festa a Palazzo, il Duca di Mantova confida a Borsa di voler corteggiare una giovane ragazza (Gilda), non sapendo però trattarsi della figlia del deforme Rigoletto (il buffone di Corte). Fa irruzione il Conte di Monterone maledicendo il Duca per aver disonorato sua figlie, e Rigoletto per essersi beffato del suo dolore di padre. Finita la festa, il Duca va a casa della giovane Gilda sotto mentite spoglie. I due si giurano amore eterno. Intanto Marullo, Borsa, il Conte di Ceprano e un gruppo di cortigiani partono per rapire Gilda (che credono essere l’amante di Rigoletto), per vendicarsi del buffone. Con l’inganno fanno partecipare al rapimento anche lo stesso ignaro Rigoletto. Il Duca vede quindi la giovane Gilda condotta a palazzo e ne approfitta per attentare alla sua virtù. Rigoletto giura vendetta verso il Duca per aver disonorato sua figlia.
Rigoletto assolda quindi Sparafucile – un sicario – per uccidere il Duca. Maddalena (sorella di Sparafucile) dovrà attirare il Duca in una locanda fuori Mantova, poi Sparafucile lo ucciderà. Maddalena però si innamora del giovane e propone al fratello di uccidere il primo straniero che bussi alla porta della locanda e ingannare così Rigoletto. Gilda – avendo ascoltato tutto e provando ancora un profondo sentimento per il Duca – si sacrifica, bussando alla porta della locanda. Rigoletto, preso il sacco in cui Sparafucile ha messo il corpo, si reca al fiume per gettarlo; solo allora si rende conto che il corpo non è del Duca bensì della sua amata figlia.
ATTO I
Nella sala del Palazzo Ducale di Mantova è in corso una festa. Cavalieri, Dame e Paggi si accompagnano a musica e scrosci di risa.
Il Duca di Mantova svela al fido Borsa il suo intento: insidiare una giovane ragazza che da tre giorni vede uscire dal Tempio e che ha già seguito fino a casa. Il Duca però ancora non sa che trattasi di Gilda, la figlia di Rigoletto (il deforme buffone di Corte).
Borsa cerca di dissuaderlo, facendogli notare tutte le belle dame presenti alla festa. Il Duca torna quindi a corteggiare la Contessa di Ceprano, donna su cui ha già puntato gli occhi.
Il Duca e la Contessa si allontanano insieme, provocando le ire del Conte che li segue. Rigoletto – assistendo alla scena – sbeffeggia il Conte.
Marullo intanto, racconta ad un gruppo di astanti, la nuova notizia: ha visto il gobbo e deforme Rigoletto insieme ad una donna, probabilmente sua amante.
Il Duca parla con Rigoletto dei problemi che sta avendo ad avvicinare la Contessa di Ceprano senza che il Conte li infastidisca. Rigoletto propone allora al Duca di esiliarlo o decapitarlo. Il Duca rimprovera il buffone di prendere troppo alla leggera le parole e di estremizzare lo scherzo. I due non sanno però che il Conte di Ceprano ha ascoltato questa loro conversazione.
Irrompe nella sala l’anziano Conte di Monterone; vuole vendicare l’onore di sua figlia, sedotta anch’ella dal Duca di Mantova.
Rigoletto segue la scena deridendo l’anziano uomo. Il Conte allora rivolge una maledizione verso il Duca di Mantova e verso Rigoletto, rimproverandolo di deridere il dolore di un padre. Due alabardieri portano via il Conte di Monterone, mentre Rigoletto rimane profondamente turbato da quelle parole.
Mentre ritorna a casa ripensando alla serata, Rigoletto viene avvicinato da Sparafucile. Il sicario gli offre i suoi servigi, offrendogli l’uccisione dei suoi nemici in cambio di denaro. Gli racconta di come utilizzi sua sorella Maddalena per attirare gli uomi in cerca di avventure, e poi li uccida. Rigoletto però lo allontana e torna a casa.
Entrato in casa viene accolto dalla figlia Gilda. Rigoletto ha paura che possa succederle qualcosa (il suo ruolo di buffone di Corte lo espone a farsi molti nemici). La giovane lo rassicura dicendogli che da quando si è trasferita lì (tre giorni prima) è uscita di casa solo per andare al Tempio. Gilda non conosce ancora il nome del padre, nè tantomeno è a conoscenza del suo ruolo a Corte.
Rigoletto raccomanda a Giovanna – la custode della giovane ragazza – di vegliare su di lei e proteggerla.
Rigoletto esce a controllare se qualcuno l’abbia seguito; furtivamente il Duca di Mantova entra in casa inosservato e scopre che Gilda è in realtà la figlia di Rigoletto.
Porge una borsa a Giovanna per farla tacere comprandone il silenzio. Raggiunge Gilda la quale, vedendolo, riconosce in lui il bel giovane che ha attirato la sua attenzione al Tempio. I due si giurano subito amore. Quando la ragazza chiede quale sia il suo nome, il Duca risponde di essere un povero studente di nome Gualtier Maldè.
Udendo dei rumori all’esterno, il Duca si allontana, credendo che Rigoletto stia rientrando in casa.
Intanto Marullo, Borsa, il Conte di Ceprano e altri cortigiani armati si stanno recando verso casa di Rigoletto per rapire quella che loro credono l’amante del buffone di Corte e così vendicarsi di lui. Lungo il tragitto incrociano proprio Rigoletto; al buio fitto egli non riconosce il gruppo di persone, solo Marullo si fa avanti. Gli dice che sono diretti a casa della Conte di Ceprano, per rapire la Contessa e portarla al Duca. Rigoletto – rassicurato – decide di unirsi a loro. Il gruppo di cospiratori lo obbliga a indossare una maschera e una benda che lo rendono incapace di vedere e udire.
Giunti sotto casa, piazzano una scala per salire sul terrazzo ed entrare nella casa; Rigoletto rimane fuori a tenere la scala per gli assalitori.
Il gruppo entra e rapisce la giovane Gilda, lasciando cadere in strada lo scialle della giovane. Dopo un po’ di tempo, non vedendo tornare gli assalitori, Rigoletto si toglie maschera e benda; riconosce allora la sua casa e vede in terra lo scialle della figlia.
Preso dalla disperazione, ripensa alla maledizione lanciata dal Conte di Monterone.
ATTO II
L’indomani mattina, il Duca di Mantova scopre che la sua amata Gilda è stata rapita: giura vendetta verso i rapitori. Poi però Marullo, il Conte di Ceprano, Borsa e gli altri entrano nel salotto del Palazzo Ducale, raccontando al Duca di aver rapito e condotto a Palazzo “l’amante” di Rigoletto.
Il Duca trasale, capendo subito trattarsi della sua amata Gilda. Si allontana dunque per incontrare la sua amata.
Rigoletto entra a Palazzo, fingendo indifferenza, cercando di scoprire dove i rapitori hanno nascosto sua figlia. Capendo che è in compagnia del Duca, si getta verso la porta della camera, ma i cortigiani si frappongono per bloccarlo.
Alla fine Gilda esce dalla camera e abbraccia il padre: gli confessa di aver perso l’onore e essersi innamorata di quello che credeva essere un povero studente.
Rigoletto giura dunque vendetta verso il Duca.
ATTO III
Una locanda diroccata, appena fuori dalla città di Mantova. Rigoletto e Gilda sono lì fuori in attesa; all’interno solo Sparafucile.
Gilda confessa al padre di amare il Duca di Mantova. Rigoletto le spiega che non è l’uomo che lei crede, che corteggia molte donne e poi le abbandona.
All’interno della locanda intanto entra il Duca di Mantova vestito da semplice Ufficiale di Cavalleria, chiedendo una stanza e del vino.
Sparafucile dà un segnale e sua sorella Maddalena entra nella locanda. Il Duca si lancia nel corteggiamento della giovane donna.
All’esterno Rigoletto e Gilda assistono alla scena. La giovane innamorata rimane scioccata dall’udire quelle stesse parole – una volta indirizzate a lei – rivolte a un’altra donna. Rigoletto le intima di partire in sella a un cavallo e andare a Verona; lui l’avrebbe raggiunta il giorno successivo.
Sparafucile esce dalla locanda per parlare con Rigoletto: riceve da lui una parte del denaro per portare a compimento l’uccisione del Duca. Rigoletto si allontana, impartendo al sicario un ultimo ordine: vuole essere lui stesso a gettare nel fiume il corpo senza vita del Duca.
Intanto la giovane Maddalena sta cedendo al fascino del Duca, tanto da provare un sentimento per lui. Sparafucile rientra nella locanda e fa accomodare il Duca in una stanza per la notte.
Gilda – non potendo sopportare di abbandonare il suo amato – torna verso la locanda, travestita da mendicante.
All’interno sente Sparafucile e Maddalena che parlano dell’imminente uccisione del Duca. Maddalena si è invaghita del giovane e vorrebbe salvarlo, proponendo al fratello di uccidere invece Rigoletto e rubargli il resto del denaro. Viste le rimostranze del fratello, Maddalena propone una soluzione alternativa: se qualcuno fosse entrato nella locanda prima di mezzanotte, l’avrebbero ucciso al posto del Duca e intascato il resto dei soldi da Rigoletto.
Sentendo queste parole, Gilda capisce che anche Maddalena è innamorata del giovane Duca. Decide allora di immolare la sua vita per risparmiare quella del suo amato: bussa alla porta della locanda e va incontro alla sua fine.
Rigoletto fa ritorno alla locanda: consegna il denaro a Sparafucile e riceve un sacco con dentro quello che pensa essere il corpo del Duca.
Parte verso il vicino fiume per gettarvi il cadavere. Arrivato alla sponda del fiume, ode però una voce in lonatananza: quella del Duca.
Rigoletto apre allora il sacco per vedere cosa contiene: vi scopre la figlia ormai moribonda. Gilda chiede al padre di perdonare questo suo gesto d’amore e di perdonare il suo amato Duca. Con queste parole la giovane si spegne.
Rigoletto urla il suo dolore contro la maledizione del Conte di Monterone e si accascia sul corpo senza vita della figlia.
– Riccardo BACCHELLI- Romanzo storico “Mal d’Africa” Editore TREVES di Milano 1935-
Articolo di Raffaele FRANCHI per la Rivista PAN n°4 aprile 1935
Riccardo BACCHELLI–Articolo di Raffaele FRANCHI per la Rivista PAN n°4 aprile 1935-Nacque a Bologna il 19 aprile 1891. Il padre Giuseppe (1849-1914), avvocato, cultore di Ariosto e di Rossini, amico di Enrico Panzacchi, fu figura di rilievo nella Bologna fra i due secoli, ricoprì incarichi nell’amministrazione provinciale (decisivo il suo appoggio per la fondazione dell’Istituto Rizzoli) e fu deputato al Parlamento dal 1909 al 1913 (R. Bacchelli, Ritratto d’un Italiano, in La Ronda, 1919, poi in La ruota del tempo e in Giorno per giorno: dal 1922 al 1966, Milano 1968, p. 215). La madre Anna Bumiller (m. 1911), di origine tedesca, donna colta, pianista, gran lettrice di Goethe, aveva dato lezioni di tedesco a Carducci, il quale «amava sentirle leggere i lirici tedeschi» (Andreoli, in Discorrendo di Riccardo Bacchelli, 1966, p. 5).
Riccardo BACCHELLI-Nacque a Bologna il 19 aprile 1891. Il padre Giuseppe (1849-1914), avvocato, cultore di Ariosto e di Rossini, amico di Enrico Panzacchi, fu figura di rilievo nella Bologna fra i due secoli, ricoprì incarichi nell’amministrazione provinciale (decisivo il suo appoggio per la fondazione dell’Istituto Rizzoli) e fu deputato al Parlamento dal 1909 al 1913 (R. Bacchelli, Ritratto d’un Italiano, in La Ronda, 1919, poi in La ruota del tempo e in Giorno per giorno: dal 1922 al 1966, Milano 1968, p. 215). La madre Anna Bumiller (m. 1911), di origine tedesca, donna colta, pianista, gran lettrice di Goethe, aveva dato lezioni di tedesco a Carducci, il quale «amava sentirle leggere i lirici tedeschi» (Andreoli, in Discorrendo di Riccardo Bacchelli, 1966, p. 5).
