Breve biografia di Paolo Volponi-(Urbino, 6 febbraio 1924 – Ancona, 23 agosto 1994). Scrittore, poeta e narratore. Nelle sue opere si affermare l’esigenza di una razionalità capace di affermare le più integrali possibilità dell’uomo e di mirare ad una libera espansione delle sue facoltà corporee e mentali, a uso positivo del lavoro, della scienza e della tecnica. Nel 1975 divenne presidente della Fondazione Agnelli, ma fu costretto a lasciare tale incarico per la sua adesione al partito revisionista , sgradita ai vertici della Fiat. Nel 1991 si oppose alla dissoluzione del PCI e aderì a Rifondazione Comunista, che a suo avviso “manteneva viva la speranza di un mondo più giusto e più razionale. Nel suo ultimo romanzo “Le mosche del capitale”, narra la vita di un manager la cui genialità viene schiacciata in azienda dalle cieche logiche di potere e di guadagno. Tra le opere poetiche ricordiamo: Memoriale; Poesie e poemetti; Con testo afronte; Le mosche del capitale; Nel silenzio campale.
Paolo Volponi
Nella divisione del lavoro internazionale
ha un suo tratto assegnato anche la tua pena: …………..
Il paesaggio collinare di Urbino,
che innocente appare quercia per quercia
mentre colpevole muore zolla per zolla,
é politicamente uguale
al centro storico di Torino
che crolla palazzo per palazzo
o ai giardini della utopica lvrea
ricca casa per casa;
tutti nella nebbia che sale
del mare aureo del capitale.
L’unità di tutti i democratici.
Ma chi di loro e di noialtri
Può stare sempre unito con gli altri?
Seno diverse le entrate, le uscite e i nastri
di registro, di paga, di cure termali,
di premi, compensi, indennizzi in caso di disastri.
Sono divisi i beni, le aliquote, i mali
Perfino i giorni e il corso degli astri.
Non ‘e vero che siamo tutti uguali,
noi siamo una serie di impiastri
stesi fra i civili e gli animali.
Paolo Volponi
da POESIE 1946-66
L’amor di sé L’alba ancora non lascia
l’ultima onda notturna;
ancora trattiene l’ambascia
di persistere sola, recisa
ogni corda l’aria stessa, la fascia
del proprio lucore indivisa
dalla tela nera che s’accascia
non dietro, ma sotto tra l’intrisa
minuta rena della sua diaccia
incerta orma, alterna, lisa
dalla sua labile irriverente traccia.
La direzione è opposta
al verso del piede che frena
e dello sguardo che accosta
trepido la prima spalla terrena
libera, non tesa una mano opposta
per indicare una scena
seppure piccola, appena opposta
alla nera matassa, alla vulva oscena
della notte, incinta, non deposta…
Ma spinta di fronte alla vista di sé
pallida stenderà la colpa
lucente alta sopra la testa
e si scioglierà in vapore dentro
l’imprendibile sabbia.
Niente l’assorbe né la desta
e solo l’onda notturna
più larga sotto la chiglia
della luna dentro la nuova urna
le toccherà un gomito e le ciglia
ancora lucide del rimpianto:
perla della conchiglia
dell’amore di sé.
D’autunno è con noi D’autunno è con noi
ogni foglia e ghianda
ed è raggiunto il cielo.
Fra le avellane svolazza
la palomba ferita,
freme il sottobosco
agli scoppi
dei ricci di castagna.
Dolcissima è l’ultima uva
celata fra i pampini rossi,
sul fianco dei monti sale
il fumo delle carbonaie.
A sera
io provo il caldo smemorato
delle castagne,
del torbido vino,
il più nudo corpo
della mia donna.
Tu sei l’uomo Tu sei l’uomo
che nelle fiere
appresti il tiroasegno
con il gallo di ferro
che colpito scoppia
sulla polvere da sparo
nel selciato.
Che scavi il pozzo,
che porti a maggio
la croce di canna
nel campo di grano.
Tu freni il puledro,
conduci la volpe prigioniera
a tutte le case;
tu fischi ai bovi
nell’abbeverata
che hanno le rane nell’orme.
Tu sei l’uomo
che porti alle ragazze
il geranio e lo sposo.
Tu arroti i coltelli e le falci.
