Descrizione del libro di Han Kang “La vegetariana”-«Ho fatto un sogno» dice Yeong-hye, e da quel sogno di sangue e di boschi scuri nasce il suo rifiuto radicale di mangiare, cucinare e servire carne, che la famiglia accoglie dapprima con costernazione e poi con fastidio e rabbia crescenti. È il primo stadio di un distacco in tre atti, un percorso di trascendenza distruttiva che infetta anche coloro che sono vicini alla protagonista, e dalle convenzioni si allarga al desiderio, per abbracciare infine l’ideale di un’estatica dissoluzione nell’indifferenza vegetale. La scrittura cristallina di Han Kang esplora la conturbante bellezza delle forme di rinuncia più estreme, accompagnando il lettore fra i crepacci che si aprono nell’ordinario quando si inceppa il principio di realtà – proprio come avviene nei sogni più pericolosi.
Figlia dello scrittore Han Seung-won[2], è nata a Gwangju il 27 novembre 1970. Dopo gli studi all’Università Yonsei di Seul (letteratura coreana)[3], esordisce pubblicando una serie di cinque poesie nella rivista coreana Letteratura e società[4] nel 1993.[5] L’anno successivo esce il suo primo romanzo[6] al quale ne seguiranno altri cinque. Dal 2013 insegna scrittura creativa al Seoul Institute of the Arts[7].
Il 25 maggio 2019 ha consegnato un suo manoscritto inedito intitolato Dear Son, My Beloved alla Biblioteca del futuro, un progetto artistico culturale ideato da Katie Paterson. Così come le altre opere di questa biblioteca anche il libro di Han verrà pubblicato e reso disponibile solo nel 2114, cento anni dopo l’avvio dell’iniziativa.[10]
Il 10 ottobre 2024 viene insignita del Premio Nobel per la letteratura, con la seguente motivazione: “per la sua intensa prosa poetica che affronta i traumi storici ed espone la fragilità della vita umana”[11][12], divenendo il primo rappresentante del suo Paese a vincere un Nobel in questa categoria[13].
사랑과, 사랑을 둘러싼 것들 (letteralmente L’amore e le cose che circondano l’amore), 2003.
가만가만 부르는 노래 (letteralmente Una canzone cantata sottovoce), Bichae, 2007. ISBN 9788992036276 Il libro include un CD musicale di 10 brani in veste di autrice e cantante di canzoni.[15]
Poesie di Achmatova Andreevna Anna- Poetessa russa
Anna Andreevna Achmatova, pseudonimo di Anna Andreevna Gorenko (Bol’soj Fontan, 23 giugno 1889 – Mosca, 5 marzo 1966), è stata una poeta russa; non amava l’appellativo di poetessa, perciò preferiva farsi definire poeta, al maschile.
È flebile la mia voce
È flebile la mia voce, ma non s’affievolisce la volontà.
Sono perfino alleggerita senza amore.
È alto il cielo, spira un vento montano,
e sono casti i miei pensieri.
L’insonnia-infermiera è andata da altri, non languisco sulla grigia cenere,
e la lancetta curva sull’ orologio della torre non mi pare una stele mortale.
Così il passato perde potere sul cuore.
La liberazione è vicina. Io perdono tutto,
seguendo il raggio che di corsa sale e scende sull’umida edera di primavera.
note: (1912) traduzione di Paolo Galvagni
A molti
Io sono la vostra voce, il calore del vostro fiato,
il riflesso del vostro volto,
i vani palpiti di vane ali…
fa lo stesso, sino alla fine io sto con voi.
Ecco perché amate così cúpidi
me, nel mio peccato e nel mio male,
perché affidaste a me ciecamente
il migliore dei vostri figli;
perché nemmeno chiedeste di lui,
mai, e la mia casa vuota per sempre
velaste di fumose lodi.
E dicono: non ci si può fondere più strettamente,
non si può amare più perdutamente…
Come vuole l’ombra staccarsi dal corpo,
come vuole la carne separarsi dall’anima,
così io adesso voglio essere scordata.
da “Anno Domini” (1922)
C’è nell’intimità degli uomini un confine-
C’è nell’intimità degli uomini un confine
che né l’amore, né la passione possono osare:
le labbra si fondono nel terribile silenzio
e il cuore si spezza per amore.
Anche l’amicizia qui è impotente, e gli anni
pieni di felicità alta infiammata,
quando l’anima è libera e distratta
dal lento languore della voluttà.
Pazzo è colui che vi si appresta,
raggiungerlo è morire d’angoscia…
Ora puoi capire perché non batte
il mio cuore sotto la tua mano.
San Pietroburgo, maggio 1915, tratta da ” Stormo Bianco”
Ultimo brindisi
Bevo a una casa distrutta,
alla mia vita sciagurata,
a solitudini vissute in due
e bevo anche a te:
all’inganno di labbra che tradirono,
al morto gelo dei tuoi occhi,
ad un mondo crudele e rozzo,
ad un Dio che non ci ha salvato.
traduzione di Michele Colucci tratta da “Il giunco” (1934)
La musa
Quando la notte attendo il suo arrivo,
la vita sembra sia appesa a un filo.
Che cosa sono onori, libertà, giovinezza
di fronte all’ospite dolce
col flauto nella mano? Ed ecco è entrata.
Levato il velo, mi guarda attentamente.
Le chiedo: “Dettasti a Dante tu
le pagine dell’Inferno?” Risponde: “Io”.
Il salice
Io crebbi in un silenzio arabescato,
in un’ariosa stanza del nuovo secolo.
Non mi era cara la voce dell’uomo
ma comprendevo quella del vento.
Amavo la lappola e l’ortica,
e più di ogni altro un salice d’argento.
Riconoscente, lui visse con me
la vita intera, alitando di sogni
con i rami piangenti la mia insonnia.
Strana cosa, ora gli sopravvivo.
Lì sporge il ceppo, e con voci estranee
parlano di qualcosa gli altri salici
sotto quel cielo, sotto il nostro cielo.
Io taccio….come se fosse morto un fratello.
Tratta da “Il salice” (1940)
Notte del ventuno. Lunedì.
Notte del ventuno. Lunedì.
La città è immersa nel buio.
Un qualche burlone ha scritto
che c’è amore sulla terra.
E per pigrizia o per tristezza
tutti ci hanno creduto. E così vivono:
anelano incontri, temono i distacchi,
cantano amorose canzoni.
Ma diverso si rivela il mistero
e il silenzio calerà su ognuno…
Anch’io mi ci sono imbattuta per caso
e d’allora sono sempre come ammalata.
tratta da “Requiem”
Non ho chiuso le tendine
Non ho chiuso le tendine,
guarda dritto nella stanza.
Perché non puoi fuggire
oggi sono così allegra.
Dimmi pure svergognata,
scagliami i tuoi sarcasmi:
sono stata la tua insonnia,
la tua angoscia sono stata.
(1916)
Ogni giorno
Ogni giorno reca con sé
un’ora torbida e tesa.
Parlo con la mia pena a voce alta,
senza aprire gli occhi assonnati.
Ed essa batte come il sangue,
riscalda come il respiro,
come l’amore felice
è giudiziosa e cattiva.
da “La corsa del tempo”, (1917)
Nè mistero nè dolore
Né mistero né dolore
né volontà sapiente del destino:
sempre quell’incontrarci ci lasciava
l’impressione di una lotta.
Ed io, indovinato dal mattino
l’attimo del tuo arrivo,
percepivo nei palmi socchiusi
il morso leggero di un tremito.
Con dita arse sgualcivo
la variopinta tovaglia del tavolo…
Capivo fin da allora
quanto è angusta questa terra.
C’è in me un ricordo
C’è in me un ricordo come un sasso
che biancheggia nel fondo del pozzo.
Né più voglio e non posso lottare:
quel sasso è il dolore,
quel sasso è l’amore.
Se guardi da vicino i miei occhi
subito lo scorgi: ti fai grave e pensoso
come per un triste racconto.
Sento che gli dei han mutato
gli uomini in cose, senza uccidere
la loro imprevidenza, affinché vivano
eterni stupendi dolori. Tu sei diventato
il mio ricordo.
Strinsi le mani sotto il velo oscuro
Strinsi le mani sotto il velo oscuro…
“Perché oggi sei pallida?”
Perché d’agra tristezza
l’ho abbeverato sino ad ubriacarlo.
Come dimenticare? Uscì vacillando,
sulla bocca una smorfia di dolore…
Corsi senza sfiorare la ringhiera,
corsi dietro di lui sino al portone.
Soffocando, gridai: “E’ stato tutto
uno scherzo. Muoio se te ne vai”.
Lui sorrise calmo, crudele
e mi disse: “Non startene al vento”.
da “Sera” (1911)
La corsa del tempo
Ogni giorno reca con sé
un’ora torbida e tesa.
Parlo con la mia pena a voce alta,
senza aprire gli occhi assonnati.
Ed essa batte come il sangue,
riscalda come il respiro,
come l’amore felice
è giudiziosa e cattiva.
“La corsa del tempo” (1917)
Ah, tu pensavi che anch’io fossi una
Ah, tu pensavi che anch’io fossi una
che si possa dimenticare
e che si butti, pregando e piangendo,
sotto gli zoccoli di un baio.
O prenda a chiedere alle maghe
radichette nell’acqua incantata,
e ti invii il regalo terribile
di un fazzoletto odoroso e fatale.
Sii maledetto. Non sfiorerò con gemiti
o sguardi l’anima dannata,
ma ti giuro sul paradiso,
sull’icona miracolosa
e sull’ebbrezza delle nostre notti ardenti:
mai più tornerò da te.
“Anno domini” (1921)
Non è il tuo amore
Non è il tuo amore che domando.
Si trova adesso in un luogo conveniente.
Stanne pur certo, lettere gelose
non scriverò alla tua fidanzata.
Però accetta dei saggi consigli:
dalle da leggere i miei versi,
dalle da custodire i miei ritratti,
sono così cortesi i fidanzati!
E conta più per queste scioccherelle
assaporare a fondo una vittoria
che luminose parole di amicizia,
e il ricordo dei primi, dolci giorni…
Ma allorché con la diletta amica
avrai vissuto spiccioli di gioia
e all’anima già sazia d’improvviso
tutto parrà un peso,
non accostarti alla mia notte trionfale.
Non ti conosco.
E in cosa potrei esserti d’aiuto?
Dalla felicità io non guarisco.
traduzione di Michele Colucci
Le rose di Modigliani
Non berremo dallo stesso bicchiere
l’acqua o il dolce vino,
al mattino non ci daremo baci,
e a sera non guarderemo dalla finestra.
Tu il sole respiri,
io la luna,
ma siamo vivi dello stesso amore.
Con te è sempre la tua gaia compagna,
con me il fedele,
mio tenero amico,
ma vedo lo sgomento di grigi occhi,
e del mio male sei colpevole tu.
Lasciamo radi i nostri brevi incontri.
Così ci è serbata la pace dalla sorte.
La tua voce soltanto canta nei miei versi,
in quelli tuoi spira il mio respiro.
Oh, esiste un fuoco che non osa
toccare né oblio né paura…
e se sapessi come mi son care
ora le tue rosse, aride labbra.
Le rose di Modigliani / Anna Achmatova ; a cura di Eridano Bazzarelli. – Milano : Il saggiatore, 1982.
Anna Andreevna Achmatova, pseudonimo di Anna Andreevna Gorenko (Bol’soj Fontan, 23 giugno 1889 – Mosca, 5 marzo 1966), è stata una poeta russa; non amava l’appellativo di poetessa, perciò preferiva farsi definire poeta, al maschile.
Eugenio Montale è stato uno tra i più importanti poeti del Novecento –
Eugenio Montale è stato uno tra i più importanti poeti del Novecento, capace di interpretare la crisi dell’uomo contemporaneo, avendo vissuto in prima persona le esperienze delle due guerre e la dittatura fascista.
Nelle sue opere ha cantato il male di vivere e la fine delle speranze, delle illusioni, ricollegandosi alla poetica di Giacomo Leopardi, senza avere certezze o verità assolute, ma impegnandosi sempre nel cercare una ragione e un significato, un valore individuale e collettivo per cui la sofferenza possa essere vinta. Quello di Montale è dunque un pessimismo attivo che si pone delle domande sul senso della vita, per cercare di intravedere la verità, in una posizione capace di stare nella disperazione, nella nostalgia di una serenità perduta, tipica del Leopardi, al fine di comprendere meglio la realtà.
La poesia che apre la sua prima, celebre raccolta, intitolata Ossi di seppia è una vera e propria dichiarazione di poetica in cui l’autore si rivolge al lettore invitandolo a meditare sulla crisi di certezze dell’uomo contemporaneo, che spesso cade nell’inganno di poter trovare una formula risolutiva o una spiegazione sicura alle sue inquietudini, alle vicende della storia. Il poeta è colui che sa di non avere certezze e che può soltanto esprimere “ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”, cioè l’impossibilità stessa di avere una qualche risposta.
Non chiederci la parola che squadri da ogni lato l’animo nostro informe, e a lettere di fuoco lo dichiari e risplenda come un croco Perduto in mezzo a un polveroso prato.
Ah l’uomo che se ne va sicuro, agli altri ed a se stesso amico, e l’ombra sua non cura che la canicola stampa sopra uno scalcinato muro!
Non domandarci la formula che mondi possa aprirti sì qualche storta sillaba e secca come un ramo. Codesto solo oggi possiamo dirti, ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.
Sempre della stessa raccolta, I limoni è un’altra dichiarazione di poetica da parte di Montale che nei primi versi prende le distanze dai “poeti laureati”, come Giosuè Carducci, Giovanni Pascoli e Gabriele d’Annunzio, che “si muovono soltanto fra le piante dai nomi poco usati”; egli, invece, ama il linguaggio comune e familiare, assumendo l’umile pianta dei limoni come simbolo della sua poesia che qui richiama lo stile crepuscolare. La tipica figura dannunziana del poeta vate è quindi ben lontana dalla visione di Montale, nonostante consideri d’Annunzio un autore con il quale è necessario confrontarsi per ogni letterato.
Il compito di Montale sarà quello di andare oltre le apparenze, le costruzioni artificiose dei versi, indagando la condizione esistenziale dell’uomo moderno, seguendo l’esempio di autori come Luigi Pirandello e Italo Svevo. Proprio quest’ultimo venne scoperto e amato da Montale quando era ancora ignorato in Italia dai critici. Nel 1925 pubblicò sulla rivista mensile L’esame l’articolo Omaggio a Italo Svevo, in cui sottolinea l’importanza e l’originalità del capolavoro La coscienza di Zeno. Montale ebbe inoltre il merito di essere uno dei primi estimatori, ad oggi il più autorevole, del poeta Dino Campana.