Primo di cinque fratelli (con Mario, Beatrice, Giorgio e Guido), degli anni dell’infanzia lo scrittore ricordò anche la nonna paterna, di origini contadine, in una pagina del Mulino del Po («da lei, negli anni in cui più veramente s’impara, appresi io la vita casalinga d’una massaia all’antica nostrana; e che si sia l’alacre e rigida frugalità campagnola», Milano 1945, p. 62). La loro abitazione, in via Santo Stefano 28, era luogo accogliente e sereno, come ricordano amici e frequentatori. Memorabili le villeggiature estive a Forte dei Marmi.
Gli anni della formazione
Le tradizioni civili e liberali della famiglia, così come figure ed esperienze di una Bologna «antica città dottorale e agricola» (v. La ruota del tempo, Milano 1928, p. 7), furono sempre vive e operanti nello scrittore, che vi compì una formazione nutrita di forti succhi ottocenteschi, ancorata a un classicismo inteso come misura morale prima che formale, nel quale sono decisivi i modelli familiari come Carducci e Goethe (Bacchelli fu «il Goethe bolognese» non solo per gli amici rondisti); ma contano anche gli umori vitali, gli interessi positivi, la sensibilità civile e politica ben radicati nella cultura emiliana e romagnola. Dall’ambiente bolognese ed emiliano restò sempre nell’ispirazione di Bacchelli – secondo Giuseppe Raimondi – qualcosa «che non ha riscontro, a quel tempo di letteratura, se non nell’ordine di ricerche della pittura: di un pittore emiliano: il Morandi» (in Discorrendo di Riccardo Bacchelli, cit., p. 17); in effetti Riccardo e il fratello Mario, pittore, furono amici sin da ragazzi con Giorgio Morandi (di Bacchelli, nel 1918, è il primo studio critico sull’opera morandiana). Altri ha sottolineato le ascendenze emiliane dell’«inesauribile dono verbale, applicato agli effetti del colore e dell’eloquenza» (E. Cecchi, Prosatori e narratori, Milano 1969, p. 332). Compiuti gli studi superiori al liceo Galvani, dove ebbe per insegnante Emilio Lovarini, studioso di Ruzante e già maestro e amico di Renato Serra (si vedano i ricordi in Giorno per giorno: dal 1922 al 1966, Milano 1969), nel 1910 Riccardo si iscrisse alla facoltà di lettere dell’Università di Bologna, dove seguì un corso di Giovanni Pascoli, ma non concluse gli studi.
Ancora studente liceale, nel 1910 «il figlio dell’onorevole Bacchelli» iniziò il suo primo romanzo, Il filo meraviglioso di Lodovico Clò, pubblicato a dispense tra gennaio e luglio del 1911, in sei numeri venduti direttamente dall’autore, con tanto di indirizzo di casa sulla stampa. L’operazione, in cui agivano modelli transalpini, suggestioni avanguardistiche e la ricerca di un rapporto diretto con il pubblico, non ebbe però buon esito e l’annunciata seconda parte non fu mai scritta, forse anche per la morte della madre avvenuta in quell’anno. Sebbene rimosso poi dallo scrittore e raccolto in volume solo nel 1947, Il filo documenta un’aspirazione originaria alla costruzione narrativa, che non viene meno attraverso le diverse esperienze del decennio seguente. Il titolo sembra suggerire una favola per bambini – in effetti il filo di Lodovico, ventenne come l’autore, è dono magico di un genio e ricorda aquiloni e palloncini – ma la labile vicenda filtra piuttosto le logiche di un autobiografismo divagante, con episodi di sensualità piuttosto esplicita, riferimenti culturali e digressioni critiche sempre più frequenti, che non potevano incontrare il favore degli abbonati (anche se alla fine Lodovico rientra nei valori tradizionali con il matrimonio). Dopo tale esperienza Bacchelli dette inizio a un’intensa attività pubblicistica: le numerose recensioni uscite nella prima metà del 1912 nel settimanale bolognese Patria corrispondono già a scelte consapevoli (Rimbaud, Tolstoj, Soffici, Slataper, Claudel).
Dalla Voce alla Ronda
Con la trasferta a Firenze nell’estate del 1912 e il lavoro di redazione per La Voce di Prezzolini nel corso di quell’anno, Bacchelli entrò in contatto con la più aggiornata e dinamica cultura intellettuale del tempo; e ne uscirono definite, in alcune linee fondamentali, la fisionomia e la collocazione culturale dello scrittore. Esemplare documento di tale stagione furono i Poemi lirici (Bologna 1914), uno dei testi rappresentativi dell’autobiografismo vociano. Ma non vi fu piena sintonia col mondo letterario fiorentino: pur condividendone la tensione a rinnovare la cultura, a vivere intensamente il presente, a partecipare alla vita contemporanea, Bacchelli ne rifiutò invece gli aspetti più radicali o “romantici”, essendo incline – per formazione, gusti e temperamentale moralismo – a riconoscersi nella continuità e non nella rottura coi maestri e coi valori della tradizione. Non a caso, nei pochi e intensi mesi di militanza vociana Bacchelli si legò di amicizia soprattutto con Scipio Slataper, Dino Campana, Emilio Cecchi e con Vincenzo Cardarelli, il quale «dovette, subito, riuscire nella cerchia degli amici, il più affine al bolognese Bacchelli» (Raimondi, in Discorrendo di Riccardo Bacchelli, cit., p. 21).
I Poemi lirici sono il primo importante risultato del giovane, che cerca la voce e la distanza da cui guardare al mondo e a se stesso. Si tratta di una quindicina di poemetti caratterizzati da un’originale prosodia, fondata – spiega la Nota metrica – sulla scansione variata di quattro accenti. Il verso bacchelliano si avvicina così ma anche si distingue dalla tradizione dei metri ‘barbari’ e dalla pratica del ‘verso libero’ in senso stretto, evocando da un lato sperimentalismi e modelli di primo Novecento (Whitman, Claudel), dall’altro una forte propensione alla prosa, all’oggettivazione, al fare racconto di esperienze vitali. Nel complesso i Poemi lirici non incontrarono il favore dei vociani più illustri come Boine, De Robertis e Cecchi, pur godendo in seguito di una discreta fortuna critica (Contini, Solmi, Fubini, Gavazzeni, Maccari). Nell’estate 1916 fu ancora nella Voce di De Robertis che la poesia di Bacchelli ebbe un seguito con le due «prose liriche» Memorie e Riepilogo. Nel successivo percorso dello scrittore, i Poemi lirici furono spesso evocati dallo scrittore come simbolo di un anteguerra lontano, giovanile, per sempre concluso. Fino agli ultimi anni, tuttavia, tornò spesso alla scrittura in versi.
La morte del padre nel 1914 e poi la guerra segnarono la fine della giovinezza e un periodo di ripensamenti. Al conflitto mondiale Bacchelli prese parte da volontario, non interventista, combattendo come ufficiale di artiglieria sul fronte del Carso dall’estate del 1915 fino al 1917 (fu congedato nel 1919), con brevi licenze a Bologna, dove si era trasferito in via Arienti. Dell’esperienza bellica, decisiva e profonda, testimoniano alcune prose che Bacchelli inviò dall’ottobre 1917 a Cardarelli («cose molto forti e belle, e anche nuove», risponde l’amico, «Che ci sia in te la stoffa d’un romanziere?»: L’epistolario Cardarelli – Bacchelli (1910-1925), a cura di S. Morgani, Perugia 2014, p. 48), pubblicate fra 1919 e 1920 in La Raccolta e La Ronda, poi in volume nel 1953 con il titolo Memorie del tempo presente. Il ricordo della Grande Guerra torna continuamente nella riflessione di Bacchelli e ispirò numerosi episodi di opere successive: da La Città degli amanti, a Oggi domani e mai, a Iride, fino al Mulino del Po e oltre.
Fatto ritorno a Bologna dopo la guerra, Bacchelli era però sempre più attratto da Roma, dove si erano trasferiti amici come Cecchi e Cardarelli. Nel 1918 collaborò intensamente a La Raccolta, la rivista bolognese diretta da Giuseppe Raimondi (ma di fatto redatta in casa Bacchelli) che costituì la premessa della Ronda. La riscrittura dell’Amleto shakespeariano, poi pubblicata sul primo numero della Ronda, va intesa anzitutto come espressione di incertezze esistenziali e nobile sentire (l’amletismo è componente essenziale di molti personaggi della narrativa bacchelliana), ma anche come opzione per la scrittura teatrale, e come manifesto di una ricerca letteraria che si misura sui grandi capolavori del passato.
L’esperienza della Ronda (aprile 1919 – marzo 1923), di cui Bacchelli fu con Cardarelli un fondatore e uno dei sette redattori (i cosiddetti sette savi, con Antonio Baldini, Bruno Barilli, Emilio Cecchi, Lorenzo Montano, Aurelio Saffi), è riassuntiva rispetto alle inquiete ricerche degli anni precedenti, che trovano la forma e la sede di una proposta culturale organica, ma è al tempo stesso premessa fondamentale per comprendere il successivo percorso intellettuale e artistico di Bacchelli, anche quando prese strade in apparenza diverse (come quella del romanzo, genere osteggiato dai rondisti). Trasferitosi a Roma, Bacchelli fu il collaboratore più costante e prolifico del gruppo, emancipandosi fra l’altro dalla supervisione – critica, espressiva e redazionale – di Cardarelli, che sin dai Poemi lirici aveva svolto in tal senso un importante ruolo sui testi dell’amico (v. L’epistolario Cardarelli – B. (1910-1925), a cura di S. Morgani, Perugia 2014, pp. 36-43). La vena generosa della scrittura bacchelliana qui per la prima volta assunse quei tratti fluviali che pur con ammirazione le sono stati spesso rimproverati, e sebbene ciò risultasse prezioso in un consesso di castigatissimi letterati come quelli della Ronda, tradisce più facilmente, e magari più ingenuamente, i contenuti ideologici (qualunquisti o conservatori o reazionari) di cui si sostanziò in parte il classicismo umanistico e lo stilismo rigoroso dei rondisti nel confronto con la tumultuosa contemporaneità del dopoguerra. Bacchelli assunse spesso i panni dell’ideologo moralista e conservatore, o del letterato umanista – riflesso di una borghesia colta e paternalista – che si oppone con gli strumenti della satira o della polemica alla piega che sta prendendo la società. Di particolare interesse, da un lato fu la critica al romanzo ‘degenerato’ (in interventi su Giacomo da Verona, su Rubè di Borgese, sulla morte di Verga), dall’altro la riflessione sul Leopardi più ideologicamente impegnato, quello di Ad Arimane e dei Paralipomeni. Molti degli interventi di questi anni, compresi quelli nel Resto del Carlino, furono raccolti nel primo volume di Giorno per giorno dal 1912 al 1922 (Milano 1966).
Gli interessi creativi di Bacchelli, in questi anni, furono rivolti soprattutto al teatro, passione che accompagnò tutta la carriera dello scrittore fino agli anni Sessanta con una vasta produzione di drammi e pièces. Conobbe tra gli altri Eleonora Duse, e strinse amicizia con Renato Simoni. All’Amleto fecero seguito la goldoniana Una mattina a Bologna (1920), Spartaco e gli schiavi (1920), I termini del destino (1922). Nel gusto rondesco di un raffinato allegorismo, delle moralities e della prosa d’arte, ma con un’ampiezza e un impegno ideologico già romanzeschi, esordì anche il Bacchelli narratore con la «favola mondana e filosofica» di Lo sa il tonno, ossia gli esemplari marini (Milano 1923), che concluse gli anni dell’apprendistato letterario (Briganti, 1980, p. 51).