Tu insegni il fischio ai merli
ed hai l’erba che sana
il morso della vipera.
Paolo Volponi
Domani è già marzo Domani è già marzo e la strada
scopre tra i frutteti il petto della contrada.
A marzo il contadino
riordina gli attrezzi e libera i confini.
A marzo i contadini
scendono verso i paesi;
si fermano nelle piazze mercatali
davanti alle osterie, ai forni, ai falegnami
che odorano sotto i portali di pietra fiorita,
davanti ai negozi di ferramenta,
davanti a tutti gli spacci
con un sentore d’acqua muffita.
I vecchi si fermano alle porte;
i giovani salgono le vie cittadine.
Ormai li mischia aprile,
mese senza paura,
e salgono insieme i mezzadri e i garzoni,
i mietitori, i braccianti, i legnaioli,
i muratori di campagna, gli innestatori,
gli scavatori di pozzi e di vigna,
i cercatori d’acqua e i cacciatori.
Il giorno nella città non ha paura,
stretto tra le mura è sempre luminoso,
e sempre vive di qualche cosa, ora per ora;
preso alla mattina presto nei mercati,
nella profonda luce che rispecchiano
le facciate nobiliari o i porticati;
guidato per le vie al suono del selciati
sino ai vertici gentili dei rioni;
alzato a mezzogiorno in fronte alle chiese
su tutte le piazze, una sopra l’altra,
di mattone o di pietra,
non è vinto dalla foglia incerta,
non morto nella morte degli insetti;
non arato, seminato, sarchiato,
faticato ora per ora,
dalla mattina alla sera.
Il giorno gira nella città il suo dolce sole,
muove il ventaglio alto delle nubi,
e chiama dal mare l’amorosa luce serale
che si stende su tutte le terrazze,
sui giardini pensili, sull’arcate
dalle quali soffia l’Appennino.
Si congiunge alla notte per le strade,
quando vicino s’odono risate di ragazze
verso i torrioni e voci da tutti i portoni.
Porgimi, amore Porgimi, amore
il tuo ramo fiorito
la mente mattutina
nel cui cespo chiaro
ai venti incerti di ottobre
ripara l’allodola ferita,
l’azzurro ginepro degli altipiani
prossimi alla marina.
O la tua pietra
in bilico sul fiume,
la perduta foglia di salice
sull’acqua,
l’alga tenebrosa
dove un invisibile pesce respira.
Amore, amore,
porgimi del tuo albero
il frutto più alto
così la tua uva nascosta
e il piccolo orto
dal pettirosso fedele;
il tuo cavallino
dalla coda leggera,
la vipera che ti beve
il latte nel seno,
l’amoroso gallo
che ti sveglia
e la civetta compagna
alle tue notti di luna.
Porgimi, amore,
il tuo mutabile tempo
giovanile,
l’immobile sole
e il quarto di luna
della tua esatta stagione.
Paolo Volponi
Mia quaglia Della chiarissima quaglia
che nasce sulla spiaggia
agli approdi dei templi,
nell’ora che la luna di marea
rotola sabbia
e pesci luminosi,
tu hai lo smarrimento
e l’attonito canto.
Conosci il canneto
dove l’insetto sorpreso
annega nelle gocce,
il campo spiumato
alle piogge meridiane del grano.
Sul tuo collo
è giugno
stagioni delle falci
dal tenero filo,
luglio sulle spalle
con steli d’avena,
agosto sulla schiena
dorme come un cacciatore.
La vergine I sassi bianchi
sono le tue spalle
gli alberi la tua statura;
è la tua gola che batte
se una rosa si muove
non vista nel giardino.
Dì pure al vento
di perdere il tuo canto
nella voce dei fossi,
al rosmarino
di chiudere i sentieri.
L’innocente starna
si leva alta sul bosco
e m’indica il tuo cammino.
Poesia di Marijan Grakalić tradotta da Božidar Stanišić
è un commiato per Dubravka Ugrešić
Fonte -East Journal-
Pubblichiamo una poesia di Marijan Grakalić, apparsa su Radio Gornij Grad e tradotta per noi dal celebre scrittore bosniaco Božidar Stanišić. La poesia, sincera e antiretorica, è un commiato per Dubravka Ugrešić, scrittrice croata morta lo scorso 17 marzo, e a cui East Journal ha dedicato un paio di articoli in ricordo del suo formidabile contributo letterario. Con lei se ne va un altro pezzo di quella generazione di scrittori e intellettuali che seppero descrivere – vivendolo sulla propria pelle – la disgregazione jugoslava, il rimontare del nazionalismo – non solo nei Balcani – e la riflessione sul ruolo della letteratura nella società. Alcuni dei suoi libri sono tradotti in italiano.