Nato a Genova nel 1896, trascorse sin dall’infanzia le vacanze estive a Monterosso, nelle Cinque Terre, nella villa costruita dal padre. Il paesaggio marino avrà un ruolo decisivo nella raccolta Ossi di seppia. Diplomatosi ragioniere, mostrò però sin da subito interessi nella lettura e nella musica. Seguì allora i consigli della sorella Marianna, iscritta a Lettere e Filosofia e si formò da autodidatta, in particolare su Dante, Petrarca, Boccaccio e d’Annunzio.
Dopo aver partecipato alla Prima guerra mondiale, nel 1922 uscirono le sue prime poesie in una raccolta dal titolo Accordi, che mostra il suo interesse musicale. Il giovane Montale cercò nella letteratura il riscatto da una vita minacciata da un senso di fallimento e di inettitudine. Apprezzò subito il Simbolismo francese, soprattutto Paul Verlaine e Charles Baudelaire; evidenti nelle poesie di Accordi sono i tentativi di scrivere una poesia che sia soprattutto musica, sull’esempio di Verlaine, e la ricerca di corrispondenze tra uomo e natura, tipico della poetica di Baudelaire.
Due sono le figure femminili decisive in questi anni: Anna degli Uberti, cantata con il nome di Arletta o Annetta nelle sue poesie, e Paola Nicoli. Saranno diverse le muse ispiratrici del poeta.
Il 1925 è l’anno di uscita della sua prima raccolta, Ossi di seppia appunto, mentre a livello politico si schiera in opposizione al regime di Benito Mussolini.
Due anni dopo si trasferì a Firenze, dove entrò in contatto con i maggiori intellettuali dell’epoca, tra cui Carlo Emilio Gadda e soprattutto Umberto Saba, iniziando a collaborare con la rivista Solaria. Fondamentale in questo periodo è la figura di Irma Brandeis, giovane studentessa americana giunta a Firenze per studiare Dante. Saranno a lei dedicate Le occasioni, la seconda raccolta dell’autore, edita nel 1939 da Einaudi. La relazione con Irma durò fino al 1938, quando la donna, di origine ebraica, dovette lasciare l’Italia a seguito della promulgazione delle leggi razziali.
Dal 1939 Montale vivrà con Drusilla Tanzi, detta Mosca, con cui si unirà in matrimonio nel 1962. Insieme si trasferirono nel 1948 a Milano, dove il poeta venne assunto dal Corriere della Sera. Milano è in questi anni la capitale industriale di un’Italia in cambiamento, che negli anni cinquanta conobbe il cosiddetto “boom” economico.
A livello sentimentale, tra i molti incontri di questi anni fu decisivo quello con la giovane poetessa Maria Luisa Spaziani, detta Volpe nel terzo libro intitolato La bufera e altro, uscito nel 1956. La raccolta, più varia rispetto le precedenti, allude allo sconvolgimento causato dalla guerra; Montale manifesta la propria sfiducia nella storia e l’impossibilità di portare avanti qualsiasi impegno politico. Nelle poesie domina ancora la presenza di Irma Brandeis, che diviene la figura mitologica di Clizia, l’amante di Apollo, donna angelicata portatrice di salvezza, sorta di Beatrice moderna. Dall’altra parte vi è anche la figura carnale di Volpe, espressione di un amore sensuale e concreto, lontano da quello ideale rappresentato da Clizia.
Comincia poi un lungo periodo di silenzio poetico interrotto solo nel 1964 con la morte della moglie Drusilla, a cui dedica una bellissima poesia, Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale. Nominato senatore a vita nel 1967, Montale ricevette il Premio Nobel per la letteratura nel 1975, succedendo così a Pirandello, che lo aveva ricevuto nel 1934 e Salvatore Quasimodo, nel 1959.
Si spense a Milano nel 1981 presso la clinica San Pio X dove era ricoverato. I funerali di Stato furono celebrati due giorni dopo in Duomo, venendo poi sepolto a Firenze vicino alla moglie.
Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino. Anche così è stato breve il nostro lungo viaggio. Il mio dura tuttora, né più mi occorrono le coincidenze, le prenotazioni, le trappole, gli scorni di chi crede che la realtà sia quella che si vede.
Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio non già perché con quattr’occhi forse si vede di più. Con te le ho scese perché sapevo che di noi due le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate, erano le tue.
Ossi di seppia
Il titolo della prima raccolta di Montale è ripreso da un’immagine presente nell’Alcyone di d’Annunzio e può assumere un duplice significato. Il primo è quello della leggerezza dell’osso di seppia che galleggia sulla superficie del mare abbandonandosi al flusso delle correnti; il secondo è quello della morte e dell’abbandono, da cui si ricava la metafora di una soggettività alla deriva. Le simbologie marine, presenti in quasi tutti i testi, costituiscono il motivo unificante dell’opera.
Il paesaggio è dunque fondamentale nei versi di Montale, un paesaggio i cui tratti distintivi sono le coste brulle e scoscese, una vegetazione scarsa e arsa dal sole, orti e prati polverosi. La simbologia del paesaggio è molto importante in quanto esprime i temi principali del poeta, cioè la difficoltà dell’esistere e il male di vivere. Per esempio l’immagine ricorrente del muro, alto e invalicabile, come nella poesia Meriggiare pallido e assorto, che in cima ha cocci di bottiglia appuntiti, è l’emblema della finitezza dell’uomo, del suo destino segnato dalla sofferenza e dall’impossibilità di andare oltre. Si parla in questo caso di correlativo oggettivo, cioè l’associazione di una precisa emozione ad un singolo oggetto, un’esperienza concreta che evoca subito una sensazione dell’animo.
Meriggiare pallido e assorto presso un rovente muro d’orto, ascoltare tra i pruni e gli sterpi schiocchi di merli, frusci di serpi.
Nelle crepe dei suolo o su la veccia spiar le file di rosse formiche ch’ora si rompono ed ora s’intrecciano a sommo di minuscole biche.
Osservare tra frondi il palpitare lontano di scaglie di mare mentre si levano tremuli scricchi di cicale dai calvi picchi.
E andando nel sole che abbaglia sentire con triste meraviglia com’è tutta la vita e il suo travaglio in questo seguitare una muraglia che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia.
Il componimento è tra i più antichi del libro, in quanto l’autore lo ha datato 1916, anche se lo ha corretto e modificato nel 1922. Come spesso accade nella raccolta ad una prima parte descrittiva segue la seconda, conclusiva, di tipo filosofico ed esistenziale. Il paesaggio è quello ligure estivo, brullo e assolato, che presenta oggetti e animali semplici come muri, orti, cicale e formiche. Vi sono molti riferimenti a grandi poeti e ad alcuni topoi letterari. Il verbo “Meriggiare” si ritrova in d’Annunzio e assume il significato di “trascorrere il mezzogiorno”; le rime “sterpi : serpi” e “formiche : biche” sono presenti nella cantica dell’Inferno di Dante; la lingua poetica rimanda a quella di Pascoli e dei crepuscolari; infine il muro vede come illustre precedente la siepe leopardiana de L’infinito. Se però in Leopardi la siepe è un elemento positivo perché, ostruendo lo sguardo, attiva la facoltà di immaginazione, qui è una dura realtà che fa riflettere il poeta sulla propria condizione.
Nella lirica Spesso il male di vivere ho incontrato viene affrontato il tema del male di vivere, in un modo simile a Non chiederci la parola, il primo testo della raccolta, in quanto anche qui il poeta non può fare altro che riportare i fatti che avvengono nella propria vita, con un linguaggio scarno ed essenziale, senza offrire nessuna soluzione esistenziale definitiva. Il sentimento del male di vivere è rappresentato da tre immagini: il “rivo strozzato”, cioè il ruscello impedito nel suo scorrere; la “foglia riarsa”, secca e accartocciata; il “cavallo stramazzato”, crollato a terra per la fatica. Ad esse ne vengono contrapposte altrettante nella seconda quartina: la “statua”, la “nuvola” e il “falco”. Quest’ultime tre, al contrario delle precedenti legate alla terra, raffigurano una dimensione verticale e una tensione verso l’alto in quello che nella poesia è una climax ascendente.
Spesso il male di vivere ho incontrato: era il rivo strozzato che gorgoglia, era l’incartocciarsi della foglia riarsa, era il cavallo stramazzato.
Bene non seppi, fuori del prodigio che schiude la divina Indifferenza: era la statua nella sonnolenza del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato.
Le occasioni
Il secondo libro di Montale è stato composto durante il clima politico del fascismo, divenuto regime. Per quegli scrittori non allineati alle scelte di Mussolini non restava che ritirarsi in una “cittadella delle lettere”, per questo l’opera nacque a Firenze, un tempo culla del Rinascimento e ora vivace centro intellettuale che guardava alla tradizione e ai valori umanistici, sede di riviste come Solaria e Letteratura. Il rifiuto e la presa di distanza dal regime si manifestano sul piano dello stile, più selezionato rispetto alla prima raccolta, e della metrica, più raffinata e priva di sperimentalismo, capace di valorizzare metri più tradizionali come l’endecasillabo. Le occasioni sono eventi particolarmente importanti, rivelazioni che possono cambiare il corso monotono dell’esistenza.
L’opera è dedicata a “I.B.”, sigla con cui indica la giovane studentessa Irma Brandeis con cui fu legato da una relazione amorosa soprattutto epistolare. Molti componimenti, tra i quali Lo sai: debbo riperderti e non posso, si alternano tra l’assenza e la presenza dell’amata, che in questo libro non viene ancora nominata, mentre nella Bufera sarà cantata col nome di Clizia.
Lo sai: debbo riperderti e non posso. Come un tiro aggiustato mi sommuove ogni opera, ogni grido e anche lo spiro salino che straripa dai moli e fa l’oscura primavera di Sottoripa.
Paese di ferrame e alberature a selva nella polvere del vespro. Un ronzìo lungo viene dall’aperto, strazia com’unghia i vetri. Cerco il segno smarrito, il pegno solo ch’ebbi in grazia da te. E l’Inferno è certo.
In alcune lettere ad Irma, Montale dichiara che il componimento è ispirato alla partenza della donna dal porto di Genova per fare ritorno negli Stati Uniti. L’ambientazione è infatti quella portuale, in particolare dei grandi e ombrosi portici di Sottoripa, vicini al mare, le cui arcate chiuse impediscono che entri la luce della primavera. Montale rappresenta la città come un inferno di voci e rumori, facendo riferimento a Dante: le grida del porto richiamano quelle dei dannati nel Canto III; la “selva” del v.8 è invece la celebre “selva oscura” del canto d’apertura. Questo scenario diviene l’unica realtà possibile se manca colei che, sola, può dare significato alla vita del poeta.
Molto poetico è l’incipit del componimento Non recidere, forbice, quel volto, in cui l’autore si rivolge al tempo supplicandolo di non cancellare dalla sua memoria anche il ricordo più importante, quello del viso dell’amata. La forbice è in questo caso il correlativo oggettivo del tempo inesorabile. Nella seconda quartina questa perdita si consuma; la dolorosa esperienza viene descritta con un’immagine realistica, cioè il colpo deciso di potatura che recide un ramo di acacia da cui cade, il guscio vuoto di una cicala. In questi versi è importante l’arrivo improvviso del freddo, il quale spazza via la bella stagione, anch’essa caduta nel primo fango d’autunno, nella “belletta”, termine dantesco e dannunziano.
Non recidere, forbice, quel volto, solo nella memoria che si sfolla, non far del grande suo viso in ascolto la mia nebbia di sempre.
Un freddo cala… Duro il colpo svetta. E l’acacia ferita da sé scrolla il guscio di cicala nella prima belletta di Novembre.
Il tema della memoria e del ricordo, già caro al Leopardi, è espresso dal componimento, datato 1930, La casa dei doganieri. La poesia è costituita da quattro strofe con alternanza di cinque e sei versi che hanno in prevalenza endecasillabi. Il poeta e l’amata hanno vissuto un momento di vita vera e autentica presso la casa dei doganieri, ma i loro destini sono ora separati: il poeta vive ancora, mentre la donna è perduta e forse morta. Lui è però rimasto legato al ricordo di quel momento e del luogo dell’incontro; lei lo ha invece dimenticato.
Oltre al ricordo, anche il tema della giovane morta prematuramente è ripreso da Leopardi, nella celebre A Silvia. Nonostante siano simili, i due testi presentano però delle differenze. La lirica leopardiana espone nell’incipit una domanda che introduce una comunione di affetti con l’interlocutrice, “Silvia, rimembri ancora quel tempo della tua vita mortale?”, mentre per Montale la comunicazione è negata sin da subito, “Tu non ricordi la casa dei doganieri”. Non vi è quindi alcuna speranza nell’animo di Montale, sebbene non ci dica con certezza che la donna è morta, forse è assente perché perduta, mentre Silvia è una povera ragazza stroncata dalla morte che Leopardi ricorda con toni d’affetto.
Montale rievoca dunque un incontro con l’amata mentre si trova da solo una sera nello stesso luogo che ne era stato lo scenario anni prima, cioè la vecchia stazione dei finanzieri a picco sul mare nei pressi di Monterosso. È quindi probabilmente un ricordo della sua giovinezza e la figura femminile quella di Anna degli Uberti, Arletta. La rievocazione di quel momento non è in grado però di conservarne viva la memoria. L’idea di memoria è debole e incerta nella poetica di Montale. La poesia non può rendere eterno l’istante, l’attimo privilegiato, ma solo esprimerne la precarietà, come nel componimento precedente.
Tu non ricordi la casa dei doganieri sul rialzo a strapiombo sulla scogliera: desolata t’attende dalla sera in cui v’entrò lo sciame dei tuoi pensieri e vi sostò irrequieto.
Libeccio sferza da anni le vecchie mura e il suono del tuo riso non è più lieto: la bussola va impazzita all’avventura. e il calcolo dei dadi più non torna Tu non ricordi; altro tempo frastorna la tua memoria; un filo s’addipana.
Ne tengo ancora un capo; ma s’allontana la casa e in cima al tetto la banderuola affumicata gira senza pietà. Ne tengo un capo; ma tu resti sola né qui respiri nell’oscurità.
Oh l’orizzonte in fuga, dove s’accende rara la luce della petroliera! Il varco è qui? (Ripullula il frangente ancora sulla balza che scoscende …) Tu non ricordi la casa di questa mia sera. Ed io non so chi va e chi resta.