L’approdo al romanzo
Nel 1926 Bacchelli sposò Ada Fochessati (1892-1986), mantovana, già vedova Nuvolari con un figlio (non ne ebbero altri), e all’inizio dell’anno si trasferì a Milano, chiamato a occuparsi di critica teatrale per La Fiera letteraria (come già per Convegno e Comœdia); collaborò inoltre con La Stampa e, dagli anni Trenta, con L’Ambrosiano e il Corriere della sera. Nel 1932 riunì per la prima volta gli scritti di carattere letterario, saggistico o storico in Confessioni letterarie (poi ridistribuiti secondo diversi criteri in Nel fiume della storia, Milano 1959, e in Saggi critici, Milano 1962). Nel frattempo proseguì un’intensa produzione drammaturgica, insieme con esperienze registiche e l’attività di recensore. Del 1925 è la rappresentazione di La notte di un nevrastenico, cui seguirono La smorfia (1926), La famiglia di Figaro (1926) e Bellamonte, sulla scena nel 1928 con la compagnia di Dario Niccodemi. La personalità di Bacchelli era comunque già divenuta proverbiale in questi anni, con la sua passione per le auto e la buona cucina. Insieme a Orio Vergani e altri amici legati alla Fiera letteraria, fondò nel 1927 il premio letterario Bagutta, presso il ristorante toscano da lui ‘scoperto’ nell’omonima via milanese.
È difficile dire come Bacchelli giunga al romanzo e in particolare al tema di questo primo romanzo (di cui un Preludio esce in anteprima a marzo del 1927 nella Fiera): Il diavolo al Pontelungo, il più noto fra i romanzi bacchelliani dopo il Mulino, racconta gli ultimi anni del grande rivoluzionario russo Michail Bakunin, dall’esperienza della Baronata (la villa presso Locarno, che nelle generose intenzioni dei protagonisti avrebbe dovuto realizzare l’utopia del falansterio, ma che fu sede di una sgangherata comunità di anarchici) fino al maldestro tentativo insurrezionale del 1874 a Bologna, che avrebbe dovuto accendere la miccia della rivoluzione anarchica mondiale. Bacchelli rivelò straordinarie capacità di ricostruzione, intuizione e riflessione storica, disegnando con maestria – accanto ai due donchisciotteschi eroi del disastro, Bakunin e Cafiero, la cui specifica «proprietà vitale era di non poter imparare» – figure del rilievo di Anna Kuliscioff e di Andrea Costa, i quali dalla lezione della storia seppero invece trarre una diversa e civile strategia d’azione.
La critica ha parlato talora di «un improvviso felicissimo» – con calzante allusione all’opera buffa rossiniana – «sia che con quel termine vogliamo indicare la gioiosa invenzione di un tema e di un modo narrativo, sia invece, confrontandolo col tanto più complesso e meditato Mulino del Po, un meno totale impegno dell’autore nel suo soggetto e un conseguente più estroso e libero e divertito raccontare» (Fubini, in Discorrendo di Riccardo Bacchelli, cit., p. 226). Si può imputare in parte il ritardo con cui Bacchelli approdò trentaseienne al romanzo (ne scrisse comunque ventitré) all’avverso clima idealistico e rondista di quegli anni, oltre che a pregiudiziali culturali e moralistiche in cui pure si riconosceva. Ma la scoperta delle potenzialità del romanzo rimane legata anche a temi non «adatti» al teatro: figure come Bakunin parvero sempre all’autore «da adattarsi particolarissimamente al romanzo», scrive nella premessa giustificatoria, «e personaggi ed eventi storici adatti al romanzo sono per eccellenza quelli minori, eroi singolari o mezzi eroi o eroi di straforo, di un’ora o di un’illusione» (Il diavolo al Pontelungo, Milano 1981, p. 49). Né è da escludere un rapporto tra l’eroicomica vicenda anarchica del 1874, in apparenza inattuale, e l’attentato anarchico di Anteo Zamboni avvenuto a Bologna nel 1926 (Bacchelli infatti manzonianamente narra «la storia di un errore, e di un errore che produsse in seguito delitti nefasti» e «terribili e detestabili sviluppi e influssi», ibid.). Ma il discorso di Bacchelli si muove sempre in piena autonomia di giudizio su un piano culturale: anche le tangenze con il fascismo (reducismo, critica delle utopie, patriottismo) non significano consenso ideologico e fiancheggiamento politico, ma derivano piuttosto da una visione conservatrice e antimodernista di matrice cattolica, liberale dal punto di vista politico (il giolittismo degli anni della Ronda), alto-borghese da quello sociale e culturale.
Dal punto di vista delle scelte letterarie, l’opzione per i modelli classici del romanzo ottocentesco (Manzoni e Tolstoj) è solo in apparenza ingenua e aproblematica: in realtà, pur senza teorizzazioni o polemiche, sottintende il rifiuto delle esperienze moderniste allora in auge (Joyce, Proust, Woolf, Pirandello, Svevo ecc.). Bacchelli percorre in solitaria una strada sua di romanzo che sente congeniale ai suoi interessi storici e culturali, a una già matura ed esperta coscienza stilistico-letteraria, a un’esigenza di continuità con la tradizione, e in sostanza alla sua ispirazione narrativa. Si tratta in ogni caso di romanzi a forte autorialità, nel senso che l’autore non rinuncia mai al diritto di commentare e giudicare la materia, di presentare scene e personaggi, di concedersi digressioni, intromissioni e discontinuità, lontano dalle ricerche polifoniche e disgreganti del romanzo novecentesco. Il genere romanzo appare la forma più adatta a un autore non soltanto generoso nella scrittura, ma anche mosso da ispirazioni, esigenze e motivazioni molto eterogenee tra loro. Il risultato furono romanzi di aspetto e talora temi ottocenteschi, ma in realtà percorsi da forti tensioni destrutturanti sul piano formale e impegnati con passione civile in una profonda critica della contemporaneità e in un’originale e appassionata riflessione sulla storia.
Negli anni seguenti Bacchelli alternò ricerche storiche e analisi contemporanee. Gli studi storici lo condussero fra l’altro a risultati di valore scientifico, in particolare per la conoscenza critica di autori prediletti come Ippolito Nievo e Lodovico Ariosto. A lui si devono nel 1929 il ritrovamento e la pubblicazione di scritti di Nievo fino allora inediti, come il Frammento sulla rivoluzione nazionale, relativo a un tema politico caro a Bacchelli qual è il rapporto tra intellettuali e popolo nella storia italiana. Sempre dal ’29 datano le ricerche sulla figura politica di Ariosto, incentrate sulla discussa Egloga del 1506 e sul ruolo ambiguo che, secondo De Sanctis e Croce, il poeta avrebbe avuto nella congiura contro il duca Alfonso d’Este: La congiura di Don Giulio d’Este (Milano 1932) è un vero e proprio studio di critica e discussione storica, su materia potenzialmente romanzesca, che ebbe il plauso di recensori illustri come, fra gli altri, Carlo Emilio Gadda.
Negli anni Trenta seguirono alcune importanti edizioni di Manzoni (I Promessi Sposi – Storia della colonna infame, ibid. 1934) e di Leopardi (Opere, ibid. 1935) e ancora le traduzioni della Astrée di D’Urfè (La fontana dell’Amor verace, ibid. 1934) e dei Romanzi e racconti di Voltaire (ibid. 1938).
Dieci anni di romanzi
Al Diavolo al Pontelungo seguì La città degli amanti (Milano 1929), che inaugurò una fitta serie di romanzi di ambientazione contemporanea e di tema amoroso: Una passione coniugale (Milano 1930), Oggi domani e mai (Milano-Roma 1932), fino a Iride (Milano 1937). Si tratta di opere ambiziose e di grande impegno che, nonostante alcune discontinuità e parti decisamente prolisse, presentano pagine assai felici, che lettori autorevoli talora hanno indicato tra le migliori dello scrittore. Notevole per esempio la discussione intorno alla Città degli amanti, tra sostenitori dei due capitoli ‘satirici’, più eccentrici e fantastici, che costituiscono le due ali del romanzo (Contini), e sostenitori invece del capitolo centrale intitolato Cecchina Gritti, di carattere storico e velatamente autobiografico (Pancrazi, Fubini). La Città degli amanti è in effetti un romanzo composito non solo per temi ma anche per ispirazione, toni e struttura, tenuto insieme dall’intenzione dell’autore di contrapporre all’utopia di una ‘città del libero amore’ – realizzata sulle coste texane da un ricco magnate americano, da un artista mancato tedesco e da un abile ingegnere lucchese – il vero amore dell’unica coppia che, amandosi davvero, non può vivere nell’artificiosa Città degli amanti. Il capitolo centrale, quasi un romanzo a sé, narra appunto l’antefatto della storia d’amore tra Enrico De Nada e Cecchina Gritti, sbocciata come un idillio sentimentale e sensuale in Veneto durante la rotta di Caporetto. L’intento satirico degli altri due capitoli, oltre a manifestare la continuità con il Diavolo nella critica dell’utopia, ne fa un’originale summa delle idee, passioni e perversioni erotiche dell’uomo contemporaneo e il primo catalogo bacchelliano sulle follie della scienza e filosofia moderna (Freud, Krafft-Ebing, parità uomo-donna, omosessualità, razzismo, ebraismo).
Una passione coniugale continuò in direzione psicologica la riflessione, sempre centrale nell’opera narrativa di Bacchelli, intorno al rapporto tra sensualità e vita di coppia, tra lussuria e amore: «romanzo straordinariamente riuscito», secondo Giorgio Bassani, «pur se entro i soliti limiti, per me attraenti e repulsivi, di quella classe padronale postdannunziana da cui personalmente ho cercato, fin dall’inizio, di prendere le distanze» (da un intervento del 1975, ora in Opere, 1998, p. 1308).
Con Oggi domani e mai Bacchelli tentò un complesso affresco della società del dopoguerra, e della sua evoluzione nell’arco di un decennio, dietro le vicende sentimentali e imprenditoriali di un ristretto numero di personaggi che tra Milano e Brianza mette su un consorzio di piccoli produttori. Ancora una volta il tema centrale è quello dell’amore, furioso e carnale nei «giorni belli» e via via perduto in incomprensioni e gelosie di coppia. Nel complesso il romanzo, farraginoso e dispersivo, non centra i suoi obiettivi (scandagliare «l’esistenza quotidiana di uomini comuni», «chiarir la nomenclatura dei sentimenti nel vocabolario dell’epoca», svolgere una rassegna tipica della modernità, dalle idee politiche alle sedute psicanalitiche, dalle speculazioni finanziarie al tema ebraico ecc.). Ma la terza e ultima parte ha una sua efficacia rovinosa, nel raccontare la crisi coniugale e la solitudine del personaggio principale, Fabio Anceschi, dai tratti cavallereschi e malinconici di altri personaggi bacchelliani, reduci di guerra e di fondo autobiografico.
Nel 1934 la vena storica, dopo Il diavolo al Pontelungo e La congiura, ebbe un’ulteriore prova significativa con Mal d’Africa (Milano). È il primo dei romanzi che Bacchelli, prima di raccogliere in volume, pubblicò integralmente a puntate nella Nuova Antologia, cui lo scrittore collaborava dal 1931 grazie alla mediazione di Antonio Baldini (e cui tennero dietro poi Il rabdomante nel 1935, L’Ammiraglio dell’Oceano nel 1936, nonché tutto Il Mulino del Po fra il 1938 e il 1940). Sulla base delle memorie di Gaetano Casati, Dieci anni in Equatoria (1891), Bacchelli riscrisse l’avventurosa storia dell’esploratore italiano che, partito nel 1879 per ricerche sul fiume Kibali (affluente del Congo), si trovò coinvolto nelle tumultuose vicende del Sudan meridionale, quando la rivolta islamista del Mahdi, isolandolo dal resto del mondo, lo costrinse a un difficile viaggio attraverso la regione dei laghi, mentre il celebre Henry Morton Stanley organizzava il soccorso internazionale. L’esperienza africana trasformò Casati, che, senz’essere né uno scienziato né un intellettuale né un sognatore, di fronte allo sfruttamento da parte di schiavisti e mercanti d’avorio, abbracciò il modo di vivere dei «negri» e «il sogno di uno stato indipendente, di una repubblica di indigeni: l’Africa rigenerata e riscattata coll’Africa» (cfr. Mal d’Africa, Milano 1962, p. 437). Al successo del libro contribuì senza dubbio, a metà degli anni Trenta, la politica africana del fascismo, che avviava allora la guerra d’Etiopia. In Bacchelli, però – che confermò così la predilezione per figure donchisciottesche di sognatori ai margini della grande storia e la critica moralistica contro la civiltà occidentale nel suo complesso –, urgono interessi e idee non riducibili e forse opposti all’ideologia colonialista del regime, anche nell’idea di un diverso approccio «italiano» alla realtà del ‘Continente Nero’ (l’esploratore Giovanni Miani, il generoso Romolo Gessi, il missionario Daniele Comboni). In ogni caso non è un libro improvvisato: la reinvenzione dell’Africa (ove lo scrittore si recò solo nel 1970) mostra una notevole cognizione geografica, idrografica, storica ed etnologica, con inserti di fiabe africane e pagine paesistiche fortemente evocative. E simile a Casati fu probabilmente il Cristoforo Colombo di cui pure in quegli anni lo scrittore vagheggiò di riscrivere la vita e il sogno avventuroso, fermandosi però all’ampio studio preliminare dal titolo significativo: L’ammiraglio dell’Oceano. Breve storia di una rinuncia a scrivere la vita di Cristoforo Colombo (poi in Nel fiume della storia, Milano 1959, p. 81).