Con partenza di Dubravka U.
Di nuovo nella notte il freddo bagliore del tempo che è passato
bussa alla porta, non si preoccupa degli ideali di mente, di salute
o sforzi di fortuna, tiene la sua campana
nascosta nel campanile costruito di ricordi e monumenti
di pietra. Scappo da loro, lì più che altrove
si può sentire la morte, e anche la tua morte. Allora pubblicherà
qualcuno, chiunque, la propria foto con te
sulla facciata di qualche palazzo, sul muro del castello descritto in
qualche vecchio libro. Lo farà per il desiderio
che anche lui sia nell’aura della gloria oltremondana, che si distingua
come custode della memoria propria o altrui, che
si presta attenzione a come è per lui la tua partenza
la stessa perdita, non importa quale, ma assolutamente
già allontanata dalle fauci della vita all’ombra, in un luogo
dove la luce si ritira prima dell’oscurità, da qualche parte
dove finiscono tutti i saluti dal buio. L’unica cosa in cui credo
ora son le parole che salgono dritte al mio
cuore, esse non immortaleranno niente e nessuno, nemmeno
te, saranno solo oneste e piene della loro stessa stanchezza,
della stanchezza del mondo che scompare con noi nelle strade deserte
delle città. Non è rimasto quasi nulla, in primavera
si dimentica ancora di più che in inverno, e presto forse
non ci sarà proprio nessuno a sentire il freddo bagliore del tempo,
la vibrazione della mano intorpidita e delle labbra gettate lungo la strada.
(Dubravka Ugrešić, 1949-2023)
di Marijan Grakalić Traduzione dal croato: Božidar Stanišić
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Marijan Grakalić (1957) è uno scrittore, poeta, storico e pubblicista croato. È direttore del portale di cultura e letteratura Radio Gornji Grad, uno dei più letti dell’ex Jugoslavia, al quale collaborano numerosi autori della regione; è il fondatore del Festival della Cultura di Gornji Grad, che si tiene ogni anno a Zagabria. Negli anni Ottanta e Novanta è stato direttore della nota casa editrice Azur, poi direttore della casa editrice Mladost.
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Di Dubravka Ugrešić sono usciti in lingua italiana:
Il museo della resa incondizionata, traduzione di Lara Cerruti, Milano, RCS Libri Bompiani, 2002
Vietato leggere, traduzione di Milena Djoković, Roma, Nottetempo, 2006
Il ministero del dolore, traduzione di Lara Cerruti, Milano, Garzanti, 2007
Baba Jaga ha fatto l’uovo, traduzione di Milena Djokovic, Roma, Nottetempo, 2011
Cultura karaoke, traduzione di Olja Perišić Arsić e Silvia Minetti, Roma, Nottetempo, 2014
Europa in Seppia, traduzione di Olja Perišić-Arsić e Silvia Minetti, Roma, Nottetempo 2016
Andrea Figari -Poesie Inedite pubblicate dal Blog L’Altrove
Andrea Figari è nato a Torino nel 1983 e ha conseguito la Laurea specialistica in Giurisprudenza presso la Facoltà di Torino. È autore fin qui di quattro raccolte, tutte pubblicate con Carta e Penna Editore: “Sentieri d’Esperanza” (2009), “Schegge di Rwanda” (2010), “ChiScac? Ovvero scacchi inVersi” (2013), “POeLITICA, Schegge di Poesia” (2020). Partecipa attivamente ad iniziative, incontri letterari oltre che aver ottenuto riconoscimenti in concorsi. Gestisce il blog: https://scheggedipoesia.wordpress.com/
Intreccio di colori
Vessillo di pace. La sua bandiera, i suoi colori, un intreccio di pensieri, arcobaleno di immagini. Il rosso è il primo scalino, il colore del sangue, quel sangue che scorre nelle vene e fino al cuore, al suo battito giunge. Rosso che si intreccia con l’arancione, il colore della buccia di molti agrumi, frutti di alberi, prezioso cibo per gli inverni freddi. Arancione che si intreccia con il giallo, il colore del grano nei campi da raccogliere e far divenire pane; un raggio di sole a riscaldare il suolo. Giallo che si intreccia con il verde, il colore della speranza, dell’erba e di un albero le sue foglie; un prato su cui correre. Verde che si intreccia con l’azzurro, il colore del cielo limpido, schiarito dopo il passaggio delle nuvole; in una favola il nome di un principe. Azzurro che si intreccia con il blu, il colore del mare, sguardo verso l’orizzonte a scrutare terre lontane. Blu che si intreccia con il viola, il suono dolce di uno strumento musicale, il nome di un fiore, per concludere il percorso.