La bufera e altro
Il titolo della raccolta, inizialmente La bufera, uscita nel 1956, venne parzialmente cambiato l’anno successivo da Mondadori in La bufera e altro. Esso allude allo sconvolgimento causato dalla guerra. Gli anni di composizione dell’opera vanno dal 1940 al 1954 e corrispondono ai momenti più drammatici vissuti dall’autore, sia sul piano pubblico che su quello privato. Oltre alla guerra si parla infatti nelle poesie anche dei lutti della madre, della lontananza di Clizia e della malattia di Mosca. A seguito della guerra vi sono poi gli anni della delusione politica: Montale manifesta una totale sfiducia nella storia e dichiara l’impossibilità per lui di portare avanti qualsiasi impegno politico. Per questi motivi la simbologia degli oggetti, tipica dei suoi versi, diviene oscura e indecifrabile.
Questa terza raccolta è il libro più vario e complesso dello scrittore, costituito da sette sezioni, che presenta un andamento romanzesco, Romanzo era stato infatti uno dei titoli alternativi.
La poesia A mia madre è una sorta di preghiera laica composta alla fine del 1942 in occasione della morte della madre e pubblicata nel 1943 prima di entrare a far parte del libro. Nel Novecento il tema della preghiera alla figura materna rappresenta un vero e proprio topos letterario che aveva i suoi precedenti in Umberto Saba e nel capolavoro di Giuseppe UngarettiAlla madre. Si ritroverà in seguito anche in Pier Paolo Pasolini e Giorgio Caproni. In Montale, grazie al ricordo di chi se ne va da parte di chi resta, alla memoria dei gesti, la madre rimarrà sempre tra i vivi.
Ora che il coro delle coturnici ti blandisce nel sonno eterno, rotta felice schiera in fuga verso i clivi vendemmiati del Mesco, or che la lotta dei viventi più infuria, se tu cedi come un’ombra la spoglia (e non è un’ombra, o gentile, non è ciò che tu credi) chi ti proteggerà? La strada sgombra non è una via, solo due mani, un volto, quelle mani, quel volto, il gesto d’una vita che non è un’altra ma se stessa, solo questo ti pone nell’eliso folto d’anime e voci in cui tu vivi;
e la domanda che tu lasci è anch’essa un gesto tuo, all’ombra delle croci.
Biografia di Eugenio Montale, Poeta italiano (Genova 1896 – Milano 1981). Tra i massimi poeti italiani del Novecento, già dalla prima raccolta (Ossi di seppia, 1925; ed. defin. 1931) fissò i termini di una poetica del negativo in cui il “male di vivere” si esprime attraverso la corrosione dell’Io lirico tradizionale e del suo linguaggio. Questa poetica viene approfondita nelle Occasioni (1939), dove alla riflessione sul male di vivere subentra una ‘poetica dell’oggetto’: il poeta concentra la sua attenzione su oggetti e immagini nitide e ben definite che spesso provengono dal ricordo, tanto da presentarsi come rivelazioni momentanee destinate a svanire. M. ricercò una densità e un’evidenza simbolica del linguaggio, portando a perfezione lo stile alto novecentesco, dove i termini rari o preziosi si adeguano a esprimere l’irripetibile singolarità dell’esperienza.
Vita e opere
Dopo aver seguito studi tecnici, si dedicò per alcuni anni allo studio del canto. Chiamato alle armi (1917-19), prese parte alla prima guerra mondiale come sottotenente di fanteria. Legato ai circoli intellettuali genovesi, dal 1920 ebbe rapporti anche con l’ambiente torinese, collaborando al Baretti di P. Gobetti. Trasferitosi a Firenze (1927), dove frequentò il caffè delle Giubbe Rosse e fu vicino agli intellettuali di Solaria, dal 1929 fu direttore del Gabinetto scientifico-letterario Vieusseux, incarico da cui fu rimosso nel 1938 perché non iscritto al Partito fascista (nel 1925 aveva aderito al Manifesto degli intellettuali antifascisti di B. Croce). Svolse allora un’intensa attività di traduttore, soprattutto dall’inglese (da ricordare il suo contributo all’antologia Americana di E. Vittorini, 1942). Iscritto per breve tempo al Partito d’azione, collaborò con Bonsanti alla fondazione del quindicinale Il Mondo di Firenze (1945-46). Nel 1948 si trasferì a Milano come redattore del Corriere della sera, occupandosi specialmente di critica letteraria (e di quella musicale sul Corriere d’informazione). Importanti riconoscimenti gli giunsero con la nomina a senatore a vita (1967) e il premio Nobel per la letteratura (1975).
Con la sua prima raccolta di poesie (la già citata Ossi di seppia, pubblicata a Torino da Gobetti,) M. fissò i termini, che sarebbero divenuti popolari, di una filosofia scettica e pessimista in cui il “male di vivere” discende infallibilmente dalla inaccessibilità di ogni trascendenza. Nelle due raccolte successive che probabilmente costituiscono il risultato più alto della poesia di M. (Le occasioni, il cui primo nucleo è costituito da La casa dei doganieri e altri versi, 1932; La bufera e altro, 1956, che include anche i versi di Finisterre, 1943), a un approfondirsi della crisi personale, cui non furono estranei i drammatici avvenimenti dell’epoca, corrispondeva la ricerca di una densità simbolica e di un’evidenza nuove del linguaggio, con la rinuncia a quanto di impressionistico e ingenuamente comunicativo sopravviveva negli Ossi (nei loro modi di ascendenza pascoliana-crepuscolare, e vociana-ligure secondo la linea Sbarbaro-Roccatagliata Ceccardi) e con il coraggioso riconoscimento della inevitabile parzialità della rappresentazione e della inaccessibile privatezza dei referenti.
Prendeva forma così quella peculiare interpretazione montaliana della lezione simbolista (per la quale si è parlato di “correlativo oggettivo” e il suo nome è stato accostato a quello di Th. S. Eliot), che è altresì all’origine dello stile illustre novecentesco proprio da M. portato a perfezione: una sorta di classicismo virtuale, in cui il poeta riesce a fornire un equivalente (e non un’imitazione) delle forme chiuse e della precisa definizione dell’enunciato, proprie della tradizione, e a far convivere l’aulico e il prosaico in un processo di scambio delle rispettive funzioni, dove i termini rari o preziosi naturalmente si adeguano a esprimere l’irripetibile singolarità dell’esperienza così come le parole del linguaggio quotidiano e “parlato” si caricano di un più inquieto rapporto con le semplici cose da esse designate. L’ultimo tempo della poesia montaliana, inaspettatamente fecondo e cordiale, prende l’avvio da Satura (1971), in cui confluiscono anche, con altre successive, le liriche del volumetto Xenia (1966), scritte per la morte della moglie Drusilla Tanzi, e prosegue, come un’ininterrotta rivelazione, attraverso Diario del ’71 e del ’72 (1973), Quaderno di quattro anni (1977) e Altri versi (1981), una raccolta quest’ultima già anticipata nell’ed. critica complessiva, L’opera in versi (a cura di M. Bettarini e G. Contini, 1980), che comprende anche il Quaderno di traduzioni (1948; ed. accr. 1975), con versioni poetiche da Shakespeare, Hopkins, Joyce, Eliot, ecc., e offre una sezione di Poesie disperse edite e inedite.
Ma proprio la finale correzione di tiro compiuta da M., con l’esplicitezza dei riferimenti alla società contemporanea, la passione militante delle prese di posizione e l’ammirevole stile colloquiale degli ultimi libri, autorizza una lettura unitaria di tutto il suo percorso, evidenziandone, sia pure in una sorta di esagerazione didattica, l’aspirazione di fondo a far uscire la poesia fuori di sé, nella direzione di una ritrovata pertinenza e concretezza. Alla sua lunga attività pubblicistica e giornalistica si devono gli altri libri di M.: dai “bozzetti, elzevirini, culs-de-lampe” riuniti sotto il titolo Farfalla di Dinard (1956; edd. accr. 1960 e 1969) alle prose di viaggio di Fuori di casa (1969), dalle prose saggistiche di Auto da fé (1966) e di Nel nostro tempo (1972) a quelle riunite in Sulla poesia (1976). Accanto al critico letterario, cui si deve fra l’altro il “lancio” italiano di Svevo (sulla rivistaL’esame, 1925), va ricordato il critico musicale di Prime alla Scala (1981). Postumi sono apparsi un volume Sulla prosa (1982), le note del Quaderno genovese (1983), risalenti al 1917, il Diario postumo, prima parte: 30 poesie (1991), a cura di A. Cima. Dell’epistolario si hanno edd. parziali, tra cui quella del carteggio con Svevo (1976); dei Mottetti, che costituiscono la 2ª parte delle Occasioni, D. Isella ha curato un’ed. separata con commento (1980); una Concordanza di tutte le poesie di E. M. è stata pubblicata da G. Savoca (2 voll., 1987).
Poesie di Gwendolyn Elizabeth Brooks – poetessa e scrittrice statunitense
In molti modi, Gwendolyn Elizabeth Brooks incarna l’esperienza americana nera del 20 ° secolo.Nata in una famiglia che si trasferì a Chicago come parte della Grande Migrazione dei neri nel nord del paese, durante la Grande Depressione si fece strada attraverso la scuola e persegue un ruolo tradizionale per se stessa; quando inviava poesie alle riviste di solito elencava la sua professione come “casalinga”.
Nel dopoguerra, Brooks si unì a gran parte della comunità nera diventando più politicamente consapevole e attiva, unendosi al Movimento per i diritti civili e impegnandosi con la sua comunità come mentore e leader di pensiero. Nel corso delle sue esperienze, Brooks ha prodotto meravigliose poesie che raccontavano storie di normali neri americani in versi audaci e innovativi, spesso ispirati al quartiere Bronzeville di Chicago dove ha vissuto gran parte della sua vita.
LA DONNA VUOTA
La donna vuota offriva giocattoli!
In casa le sue sorelle
Avevano bambini e bambine.
La donna vuota indossava cappelli.
Con piume. Pettini imperlati
In chiome ondulate. Corteggiava gatti
E piccioni. Faceva la spesa.
Con diligenza aqcuistava balocchi per
Nipotini e nipotine. E caramelle,
Preparava il popcorn e odiava le sorelle, non
Avevano né piume né permanenti ma sapevano
Guarire il vaiolo, pulire nasi, svuotare vesciche
Sapevano ignorare ogni giorno le pettegole
E quei ragazzi soldati, e tutto il giorno
Dicevano “Dio mio!” – stanche di permanenti
E di gambe grosse e di muscoli esposti e di
Sacchi da scuola anneriti e di babushke e di
Calze bucate, e di parrucche splendenti e boriose.
In lingua originale:
The Empty Woman
The empty woman took toys!
In her sisters’ homes
Were little girls and boys.
The empty woman had hats
To show. With feathers. Wore combs
In polished waves. Wooed cats
And pigeons. Shopped.
Shopped hard for nephew-toys,
Niece-toys. Made taffy. Popped
Popcorn and hated her sisters,
Featherless and waveless but able to
Mend measles, nag noses, blast blisters
And all day waste wordful girls
And war-boys, and all day
Say “Oh God!” – and tire among curls
And plump legs and proud muscle
And blackened school-bags, babushkas, torn socks,
And bouffants that bustle, and rustle.
________________________________________
(Traduzione: adeodato piazza nicolai Poesie di Gwendolyn Brooks, da Blacks (Negri) Third World Press, Chicago, Illinois, 1987.)
QUANDO AVRAI DIMENTICATO LA DOMENICA
E quando avrai dimenticato la luminosa biancheria nel letto il mercoledì e
il sabato,
e sopra tutto avrai dimenticato la domenica –
quando la domenica avrai dimenticato con il letto che ci univa,
o me seduta sul radiatore della parete esterna della stanza
a guardare dalla finestra, nel pomeriggio che imbruniva,
laggiù la lunga strada,
ma in nessun punto preciso,
avvolta nella mia vecchia vestaglia
senza nessun programma
e-senza-niente-da-fare chiedendomi perché sono felice
quasi che il lunedì non-venisse-mai-più –
quando tu avrai dimenticato tutto questo, io dico,
e come t’infuriavi se qualcuno suonava alla porta
e come impazziva il mio cuore se squillava il telefono,
e come poi andavamo al nostro pranzo della domenica,
che voleva dire soltanto attraversare il pavimento della stanza
fino al tavolo macchiato d’inchiostro, nell’angolo di fronte,
al pranzo della domenica che era sempre pollo
e tagliatelle, o pollo e riso,
e insalata e pane di segale e tè
e biscottini di cioccolato, quando
avrai dimenticato tutto questo,
io dico, e dimenticato anche il mio piccolo presentimento
che la guerra sarebbe finita prima che t’arruolassero,
e come finalmente ci si spogliava e si spegneva la luce e ci infilavamo nel letto,
e ci stendevamo con il corpo abbandonato per un attimo
nei candidi lenzuoli del week-end
e poi teneramente l’uno nell’altro ci fondevamo –
quando tu avrai dimenticato tutto questo, io dico,
che allora potrai dire,
ed io lo potrò credere,
che m’hai davvero dimenticata.
(When you have forgotten Sunday, da A Street in Bronzeville, 1945 – Trad. di Luciano Luisi)
Gli aborti non ti permettono di dimenticare.
Tu ricordi i bambini
che hai concepito ma non hai accolto,
le piccole teste, bagnate con pochi (o nessun) capello,
i cantanti e gli operai
che non hanno mai assaporato l’aria.
Questi, mai li trascurerai, mai li maltratterai,
mai li farai tacere né li comprerai con una caramella,
mai metterai nelle loro bocche i pollici
né caccerai via i fantasmi che vengono nella notte.
Mai li lascerai, tenendo dentro il tuo sospiro assetato di loro
mai tornerai affamata di vederli, mangiandoteli con gli occhi.
Io ho sentito nelle voci del vento le voci
dei miei oscuri figli uccisi.
Mi sono contratta. Ho consolato
i miei cari oscuri sui seni che loro non hanno mai potuto succhiare.
Ho detto, Dolci, se ho peccato, se ho rubato la vostra fortuna
e le vostre vite dal vostro protendervi senza raggiungere,
se ho rubato le vostre nascite e i vostri nomi,
le vostre lacrime di neonato e i vostri giochi,
i vostri amori belli o difficili, i vostri tumulti,
i vostri matrimoni, dolori, e le vostre morti,
se ho avvelenato l’inizio dei vostri respiri
Credetemi che anche nella mia intenzionalità
non sono stata intenzionale.
Ma perché devo lamentarmi,
lamentarmi che il crimine fosse stato di qualcun altro
e non mio?
Giacché comunque siete morti,
anzi, non siete stati creati.
Però anche detto così temo che sia sbagliato.
Oh, cosa dirò, come si può dire la verità?
Voi siete nati, avete avuto un corpo, siete morti.
Solo che non avete mai riso ne programmato ne pianto.
Credetemi, vi ho amato tutti.