Le eterogenee ispirazioni che, come abbiamo visto, minavano l’unità dei romanzi di tema contemporaneo, caratterizzarono due romanzi brevi pressoché coevi, Il rabdomante (Milano 1936) e il già citato Iride (1937). Il rabdomante è un’operetta di carattere satirico, dichiaratamente ispirata al Gogol delle Anime morte, in cui la polemica antimoderna, condotta con gusto strapaesano, tende a farsi parabola dell’Italia contemporanea, e la promessa di restituire «l’antica prosperità» agli abitanti di Villamagna, sincera nel personaggio ingenuo del ‘rabdomante’, si risolve in una truffa gestita da un abile manipolatore. Iride invece è una storia d’amore, tratta da una vicenda di tradizione popolare e ambientata nella campagna veneta. La prima parte, di carattere idillico come un romance shakespeariano, prende luce da uno dei personaggi femminili più felici di Bacchelli, Iride appunto, immagine di vita e gioventù. La tragica fatalità della sua misteriosa scomparsa alla vigilia delle nozze spezza il romanzo in due parti, gettando un’ombra luttuosa sulla seconda, più patetica, che racconta le rabbie, le malinconie, le disperate gesta – un duello, la guerra – e infine la pacificazione del promesso sposo, Matteo Almeide. Nonostante qualche discontinuità e certo schematismo dei personaggi minori, Bacchelli raggiunge tuttavia quella maturità nel controllo dei mezzi espressivi e quella sicurezza di ispirazione che annunciano la prova maggiore del Mulino.
Gli anni del capolavoro
Nel 1937 Bacchelli era già considerato dal pubblico e dalla critica uno fra i maggiori autori del tempo. Restava però una perplessità, forse un equivoco di origine rondista – osservava Giacomo Debenedetti recensendo Iride – fra il ‘prosatore’ di grandi qualità espressive e stilistiche, capace di dominare ogni tema e ogni linguaggio, anche i più tecnici, e lo ‘scrittore’ dal quale invece si attendeva ancora un tema necessario, personale, culturalmente significativo. Non c’è dubbio che Il Mulino del Po rappresenti una straordinaria risposta a simili perplessità, la prova più convincente di Bacchelli e uno dei romanzi più importanti del Novecento italiano. Avviato già nel 1936, il gran romanzo assorbì tutta l’attività dello scrittore fino al 1940 («son più di tre anni che questo lavoro mi preclude ogni altra fonte di lucro», confessò a Baldini), scandito dalle folte puntate in rivista («mi avrai mandato ad inferos per lo spazio che ho usurpato sulla Nuova Antologia») e dalla ripubblicazione nei tre volumi in cui il romanzo è suddiviso: Dio ti salvi (Milano 1938), La miseria viene in barca (Milano 1939) e Mondo vecchio sempre nuovo (Milano 1940), i primi due pubblicati presso Treves, mentre il terzo con Garzanti. Tutta la complessa e variegata congerie di esperienze, ricerche, tentativi, idee, motivi finora tentati da Bacchelli, nel Mulino del Po sembra distendersi, ordinarsi, inverarsi intorno all’«idea poetica» che il titolo del romanzo riassume e che il prologo Quasi una fantasia così illustra: «Sono gli ultimi mulini natanti, gli ultimi degli ultimi: un tema, in cotesta loro decrepitezza, un’idea poetica, e tanto cara da avermi tenuto molti anni riluttante prima di metterci mano, anch’io rispettoso del lavoro fatto bene, ambizioso di tale onore anch’io, al pari dei valenti calafati» (Il mulino del Po, p. 2). Il mulino sul Po e il Po con il suo mulino, infatti, non sono soltanto la scena principale del romanzo, ma anche la pregnante immagine simbolica di una concezione del mondo e della storia, nonché, al tempo stesso, la struttura narrativa capace di ridurre la varietà a unità, accogliendo e ‘macinando’ senza dispersioni l’infinita quantità di episodi, personaggi, digressioni, riflessioni. Sono anche – possiamo aggiungere – l’inveramento di una scrittura, di una lingua e di uno stilismo che trovano la loro misura in questo congeniale soggetto, capace di assorbire anche le ‘piene’ e le digressioni. È questa, insomma, la forma-romanzo cui la prosa di Bacchelli, giunta a piena maturità e consapevolezza, sembrava attendere sin dall’inizio: un romanzo sostanziato di storia e di commento, fondato certo su Manzoni, ma ancor più sulla diacronia lunga delle generazioni come in Nievo, o in Tolstoj o in Thomas Mann.
Il romanzo racconta le vicende di una famiglia di molinari, gli Scacerni, sullo sfondo di cent’anni di storia italiana, dal 1812 al 1918, o da fiume a fiume: «Il Mulino del Po ha da comprendere un secolo, passato col fiume e come il fiume per la sua ruota laboriosa: dal tempo in cui gli italiani di Napoleone in Russia subivano al passaggio del fiume Vop un disastro particolare simile a quello imminente e generale della Beresina, fino al passaggio vittorioso del Piave, nella battaglia di Vittorio Veneto» (ibid., p. 6). Capostipite e memorabile personaggio è Lazzaro Scacerni, che sul gelido fiume russo riceve da un capitano ferrarese morente un lascito ereditario che, sia pur maledetto in quanto frutto di antiche profanazioni, al ritorno in Italia gli permetterà la costruzione di un mulino, il San Michele, e l’avvio di una difficile ma congeniale attività di mugnaio sulle rive ferraresi del Po. In quest’uomo forte e ostinato, di poche parole e di sano criterio, arguto e autorevole, gran lavoratore, ricco di un suo mondo interiore complesso e persino tormentato, Bacchelli ha certamente inteso disegnare, con successo, un tipo profondo e ideale del popolo italiano. Lazzaro e quelli dei suoi discendenti che più ne ereditano i caratteri – la nuora Cecilia, il giovane Lazzarino che muore a Mentana, la nipote Berta, il violento Princivalle dal pugno proibito, fino all’ultimo Lazzaro che muore nel Piave – costituiscono per così dire l’asse principale del racconto, insieme a coloro che invece – come il figlio Giuseppe detto Coniglio Mannaro – sembrano essere l’opposto del gran vecchio. Con essi però si muove una folla di memorabili personaggi di una storia locale – rurale, quindi ferrarese, poi emiliana e padana – sempre connessa per mille fili alla storia sociale, alle vicende politiche, alle trasformazioni del costume, al dibattito ideologico della nazione.
Sulla microstoria fluviale e locale si osservano quindi – con mirabile realismo e sensibilità sociologica oltre che storica e psicologica – le ripercussioni di quei grandi eventi che il commento del narratore talora illustra in excursus approfonditi e tuttavia non faticosi come nelle opere precedenti. Il mulino del Po riesce così nell’impresa, eccezionale sotto molti aspetti, di raccontare dal punto di vista locale e popolare un secolo di storia italiana in tutti i suoi momenti principali – l’avvicendarsi e lo strutturarsi delle amministrazioni, i rapporti economici e contrattuali, le gerarchie e l’intreccio dei poteri, il contrabbando e la clandestinità, il passaggio o il richiamo delle guerre d’indipendenza, il potere temporale dei papi, la religiosità e la miscredenza popolare, l’industrializzazione incipiente e le nuove mentalità imprenditoriali, le bonifiche e le alluvioni, il colera e la pellagra, la tassa sul macinato e i controlli della finanza, il diffondersi di nuove idee di giustizia ed emancipazione, le prime lotte sociali, i boicottaggi e gli scioperi agrari, la propaganda politica, e via dicendo. Tutto passa come il fiume, con i suoi giorni sereni e le sue piene paurose, le pause idilliche e le alluvioni devastanti, e anche i suoi cadaveri, come quello di Orbino, protagonista con Berta della principale storia d’amore, nell’ultimo libro della trilogia. La storia passa, è un sogno, non va avanti: la mole enorme del Mulino implica un giudizio decisamente negativo sui miti e sugli ideali progressivi, cui oppone la contemplazione della vanità, la pietas di ciò che si perde, la resistenza dei valori umani fondamentali e di una vitalità immediata che sopravvivono nel popolo, contro la follia delle ideologie, i nuovi ceti emergenti, la violenza delle tecnologie (i mulini a vapore…). Opera strutturalmente inattuale, ottocentesca nel tema e nella forma, Il mulino del Po ha il fascino monumentale di un addio a un mondo scomparso o in via di estinzione.
Guerra e dopoguerra
Lo scoppio della guerra segnò una forte cesura anche nel percorso artistico di Bacchelli, proprio quando il successo del Mulino giungeva a sanzionare definitivamente la sua fama con importanti riconoscimenti ufficiali, come la laurea honoris causa dell’Università di Bologna (dicembre 1940), la nomina all’Accademia d’Italia (aprile 1941), cui si possono aggiungere le prime monografie critiche (il Bacchelli di Mario Apollonio nel 1943 preceduto dall’importante saggio di Gianfranco Contini del 1941) e il susseguirsi delle ristampe. Importanti furono, in particolare, le tre raccolte che sistemarono per generi una già vasta produzione novellistica, tutte pubblicate per Garzanti a Milano nel 1942: le «favole lunatiche» di La fine di Atlantide, le «novelle giocose» di L’elmo di Tancredi, i «racconti disperati» di Il brigante di Tacca del Lupo.
Intanto, con il romanzo successivo al grande sforzo del Mulino, Bacchelli ripiegava su una vicenda interiore e vagamente autobiografica, contenente un’interessante riflessione sull’arte moderna. Ambientato in una mascherata Versilia d’inizio secolo a Forte dei Marmi, Il fiore della Mirabilis (Milano 1942) allude nel titolo a un effimero fiore notturno che simboleggia la vita e il fallimento artistico di Ruben, la cui fine sensibilità di malato non basta a far di lui un pittore come i suoi amati Degas, Renoir e Cézanne. Di questi anni è anche un’importante monografia su Rossini (Torino 1941), già commissionata allo scrittore dalla Nuova Antologia.
Nel nuovo conflitto mondiale Bacchelli avvertì sin dall’inizio caratteri nuovi e distruttivi, e in particolare la fine della civiltà europea. Il trauma sofferto per il disastro civile appare con immediatezza nei versi scritti ‘a caldo’ La notte dell’8 settembre 1943, pur nella consapevolezza della loro natura di vano sfogo retorico. Rifugiatosi in Friuli, oltre Tagliamento, Bacchelli vi trascorse molti mesi dell’occupazione tedesca, fra il 1943 e il 1944. Durante i bombardamenti, un incendio devastò nel 1943 la sua abitazione milanese distruggendo fra l’altro molti documenti e scritti. In Russia, sul Don, trovò la morte il fratello Giorgio.