La grolla dell’amicizia
Si narra una storia tra le case in pietra della Valle d’Aosta. Si tramanda il tempo che fu seduti davanti ad un camino, in una baita di montagna. Occasione preziosa a conclusione di una fredda giornata, al calare della sera, con le impronte di vita lasciate ormai sulla neve. Intorno al fuoco si ripercorrono i momenti, gli attimi trascorsi insieme. Si ripercorrono i ricordi, emozioni che si imprimono dentro. Gli sguardi si incrociano, le mani attendono la presa i legami si rafforzano. Il dolce profumo nell’aria inebria gli animi, riscalda i cuori. Giunge il momento del passaggio. Un grazie, un prego, un tesoro al suo interno, la bevanda è da sorseggiare, il rito, il calore della convivialità, la grolla dell’amicizia.
Sarebbe tempo
Sarebbe tempo di pace, sarebbe il tempo di seminare il grano nei campi d’Ucraina. Sarebbe tempo di pace, sarebbe il tempo di raccogliere il cibo di una terra coltivata. Sarebbe il tempo di dare spazio, alle stagioni, il loro trascorrere, lento e inesorabile. Sarebbe il tempo della natura, scende la neve in inverno, il sole scalda i germogli in primavera. Sarebbe tempo di pace, sarebbe il tempo di non dimenticare, di ricordare. Di costruire, di ricostruire, di risollevare. Sarebbe il tempo di mani, occhi e volti, sguardi che si intrecciano, diritti che si fondono, si infondano in luoghi dove sono ancora negati. Sarebbe il tempo della gente comune, di Russia e Ucraina. Di Iran, di chi ogni giorno è in lotta.
L’AUTORE
Andrea Figari è nato a Torino nel 1983 e ha conseguito la Laurea specialistica in Giurisprudenza presso la Facoltà di Torino. È autore fin qui di quattro raccolte, tutte pubblicate con Carta e Penna Editore: “Sentieri d’Esperanza” (2009), “Schegge di Rwanda” (2010), “ChiScac? Ovvero scacchi inVersi” (2013), “POeLITICA, Schegge di Poesia” (2020). Partecipa attivamente ad iniziative, incontri letterari oltre che aver ottenuto riconoscimenti in concorsi. Gestisce il blog: https://scheggedipoesia.wordpress.com/
L’Altrove -Chi siamo
“La poesia non cerca seguaci, cerca amanti”. (Federico García Lorca)
Con questo presupposto, L’Altrove intende ripercorrere insieme a voi la storia della poesia fino ai giorni nostri.
Si propone, inoltre, di restituire alla poesia quel ruolo di supremazia che ultimamente ha perso e, allo stesso tempo, di farla conoscere ad un pubblico sempre più vasto.
Troverete, infatti, qui tutto quello che riguarda la poesia: eventi, poesie scelte, appuntamenti di reading, interviste ai poeti, concorsi di poesia, uno spazio dedicato ai giovani autori e tanto altro.
Noi de L’Altrove crediamo che la poesia possa ancora portare chi legge a sperimentare nuove emozioni. Per questo ci auguriamo che possiate riscoprirvi amanti e non semplici seguaci di una così grande arte.