Credetemi, anche se per poco, vi ho conosciuti, e vi ho amati
……vi ho amati tutti.
Biografia di GWENDOLYN BROOKS –il 7 GIUGNO 1917 nasce GWENDOLYN BROOKS
In molti modi, Gwendolyn Brooks incarna l’esperienza americana nera del 20 ° secolo.Nata in una famiglia che si trasferì a Chicago come parte della Grande Migrazione dei neri nel nord del paese, durante la Grande Depressione si fece strada attraverso la scuola e persegue un ruolo tradizionale per se stessa; quando inviava poesie alle riviste di solito elencava la sua professione come “casalinga”.
Nel dopoguerra, Brooks si unì a gran parte della comunità nera diventando più politicamente consapevole e attiva, unendosi al Movimento per i diritti civili e impegnandosi con la sua comunità come mentore e leader di pensiero. Nel corso delle sue esperienze, Brooks ha prodotto meravigliose poesie che raccontavano storie di normali neri americani in versi audaci e innovativi, spesso ispirati al quartiere Bronzeville di Chicago dove ha vissuto gran parte della sua vita.
Nei primi anni
Brooks è nata a Topeka, nel Kansas, nel 1917. Sei settimane dopo la sua nascita, la sua famiglia si è trasferita a Chicago. Suo padre lavorava come custode in una compagnia musicale e sua madre insegnava a scuola ed era una musicista esperta.
Come studente, Brooks eccelleva e frequentava la Hyde Park High School. Sebbene Hyde Park fosse una scuola integrata, il corpo studentesco era per lo più bianco, e Brooks ricorderà in seguito di aver sperimentato i suoi primi pennelli con razzismo e intolleranza mentre frequentava le lezioni lì. Dopo il liceo ha frequentato un corso di laurea biennale e ha iniziato a lavorare come segretaria. Decise di non conseguire una laurea di quattro anni perché sapeva fin da piccola che desiderava scrivere, e non vide alcun valore in un’ulteriore istruzione formale.
Brooks ha scritto poesie da bambina e ha pubblicato la sua prima poesia all’età di 13 anni (“Eventide”, nella rivista American Childhood). Brooks ha scritto in maniera prolifica e ha iniziato a presentare regolarmente il suo lavoro. Ha iniziato a pubblicare regolarmente mentre ancora frequentava il college. Queste prime poesie attirarono l’attenzione di scrittori affermati come Langston Hughes, che incoraggiavano e corrispondevano a Brooks.
Negli anni ’40, Brooks era affermato ma ancora relativamente oscuro. Ha iniziato a frequentare seminari di poesia e ha continuato ad affinare la sua arte, lavoro che ha dato i suoi frutti nel 1944 quando ha pubblicato non una ma due poesie sulla rivista Poetry. Questa apparizione in un periodico nazionale così rispettato le ha portato la sua notorietà, ed è stata in grado di pubblicare il suo primo libro di poesie, Una strada a Bronzeville, nel 1945.
Il libro ebbe un enorme successo di critica e Brooks ricevette una Guggenheim Fellowship nel 1946. Pubblicò il suo secondo libro, Annie Allen, nel 1949. Il lavoro si concentrò di nuovo su Bronzeville, raccontando la storia di una giovane ragazza nera che cresceva lì. Anche lui ricevette il plauso della critica e nel 1950 Brooks ricevette il Premio Pulitzer per la poesia, il primo autore nero a vincere un Premio Pulitzer.
Brooks ha continuato a scrivere e pubblicare per il resto della sua vita.
Nel 1953 pubblicò Maud Martha, una sequenza innovativa di poesie che descrivono la vita di una donna di colore a Chicago, considerata una delle sue opere più complesse e complesse. Man mano che diventava più politicamente impegnata, il suo lavoro seguì l’esempio.
Nel 1968 pubblica Alla Mecca, di una donna alla ricerca del figlio perduto, che è stato nominato per il National Book Award.
Nel 1972, ha pubblicato il primo di due ricordi, Rapporto dalla prima parte, seguito 23 anni dopo da Rapporto dalla seconda parte, scritto quando aveva 79 anni.
Negli anni ’60, man mano che la sua fama cresceva, i suoi scritti iniziarono ad assumere un taglio più netto mentre osservava la società, esemplificata da una delle sue poesie più famose, Siamo davvero fantastici, pubblicato nel 1960.
Insegnamento
Brooks è stata un’insegnante per tutta la vita, spesso in ambienti informali come la sua stessa casa, dove ha spesso accolto giovani scrittori e tenuto conferenze e gruppi di scrittura ad hoc.
Negli anni ’60 iniziò a insegnare in modo più formale, bande di strada e studenti universitari.
Ha tenuto un corso di letteratura americana all’Università di Chicago. Brooks è stata straordinariamente generosa con il suo tempo, e ha speso gran parte della sua energia per incoraggiare e guidare i giovani scrittori, e alla fine ha ricoperto posizioni di insegnamento in alcune delle migliori scuole del paese, tra cui la Columbia University e la Northeastern Illinois University.
Vita privata
Brooks ha sposato Henry Lowington Blakely, Jr. e ha avuto due figli con lui, rimanendo sposato fino alla sua morte nel 1996. Brooks è ricordato come una donna gentile e generosa. Quando i soldi del Premio Pulitzer davano a lei e alla sua famiglia sicurezza finanziaria, era nota per usare i suoi soldi per aiutare le persone nel suo quartiere pagando l’affitto e altre bollette e finanziando antologie di poesia e altri programmi per offrire opportunità ai giovani scrittori neri.
Morte ed eredità
Brooks morì nel 2000 dopo una breve battaglia contro il cancro; lei aveva 83 anni.
Il lavoro di Brooks è stato notevole per la sua attenzione alla gente comune e alla comunità nera.
Sebbene Brooks si mescolasse in riferimenti e forme classiche, rese quasi uniformemente i suoi soggetti contemporanei uomini e donne che vivevano nel suo quartiere.
Il suo lavoro incorporava spesso i ritmi della musica jazz e blues, creando un ritmo sottile che le faceva rimbalzare i versi e che usava spesso per creare climax esplosivi per il suo lavoro, come nel suo famoso poema Siamo davvero fantastici che termina con la terzina devastante moriamo presto. Brooks è stata una pioniera della coscienza nera in questo paese e ha dedicato gran parte della sua vita ad aiutare gli altri, educando le giovani generazioni e promuovendo l’arte.
L’Altrove Blog di poesia contemporanea italiana e straniera
Breve biografia di Vittorio Sereni (1913-1983)-Una delle voci poetiche più incisive del Novecento italiano è Vittorio Sereni. Nato a Luino nel 1913, vive gran parte della sua vita a Milano. Nel 1941 pubblica il suo primo libro di versi, Frontiera, ancora pregno della poetica ermetica. Richiamato alle armi, viene fatto prigioniero in Africa settentrionale e recluso per due anni in un campo di prigionia, tra Algeria e Marocco. Questo periodo ispira una delle sue opere più evocative e dense, Diario d’Algeria (1947). La prigionia e la guerra mutano il suo modo di vedere il mondo, ai suoi occhi sempre più indecifrabile. La voce narrante di Vittorio, mescolata a elementi lessicali arcaizzanti, è funzionale a estraniarsi dalla realtà per poterla descrivere con impeto personale e nostalgico, utilizzando modulazioni da una strofa all’altra e continui sbalzi all’interno del testo.
Le mani
Queste tue mani a difesa di te: mi fanno sera sul viso. Quando lente le schiudi, là davanti la città è quell’arco di fuoco. Sul sonno futuro saranno persiane rigate di sole e avrò perso per sempre quel sapore di terra e di vento quando le riprenderai.
DaFrontiera.
In me il tuo ricordo
In me il tuo ricordo è un fruscìo solo di velocipedi che vanno quietamente là dove l’altezza del meriggio discende al più fiammante vespero tra cancelli e case e sospirosi declivi di finestre riaperte sull’estate. Solo, di me, distante dura un lamento di treni, d’anime che se ne vanno. E là leggera te ne vai sul vento, ti perdi nella sera.
DaFrontiera
Dimitrios
Alla tenda s’accosta il piccolo nemico Dimitrios e mi sorprende, d’uccello tenue strido sul vetro del meriggio. Non torce la bocca pura la grazia che chiede pane, non si vela di pianto lo sguardo che fame e paura stempera nel cielo d’infanzia.
È già lontano, arguto mulinello che s’annulla nell’afa, Dimitrios, su lande avare appena credibile, appena vivo sussulto di me, della mia vita esitante sul mare.
DaDiario d’Algeria.
Anni dopo
La splendida la delirante pioggia s’è quietata, con le rade ci bacia ultime stille. Ritornati all’aperto amore m’è accanto e amicizia. E quello, che fino a poco fa quasi implorava, dall’abbuiato portico brusìo romba alle spalle ora, rompe dal mio passato: volti non mutati saranno, risaputi, di vecchia aria in essi oggi rappresa. Anche i nostri, fra quelli, di una volta? Dunque ti prego non voltarti amore e tu resta e difendici amicizia.
DaGli strumenti umani.
I versi
Se ne scrivono ancora. Si pensa ad essi mentendo ai trepidi occhi che ti fanno gli auguri l’ultima sera dell’anno. Se ne scrivono solo in negativo dentro un nero di anni come pagando un fastidioso debito che era vecchio di anni. No, non era più felice l’esercizio. Ridono alcuni: tu scrivevi per l’arte. Nemmeno io volevo questo che volevo ben altro. Si fanno versi per scrollare un peso e passare al seguente. Ma c’è sempre qualche peso di troppo, non c’è mai alcun verso che basti se domani tu stesso te ne scordi.
Da Gli strumenti umani.
Gli squali
Di noi che cosa fugge sul filo della corrente? Oh, di noi una storia che non ebbe un seguito stracci di luce, smorti volti, sperse lampàre che un attimo ravviva e lo sbrecciato cappello di paglia che questa ultima estate ci abbandona. Le nostre estati, lo vedi, memoria che ancora hai desideri: in te l’arco si tende dalla marina ma non vola la punta più al mio cuore. Odi nel mezzo sonno l’eguale veglia del mare e dietro quella certe voci di festa.
E presto delusi dalla preda gli squali che laggiù solcano il golfo presto tra loro si faranno a brani.
Da Tutte le poesie.
FONTE-L’Altrove
Le più belle poesie di Vittorio Sereni -FONTE-L’Altrove è un Blog di poesia contemporanea italiana e straniera-L’Altrove intende ripercorrere insieme a voi la storia della poesia fino ai giorni nostri.Si propone, inoltre, di restituire alla poesia quel ruolo di supremazia che ultimamente ha perso e, allo stesso tempo, di farla conoscere ad un pubblico sempre più vasto.Troverete, infatti, qui tutto quello che riguarda la poesia: eventi, poesie scelte, appuntamenti di reading, interviste ai poeti, concorsi di poesia, uno spazio dedicato ai giovani autori e tanto altro.Noi de L’Altrove crediamo che la poesia possa ancora portare chi legge a sperimentare nuove emozioni. Per questo ci auguriamo che possiate riscoprirvi amanti e non semplici seguaci di una così grande arte.
Dalila e Daniela, le fondatrici.-Per informazioni: laltrovepoet@outlook.it
Poesie e prose di Vittorio Sereni -Autore- Giovanni Raboni
Per poche altre figure della lirica italiana novecentesca si può dire, come scrisse di Vittorio Sereni l’amico e critico Pier Vincenzo Mengaldo, che «l’uomo e il poeta facevano tutt’uno». Per il poeta di Luino, infatti, la poesia era una divorante passione, vissuta senza falsi pudori; una passione fatta di attese, della capacità di selezionare i componimenti, tanto che ognuno appare a noi inevitabile. Come Leopardi, come Mallarmé, Sereni concentra il suo estro su pochi testi, essenziali, derivati da una assoluta necessità interiore e dotati di una impareggiabile finitezza formale. Ma accanto all’esigenza di scrivere versi, Sereni sentì altrettanto potente quella che egli stesso chiamava «la tentazione della prosa». Dell’una e dell’altra produzione dà conto questo volume che riunisce integralmente le raccolte poetiche, da “Frontiera” (1941) a “Diario d’Algeria” (1947) a “Gli strumenti umani” (1965) a “Stella variabile” (1981), la sua scelta di traduzioni “Il musicante di Saint-Merry”, i due volumi di prose, “Gli immediati dintorni” e “La traversata di Milano”, infine un’ampia scelta di testi critici dedicati all’arte e alla letteratura. Con uno scritto di Pier Vincenzo Mengaldo.
Descrizione del libro di Nicola Guarino-Gli otto racconti che compongono questa raccolta restituiscono un profilo di eleganza alla narrativa contemporanea. Devono questo privilegio a una scrittura pulita, impeccabile nella scelta delle parole e capace di dipingere scenari e sensazioni in pochi essenziali tratti.
Al centro della vicenda, spesso un individuo soltanto: i suoi gesti quotidiani, il suo stare e fare che prendono uguale e giusto tempo nella narrazione, all’interno della quale si dipanano le sfumature personali, i fatti, i non detti e i significati che le cose assumono per ciascuno, viste dall’interno, e per gli altri che vi partecipano da fuori.
E gli spazi: un Sud senza tempo che ci sembra di conoscere da sempre, racchiuso nel dettaglio di una ringhiera di ferro o nei gessi dei soffitti che appaiono “come dune di sale” agli occhi del protagonista. Come se tutta la vita fosse fare due passi nel quartiere, un calcio al pallone, affacciarsi al terrazzino a veder scorrere la propria storia, compresa la sua fine.
Biografia dell’autore
Nicola Guarino, nasce nel 1958 ad Avellino, ultimo di una famiglia numerosa che si trasferisce ben presto a Napoli. Qui compie gli studi classici e, in seguito, si laurea in Giurisprudenza alla Federico II. Negli anni del liceo collabora con l’Unità e Paese Sera e poi, per mantenersi durante gli studi universitari, lavora all’ippodromo di Agnano. Diventato avvocato, ha fatto parte del Consiglio nazionale di Legambiente. Appassionato di cinema ha curato diverse rassegne e festival sia a Napoli che a Parigi, città in cui vive dal 2004 e in cui insegna lingua italiana all’Università della Sorbona e a Créteil Paris 12. È tra i fondatori della testata online Altritaliani.net.
La Poetica di Vincenzo Cardarelli -Poesie e opere di Vincenzo Cardarelli, poeta e scrittore appartenente alla corrente letteraria dell’Avanguardia. Successivamente Cardarelli vivrà un ritorno al classicismo rifacendosi ad autori come Leopardi e Pascoli.
Dopo la premessa con «La Ronda» e i suoi ideali risulta più semplice capire quale sia la poetica di Cardarelli, visto che lui è uno dei co-fondatori della rivista letteraria.