Il passaggio della guerra non fu senza conseguenze sull’ispirazione bacchelliana, che perse certa ottimistica sicurezza facendosi più meditativa ed elegiaca, o viceversa più acre e pessimista nella polemica antimoderna. Quanto a bilanci, Bacchelli dette alle stampe La politica di un impolitico (Milano 1948), il cui saggio centrale Dieci anni di ansie 1935-1945 riflette sul trauma bellico che, mettendo in crisi la fiducia nella razionalità della storia, impone una nuova riflessione sulle responsabilità umane e non assolve neppure chi non si è macchiato di colpe («se mi voglio e mi si voglia concedere di essere stato, negli scritti, del tutto immune dall’insigne e spaventosa inezia delle ideologie nazifasciste, che se n’ha da inferire se non altrettanto insigne e più spaventosa e scorante impotenza e inefficacia di tali scritti, e insomma del mio lavoro e della mia vita?», in Nel fiume della storia, cit., p. 600).
Scrisse in quegli anni il primo dei romanzi ‘cristiani’, Il pianto del figlio di Lais, uscito dopo la Liberazione (Milano 1945), cui fecero seguito Lo sguardo di Gesù (Milano 1948) e, più tardi, I tre schiavi di Giulio Cesare (Milano 1957), Non ti chiamerò più padre (Milano 1959) e Il coccio di terracotta (Milano 1966). Si tratta di opere in forma storica ma di taglio per lo più psicologico, in cui Bacchelli traduce in forme dirette il suo cattolicesimo, di carattere intimista e problematico, prediligendo quelle figure minori che in un momento della loro vita hanno accostato le grandi figure della storia e della fede, restandone segnate con rimorso o tormento; il romanzo storico viene così trasceso in una riflessione sulla natura umana di ogni tempo. Il pianto del figlio di Lais nasce da un versetto del primo Libro di Samuele che ricorda il pianto di Faltiel, lo sconosciuto cui Saul, in odio a David, aveva dato in sposa sua figlia Micol e che poi piange il suo amore perduto e disperato, quando Micol viene infine restituita a David senza alcun riguardo per lui. Lo sguardo di Gesù è «un’operina di questo dopoguerra» che un lettore come Giorgio Bassani disse di preferire «al celeberrimo Mulino del Po», in cui «la religiosità di Bacchelli si è espressa con singolare, sorprendente sincerità». Invenzione mossa da un cenno dei Vangeli è la storia di Itamar, l’indemoniato di Gerasa guarito e tuttavia non voluto tra i suoi dal Salvatore: posseduto dal ricordo di quello sguardo e di quel rifiuto, come una vocazione mancata, Itamar sfiora perciò il destino di Giuda, ritrovando la salvezza solo al termine di un avventuroso percorso, ai piedi del morente sulla croce.
Gli ultimi decenni
Gli anni del dopoguerra furono ricchi di riconoscimenti pubblici: nominato membro dell’Accademia nazionale dei Lincei (1947), dell’Accademia della Crusca (1956), dell’Istituto lombardo di scienze e lettere (1964), Bacchelli ricevette inoltre vari premi e dal 1948 venne più volte candidato al Nobel (su proposta dei Lincei e di Contini). Parallelamente alla produzione creativa e saggistica (si ricordano nuove edizioni e saggi su Manzoni e Leopardi), si profuse in un complesso lavoro di recupero, revisione e riordinamento dei suoi scritti. Fondamentale fu l’avvio, nel 1957, di Tutte le opere di R. B., affidata da Mondadori a Maurizio Vitale (fino al 1975 sono usciti ventotto volumi). Anche il cinema si interessò a Bacchelli e in particolare al Mulino del Po: da Alberto Lattuada che nel 1949 ne ricavò un film di carattere neorealista, al fortunato sceneggiato televisivo diretto da Sandro Bolchi nel 1963.
Furono anni di viaggi: dopo l’Italia (raccontata nelle prose di Italia per terra e per mare, Milano 1952), Bacchelli visitò il Sudamerica, e due volte la Grecia per altrettanti libri (Viaggio in Grecia e Secondo viaggio in Grecia, Milano 1959 e 1963). Particolarmente significativo, nel 1965, il viaggio per mare negli Stati Uniti, dove fece visita alla sorella Beatrice, già sposata e poi religiosa carmelitana a Baltimora (1894-1991), e alla tomba del fratello Mario, morto nel 1951 in un incidente di moto a Memphis, in Tennessee, dove insegnava storia dell’arte.
Anche negli ultimi decenni l’attività letteraria di Bacchelli resta intensa e prolifica. Nei principali quotidiani e periodici pubblicò novelle, corrispondenze di viaggio e articoli di attualità (ordinati e raccolti nel 1968 nel secondo volume di Giorno per giorno: dal 1922 al 1966), e intanto si dedicò a nuovi romanzi: sei negli anni Cinquanta (La cometa, Milano 1951; L’incendio di Milano, Milano 1952; Il figlio di Stalin, Milano 1953; Tre giorni di passione, Milano 1955; I tre schiavi di Giulio Cesare, cit.; Non ti chiamerò più padre, cit.), tre nei Sessanta (Il coccio di terracotta, cit.; Rapporto segreto, Milano 1967; L’«Afrodite», Milano 1969), due nei Settanta (Il progresso è un razzo, Milano 1975; Il sommergibile, Milano 1978), fino a In grotta e in valle (Milano 1980).
Anche l’antico e mai dismesso interesse per il teatro riprese vigore negli anni Cinquanta, in una stagione che va da L’alba dell’ultima sera (rappresentato alla Fenice nel 1949) fino a Il figlio di Ettore e a La famiglia del caffettiere (andati in scena nel 1957). In taluni casi la scrittura teatrale influenzò la narrativa in modo esplicito, come in L’incendio di Milano (1952), che comprende inserti propriamente drammatici, e in Tre giorni di passione (1955), che riscrive la commedia del 1928 Bellamonte; ma più in generale il modello drammatico traspare sia nell’espansione spesso ipertrofica delle parti dialogate, sia nella struttura da dramma serio o da commedia di molti romanzi.
La continuità con la produzione d’anteguerra diviene comunque strutturale, manifestandosi nella ripresa e variazione di temi e motivi, a fronte di un’inventività inesauribile e di una meditazione sul tempo e la storia più complessa e sottile. L’ispirazione satirica, rivolta contro deliri e miti della modernità, riprende per esempio in La cometa (1951) lo schema del Rabdomante, ma è più aggressiva e cupa: la truffa è ordita sulla paura della fine del mondo – il passaggio ravvicinato di una cometa – ai danni di un’umanità immeschinita dalla guerra. Le contraddizioni del progresso, sempre in opposizione ai sentimenti umani assoluti, torna nel contesto anni Sessanta delle esplorazione astronautiche in Rapporto segreto (1967), e nel contesto anni Settanta dei disagi planetari, del traffico d’armi e droga in Il progresso è un razzo (1975).
Alcuni romanzi degli anni Cinquanta svilupparono una sofferta riflessione sulla guerra, partendo da fatti storici che tendono ad assumere valore esemplare e persino allegorico: così L’incendio di Milano (1952), ambientato nel periodo della guerra civile e dell’occupazione tedesca; e soprattutto Il figlio di Stalin (1953), che ricostruì in chiave chiaramente simbolica, ma con notevole capacità di resa, la vicenda misteriosa della morte di Jacob, primogenito di Stalin, nel campo di concentramento tedesco di Sachsenhausen. Su analoghe problematiche poggiano anche romanzi storici di notevole impegno come I tre schiavi di Giulio Cesare (1957) e Non ti chiamerò più padre (1959). Il primo, in chiave di meditazione precristiana, si sviluppa per invenzione a partire da una frase di Svetonio sui tre “servuli” che soli osarono salvaguardare il cadavere di Cesare, nel terrore seguito in Roma alla morte del dittatore. Il secondo ripercorre invece la storia di Francesco d’Assisi a partire da un’intelligente riscrittura di un testo storiografico e documentario, come già era accaduto per Mal d’Africa (il testo-canovaccio è qui la Nova vita di san Francesco d’Assisi di Arnaldo Fortini, Milano 1926), recuperando al tempo stesso ciò che la storia non dice, in particolare la figura del padre, Pietro Bernardone.
Del 1966 è Il coccio di terracotta, di nuovo d’ambientazione mediorientale: storia di un Giobbe sopravvissuto a se stesso che ritrova la forza e il gusto di vivere. In tanta varietà di ambientazioni e personaggi, non è difficile scorgere però alcune costanti della fantasia bacchelliana, sempre sorretta dalla forza di uno stile sicuro e tuttavia capace di gradazioni e dosaggi. Il tema originario della passione amorosa, per esempio, torna con frequenza ed è centrale in Tre giorni di passione, Rapporto segreto e L’«Afrodite».
Con Il sommergibile, che racconta di un viaggio marino attraverso il globo terrestre, Bacchelli prende congedo dalla scrittura narrativa riallacciandosi idealmente alle peripezie di Lo sa il tonno con cui aveva esordito. Opera di rarefatta e luminosa leggerezza, il viaggio attraverso scenari naturali di scarsa o nulla presenza umana – scogli oceanici, villaggi eschimesi, pressioni e correnti marine – è anche una parabola conclusiva su ciò che resta della storia degli uomini, in approdi emblematici come la Guyana dove fu un tempo relegato Dreyfus o la Sant’Elena di Napoleone. Ancor più visionario e leopardiano l’ultimo libro, il breve «romanzo preistorico» In grotta e in valle, immagine di una storia umana che dalle grotte di Lascaux si perde nelle domande ultime («Allora a che serve tutto e ogni cosa?», ibid., p. 96).
Negli ultimi anni le condizioni di salute peggiorano (inabilità e cecità), e con esse le condizioni economiche. Il Comune di Bologna, per soccorrere lo scrittore, ne acquistò nel 1984 le carte e la biblioteca (da allora conservate presso l’Archiginnasio). Proprio il caso Bacchelli contribuì in modo decisivo, com’è noto, all’approvazione della legge n. 440 dell’8 agosto 1985 (ma subito e tuttora nota come «legge Bacchelli») che prevede un assegno straordinario vitalizio a coloro che si sono distinti nel mondo della cultura, dell’arte, dello spettacolo e dello sport, ma che versano in condizioni di indigenza.
Lo scrittore, tuttavia, non poté di fatto usufruirne, poiché morì due mesi dopo, l’8 ottobre 1985, all’età di novantaquattro anni, in una clinica di Monza, assistito come sempre dalla moglie Ada.
Opere
Un ordinamento della vasta e complessa opera bacchelliana è la citata edizione di Tutte le opere di R. B., diretta da Maurizio Vitale per Mondadori, in ventotto volumi pubblicati tra il 1957 (Il mulino del Po) e il 1975 (Novelle). A tale edizione, che riporta le ‘versioni definitive’ di tante opere spesso riscritte dall’autore, vanno aggiunte le opere degli ultimi anni, come i romanzi, citati nel testo, Il progresso è un razzo: un romanzo matto (Milano 1975), Il sommergibile (Milano 1978) e In grotta e in valle: romanzo preistorico (Milano 1980). A eccezione di Il mulino del Po e Il diavolo al Pontelungo, poche opere sono state ripubblicate dopo la morte dello scrittore, e in edizioni non facilmente reperibili.
Fonti e Bibliografia
Strumento indispensabile è Uno scrittore nel tempo. Bibliografia di R. B., a cura di C. Masotti – M. Saccenti – M. Vitale, Firenze 2001, che integra lo storico lavoro di Vitale, iniziato negli anni Cinquanta e condotto fino ai Settanta. Tra gli studi, le monografie e i volumi collettivi dedicati, oltre a quelli citati nel testo, si ricordino almeno: Discorrendo di R. B., Milano-Napoli 1966 (con interventi di: A. Andreoli, G. Raimondi, S. Solmi, F. Gavazzeni, E.F. Palmieri, G. Contini, L. Blasucci, L. Ronga, C. Segre, M. Fubini); P. Pancrazi, Ragguagli di Parnaso, Napoli 1967, ad ind.; A. Dosi Barzizza, Invito alla lettura di B., Milano 1971; G. Contini, «Il Mulino del Po» e la carriera letteraria di R. B., in Id., Esercizi di lettura, Torino 1974, ad ind.; A. Briganti, B., Firenze 1980; R. B.: lo scrittore, lo studioso, Atti del convegno, Milano… 1987, Modena 1990; M. Vitale, Sul fiume reale. Tradizione e modernità nella lingua del «Mulino del Po» di R. B., Firenze 1999; M. Saccenti, B. Memoria e invenzione, Firenze 2000.