Ilario Fiore –Partigiano , scrittore e giornalista RAI-
Ilario Fiore (Cortiglione, 14 novembre 1925 – Roma, 12 settembre 1998)–E’ stato partigiano a diciotto anni in una brigata Garibaldi del Monferrato. Ha esordito nel giornalismo accompagnando una nave turca che dalla costa ligure trasportava ebrei superstiti dell’olocausto in Palestina. Ha vissuto sette rivoluzioni: Egitto, Argentina, Algeria, Ungheria, Spagna, Portogallo e Cina. Poi l’America di Kennedy e l’Unione Sovietica di Breznev. Ha lavorato per la RAI come inviato, gestendo le sedi di Mosca, di Madrid e di Pechino. Ha filmato venticinque documentari, primo dei quali la versione televisiva di un suo libro, “L’Italiano di Ponte Cayumba”. E’ autore di numerosi libri ricevendo numerosi riconoscimenti, dal premio “Marzotto” 1957, all’”Estense 1981” all’ “Assisi” 1989. Tra le sue opere più famose : “Tien An Men”, “Rapporto da Pechino”, “La croce e il drago”, “Il Kennediano”, “La nave di seta”. Morì nel 1998 mentre stava lavorando ad un libro sul tentato furto da parte dei russi dei progetti per il Concorde. Fu sepolto nel cimitero di Castel di Guido a Roma.Riportiamo qui di seguito due poesie inedite dello scrittore, entrambe le poesie sono dedicate alla madre.
(A una madre)
La leggenda di Angiolina.
Sei piccola ma mi sembravi grande
quando piangevo per venirti in braccio.
Il canto della tortora nel bosco
ti guidava fuori verso la luce
dove volevi che il figlio vivesse
lontano dai lupi di una favola
vera per te, azzannata com’eri
stata sui pascoli di Vallescura.
Sognavo di diventare scrittore
per metterti in un romanzo d’amore;
e pittore per dipingerti donna
di grandezza sovrannaturale,
oppure musicista per comporre
la canzone che potesse suonare
parole e note col tuo nome,
una gloria più lunga della vita.
Dicevi che dopo al Bambinello
veniva il tuo orfano di padre;
e non sapevi che tanto amore
rompeva quelle catene antiche
che non fecero volare uomini
tanto degni da essere tuoi figli.
La leggenda (2)
Dolorosa gloria della tua vita
ogni giorno dentro di me risuona;
ombra calda di estati lontane
nell’aia sotto l’albero di alloro;
e la nebbia della sera dei Morti
e la tua voce sicura accanto al fuoco
col requieterna sconfiggeva.
Restituivi certezze al bambino
che avevi voluto nella pena,
per dare gioia all’uomo che moriva
sulla Croce fatta con le doghe
della sua bottega di falegname.
Due pale di quercia ti lasciava
per farti più forte della spada
che l’aveva trafitto a Caporetto.
Frammento di quercia di quella croce
e filo di ferro di quella spada,
mi mandavi per le strade del mondo
a difendere le cause dei giusti.
Fino ad oggi nessuno ha saputo
che ignota vittoria amara
aveva arricchito di dolcezza
il latte succhiato dal tuo seno.
La tomba di Ilario Fiore –Partigiano , scrittore e giornalista RAI-
Opere
Cose viste in Algeria 1956
Ultimo treno per Budapest 1957
Il Kennediano 1964
La campagna d’Italia fotografata dal pentagono 1965
Passaggio a sud-est 1965
Litaliano di ponte Cayumba 1967
Chi ha ucciso Kennedy 1968
Miss America 1969
Laurenti il terribile 1973
Caviale del Volga 1977
Spia del Cremlino 1977
La Spagna è differente 1980
Mal di Cina 1984
L’espresso di Shanghai 1987
Tien An Men 1989
I ragazzi di Tien An Men 1989
California 1989
Rapporto da Pechino 1990
La Croce e il Drago 1991
La nave di seta 1993
La stanza di Kerenskij 1994
L’uomo di Harbin 1996
Ilario Fiore –Partigiano , scrittore e giornalista RAI-
Ilario Fiore –Partigiano , scrittore e giornalista RAI-Ilario Fiore –Partigiano , scrittore e giornalista RAI-Ilario Fiore –Partigiano , scrittore e giornalista RAI-Ilario Fiore –Partigiano , scrittore e giornalista RAI-
Tommaso Tuppini La caduta. Fascismo e macchina da guerra
Tommaso Tuppini- La caduta- Fascismo e macchina da guerra-Orthotes Editrice
Descrizione del libro di Tommaso Tuppini La caduta. Fascismo e macchina da guerra:«C’è nel fascismo un nichilismo realizzato» scrivono Gilles Deleuze e Félix Guattari, «giacché, diversamente dallo Stato totalitario che si sforza di bloccare tutte le possibili linee di fuga, il fascismo si costruisce una linea di fuga intensa, che trasforma in linea di distruzione e di abolizione pura. È strano come sin dall’inizio i nazisti annunciassero alla Germania quel che avrebbero portato: a un tempo nozze e morte, anche la loro propria morte, e la morte dei Tedeschi».