Versi discorsivi Cardarelli punta a una poesia dove i versi abbiamo uno svolgimento discorsivo che possa mettere in luce i segreti moti psicologici dell’autore; con armonia, ma sempre con urgenza; con un ritmo implacabile, con uno scopo a rivelarsi subito chiaro.
Una poesia che ragiona, colloquialeUna poesia che ragiona, come un lungo colloquio dell’anima. Colloquiale ma non per ironia come accadeva ai poeti crepuscolari; prosaica ma non per questo meno ricercata e intimamente lirica. Una poesia, quella di Cardarelli, che è discorso sempre in atto, fluente, vivido.
Le parole di Cardarelli Dice di sé stesso il poeta:
«che la mia poesia “discorra” non c’è dubbio. Anzi corre precipitosamente allo scopo, con un ritmo che non ammette divagazioni, non concede indugi, quantunque non sempre in modo graduale e pacifico. Più spesso procede per giustapposizione di idee o d’immagini, per rifrazioni di un medesimo concetto che, accennato fin dalle prime sillabe, si svolge, se mi è permesso di dirlo, come un tema musicale. È la mia maniera di esprimermi».
Il tempo: ossessione ed occasioneLa soggettività di Cardarelli si spande nel tempo perché il tempo è la tela del suo io, come l’autoritratto non potesse mai davvero finire; se non con la morte, ovviamente. E allora il tempo è ossessione ed occasione insieme. Non interessa tanto il tempo storico, quanto il tempo in cui l’io ha modo di scoprire il suo passaggio silenzioso nell’esistenza.
Il brano Idea della morteSi legge nel brano Idea della morte (1918), incluso in Viaggi nel tempo (1920):
«Sono turbato dalla sensazione del tempo come un pericolo assiduo. Il desiderio, spesso spropositato in me, di abbandonarmi, è vinto da una vaga inquietudine senza causa, che urge e mi consiglia di levarmi su, presto, come se ad ogni istante si potesse correre il rischio di perdere tutto il tempo in una volta, tutte le probabilità e le occasioni. […] E mentre noi che ne andiamo, ilari e distratti, per la nostra strada, egli ci cammina dietro, e allorché, trasalendo, ci rivolteremo per guardarlo, ci avrà già passati».
Il tema del tempoIl tema del tempo si lega a quello dell’occasione perduta e dell’infanzia passata inesorabilmente.
Il tema del vagabondaggioC’è anche il tema del vagabondaggio, spiccatamente autobiografico, perché Cardarelli si percepisce come un uomo sempre messo al bando.
La sofferenza permea ma non spezza il rigore espressivo e logico della poesia di Cardarelli che riesce sempre a trovare la giusta armonia e una mai acquietata dolcezza.
Il concetto di «impassibilità»Mengaldo sottolinea il concetto di «impassibilità», come capacità di volgere l’ispirazione «indifferentemente su tutte le cose, come si diffonde la luce». E aggiunge che questa definizione dello stesso poeta «chiarisce benissimo le motivazioni del cosiddetto classicismo cardarelliano, in quanto rifiuto delle salienze espressive e dell’esposizione violenta di singoli particolari in nome di un’equa distribuzione dell’energia stilistica su tutta la superficie del testo…» (Poeti italiani del Novecento, 366).
Vediamo alcune delle poesie più rappresentative di questo poeta, cercando di dare un piccolo commento a ognuna. Non serve la parafrasi perché non si parla più in italiano antico!
Il tema del tempo è molto importante per CardarelliAbbiamo detto che il tema del tempo è di assoluta importanza per Cardarelli. Lo è per tanti poeti, in verità, se non per tutti. Cardarelli ha comunque un modo tutto suo di esprimerlo: ora dolce, ora terribile; ora occasione, ora rimpianto.
Il tempo: passaggio in cui la realtà si rinnova Il tempo è anche il passaggio in cui la realtà si rinnova. Come se fossimo in un sonetto della corona dei mesi, Cardarelli sceglie di parlarci di febbraio, il mese più corto dell’anno, un mese piccolo e sempre bambino.
Febbraio
Febbraio è sbarazzino.
Non ha i riposi del grande inverno,
ha le punzecchiature,
i dispetti di primavera che nasce.
Dalla bora di febbraio
requie non aspettare.
Questo mese è un ragazzo
fastidioso, irritante
che mette a soqquadro la casa,
rimuove il sangue, annuncia il folle marzo
periglioso e mutante.
L’amore, il tema dei poetiL’amore è il tema dei poeti: quanto è difficile parlarne? Quanto è difficile scriverne? Scommetto che tutti ci abbiamo provato ad esprimere questo sentimento su carta per poi capire che non ne siamo capaci.
Cardarelli innamoratoCompito sopraffino da lasciare ai poeti, che parlano per noi tutti. In questa poesia Cardarelli si accorge di essersi innamorato: se ne accorge dallo sguardo di lei triste e felice a un tempo.
Nella mancanza di lei, come in un provenzale “amore da lontano”, il poeta si agita e pensa a cosa sta accadendo e a come quel sentimento, come un uccellino si sia aggrappato ai rami del suo cuore.
Amore
Come chi gioia e angoscia provi insieme
gli occhi di lei cosí m’hanno lasciato.
Non so pensarci. Eppure mi ritorna
piú e piú insistente all’anima
quel suo fugace sguardo di commiato.
E un dolce tormento mi trattiene
dal prender sonno, ora ch’è notte e s’agita,
nell’aria un che di nuovo.
Occhi di lei, vago tumulto. Amore,
pigro, incredulo amore, piú per tedio
che per gioco intrapreso, ora ti sento
attaccato al mio cuore (debol ramo)
come frutto che geme.
Amore e primavera vanno insieme.
La fine di un amore Gli amori dei poeti di norma finiscono tutti. Ma come è dolce il finire delle cose, a volte, quanto è strano di colpo capire che qualcosa è finito. Sotto i nostri occhi, d’improvviso.
L’addioE qualcosa si spezza in noi e quella vita, quella possibilità, quella promessa di giorni felici svanisce per sempre. Resta solo il ricordo, amaro, poi magari più dolce e sbiadito, come una luce che passa attraverso le tende. In questa poesia l’addio è netto, deciso: «Non mi lasciasti nessuna speranza», dice Cardarelli.
Ed è così che di lei resta solo lo spettro, un compagno silenzioso e fastidioso; quel silenzio è un baratro dove l’assenza sembra chiamare a sé ogni cosa.
Crudele addio
Ti conobbi crudele nel distacco.
Io ti vidi partire
come un soldato che va alla morte
senza pietà per chi resta.
Non mi lasciasti nessuna speranza.
Non avevi, in quel punto,
la forza di guardarmi.
Poi più nulla di te, fuorché il tuo spettro,
assiduo compagno, il tuo silenzio
pauroso come un pozzo senza fondo.
Ed io m’illudo
che tu possa riamarmi.
E non fo che cercarti, non aspetto
che il tuo ritorno,
per vederti mutata, smemorata,
aver noia di me che oserò farti
qualche amoroso e inutile dispetto.
I ricordiNascono ombre smisurate da corpi troppo brevi, perché breve è il loro passaggio nel tempo. I ricordi sono così: uno «strascico di morte».
Nostalgia e rimpiantoCon una metafora truce e dolorosa, Cardarelli ci porta nella dimensione della nostalgiae del rimpianto che l’amore genera in lui. I ricordi sono «fantasmi agitati da un vento funebre», per riprendere l’immagine dello spettro della poesia precedente, cara al poeta.
La donna amata è un ricordo e quindi, implicitamente, uno spettro che si aggira nella memoria del poeta (la parola «trapassata» si usa infatti per i morti).
L’ultimo sussulto della storia, prima del commiato, è nella consapevolezza che il tempo raggiunge ogni cosa e che l’amore è un fuoco che brucia e agita quel tempo, breve, concesso alla vita.
Passato
I ricordi, queste ombre troppo lunghe
del nostro breve corpo,
questo strascico di morte
che noi lasciamo vivendo
i lugubri e durevoli ricordi,
eccoli già apparire:
melanconici e muti
fantasmi agitati da un vento funebre.
E tu non sei più che un ricordo.
Sei trapassata nella mia memoria.
Ora sì, posso dire che
che m’appartieni
e qualche cosa fra di noi è accaduto
irrevocabilmente.
Tutto finì, così rapito!
Precipitoso e lieve
il tempo ci raggiunse.
Di fuggevoli istanti ordì una storia
ben chiusa e triste.
Dovevamo saperlo che l’amore
brucia la vita e fa volare il tempo.
L’Attesa“Attesa” è giustamente una delle poesie più famose di Cardarelli, per dolcezza, malinconia e finanche lieve candore delle immagini. Come nei poemi cavallereschi l’amore è una ricerca attiva o passiva: possiamo andare incontro all’amata come il furioso Orlando di Ariosto o possiamo attendere l’arrivo dell’amata, alla finestra, febbricitanti nell’attesa.
Amore e solitudineL’amore ha un modo tutto suo di disattendere l’una e l’altra dinamica. Se cerchiamo, non troviamo. Se aspettiamo, non arriva. E allora l’amore si fa compagno della solitudine, intensa esplorazione dell’altro dentro di noi.
È un’assenza che si colma di senso. L’assenza della donna amata brilla tumultuosa come una stella. Come un temporale che, eccolo, è lì, pronto a scrosciare con impeto, ma poi se ne va verso altri luoghi.
L’amore è tutto. Saffo lo definiva dolce-amara bestia. Cardarelli lo vorrebbe coprire di fiori, ma anche di insulti.
Attesa
Oggi che t’aspettavo
non sei venuta.
E la tua assenza so quel che mi dice,
la tua assenza che tumultuava
nel vuoto che hai lasciato,
come una stella.
Dice che non vuoi amarmi.
Quale un estivo temporale
s’annuncia e poi s’allontana,
così ti sei negata alla mia sete.
L’amore, sul nascere,
ha di questi improvvisi pentimenti.
Silenziosamente
ci siamo intesi.
Amore, amore, come sempre,
vorrei coprirti di fiori e d’insulti.
AMICIZIA
Noi non ci conosciamo. Penso ai giorni
che, perduti nel tempo, c’incontrammo,
alla nostra incresciosa intimità.
Ci siamo sempre lasciati
senza salutarci,
con pentimenti e scuse da lontano.
Ci siam rispettati al passo,
bestie caute,
cacciatori affinati,
a sostenere faticosamente
la nostra parte di estranei.
Ritrosie disperanti,
pause vertiginose e insormontabili,
dicevan, nelle nostre confidenze,
il contatto evitato e il vano incanto.
Qualcosa ci è sempre rimasto,
amaro vanto
di non ceduto ai nostri abbandoni,
qualcosa ci è sempre mancato.
ATTESA
Oggi che t’aspettavo non sei venuta.
E la tua assenza so quel che mi dice,
la tua assenza che tumultuava,
nel vuoto che hai lascito,
come una stella.
Dice che non vuoi amarmi.
Quale un estivo temporale
S’annuncia e poi s’allontana,
cosi’ ti sei negata alla mia sete.
L’amore, sul nascere, ha di quest improvvisi pentimenti.
Silenziosamente ci siamo intesi.
Amore, Amore, come sempre,
vorrei coprirti di fiori e d’insulti.
GABBIANI
Non so dove i gabbiani abbiano il nido,
ove trovino pace.
Io son come loro
in perpetuo volo.
La vita la sfioro
com’essi l’acqua ad acciuffare il cibo.
E come forse anch’essi amo la quiete,
la gran quiete marina,
ma il mio destino è vivere
balenando in burrasca.
PASSATO
I ricordi, queste ombre troppo lunghe
del nostro breve corpo,
questo strascico di morte
che noi lasciamo vivendo
i lugubri e durevoli ricordi,
eccoli già apparire:
melanconici e muti
fantasmi agitati da un vento funebre.
E tu non sei più che un ricordo.
Sei trapassata nella mia memoria.
Ora sì, posso dire che
che m’appartieni
e qualche cosa fra di noi è accaduto
irrevocabilmente.
Tutto finì, così rapito!
Precipitoso e lieve
il tempo ci raggiunse.
Di fuggevoli istanti ordì una storia
ben chiusa e triste.
Dovevamo saperlo che l’amore
brucia la vita e fa volare il tempo.
SERA DI LIGURIA
Lenta e rosata sale su dal mare
la sera di Liguria, perdizione
di cuori amanti e di cose lontane.
Indugiano le coppie nei giardini,
s’accendon le finestre ad una ad una
come tanti teatri.
Sepolto nella bruma il mare odora.
Le chiese sulla riva paion navi
che stanno per salpare.
SCHERZO
Il bosco di primavera
ha un’anima,una voce.
è il canto del cucù
pieno d’aria,
che pare soffiato in un flauto.
Dentro il richiamo lieve
più che l’eco ingannevole,
noi ce ne andiamo illusi:
Il castagno è verde tenero.
Sono stillanti persino
le antiche ginestre.
Attorno ai tronchi ombrosi,
fra giochi di sole,
danzano le amadriali.
PRIMAVERA
Oggi la primavera
é un vino effervescente.
Spumeggia il primo verde
sui grandi olmi fioriti a ciuffi:
Verdi persiane squillano
su rosse facciate
che il chiaro allegro vento
di marzo pulisce:
Tutto è color di prato.
Anche l’edera è illusa,
la borraccina è più verde
sui vecchi tronchi immemori
che non hanno stagione.
Scossa da un fiato immenso
la città vive un giorno
d’umori campestri.
Ebbra la primavera
corre nel sangue.
PASSAGGIO NOTTURNO
Giace lassù la mia infanzia.
Lassù in quella collina
ch’io riveggo di notte,
passando in ferrovia,
segnata di vive luci.
Odor di stoppie bruciate
m’investe alla stazione.
Antico e sparso odore
simile a molte voci che mi chiamino.
Ma il treno fugge. Io vo non so dove.
M’è compagno un amico
che non si desta neppure.
Nessuno pensa o immagina
che cosa sia per me
questa materna terra ch’io sorvolo
come un ignoto, come un traditore.
AUTUNNO
Autunno. Già lo sentimmo venire
nel vento d’agosto,
nelle piogge di settembre
torrenziali e piangenti
e un brivido percorse la terra
che ora, nuda e triste,
accoglie un sole smarrito.
Ora che passa e declina,
in quest’autunno che incede
con lentezza indicibile,
il miglior tempo della nostra vita
e lungamente ci dice addio.
ABBANDONO
Volata sei, fuggita
come una colomba
e ti sei persa là, verso oriente.
Ma son rimasti i luoghi che ti videro
E l’ore dei nostri incontri.