Fonte-Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani
Marco Ercolaniè nato a Genova nel 1954, dove vive e lavora come psichiatra. Scrive racconti fantastici e vite immaginarie e indaga il rapporto arte/follia. Tra i suoi libri di narrativa: Col favore delle tenebre (Coliseum, 1987), Vite dettate (Liber, 1994), Lezioni di eresia (Graphos, 1996), Sindarusa (Tabula fati, 1997), Il mese dopo l’ultimo (Graphos, 1999) Carte false (Hestia, 1999), Il demone accanto (L’Obliquo, 2002), Taala (Greco & Greco, 2004) e Il tempo di Perseo (Joker, 2004.) È autore di due volumi di critica poetica, Fuoricanto (Campanotto, 2000) e Vertigine e misura (La vita felice, 2008). Ha curato il volume collettivo Tra follia e salute: l’arte come evento (Graphos, 2002) e il convegno L’arte della follia (Genova, Biblioteca Berio, 2004.) Suoi testi sono pubblicati in Riga, Poesia, Il gallo silvestre, Ipsofacto, Nuova Corrente, Anterem, La clessidra, Nuova Prosa, La mosca di Milano, Ciminiera. È stato redattore di Fanes, rivista di cultura psicoanalitica, e di Arca. Quaderni di scrittura. Con Luisella Carretta ha ideato la collezione di arte e scrittura Scriptions. In coppia con Lucetta Frisa ha scritto L’atelier e altri racconti (Pirella, 1987), Nodi del cuore (Greco & Greco, 2000) e Anime strane (ibidem, 2006) e dirige per le edizioni Joker «I libri dell’Arca».
Per la mano sinistra
La forma è limpida – per esprimere cose e opache.
Ma se, dalla porta in cui appaio, fossi già scomparso?
Certi giorni, che trascorrono senza di me.
Scrivere è un atto di violenza, un magico errore, una gioia senza nome.
La poesia non nasconde e non svela.
La forma della poesia confluisce in suoni che ne cancellano l’architettura.
Prima di scrivere, maturo la gioia di tacere.
Sciolse la scena del disastro con parole che risuonarono armoniose.
Somigliando a qualcuno mi scopro inimitabile.
Lo spostamento di un avverbio è più eversivo di una rivoluzione vittoriosa.
Le opere inessenziali hanno una grazia particolare.
I fiumi si differenziano per i detriti che trascinano.
***
La pertinenza del testo: modulare una passione.
Le perfezioni sono attimi.
La poesia è abitare desideri impossibili.
Il fulmine frantuma lo specchio che riflette il lampo.
Lo scrittore ha un solo dovere: essere cosciente delle proprie visioni.
Perché la mia lingua sia vera, deve averla nutrita il buio.
L’immobilità: limite estremo del rallentamento del moto.
Lo scoglio non esaurisce il flusso delle onde.
Scrivo per prepararmi a scrivere in qualche impossibile giorno
Siamo perduti, solo se siamo stati ingiusti.
Disimpari lo stupore e cominci a morire.
Disorientare il presente: sopravvivere.
***
Allo scrittore accade di anticipare se stesso senza conoscersi ancora.
La parola è indicibile. Ma occorre scrivere per saperlo.
Morirò per non essere sopraffatto dalla morte.
Maldestri e inutili, stupidi e balordi. Eletti.
Qualcuno si crede originale per eccesso d’ignoranza.
Il linguaggio può trasformare, ma bisogna esserne all’altezza.
Non c’è nulla di conforme: mi aiuta la scienza del deforme.
Nascere sempre nel tempo sbagliato.
Scrivo per ripetere ciò che non sono. Per allontanarmi da me
Non avendo più nessun desiderio, come posso desiderare la morte?
Solo quando la casa va a fuoco, è visibile la sua architettura.
***
Chi è cieco grida di non vedere. Non scrive aforismi sulla cecità.
Distruggere quel suono solo per aprire le orecchie a un altro suono.
L’arte, consumando opere, non si annulla ma cambia forma.
La parola è trasparenza dell’io all’esperienza dell’abisso.
Non si crea verità ma la si dissotterra.
Prima necessità: esprimersi. Prima necessità: ammutolire. Da dove si inizia?
Un uomo che guardi se stesso da lontananze estreme e trovi un linguaggio possibile.
La forma dell’io, alla radice, è visione del non-io: vertigine dello specchio.
Un dio – ma simile al fumo che sale dalle macerie.
La forma più primitiva del sapere è un soffio di vento.
Il passato non è mai certo della sua estinzione.
***
La follia, come l’arte, presume di sconfiggere la morte.
La scrittura è spartito per la voce.
Troppe parole, nella pagina, e pochissimi ricordi, nella mente.
Uccidermi sarebbe perdere il flusso vivente di cui solo io sono occhio e orecchio.
Avvicinarsi alla mancanza di maschere è la via maestra per togliersi la vita.
Scrivere è parlare di un vento di cui non ricordiamo il suono.
Nessuna interiorità è personale.
Tutte le idee vengono dal sonno.
Solo chi si sveglia può osservare dormire.
Dormire è appartenere al segreto di un altro.
All’interno del sonno c’è un risveglio di cui la scrittura è complice.
Il testo è il risveglio ma il fondo della parola è il sonno.
Stile: gioco di equilibri attorno a un precipizio.
***
La scrittura è il sogno illegittimo ma reale della resurrezione.
Il sonno rende la veglia un territorio misterioso.
La vita: progressivo misconoscimento del mondo.
Ci sono fantasmi che devono esistere per noi e oltre di noi.
Farsi sopraffare dalle voci è la volontà di creare un non-luogo della letteratura.
Il punto più in ombra corrisponde al centro della luce più intensa.
Disegni fatti di fuliggine e cenere, di ciò che è esistito ed è bruciato.
Il vero incendio è dove soffochi, non nel chiarore delle fiamme.
Ricordo impossibile: il sole sotto il cuscino.
L’opera deve restare segreta, se occorre, contro il suo stesso autore.
Annotare, ma lentamente.
***
Missione impossibile ma necessaria: trovare le frasi lucide dello stordimento.
E’ l’opera stessa a inventare l’io nel quale vuole esprimersi.
La scrittura può descrivere i colori, ma ogni descrizione è un’ombra.
La musica tradisce il corpo meno della parola.
Della musica attrae il silenzio suscitato dalle note.
Scrivere: emorragia che non può essere fermata.
Ci sono ferite che richiudere sarebbe un delitto.
Aveva molto buio, nelle dita.
Accettare il fallimento personale come la linfa necessaria.
***
Perseverare nel sogno: scegliere il delirio contro l’annientamento.
Alcuni intervalli, dentro il mio sonnambulismo: gli atti vitali.
Riposare dai miei folli. Non vivere più in loro ostaggio.
Ritrovare, sotto il torace, la gaia, palpitante oppressione di creare.
Letteralmente non togliere mai la penna dal foglio.
Stupirsi per chi ti chiede cosa stai scrivendo.
I libri: la propria ferita, inarrestabile, scesa a patto con delle cicatrici.
La «cifra del tappeto» di tutta la mia opera è la necessità di vivere nonostante.
Per chi esige una certa luce, l’ombra non sarà mai sufficiente.
Non vivere neppure un attimo senza le potenzialità della parola.
Pagina mai vuota – inesauribile esorcismo.
Silloge dal titolo celaniano, incantevole: Da quale rupe riflessa (finalista al Premio Lorenzo Montano 2021, sezione «Raccolta inedita»). Ossia: dall’impossibilità di guardare in faccia, senza schermi, la luce. E qui si parla di giochi sui sipari che sono riverberi di oggetti deprivati di consistenza, ombre d’acqua, resti del diluvio.
Marco parla di uno «stormire» come brezza della dismisura oceanica più che brusio di foglie. L’acqua e l’aria appaiono elementi trionfali e trionfano, vorticosi e dolorosi elementi, sulla terra e sul fuoco, esperienze deludenti. Che il poeta si sia annidato nel riflesso per deviare l’urlo del ‘reale’ lacaniano, della Chose?
Protezione, forse, raffica parata continuamente per un indice di salvezza. Ercolani tenta di mettersi salvo, lungi dal suo credo ogni senso o sentimento della Redenzione. Sparire è il suo traguardo, nel silenzio, tra le ammirate nuvole, tra i fumi e gli ectoplasmi di una Genova opaca e graffiante, sparire, walserianamente. Quasi un sì, quasi un’obbedienza in extremis. Obbedienza all’altrove, alle nebbie.
Poesia mentale, tutta tesa alla cosa estraente, al nucleo e alla polvere particellare. Fino al sinistro di certe ombre persecutrici. Ombre che sopraggiungono allorché la distanza si fa più netta ed esatta. Appare allora il desiderio taciuto del salto, l’affondo nel buio. Non un buio romantico, decadente, ma deangelisiano, irto di editti e spaventi.
Tutto avviene, scrive il poeta, come se «quel lungo incredibile altrove […] non esistesse e l’aria fosse / ancora quel precipizio del volo perfetto / sopra la pietra finale».
Alfonso Guida
***
Non parli la nostra lingua
arrivi e non parli:
guardi quel doppio sole,
come i fuggiti dal mondo guardano,
senza lacrime dopo la fuga,
la doppia luce e non abbassano gli occhi.
Arrivi, e questo cielo a picco
è tuo.
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Cenere sognata dai morti
numero primo –
sillaba.
Senza una parola che rompa il muro della lingua
posso trascrivere me?
Vagabondo nelle stazioni
ma non ho occhio di folle.
La corda dondola vuota dal ramo.
Quale testa sprofonderà nell’ombra?
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Qui non foglie, non alberi,
ma l’immagine esatta di una porta
nel profumo del giorno.
I venti, sulla maniglia,
indifferenti alla morte.
Torniamo
verso la luce bianchissima
inventiamo
un cielo mai, mai
notturno.
La vista ritorni,
del mare muto.
Marco Ercolani è nato nel 1954 a Genova, dove vive e lavora come psichiatra. S’interessa alla poesia contemporanea e al rapporto arte-follia. Numerose sono le sue pubblicazioni, in ambito sia scientifico sia letterario, sia come unico autore sia in coppia con Lucetta Frisa.
* Marco Ercolani, Nel fermo centro di polvere (Il Leggio, Chioggia (Ve), 2018
LA POESIA COME ENIGMA NECESSARIO
Marco Ercolani è nato a Genova nel 1954. E’ psichiatra e scrittore. Artista complesso: narratore, critico letterario, saggista, curatore di collane, aforista, poeta. Insomma un autore che pratica la parola ed usa il linguaggio nelle sue forme, stili e strutture diverse. Come ha scritto Dario Capello, questo “È il libro di un poeta che da sempre conosce il senso della vertigine, del doppio movimento, imprendibile, delle cose e della lingua che le nomina. La parola di Marco Ercolani è qui scagliata, scagliata fuori dal suo stesso fluire ritmico, dopo essere stata a lungo macerata, febbrilmente meditata.” E’ la padronanza del linguaggio che prima di tutto colpisce in questa raccolta raffinata, articolata, profonda. La lingua qui “ritrova una forza non comune, un’originalità di dizione che altri poeti hanno perduto o non sanno trovare” (così scrive Antonio Devicienti nella sua introduzione) per cui la raccolta è portatrice di un piacere in sé, quello di incontrare una scrittura forte e piena, consapevole e ricca di sfumature. In un momento storico in cui la perdita di qualità del linguaggio va di pari passo con lo scadere della qualità della vita sociale e culturale del nostro Paese, credo che Ercolani ci offra una via di riflessione critica necessaria. Persona che analizza lucidamente, spietatamente il proprio lavoro, autore critico con se stesso, come con gli altri, Ercolani, nell’intervista curata da Gabriela Fantato che arricchisce il libro, chiarisce il senso del suo lavoro e della sua poetica. “La poesia, in quanto enigma, è esperienza dell’inconciliabile. Tutto non è mai come appare: l’universo di ogni parola ha l’inafferrabilità e la potenza del miraggio. La magia del canto incrina la compattezza del discorso, lo dissolve…”. La scrittura di Ercolani, per sua stessa indicazione, cerca “sequenza musicali” che nascono non dalla retorica (vera o presunta) della rima, ad esempio, ma dalla forza intrinseca dei significati che il poeta esprime, allude, indica, scolpisce. La poesia assume così un senso ontologico, fluttuante magari in certi momenti, ma sempre determinato. La poesia di Ercolani è un viaggio che cerca l’Altro dentro di noi e così facendo si sorprende e sorprende il lettore di pari passo. Il lirismo di Ercolani è di una forma diversa da quello abituale: siamo dinnanzi ad un lirismo “metafisico” non perché trascenda le cose, ma perché accede alle cose, entra nel vivo della materia poetica. Un lirismo quindi che sa fondere intelletto ed emozione, riflessione e visione intuitiva. La poesia di Ercolani è colta, ricca di riferimenti espliciti ed impliciti, ma mai pedante; egli sa connettere pensiero e visionarietà, un po’ come accade appunto per la musica. La scrittura nella poesia di Ercolani cerca il senso ed è senso essa stessa nel momento in cui si dice; la lingua accade e così si descrive, riflette su se stessa, propone una direzione a se stessa nel momento in cui indica le cose. Non ci si attenda quindi una poesia cerebrale, intellettualistica: “Nel fermo centro di polvere” è fuoco, passione che brucia, segreto che non si svela, miraggio necessario del nostro andare.
Stefano Vitale
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Lei tace, tu abbandoni le braccia.
Torna segreto, il sole.
Lettere ancora bianche, mai scritte, mai perdute.
Aprono i cancelli. Ma del vento nessuna traccia.
Soffierà, forse.
In cima alle pietre.
Buio agli occhi. Vertigine.
Naufraghi sul tavolo.
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Torre alta. Parto da qui.
Il bianco che le onde lasciano alla notte
è schiuma viva, dove l’acqua evapora:
restano, sempre, le fitte d’ombra dei versi.
Io parlo da qui:
insperabile reale limpida
voce.
Respiro, ma ai miei giorni
manca qualcosa di terrestre e di dolce.
Il lavoro poetico?
Rigorosa dilapidazione.
Essere nel nulla e non salvarsi. Cancellare
le parole nel foglio vuoto.
Leggere le pagine di chi fu vivo
e guardare la bellezza del cielo:
ritardare il congedo dal mondo,
léggere, non
scrivere più,
smettere di ripararsi dal cielo.
Finalmente
non capire.
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Le maschere della mente
Immobile durante il giorno a leggere e a pensare,
ma ogni notte, la testa sul cuscino,
le gambe ferme, a perdifiato
nella terra lucente per sognare,
nella terra sconosciuta, in cima ai torrenti,
fra i monti percossi dai venti,
correre,
con cose strane da guardare,
nessun incubo a potermi spaventare…
Ma poi svegliarsi
e inutile e lungo torna il giorno.
Impossibile trovare la terra non vista,
impossibile riascoltare il sogno:
muto alle parole adulte
diventare il bambino trasparente
che abita la stanza di niente,
fumo di parole
le maschere della mente.
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Ostuni
Dove sono le pietre che l’occhio inventava fra viso e mondo,
la masseria tra gli ulivi, le mura circolari e in alto
l’abbagliante, bellissima Ostuni?
La ricordo e la cerco
mentre scrivo all’interno del foglio,
lettera sotto lettera:
sotterro le frasi
concentro lo spazio
attendo che si laceri
la mia invisibile, affilata parola.
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Tornare e tacere
A chi mi chiede, scrollo la testa.
È un no a ogni domanda:
appena ricorderei
qualcosa come odissee e ciclopi,
uno spazio invaso da navi e acqua,
il mondo interrotto dal ritmo del navigare
fra cieli sotterranei.
Il segreto è tornare, e tacere.
Ciò che ha vibrato
tradurlo in brevi bisbigli e rinascere
in silenzio, la nebbia dissolta,
in una vaga fedeltà
di testimoni di nulla.
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Note sull’Autore Marco Ercolani (Genova, 1954), è psichiatra e scrittore.
Per la narrativa scrive: Col favore delle tenebre, Praga, Il ritardo della caduta, Vite dettate, Lezioni di eresia, Il mese dopo l’ultimo, Carte false, Il demone accanto, Taala, Il tempo di Perseo, Discorso contro la morte, A schermo nero, Sentinella, Turno di guardia, Camera fissa, Preferisco sparire. Colloqui con Robert Walser 1954-1956, Destini minori.
Per la saggistica: Fuoricanto, Vertigine e misura, L’opera non perfetta, Il poema ininterrotto, L‘archetipo della parola. René Char e Paul Celan e Fuochi complici.
Per la poesia: Il diritto di essere opachi, Si minore, Nel fermo centro di polvere. I suoi taccuini sono raccolti in Nottario. Partecipa al convegno internazionale Bruno Schulz: il profeta sommerso. Suoi testi in riviste (Nuova Corrente, Poesia, La mosca di Milano), antologie (Altra marea) e siti web (La dimora del tempo sospeso, Doppio zero).
Vince il Premio Montano, il Premio per l’Aforisma “Torino in sintesi”, il Premio Morselli e il Premio Smasher. In coppia con Lucetta Frisa cura “I libri dell’Arca” e scrive: L’atelier e altri racconti, Nodi del cuore, Anime strane (Âmes inquiètes, tr. fr. di Sylvie Durbec, Éditions des états civils, 2011), Sento le voci (J’entends les voix, ibidem, 2011), Il muro dove volano gli uccelli, Diario doppio e Furto d’anima.
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Nota biobibliografica–Marco Ercolaniè nato a Genova nel 1954, dove vive e lavora come psichiatra. Scrive racconti fantastici e vite immaginarie e indaga il rapporto arte/follia. Tra i suoi libri di narrativa: Col favore delle tenebre (Coliseum, 1987), Vite dettate (Liber, 1994), Lezioni di eresia (Graphos, 1996), Sindarusa (Tabula fati, 1997), Il mese dopo l’ultimo (Graphos, 1999) Carte false (Hestia, 1999), Il demone accanto (L’Obliquo, 2002), Taala (Greco & Greco, 2004) e Il tempo di Perseo (Joker, 2004.) È autore di due volumi di critica poetica, Fuoricanto (Campanotto, 2000) e Vertigine e misura (La vita felice, 2008). Ha curato il volume collettivo Tra follia e salute: l’arte come evento (Graphos, 2002) e il convegno L’arte della follia (Genova, Biblioteca Berio, 2004.) Suoi testi sono pubblicati in Riga, Poesia, Il gallo silvestre, Ipsofacto, Nuova Corrente, Anterem, La clessidra, Nuova Prosa, La mosca di Milano, Ciminiera. È stato redattore di Fanes, rivista di cultura psicoanalitica, e di Arca. Quaderni di scrittura. Con Luisella Carretta ha ideato la collezione di arte e scrittura Scriptions. In coppia con Lucetta Frisa ha scritto L’atelier e altri racconti (Pirella, 1987), Nodi del cuore (Greco & Greco, 2000) e Anime strane (ibidem, 2006) e dirige per le edizioni Joker «I libri dell’Arca».
Louis GILLET-Gli Artisti francesi in Italia-Copia anastatica della Rivista PAN n°8 del 1934
Louis GILLET– Storico e critico d’arte francese, nato a Parigi l’11 dicembre 1876; ivi morto nel luglio 1943. Il suo primo saggio, intorno alla cattedrale di Chartres, orientò il suo gusto verso il Medioevo. I volumi giovanili su Nos Maîtres d’autrefois e Les primitifs français (1904) chiariscono la natura di una mentalità che si vale della erudizione positivistica ma sa trasfigurarla nell’emozione del bello e nelle relazioni della sensibilità. Gli studî successivi lo interessarono alla conoscenza dell’arte rinascimentale. Il Raphael, scritto durante un viaggio in Italia, è del 1907. Appena uscito dalla Normale fu lettore a Greifswald, poi docente alla Université Laval di Montréal. Altri viaggi in Italia gli consentirono di ammirare la pittura giottesca e fu spinto a scrivere l’Histoire artistique des Ordres Mendiants (1912), dove tracciò il quadro dell’influenza della spiritualità francescana dal Due al Seicento. Dell’anno appresso è l’Histoire de la Peinture Française du XVIIéme et XVIIIéme siècle, di grande perspicuità espositiva. Partecipò alla prima Guerra mondiale e la sua mente acuta di osservatore e di storico ne ricavò vivaci considerazioni raccolte in L’assaut repoussé (1919) e in La bataille de Verdun (1920). Gli studî su L’art flamand et la France erano apparsi mentre durava la guerra. La sua attività continuò intensamente con il libro su Watteau (1921), la redazione del vasto quadro di sintesi su l’Histoire des arts en France (1922) e La Peinture dans les Pays-Bas au XVIéme; XVIIéme et XVIIéme siècle e delle arti in America. Riprese gli studî francescani di cui sono frutto i due volumi su Saint-François d’Assise (1925) e Sur les pas de Saint-François d’Assise (1926); ampliò la precedente trattazione manualistica in La peinture française: Moyen-Age; Renaissance (1928); diede forma definitiva al saggio su La Cathédrale de Chartres (1929). In Cathédrales (1935) studiò le cattedrali di Reims, di San Giacomo di Compostella e ancora quelle di Chartres e di Assisi. La Cathédrale vivante (1936) è un’analisi che cerca di cogliere il senso intimo delle grandi chiese francesi. È stato redattore dal 1917, di letterature straniere alla Revue des deux mondes, e dal 1934 critico letterario all’Écho de Paris. Nel 1929 pubblicò la corrispondenza inedita tra Sainte-Beuve e de Vigny. Libri di viaggio e reportages politici sono Le tapis enchanté, Rome et Naples e Londres et Rome (1936). Collaborò anche, per la storia dell’arte francese, all’Enciclopedia Italiana. Accademico di Francia dal 25 novembre 1935.
Fonte-Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani
Santa Teresa d’Avila e la poesia mistica-Articolo di Antonio Tarallo
Santa Teresa d’Avila e la poesia mistica-Non solo una grande santa, dottore della Chiesa, ma anche una sublime poetessa-“Il poeta comincia dove finisce l’uomo”, così sentenziava il filosofo spagnolo José Ortega Y Gasset. Santa Teresa d’Avila Dottore della Chiesa, nella sua profonda esperienza mistica, si è servita anche della poesia, oltreppassando così con i suoi componimenti quel guado che divide l’uomo dall’infinito.
Eppure troppe volte sono stati dimenticati i suoi versi in cui è possibile trovare un vero e proprio scrigno di bellezza e di spiritualità. Al loro interno, infatti, è possibile persino scovare quella che sarà poi conosciuta comunemente la “trasverberazione del cuore”, una delle grazie mistiche di cui santa Teresa spiegherà nella sua Vita, l’autobiografia della santa: il dardo, la “freccia” dell’Amore di Dio colpisce il suo cuore, lo tramuta e lo sublima facendolo avvicinare al Cuore di Dio in nozze mistiche. Nozze che, in molte occasioni, sembrano essere celebrate dalla santa nei suoi componimenti poetici: santa Teresa ascende a Dio così come discende nelle profondità della poesia.
Sfogliando queste pagine poetiche, è possibile dividere la produzione in versi in tre determinati gruppi: prima di tutto troviamo le poesie mistiche nelle quali si respira tutta la spiritualità della santa; il secondo gruppo comprende le poesie che hanno come oggetto le feste liturgiche come il Natale, l’Epifania o l’Esaltazione della Croce; e, infine, il terzo gruppo, scritte – come lei stessa le definisce – con “stile di fratellanza e di ricreazione”: sono versi che celebrano avvenimenti interni alla comunità religiosa per allietare le consorelle della comunità monastica.