Ore deserte,
luoghi per me divenuti un sepolcro
a cui faccio la guardia.
ALLA MORTE
Morire sì,
non essere aggrediti dalla morte.
Morire persuasi
che un siffatto viaggio sia il migliore.
E in quell’ultimo istante essere allegri
come quando si contano i minuti
dell’orologio della stazione
e ognuno vale un secolo.
Poi che la morte è la sposa fedele
che subentra all’amante traditrice,
non vogliamo riceverla da intrusa,
né fuggire con lei.
Troppo volte partimmo
senza commiato!
Sul punto di varcare
in un attimo il tempo,
quando pur la memoria
di noi s’involerà,
lasciaci, o Morte, dire al mondo addio,
concedici ancora un indugio.
L’immane passo non sia
precipitoso.
Al pensier della morte repentina
il sangue mi si gela.
Morte non mi ghermire
ma da lontano annunciati
e da amica mi prendi
come l’estrema delle mie abitudini.
BALLATA
Ecco la casa ov’io vidi la luce
e la chiesa lì accanto,
dove fui battezzato.
Consolanti evidenze!
Qui antiche donne vivono, mai sazie
di ricordare.
E narrano una storia
ch’io so a memoria e non vorrei sapere.
Narrano la mia storia famigliare.
Dicono che una notte,
col cuore fasciato
di crudeltà e d’ira fredda,
un uomo fece guasto
senza pietà nei suoi affetti più sacri,
disperse una famiglia appena in fiore.
E la casa natale era al mattino
tranquilla e disertata
come se visitata
l’avessero le streghe.
Il tempo come un ciclone
spazzò da questi luoghi
le care immagini.
Di ciò che fu non rimane
che un tacito agitarsi
di memorie e di ombre.
Ma quelle voci ch’io dico
sono implacabili e vive.
Lamentose quale un funebre canto,
alla pietà l’invettiva alternando,
mi rammentano come, ancora in fasce,
m’abbia poco la sorte vezzeggiato.
SERA DI GAVINANA
Ecco la sera e spiove
sul toscano Appennino.
Con lo scender che fa le nubi a valle,
prese a lembi qua e là
come ragne fra gli alberi intricate,
si colorano i monti di viola.
Dolce vagare allora
per chi s’affanna il giorno
ed in se stesso, incredulo, si torce.
Viene dai borghi, qui sotto, in faccende,
un vociar lieto e folto in cui si sente
il giorno che declina
e il riposo imminente.
Vi si mischia il pulsare, il batter secco
ed alto del camion sullo stradone
bianco che varca i monti.
E tutto quanto a sera,
grilli, campane, fonti,
a concerto e preghiera,
trema nell’aria sgombra.
Ma come più rifulge,
nell’ora che non ha un’altra luce,
il manto dei tuoi fianchi ampi, Appennino.
Sui tuoi prati che salgono a gironi,
questo liquido verde, che rispunta
fra gl’inganni del sole ad ogni acquata,
al vento trascolora, e mi rapisce,
per l’inquieto cammino,
sì che teneramente fa star muta
l’anima vagabonda.
ESTIVA
Distesa estate,
stagione dei densi climi
dei grandi mattini
dell’albe senza rumore –
ci si risveglia come in un acquario –
dei giorni identici, astrali,
stagione la meno dolente
d’oscuramenti e di crisi,
felicità degli spazi,
nessuna promessa terrena
può dare pace al mio cuore
quanto la certezza di sole
che dal tuo cielo trabocca,
stagione estrema, che cadi
prostrata in riposi enormi,
dai oro ai più vasti sogni,
stagione che porti la luce
a distendere il tempo
di là dai confini del giorno,
e sembri mettere a volte
nell’ordine che procede
qualche cadenza dell’indugio eterno.
AUTUNNO VENEZIANO
L’alito freddo e umido m’assale
di Venezia autunnale,
Adesso che l’estate,
sudaticcia e sciroccosa,
d’incanto se n’è andata,
una rigida luna settembrina
risplende, piena di funesti presagi,
sulla città d’acque e di pietre
che rivela il suo volto di medusa
contagiosa e malefica.
Morto è il silenzio dei canali fetidi,
sotto la luna acquosa,
in ciascuno dei quali
par che dorma il cadavere d’Ofelia:
tombe sparse di fiori
marci e d’altre immondizie vegetali,
dove passa sciacquando
il fantasma del gondoliere.
O notti veneziane,
senza canto di galli,
senza voci di fontane,
tetre notti lagunari
cui nessun tenero bisbiglio anima,
case torve, gelose,
a picco sui canali,
dormenti senza respiro,
io v’ho sul cuore adesso più che mai.
Qui non i venti impetuosi e funebri
del settembre montanino,
non odor di vendemmia, non lavacri
di piogge lacrimose,
non fragore di foglie che cadono.
Un ciuffo d’erba che ingiallisce e muore
su un davanzale
è tutto l’autunno veneziano.
Così a Venezia le stagioni delirano.
Pei suoi campi di marmo e i suoi canali
non son che luci smarrite,
luci che sognano la buona terra
odorosa e fruttifera.
Solo il naufragio invernale conviene
a questa città che non vive,
che non fiorisce,
se non quale una nave in fondo al mare.
ILLUSA GIOVENTU’
O gioventù, innocenza, illusioni,
tempo senza peccato, secol d’oro!
Poi che trascorsi siete
si costuma rimpiangervi
quale un perduto bene.
Io so che foste un male.
So che non foco, ma ghiaccio eravate,
o mie candide fedi giovanili,
sotto il cui manto vissi
come un tronco sepolto nella neve:
tronco verde, muscoso,
ricco di linfa e sterile.
Ora che , esausto e roso,
sciolto da voi percorsi in un baleno
le mie fiorenti stagioni
e sparso a terra vedo
il poco frutto che han dato,
ora che la mia sorte ho conosciuta,
qual essa sia non chiedo. Così rapida
fugge la vita che ogni sorte è buona
per tanto breve giornata.
Solo di voi mi dolgo, primi inganni.
AUTUNNO
Autunno. Già lo sentimmo venire
nel vento d’agosto,
nelle piogge di settembre
torrenziali e piangenti
e un brivido percorse la terra
che ora, nuda e triste,
accoglie un sole smarrito.
Ora che passa e declina,
in quest’autunno che incede
con lentezza indicibile,
il miglior tempo della nostra vita
e lungamente ci dice addio.
OTTOBRE
Un tempo, era d’estate,
era a quel fuoco, a quegli ardori,
che si destava la mia fantasia.
Inclino adesso all’autunno
dal colore che inebria,
amo la stanca stagione
che ha già vendemmiato.
Niente più mi somiglia,
nulla più mi consola,
di quest’aria che odora
di mosto e di vino,
di questo vecchio sole ottobrino
che splende sulla vigne saccheggiate.
Sole d’autunno inatteso,
che splendi come in un di là,
con tenera perdizione
e vagabonda felicità,
tu ci trovi fiaccati,
vòlti al peggio e la morte nell’anima.
Ecco perché ci piaci,
vago sole superstite
che non sai dirci addio,
tornando ogni mattina
come un nuovo miracolo,
tanto più bello quanto più t’inoltri
e sei lì per spirare.
E di queste incredibili giornate
vai componendo la tua stagione
ch’è tutta una dolcissima agonia.
ADOLESCENTE
Su te, vergine adolescente,
sta come un’ombra sacra.
Nulla è più misterioso
e adorabile e proprio
della tua carne spogliata.
Ma ti recludi nell’attenta veste
e abiti lontano
con la tua grazia
dove non sai chi ti raggiungerà.
Certo non io. Se ti veggo passare
a tanta regale distanza,
con la chioma sciolta
e tutta la persona astata,
la vertigine mi si porta via.
Sei l’imporosa e liscia creatura
cui preme nel suo respiro
l’oscuro gaudio della carne che appena
sopporta la sua pienezza.
Nel sangue, che ha diffusioni
di fiamma sulla tua faccia,
il cosmo fa le sue risa
come nell’occhio nero della rondine.
La tua pupilla è bruciata
dal sole che dentro vi sta.
La tua bocca è serrata.
Non sanno le mani tue bianche
il sudore umiliante dei contatti.
E penso come il tuo corpo
difficoltoso e vago
fa disperare l’amore
nel cuor dell’uomo!
Pure qualcuno ti disfiorerà,
bocca di sorgiva.
Qualcuno che non lo saprà,
un pescatore di spugne,
avrà questa perla rara.
Gli sarà grazia e fortuna
il non averti cercata
e non sapere chi sei
e non poterti godere
con la sottile coscienza
che offende il geloso Iddio.
Oh sì, l’animale sarà
abbastanza ignaro
per non morire prima di toccarti.
E tutto è così.
Tu anche non sai chi sei.
E prendere ti lascerai,
ma per vedere come il gioco è fatto,
per ridere un poco insieme.
Come fiamma si perde nella luce,
al tocco della realtà
i misteri che tu prometti
si disciolgono in nulla.
Inconsumata passerà
tanta gioia!
Tu ti darai, tu ti perderai,
per il capriccio che non indovina
mai, col primo che ti piacerà.
Ama il tempo lo scherzo
che lo seconda,
non il cauto volere che indugia.
Così la fanciullezza
fa ruzzolare il mondo
e il saggio non è che un fanciullo
che si duole di essere cresciuto.
* * * * * * * * * *
BIOGRAFIA DI VINCENZO CARDARELLI:
1887 – Vincenzo Cardarelli (il suo vero nome ra Nazareno) nasce a Corneto Tarquinia (Viterbo) il primo maggio. Da giovane pratica diversi mestieri e studia in modo irregolare.
1905 – È l’anno della morte del padre. Abbandona il paese natale, al quale fu per sempre legato da un rapporto di odio e amore, a causa dell’infanzia infelice e solitaria che vi aveva trascorso, lui afflitto da una menomazione al braccio sinistro spesso veniva affidato alla carità e alla cura di estranei.
1906 – Giunge a Roma, privo di una regolare istruzione, in cerca di fortuna; si accosta agli ambienti socialisti iniziando una attività giornalistica che lo porterà alla redazione dell’Avanti!. Inizia la relazione amorosa con la scrittrice Sibilla Aleramo, che si esaurirà nel 1912. Intanto prosegue nelle sue intense seppure disordinate letture e, abbandonate le velleità socialiste, entra in contatto con gli ambienti culturali che gravitano attorno alle principali riviste: nel 1911 invia alla Voce prezzoliniana uno studio su Charles Pégluy e inizia una assidua collaborazione al “Marzocco”.
Pubblica anche lo scritto Metodo Estetico e le prime poesie sparse. Particolarmente significativa è, in questa fase, il sodalizio con Riccardo Bacchelli, mentre fallisce il progetto a lungo vagheggiato di dare vita a una nuova rivista. Nella capitale collabora, prima del conflitto mondiale, a numerose riviste: Il Marzocco, La Voce, Lirica ed è tra i fondatori de La Ronda.
La Civita, Corneto, Roma, le memorie della sua infanzia solitaria e della sua focosa gioventù, sono i temi essenziali di un’opera che pur senza essere abbondante costituisce un alto e raro esempio di coerenza e di coscienza artistica.
Ma sarebbe difficile, e probabilmente arbitrario voler isolare nella sua produzione questo o quel titolo di una singola opera, perché Cardarelli è soprattutto il creatore di uno stile. A tale esigenza massima egli subordina, quando era in vita, ogni altra ambizione e ogni ricerca di un successo facile ed effimero.
1916 – Esce Prologhi, una raccolta di brevissime prose. Nel medesimo anno collabora alla Voce di Giuseppe De Robertis, maturando via via quelle convinzioni di un ritorno all’ordine e alla tradizione da cui nascerà nel 1919 l’esperienza decisiva della Ronda. Della rivista Cardarelli fu fra i più strenui ispiratori, dirigendola fino al 1923, quando cessò definitivamente le pubblicazioni.
1929 – Vince il Premio letterario Bagutta per il libro Il sole a picco
Io nacqui forestiero in Maremma, di padre marchigiano, e crebbi come un esiliato, assaporando con commozione tristezze e indefinibili nostalgie. Non mi ricordo la mia famiglia, né la casa dove son nato, esposta a mare, nel punto più alto del paese, buttata giù in una notte come dall’urto di un ciclone, quando io avevo due anni appena.
Sono venuto a conoscere mio padre un giorno che, nientedimeno, aveva sposato, e io soffiavo nel fornello a tutto andare, con una ventola nuova nuova. Ci fu un tempo ch’io vissi sotto la protezione d’un angelo custode e non ne ho altro ricordo se non che ero un ragazzo come tutti gli altri, curato, ben vestito e corretto con severità ed amore. Il destino, dopo avermi tolto la madre mi aveva regalato in compenso una matrigna, tutta d’oro, dal cuore alle mani. Me la aveva portata da lontano, parlava un dialetto settentrionale.
Tutta questa felicità durò poco, tre anni appena. Un dopo pranzo, che tornavo dalla scuola, passando davanti alla camera dove la mia cara madre giaceva malata e mentre son lì per entrare (ma già mi aveva sorpreso il lenzuolo che le avevano tirato fin sopra il capo) due braccia mi sollevarono e mi deposero nella camera accanto, dove una sorella della morta stava, in quel momento, levandosi di letto, dopo aver trascorso la notte vicino a lei. Erano quelle di mio padre.
Da allora la mia esistenza si complicò. I confini della mia famiglia si confusero e si dispersero. Non potendo badare a me, mio padre si vide costretto a collocarmi ora qui ora là, a dozzina. Conobbi altre case, dove fui accolto e trattato quasi in qualità di parente, attesa la mia facilità a familiarizzare. Il mondo mi allevò. […]
Per farla corta, mio padre pretendeva che io diventassi nient’altro che un buon commerciante, alla sua maniera. Ecco la ragione vera per cui non volle che studiassi e fece, senz’accorgersene, la mia rovina. […]
A sedici anni, cioè un anno avanti che mio padre morisse, ero già lontano da lui e dal mio paese. […]
Per vivere, nei primi anni, dovetti fare i mestieri più vari: addetto a vigilare l’andamento delle sveglie in un deposito d’orologi; ammanuense nello studio d’un bisbetico avvocato piemontese e socialista; impiegato nella segreteria della Federazione metallurgica; contabile; infine giornalista.
1948 – “Villa Tarantola” vince il Premio Strega per la prosa.
1959 – Muore il 18 giugno nell’Ospedale del Policlinico di Roma. Egli riposa ora nel cimitero di Tarquinia, di fronte alla Civita etrusca secondo la volontà espressa nel testamento. La Civita etrusca, che il poeta ha così di frequente evocato nelle sue poesie e nelle sue prose, aveva ai suoi occhi più il valore di un simbolo morale che non di un tema autobiografico: era stato il faro che lo aveva guidato durante la sua avventurosa navigazione tra gli scogli dell’esistenza. Visse nella povertà e nella solitudine, e morì a settantadue anni ancora più povero e più solo.
LE OPERE
Narrativa e Poesia:
• Prologhi, Milano, 1916;
• Viaggi nel tempo, Firenze, 1920;
• Terra genitrice, Roma,1935;
• Favole e memorie, Milano, 1925;
• II sole a picco, Bologna, 1928; Premio Bagutta 1929
• Prologhi viaggi, favole, Lanciano, 1929;
• Giorni in piena, Roma, 1934;
• Poesie, Roma, 1936 ristampa accresciuta, Roma, 1942;
• Rimorsi, Roma, 1944;
• Lettere non spedite, Roma, 1946;
• Poesie nuove, Venezia, 1946;
• Solitario in Arcadia, Milano, 1947;
• Villa Tarantola, Milano, 1948;Premio Strega
• Poesie, Milano, 1949;
• Invettiva ed altre poesie disperse, Milano, 1964;
• Autunno, sei vecchio, rassegnati, a cura di C. Martìgnoni, Lecce, 1988;
• Opere complete, a cura di G. Raimondi, Milano, 1962;
• Opere, a cura di C. Martignoni, Milano, 1981.
I prologhi
In quasi tutte le prose e le poesie contenute nella raccolta, le parole usate da Cardarelli sono lineari. Il mondo rappresentato è un mondo intellettuale, senza mistero. I temi che affiorano più spesso, oltre a quelli dell’addio, del distacco, della solitudine, dello sgombero, sono la morte (“Angosce letargiche le quali sono state i miei anticipi di morte”), l’anima (“Sento che il tempo cade e fa rumore nell’anima mia”), la purità (“Io sono grato al male per gli obblighi di purità che mi ha posti”), la carne (“Perché io ho ecceduto nella carne fino all’ironia”).
I viaggi nel tempo
Fin dalle prime prose e liriche, si avvertono i fremiti precorritori di un mutamento radicale e di un trapasso di paesaggio oltre che di clima. La composizione delle liriche coincide con il ritorno dello scrittore a Roma, dopo i suoi vagabondaggi in Italia e all’estero. L’ansia, l’inquietudine che avevano dominato la gioventù di Cardarelli e nelle quali si doveva ravvisare l’origine delle sue molteplici e disordinate esperienze umane e culturali, si placano via via a contatto con Roma, la città dei suoi sogni, la circe mondiale, la reggia favolosa che i papi costruirono a consolazione dei derelitti.
Settembre a Venezia, Autunno Veneziano
Autunno, Ottobre
Liguria, Sera di Liguria
Questi tre gruppi di liriche hanno molti punti in comune. Si compongono ognuno di una lirica breve, simile ad un “mottetto” musicale, alla quale si contrappone una poesia più elaborata, maggiormente orchestrata, una “sonata” o un canto a più voci. Ma l’elemento di partenza è lo stesso: una stagione, una città, un ricordo, un’emozione. Nelle prime due liriche di argomento veneziano il poeta traduce in note musicali le sensazioni suscitate nel suo animo dal trapasso dall’estate all’autunno.
LO STILE
Nel 1919, ormai affermatosi negli ambienti letterari della capitale, Cardarelli fondò la rivista La Battaglia, dalle cui pagine cominciò a combattere quella che sarebbe stata la lunga battaglia letteraria della sua vita: la restaurazione del classicismo, inteso come severa disciplina.
La restaurazione cardelliana muove dalla riscoperta e dalla rivalutazione dell’opera di Leopardi. Cardarelli, da mente acuta di critico quale era, si era accorto che l’operazione di fondo da realizzare per riportare la poesia nel suo alveo e nei suoi giusti limiti era quella di ricreare lo stile, senza il quale, i contenuti non possono che produrre oratoria. Il suo limite consiste forse nell’aver identificato lo stile con quello di una tradizione ben determinata, il suo merito sta invece nell’aver restituito alla lingua, vergini e brillanti come nuovi, parole e modi di dire consumati dal cattivo uso, sbiaditi dalla genericità dei contesti e praticamente privi della loro significazione.
Ad un ideale di classica compostezza, di perfezione stilistica e di limpidezza formale restò fedele in tutto l’arco della sua produzione: versi prima dispersi in alcuni volumi di prose e poi raccolti in Poesie nelle tre edizioni del 1936, 1942 e 1958. E’ una poesia ragionata, nella quale il discorso si sviluppa e si stende con limpidezza e fluidità, tutto avvolto da un tono meditativo, che comunica al lettore quasi sensibilmente un desolato senso di vivere.
I TEMI DELLA POESIA
Cardarelli fu un conversatore brillante ed un letterato polemico e severo, avendo vissuto una vita vagabonda, solitaria e di austera e scontrosa dignità. Suoi maestri sono stati Baudelaire, Nietzsche, Leopardi, Pascal, i quali lo hanno portato ad esprimere le proprie passioni con un senso razionale, senza troppe esaltazioni spirituali. La sua è una poesia descrittiva lineare, legata a ricordi passati di qualunque tipo, siano paesaggi animali persone e stati d’animo, che vengono espressi con un uso di un linguaggio discorsivo e nello stesso tempo impetuoso e profondo.
I temi ricorrenti nelle sue liriche sono il trascorrere delle stagioni, avvertito come simbolo dell’eterna mutevolezza delle cose, lo sfiorire dell’adolescenza e della bellezza, i vagheggiamenti dell’infanzia e dei paesaggi ad essa collegati. Sia nell’esplosione della vitalità estiva o sia nel malinconico disfarsi del paesaggio autunnale, il trascorrere delle ore del giorno e delle stagioni diventa simbolo delle vicissitudini della vita. Come scrive nella prima strofa di Ottobre:
Un tempo, era d’estate,
era a quel fuoco, a quegli ardori
che si destava la mia fantasia.
Inclino adesso all’autunno
Dal colore che inebria,
Amo la stanca stagione
Che ha già vendemmiato.
Niente più mi somiglia,
Nulla più mi consola,
Di quest’aria che odora
Di mosto e di vino,
Di questo vecchio sole settembrino
Che splende nelle vigne saccheggiate.
Quando Antonia Pozzi nasce è martedì 13 febbraio 1912: bionda, minuta, delicatissima, tanto da rischiare di non farcela a durare sulla scena del mondo; ma la vita ha le sue rivincite e … … Antonia cresce: è una bella bambina, come la ritraggono molte fotografie, dalle quali sembra trasudare tutto l’amore e la gioia dei genitori, l’avvocato Roberto Pozzi, originario di Laveno, e la contessa Lina, figlia del conte Antonio Cavagna Sangiuliani di Gualdana e di Maria Gramignola, proprietari di una vasta tenuta terriera, detta La Zelata, a, Bereguardo.
Il 3 marzo la piccola viene battezzata in San Babila ed eredita il nome del nonno, primo di una serie di nomi parentali (Rosa, Elisa, Maria,Giovanna, Emma), che indicherà per sempre la sua identità. Antonia cresce, dunque, in un ambiente colto e raffinato: il padre avvocato, già noto a Milano; la madre, educata nel Collegio Bianconi di Monza, conosce bene il francese e l’inglese e legge molto, soprattutto autori stranieri, suona il pianoforte e ama la musica classica, frequenta la Scala, dove poi la seguirà anche Antonia; ha mani particolarmente abili al disegno e al ricamo. Il nonno Antonio è persona coltissima, storico noto e apprezzato del Pavese, amante dell’arte, versato nel disegno e nell’acquerello. La nonna, Maria, vivacissima e sensibilissima, figlia di Elisa Grossi, a sua volta figlia del più famoso Tommaso, che Antonia chiamerà “Nena” e con la quale avrà fin da bambina un rapporto di tenerissimo affetto e di profonda intesa. Bisogna, poi, aggiungere la zia Ida, sorella del padre, maestra, che sarà la compagna di Antonia in molti suoi viaggi; le tre zie materne, presso le quali Antonia trascorrerà brevi periodi di vacanza tra l’infanzia e la prima adolescenza; la nonna paterna, Rosa, anch’essa maestra, che muore però quando Antonia è ancora bambina.
Nel 1917 inizia per Antonia l’esperienza scolastica: l’assenza, tra i documenti, della pagella della prima elementare, fa supporre che la bimba frequenti come uditrice, non avendo ancora compiuto i sei anni, la scuola delle Suore Marcelline, di Piazzale Tommaseo, o venga preparata privatamente per essere poi ammessa alla seconda classe nella stessa scuola, come attesta la pagella; dalla terza elementare, invece, fino alla quinta frequenta una scuola statale di Via Ruffini. Si trova, così, nel 1922, non ancora undicenne, ad affrontare il ginnasio, presso il Liceo-ginnasio “Manzoni”, da dove, nel 1930, esce diplomata per avventurarsi negli studi universitari, alla Statale di Milano.
Gli anni del liceo segnano per sempre la vita di Antonia: in questi anni stringe intense e profonde relazioni amicali con Lucia Bozzi ed Elvira Gandini, le sorelle elettive, già in terza liceo quando lei si affaccia alla prima; incomincia a dedicarsi con assiduità alla poesia, ma, soprattutto, fa l’esperienza esaltante e al tempo stesso dolorosa dell’amore. È il 1927: Antonia frequenta la prima liceo ed è subito affascinata dal professore di greco e latino, Antonio Maria Cervi; non dal suo aspetto fisico, ché nulla ha di appariscente, ma dalla cultura eccezionale, dalla passione con cui insegna, dalla moralità che traspare dalle sue parole e dai suoi atti, dalla dedizione con cui segue i suoi allievi, per i quali non risparmia tempo ed ai quali elargisce libri perché possano ampliare e approfondire la loro cultura.
La giovanissima allieva non fatica a scoprire dietro l’ardore e la serietà, nonché la severità del docente, molte affinità: l’amore per il sapere, per l’arte, per la cultura, per la poesia, per il bello, per il bene, è il suo stesso ideale; inoltre il professore, ha qualcosa negli occhi che parla di dolore profondo, anche se cerca di nasconderlo, e Antonia ha un animo troppo sensibile per non coglierlo: il fascino diventa ben presto amore e sarà un amore tanto intenso quanto tragico, perché ostacolato con tutti i mezzi dal padre e che vedrà la rinuncia alla “vita sognata” nel 1933, “non secondo il cuore, ma secondo il bene”, scriverà Antonia, riferendosi ad essa. In realtà questo amore resterà incancellabile dalla sua anima anche quando, forse per colmare il terribile vuoto, si illuderà di altri amori, di altri progetti , nella sua breve e tormentata vita.
Nel 1930 Antonia entra all’Università nella facoltà di lettere e filosofia; vi trova maestri illustri e nuove grandi amicizie: Vittorio Sereni, Remo Cantoni, Dino Formaggio, per citarne alcune; frequentando il Corso di Estetica, tenuto da Antonio Banfi, decide di laurearsi con lui e prepara la tesi sulla formazione letteraria di Flaubert, laureandosi con lode il 19 novembre 1935. In tutti questi anni di liceo e di università Antonia sembra condurre una vita normalissima, almeno per una giovane come lei, di rango alto-borghese, colta, piena di curiosità intelligente, desta ad ogni emozione che il bello o il tragico o l’umile suscitano nel suo spirito: l’amore per la montagna, coltivato fin dal 1918, quando ha incominciato a trascorrere le vacanze a Pasturo, paesino ai piedi della Grigna, la conduce spesso sulle rocce alpine, dove si avventura in molte passeggiate e anche in qualche scalata, vivendo esperienze intensissime, che si traducono in poesia o in pagine di prosa che mettono i brividi, per lo splendore della narrazione e delle immagini; nel 1931 è in Inghilterra, ufficialmente per apprendere bene l’inglese, mentre, vi è stata quasi costretta dal padre, che intendeva così allontanarla da Cervi; nel 1934 compie una crociera, visitando la Sicilia, la Grecia, l’Africa mediterranea e scoprendo, così, da vicino, quel mondo di civiltà tanto amato e studiato dal suo professore e il mondo ancora non condizionato dalla civiltà europea, dove la primitività fa rima, per lei, con umanità; fra il 1935 e il 1937 è in Austria e in Germania, per approfondire la conoscenza della lingua e della letteratura tedesca, che ha imparato ad amare all’Università, seguendo le lezioni di Vincenzo Errante, lingua che tanto l’affascina e che la porta a tradurre in italiano alcuni capitoli di “Lampioon”, di M. Hausmann. Intanto è divenuta “maestra” in fotografia: non tanto per un desiderio di apprenderne la tecnica, aridamente, quanto perché le cose, le persone, la natura hanno un loro sentimento nascosto che l’obiettivo deve cercare di cogliere, per dar loro quell’eternità che la realtà effimera del tempo non lascia neppure intravedere. Si vanno così componendo i suoi album, vere pagine di poesia in immagini.
Questa normalità, si diceva, è, però, solamente parvenza. In realtà Antonia Pozzi vive dentro di sé un incessante dramma esistenziale, che nessuna attività riesce a placare: né l’insegnamento presso l’Istituto Tecnico Schiaparelli, iniziato nel ‘37 e ripreso nel ’38; né l’impegno sociale a favore dei poveri, in compagnia dell’amica Lucia; né il progetto di un romanzo sulla storia della Lombardia a partire dalla seconda metà dell’Ottocento; né la poesia, che rimane, con la fotografia, il luogo più vero della sua vocazione artistica. La mancanza di una fede, rispetto alla quale Antonia, pur avendo uno spirito profondamente religioso, rimase sempre sulla soglia, contribuisce all’epilogo: è il 3 dicembre del 1938.
Lo sguardo di Antonia Pozzi, che si era allargato quasi all’infinito, per cogliere l’essenza del mondo e della vita, si spegne per sempre mentre cala la notte con le sue ombre viola.