Tre diverse situazioni poetiche, ma con un elemento in comune ben preciso: la Bellezza. Santa Teresa è stata sempre affascinata – fin dalla fanciullezza – dalla bellezza artistica, nelle sue diverse espressioni, ma specialmente era attratta dall’arte pittorica e scultorea. Più volte, nel libro della sua Vita, si sofferma sul piacere che prova per l’armonia scaturita dalla musica del fruscio della campagna che la circonda. Più volte si sofferma sulle note di una canzone che ha ascoltato. E’ proprio questo, infondo, l’humus dell’anima da cui nasceranno i suoi versi, frammenti poi di una Bellezza ancora più vasta, quella del Signore. Un riassunto della sua visione poetica è possibile trovarlo in questi suoi versi che delineano, tratteggiano con efficacia il suo animo poetico dedicato a Dio: “Bellezza che trascendi/ ogni bellezza!/ Senza ferire, fate soffrire;/ senza dolore, voi fate morire”. Passare in rassegna tutte le poesie che ha composto santa Teresa sarebbe impresa alquanto ardua visto la molteplicità di temi affrontati. Cercheremo, allora, di fare una breve selezione.
Vivo sin vivir en mi (Vivo ma non vivo in me) è questo il nome di una delle poesie-canzoni più importanti della sua produzione. I versi racchiudono ossimori e altre figure retoriche assai care ai poeti, di ogni epoca: “Vivo ma non vivo in me/e attendo una tal vita/ da morirne se non muoio”.
E ancora “Questa divina prigione/ dell’amore in cui vivo,/ ha reso Dio, mio prigioniero/ e libero il mio cuore;/ e causa in me tanta passione/ da morirne se non muoio”. Del tutto particolare, rimane la seconda tipologia di produzione, quella legata alle feste liturgiche. Il loro maggior merito è quello di aver introdotto nei monasteri carmelitani il ricorso alla poesia come componente festiva della vita religiosa. Un tema fondamentale – e non poteva essere altrimenti – per l’ordine carmelitano è quello della Croce che santa Teresa canta in diversi componimenti da condividere con le proprie consorelle. E’ il caso di En la Cruz está la vida (Nella Croce risiede la vita), composta per le religiose del monastero di Soria, in occasione della festa dell’Esaltazione della Santa Croce: “Le religiose la cantano durante la processione che fanno in detto giorno per i corridoi del monastero, recandosi al luogo della sepoltura comune, sotto il coro inferiore. E’ una funzione commovente: si procede a croce alzata, e le religiose tengono in mano rami di palma e di olivo”, così si legge in un antico manoscritto.
I versi che santa Teresa compone per quest’occasione sono versi dal ritmo serrato, scandito da sillabe che vengono cadenzate in rima. Bisogna ricordare che questi componimenti vivevano poi dell’improvvisazione delle consorelle. Si può, dunque, solo immaginare l’effetto vero e proprio che potevano avere. Altra occasione, il Santo Natale: nei monasteri carmelitani si respirava un’aria di particolare gioia durante le feste natalizie; ogni comunità aveva le sue modalità di festeggiare e molte di queste sono state introdotte dalla stessa Santa Teresa e dall’altro poeta carmelitano, San Giovanni della Croce. E’ possibile trovare il tema della notte santa nelle seguenti poesie: Pastores que veláis (Pastori che vegliate), nel componimento Al nascimento de Jesús (Per la nascità di Gesù), e ancora nella graziosa canzone En la noche de Navidad (Nella notte di Natale).
L’entrata di una nuova sorella nel Carmelo era poi celebrata come una grande festa. Ed è così che nascono per queste occasioni speciali alcuni poemetti che riescono a offrirci una sorta di fotografia della vita nei monasteri del Carmelo: “Il leggiadro vostro velo/ dice a voi di stare in veglia/ di montar la sentinella, fino a che lo Sposo venga./ Nella vostra mano accesa/ sempre abbiate una candela;/ sotto il velo state in veglia”.
Santa Teresa, una voce poetica votata al Signore; un forziere di ricordi e immagini che andrebbe riscoperto perché la mistica passa anche per la poesia.
Articolo di Antonio Tarallo-Fonte ACI Stampa
Roma , martedì, 15. ottobre, 2024 16:00 (ACI Stampa).Articolo di Antonio Tarallo Santa Teresa d’Avila, una delle più affascinanti figure della Chiesa.Teresa d’Avila e le sue Opere: pagine di una profondità spirituale inaudita. Leggere le sue parole è come percorrere un viaggio verso Dio. Basterebbe leggere solo alcune righe della sua “Vita”, opera autobiografica della santa, per rendersi conto di quanto la santa mistica spagnola sia importante per comprendere la storia della Chiesa; di quanto sia preziosa la testimonianza dei Santi per il cammino di ogni fedele: “Chi ha come amico Cristo Gesù e segue un capitano così magnanimo come lui, può certo sopportare ogni cosa; Gesù infatti aiuta e dà forza, non viene mai meno ed ama sinceramente. Infatti ho sempre riconosciuto e tuttora vedo chiaramente che non possiamo piacere a Dio e da lui ricevere grandi grazie, se non per le mani della sacratissima umanità di Cristo, nella quale egli ha detto di compiacersi. Ne ho fatto molte volte l’esperienza, e me l’ha detto il Signore stesso”.
La “Vita” è un’opera fondamentale per entrare nella biografia della Santa d’Avila. I primi 5 capitoli esprimono l’intento fondamentale della Santa e narrano alcuni fatti salienti della sua vita. Il capitolo 6 è dedicato a San Giuseppe e alla devozione a lui rivolta. Bisogna ricordare che su 18 case che Teresa fonderà ben 12 le intitolerà a San Giuseppe. Nei capitoli 7,8,9 e 10 Teresa dà consigli preziosi a coloro che, progressivamente si danno all’orazione. Dal capitolo 11, la Santa accenna ai vari metodi per praticare l’orazione. E per poter meglio spiegarsi farà uso di molte similitudini. Da questo momento in poi, il testo assume l’aspetto di un trattato sull’orazione. Il capitolo 23 è la descrizioni delle immense esperienze mistiche avute nella sua vita. L’ultima parte del libro, infine, racconterà di come si può parlare di una “nuova vita” per la Santa dopo l’incontro intimo con il Signore.
Bisogna poi ricordare un altro testo fondamentale, il “Cammino di perfezione”, testo composto da quarantadue capitoli, che riesce a distillare tutta la sostanza dell’insegnamento teresiano: l’orazione; le virtù evangeliche; la Chiesa e Cristo. E’ un’alternanza di confidenze e consigli personali. E’ appunto un “cammino” al quale il lettore è invitato: l’autrice, lo guida, lo consiglia, lo esorta nella strada che porta alla perfezione.
Ma, sicuramente, il testo più famoso della Santa rimane “Il Castello interiore”. Il testo è un approfondimento dei due libri precedentemente redatti: è uno sviluppo ancor più intenso. Si ispira a un castello con sette stanze, come immagine dell’interiorità dell’uomo, introducendo il simbolo del baco da seta che rinasce farfalla. Nelle pagine, l’eco del “Cantico dei Cantici”, libro del Vecchio Testamento. Troviamo, infatti, una delle figure-immagini più care a Santa Teresa d’Avila (e a San Giovanni della Croce, anche lui Carmelitano): il simbolo dei “due Sposi”. Bellissima l’immagine dell’Amato (Cristo) e dell’amata (Santa Teresa) che si snoda in un dialogo amoroso. Grande importanza è data alle virtù evangeliche che per Santa Teresa d’Avila rappresentano la base, le fondamenta di tutta la vita cristiana e umana: il distacco dai beni terreni, ossia la povertà evangelica; la fraternità del mondo; l’umiltà come amore alla verità; la determinazione e la perseveranza come frutti del coraggio cristiano; la speranza che viene descritta come “sete di acqua viva”.
In tutto questo percorso è importante, ovviamente, la preghiera, l’orazione. Il fare silenzio dentro sé per poter esplorare le “sette stanze”dell’anima. Una preghiera che si amplia, si sviluppa con la crescita nella vita stessa. In sintesi, più si cresce nell’orazione, più si entra in sé stessi nel poter così dialogare con Dio e unisrsi spiritualmente con Lui.
Benedetto CROCE-Poesia popolare e Poesia d’arte- Studi sulla poesia italiana dal Tre al Cinquecento-Editore Laterza
Descrizione-Nell’indagine di Benedetto CROCE si distinguono e insieme e si affiancano una poesia che ritrae sentimenti semplici in corrispondenti semplici forme e una poesia che muove e sommuove in noi grandi masse di ricordi, di esperienze, di pensieri, di molteplici sentimenti e gradazioni e sfumatura di sentimenti. Fra i contributi raccolti: La poesia del Petrarca; Il Boccaccio e Franco Sacchetti; Fazio degli Uberti ed altri lirici del Trecento; Rime autobiografiche gnomiche-
Articolo scritto da Domenico BULFERETTI per la Rivista PEGASO n°5 del 1933 diretta da Ugo Ojetti
Benedetto CROCE-Poesia popolare e Poesia d’arte. Studi sulla poesia italiana dal Tre al Cinquecento-
Descrizione-
Nell’indagine crociana si distinguono e insieme e si affiancano una poesia che ritrae sentimenti semplici in corrispondenti semplici forme e una poesia che muove e sommuove in noi grandi masse di ricordi, di esperienze, di pensieri, di molteplici sentimenti e gradazioni e sfumatura di sentimenti. Fra i contributi raccolti: La poesia del Petrarca; Il Boccaccio e Franco Sacchetti; Fazio degli Uberti ed altri lirici del Trecento; Rime autobiografiche gnomiche-
Biografia di Benedetto Croce
Biografia di Benedetto Croce (Pescasseroli, 25 febbraio 1866 – Napoli, 20 novembre 1952) è stato un filosofo, storico, politico, critico letterario e scrittore italiano, principale ideologo del liberalismo novecentesco italiano ed esponente del neoidealismo.
Presentò il suo idealismo come «storicismo assoluto», giacché «la filosofia non può essere altro che “filosofia dello spirito” […] e la filosofia dello spirito non può essere altro che “pensiero storico”», ossia «pensiero che ha come contenuto la storia», che rifugge ogni metafisica, la quale è «filosofia di una realtà immutabile trascendente lo spirito». In funzione anti-positivistica, nella filosofia crociana, la scienza diventa la misuratrice della realtà, sottomessa alla filosofia, che invece comprende e spiega il reale.
Con Giovanni Gentile – dal quale lo separarono la concezione filosofica e la posizione politica nei confronti del fascismo dopo il delitto Matteotti – è considerato tra i maggiori protagonisti della cultura italiana ed europea della prima metà del XX secolo, in particolare dell’idealismo e del neoidealismo italiano che assieme a Gentile contribuì a fondare, partendo dall’aspra critica fatta al materialismo storico e alla filosofia di Marx in Materialismo storico ed economia marxista.
La dottrina crociana improntata alla storiografia ebbe grande influenza politica sulla cultura italiana; Croce, in particolare, con la sua “religione della libertà, è ricordato come guida morale dell’antifascismo”, tanto che fu anche proposto come Presidente della Repubblica italiana. Fu tra i fondatori del ricostituito Partito Liberale Italiano, insieme con Luigi Einaudi.
Alcune riserve sulla sua estetica, sulla critica letteraria (in particolare sulla sua definizione di «poesia») e sulla superiorità attribuita alla filosofia rispetto alle scienze nell’ambito della logica, tuttavia, sono state espresse in tempi successivi.
D’altra parte, il pensiero di Croce, specialmente quello politico, ha goduto di apprezzamenti più recenti e di una “riscoperta” anche al di fuori dell’Italia, in Europa e nel mondo anglosassone (specialmente gli Stati Uniti d’America), dov’è riconosciuto, al pari di pensatori come Karl Popper, come uno dei più eminenti teorici del liberalismo europeo e un autorevole oppositore di ogni totalitarismo. Il liberalismo politico crociano distinto dal liberismo economico fu causa di disaccordo con un altro importante esponente del liberalismo italiano come Luigi Einaudi.
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