Dell’autore Octavio Paz , scrittore, poeta e diplomatico messicano,Premio Nobel per la letteratura nel 1990, sempre accanto a emarginati e oppressi, si preferisce ricordare quasi unicamente la parabola finale. Glissando su affermazioni valide a ogni latitudine: “La ricerca dell’identità nazionale è un passatempo intellettuale, a volte anche un affare di sociologi disoccupati” oppure “Quando una società si corrompe, a imputridire per primo è il linguaggio”
Mai come in questi tempi appare importante la riflessione politica di Octavio Paz sulla parola e sul linguaggio che lui espresse in questi termini: “Quando una società si corrompe, a imputridire per primo è il linguaggio. La critica della società inizia quindi con la grammatica e il ristabilimento dei significati” (Pos data, 2005). La parola appare al poeta messicano come un elemento necessario per rimarcare il fatto che fa parte integrante della cultura; la cultura é l’identità di un popolo e si mostra anche attraverso il linguaggio. Quando il linguaggio si appiattisce e si impoverisce per cedere il posto all’immediatezza (o a insistenti termini presi in prestito da altre lingue), noi pian piano ci allontaniamo dall’essenza, dalla creatività, dalla complessità e soprattutto dalla nostra capacità di autocritica. Octavio Paz nelle sue opere ha continuamente ribadito l’importanza della creatività della parola e del linguaggio. Saggista, giornalista, diplomatico messicano, premio Nobel per la letteratura, è considerato il poeta di lingua spagnola più importante della seconda metà del Novecento: “Non è poeta chi non abbia sentito la tentazione di distruggere il linguaggio o di crearne un altro, chi non abbia provato il fascino della significazione indicibile” (Vento Cardinale, 1985). La società e la politica furono per lui sempre inscindibili dall’arte poetica, anzi, la sua poesia d’avanguardia si fece veicolo di istanze sociali e di problemi politici, mettendo in luce una società corrotta che aveva fatto della merce l’unico valore visibile.
Nato nel 1914 a Città del Messico da una famiglia borghese, in cui il sangue spagnolo si era unito a quello indigeno messicano, a soli 19 anni pubblica la prima raccolta di poesie dal titolo Luna Silvestre. Grazie alla sua professione di diplomatico viaggia molto: vive a lungo negli Stati Uniti, in Spagna, Francia e persino in India e in Giappone, ove conosce la filosofia che influenzerà una parte sostanziale dei suoi scritti.
Il primo viaggio lo porta nello Yucatan, ove si misura col profondo passato della storia messicana, con l’antica civiltà Maya, la povertà e le lotte di parte della popolazione. Giunge a Mérida l’11 marzo 1937 e vi rimane per 65 giorni. Qui aderisce al progetto educativo di una scuola secondaria per i figli di indigeni, di operai e contadini, che gli era stato proposto dagli amici Octavio Novaro Fiora del Fabro e Ricardo Cortés Tamayo. Octavio nella scuola, e proprio a quel periodo appartengono le pagine di “Tra la pietra e il fiore” (1941), un ampio “inno tra le rovine” o meglio, come dirà più tardi “maleza entre escombros” (“erba tra le macerie”), un tema che lo accompagnerà come una ferita aperta per tutta la vita.
Sempre 1937, Paz ha più di 20 anni, partecipa come rappresentante del suo Paese al II Congresso internazionale degli scrittori per la difesa della cultura, che quell’anno si propone di supportare i repubblicani in Spagna durante la Guerra civile. Vi partecipano, tra gli altri, André Malraux, César Vallejo e Pablo Neruda. Alla fine della seconda guerra mondiale diviene segretario dell’ambasciata messicana a Parigi entrando in contatto con il movimento surrealista e André Breton. Come incaricato d’affari arriva in Giappone e, infine, negli anni 60, è ambasciatore in India. Qui, nel 1968, rassegna le dimissioni per protestare contro il governo messicano, responsabile di una brutale repressione di studenti che manifestavano in piazza delle Tre Culture a Tlatelolco, Città del Messico, alla vigilia dei Giochi Olimpici. È il 2 ottobre 1968. Lasciato l’incarico, si dedica all’insegnamento presso università americane ed europee. Continua l’instancabile attività di promotore della cultura tenendo lezioni e fondando nuove riviste, come Plural (1971-1976) e Vuelta (1976). Paz non si limita a scrivere, ma trasforma le parole in azioni concrete. Politicamente propende a sinistra come il padre Octavio Paz Solorzano, avvocato zapatista. Più tardi invece adotterà un atteggiamento politico liberal-conservatore, simile a quello del nonno Irineo, che era stato vicino a Porfirio Diaz, presidente della Repubblica del Messico per tre mandati diretti, dal 1876 al 1911.
Così Paz desta polemiche quando divien aspro critico della insurrezione zapatista del 1994 e del subcomandante Marcos. Il 7 gennaio 1994 sul quotidiano messicano La Jornada scrive: “È una ribellione irreale, condannata al fallimento. Non corrisponde alla situazione del nostro paese, né alle sue necessità ed aspirazioni attuali”. Ma poi “pian piano, scopre lo stile originale dei proclami di Marcos, l’idealismo sincero, la sensibilità con cui esprime i sentimenti degli indigeni. Ricordandogli quando lui stesso, negli anni 30, era andato nello Yucatan a lavorare con gli indigeni. A conquistare il poeta è un’identificazione personale più che ideologica: non fu la guerriglia, ma la prosa di Marcos e la sua vocazione per il mondo indigeno”. Così scrive il messicano Jorge Volpi nel saggio La guerra y las palabras: una historia intelectual del 1994, in cui analizza il controverso rapporto tra Marcos e Octavio Paz
Ricordiamo che fu grande conoscitore di lingue, di tradizioni, affascinando soprattutto grazie al riflesso delle culture preispaniche rievocate in tante pagine. Tra gli scritti migliori ricordiamo: Il labirinto della solitudine, i saggi su Fernando Pessoa e Luis Cerneda, pubblicati in Italia dal Melangolo nel 1988, i trattati Congiunzioni e disgiunzioni e El Arco y la lira. Il labirinto della solitudine, scritto nel 1950, è il primo tentativo compiuto da un messicano per arrivare alla conoscenza piena della propria identità culturale. Paz tenta di far luce sull’anima del suo popolo e ne esamina perciò la storia, la politica, l’economia, ma spesso va al di là, aprendo le frontiere del Messico sul mondo. Nel labirinto della solitudine non si avventurano i soli messicani, ma tutti gli uomini: queste 250 pagine rappresentano una profonda meditazione sulla condizione umana. Altra sua opera è Suor Juana o le insidie della fede, monumentale biografia dedicata a Suor Juana Inés de la Cruz, straordinaria figura di religiosa e poetessa messicana del XVII secolo.
L’introduzione è a cura di Dario Puccini, uno dei massimi studiosi italiani di letteratura spagnola e ispano americana, studioso di suor Juana, e autore nel 1967 di un fondamentale saggio su di lei. Secondo Puccini l’incontro tra Paz e la suora messicana ha il carattere di un coinvolgimento totale. Nel riflettere sul mondo del Vice Reame della Nuova Spagna (1535-1821), all’interno dell’Impero coloniale spagnolo, Octavio Paz compie una profonda riflessione sul ruolo dell’intellettuale alle soglie della modernità: “Da un lato la società in cui visse suor Juana ci aiuta a comprenderla, dall’altro ce la nasconde. Suor Juana come ognuno di noi, è l’espressione della sua epoca, ma anche la negazione, l’eroina e la vittima”. Nel doppio ruolo della società e della protagonista, risiede il grande tema di un’opera che è allo stesso tempo critica letteraria e analisi del rapporto tra cultura e sistema totalitario.
La poesia come atto di liberazione, a perenne memoria, è teorizzata nel libro El Arco y la Lira, una riflessione nata dopo l’incontro con le culture orientali durante la sua permanenza in Giappone e India. Come Goethe, pensa che la poesia sia ricerca ininterrotta di senso, momentanea riconciliazione, presenza. Tutta l’inesausta attività ruota attorno a un solo tema: “Si scrive per essere ciò che siamo e che non siamo. Nell’uno e nell’altro caso cerchiamo noi stessi. E se abbiamo la fortuna di trovarci scopriamo che siamo uno sconosciuto”. Nascono così testi poetici come Libertad bajo palavra (1949), Aguila o sol? (1951), Agua y viento (1959), Topoemas (1971). Il mondo indigeno e in particolare quello azteco lo ritroviamo in Piedra del sol (1957): 584 endecasillabi in cui il passato precolombiano diventa fonte di suggestioni filosofiche. A partire dagli anni 80 del secolo XX, giungono riconoscimenti letterari internazionali, anzitutto l’importante Premio Cervantes, ricevuto nel 1981. Definito “l’orafo dei segni” per la cura e l’eleganza dei suoi versi, si afferma come innovatore del costume letterario e delle concezioni culturali.
Nel 1990 gli è assegnato il premio Nobel per la Letteratura per “l’appassionata scrittura dai vasti orizzonti, caratterizzata da un’intelligenza sensuale e da una integrità umanistica”. Octavio Paz scompare il 20 aprile 1998 in Messico, nella sua casa di Coyacan, dopo una lunga malattia. Rimane una delle figure chiave del XX secolo e tale rimarrà nel tempo, quel tempo nel quale rintracciò l’esperienza sovrannaturale come dimensione originaria dell’esistenza e trasmutazione di sé: “Le pietre sono tempo / Il vento / secoli di vento / Gli alberi sono tempo / gli uomini sono pietre / Il vento / si avvolge su se stesso e si sotterra / nel giorno di pietra / L’acqua non c’è, ma gli occhi brillano” (Versante Est, 1969).
Elena Andreevna Švarc-L’11 marzo 2010 muore, a soli 52 anni, la scrittrice e poetessa russa Elena Andreevna Svarc, certamente una delle personalità più interessanti del panorama letterario contemporaneo.
Le sue opere si caratterizzano per le influenze gitane, tatare, slave e giudaiche. Frequente è l’uso del simbolismo, le sue rime spesso sono spesso imperfette, le metafore chiare e semplici. Elena intende il poeta come un santo e un martire, scelto per una vita solitaria e profetica.
Il moto circolatorio del tempo nel corpo:
“Questa ragazza
è la figlia di qualcuno,
ha negli occhi acqua azzurra,
nell’inguine
una sorda notte lacerata
e una stella rosata.
Ma nel suo cuore
che ora è?
Tra il cane e il lupo.
Azzurro e crepuscolare
cola il raso
sotto l’ago
conficcato nel centro.
Ha sulla fronte
un giardino antelucano
E’ avvampata l’alba
ecco ora farà giorno,
ma è già sulla tempia
il tramonto purpureo,
sulla spina dorsale
s’arrampica la notte”.
L’estate ormai s’abbassava a cerchi
L’estate ormai s’abbassava a cerchi, S’inumidiva, riluceva il crepuscolo. Tu hai detto, aggiustando la cravatta: – Nell’eternità siamo già morti.
– Ma se è così – ho detto tristemente, Pestando l’estate con una scarpa verso l’alto – Viviamo in essa, e un peccato meschino Si protende eternamente dietro di noi.
Oh beatitudine – la prima notte di giugno, Quando il crepuscolo s’è addensato, Agitare un ramo e pensare a lungo Che siamo già morti, morti.
Elena Andreevna Švarc
(Traduzione di Paolo Galvagni)
da “La nuova poesia russa”, Crocetti Editore, 2003
«Лето уже спускалось кругами»
Лето уже спускалось кругами, Влажнели, блестели сумерки. Ты сказал, поправляя галстук: — В вечности мы уже умерли.
— Но если так, — я сказала печально, Подбивая лето ботинком вверх, — Мы в ней и живем, и вечно тянется За нами мелкий какой-нибудь грех. —
О блаженство — в первую ночь июня, Когда загустели сумерки, Веткой махать и долго думать, Что мы уже умерли, умерли.
Елена Шварц
1986
da “Стихотворения и поэмы Елены Шварц” Инапресс, 1999
Il ciliegio e Thomas Mann
Aspettami ed io tornerò,
ma aspettami con tutte le tue forze.
Aspettami quando le gialle piogge
ti ispirano tristezza,
aspettami quando infuria la tormenta,
aspettami quando c’è caldo,
quando più non si aspettano gli altri,
obliando tutto ciò che accadde ieri.
Aspettami quando da luoghi lontani
non giungeranno mie lettere,
aspettami
la vita è una buia scucitura
La vita è una buia scucitura,
E solo da un filo dorato
Sono segnati i moti dell’anima.
Ora balza attraverso il baratro,
Ora precipita direttamente nell’abisso.
Di tutto il ricco destino purpureo
Di broccato rimane
Il solo risvolto sospeso nel buio
Sopra di noi – con piccoli nodi
Insensati d’oro.
Elena Andreevna Švarc-L’11 marzo 2010 muore, a soli 52 anni, la scrittrice e poetessa russa Elena Andreevna Svarc, certamente una delle personalità più interessanti del panorama letterario contemporaneo.
Le sue opere si caratterizzano per le influenze gitane, tatare, slave e giudaiche. Frequente è l’uso del simbolismo, le sue rime spesso sono spesso imperfette, le metafore chiare e semplici. Elena intende il poeta come un santo e un martire, scelto per una vita solitaria e profetica.
Tutta la mia vita è un caso miracoloso e un sogno misterioso. Ma più misteriosi di tutto il miracoloso sono i versi. Da chi sono ispirati, da chi sono gonfiati – extra intellettuali in una mente assennata – lo sa Dio. Ma non si tratta di questo, voglio soloraccontare alcuni casi della mia vita, nei quali chiaramente attraverso l’involucro di Maya, attraverso il velo della quotidianità si sono manifestate altre forze – quali che potessero essere. Da “Casi miracolosi e sogni misteriosi”. Elena Andreevna Schwartz è nata nel 1948 a Leningrado, dove è scomparsa l’11 marzo del 2010. E’considerata tra le poetesse più innovative e piene di talento degli ultimi decenni. La sua poesia satirica e provocatoria, si concentra su aspetti universali dell’esperienza femminile; è stata molto lodata dalla critica e molte poetesse, incluse Bella Achatovna Achmadulina e Ol’ga Aleksandrovna Sedakova, le hanno dedicato poesie. Nel 1971 si laurea presso l’Istituto leningradese di Teatro, Musica e Cinematografia. Esordisce nel 1972 con due poesie apparse sul giornale dell’università di Tartu. Negli anni Settanta frequenta gli ambienti letterari clandestini e a partire dalla metà degli anni Ottanta pubblica versi in Occidente: nelle riviste dell’emigrazione russa come «Grani» nei volumi: Tancujuščij David [Davide danzante] (New York 1985), Stichi [Versi] (Parigi 1987), Trudy i dni monachini Lavinii [Le opere e i giorni della monaca Lavinia] (New York 1988). Dal 1989 ha potuto pubblicare anche in patria. I suoi versi sono apparsi su molte riviste russe: le sue raccolte poetiche: Pesnja pticy na dne morskom [Canto di un uccello sul fondo marino] (1995), Mundus imaginalis (1996), Zapadnovostočnyjveter [Vento da occidente e oriente] (1997), Solo na raskalennoj trube [Assolo con una tromba arroventata] (1998). Agli ultimi anni risalgono i volumi antologici Stichotvorenija i poemy [Poesie e poemi] (1999) e Sočinenija [Opere] (2002).
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