Per quanto eterogenee e difficili da ricostruire in modo univoco, le vicende del fascismo sembrano snodarsi seguendo l’ordine di alcune tappe: il fascismo è un complesso ideologico, rituale e politico che mette capo a un dispositivo militare lanciato verso la propria distruzione. L’ideologia razzista, i rituali, le prassi policratiche di governo, diventano la premessa per la costruzione di una macchina da guerra che ha il significato di un grande esperimento suicidario. Nata per proteggere e riterritorializzare a Est il popolo-nazione tedesco, la macchina si insubordina molto presto a qualsiasi compito che non sia quello della distruzione. Il fascismo voleva produrre l’“autentico” soggetto tedesco, seminare il mondo con maestose rovine capaci di testimoniare la vittoria sulla morte, ma il vortice della sua caduta ha prodotto soltanto la polvere di una catastrofe.
Macchina da guerra e nomos
diTommaso Tuppini-insegna Filosofia all’Università di Verona. Con Orthotes ha pubblicato La caduta. Fascismo e macchina da guerra
La fuga può appartenere alle esperienze più svariate e per definizione non è anticipabile, si sottrae al perimetro di qualsiasi progetto. La fuga di solito è l’effetto prodotto da una macchina da guerra. La macchina da guerra non ha a che fare in primo luogo con azioni di belligeranza, non provoca necessariamente un conflitto, è semmai un modo peculiare di abitare lo spazio, «è nella sua essenza l’elemento costitutivo dello spazio liscio, dell’occupazione di questo spazio, dello spostamento in questo spazio e della composizione corrispondente degli uomini: è questo il suo solo e vero oggetto positivo (nomos)».[1] Il nomos della macchina da guerra definisce un certo rapporto tra lo spazio e il molteplice di qualsiasi natura (inorganico, animale, antropologico, tecnologico ecc.) che lo riempie. La comprensione deleuziana di nomos è il controcanto della definizione che ne dà Carl Schmitt in un saggio del 1953.[2] Per Schmitt nomos dice il modo in cui un gruppo umano prende possesso di uno spazio e lo organizza per la propria sussistenza. Nomos comprende tre significati fondamentali e sempre coimplicati: “conquistare” la terra (Landnahme) che sarà poi da “spartire” (Teilen) perché diventi possibile utilizzarla e cominciare “produrre” (Weiden). Un gruppo umano prende possesso di un territorio libero, una “cosa di nessuno”, oppure contende il territorio ad altri gruppi. Nel secondo momento del nomos – la spartizione – i lotti del territorio vengono distribuiti ai membri secondo i diritti di ciascuno. Il nomos, però, ha anche un altro significato: l’uso produttivo della terra che è stata conquistata e spartita. Questo terzo momento comprende ogni forma di sfruttamento economico: la pastorizia dei nomadi, ma anche il lavoro agricolo, l’artigianto, la produzione industriale, qualsiasi coltivare, utilizzare e produrre. Nomos è un gesto di colonizzazione, dunque ha un significato politico, ma ha anche un significato giuridico, perché assegna un titolo di proprietà ai membri che partecipano della spartizione, e ha infine un significato economico. Il nomos della conquista, della spartizione e dell’uso ha una funzione stabilizzatrice, scandisce le tappe di un processo che compendia le prerogative dello Stato, le cui funzioni principali sono il controllo delle norme di residenza, il disciplinamento della circolazione di uomini e merci, l’organizzazione del lavoro.[3] Le tappe del nomos sono relative a «una tribù o un seguito o un popolo che si fa stanziale»,[4] definiscono i tratti essenziali della territorializzazione e della codificazione.
Anche il nomos affermato dalla macchina da guerra dice il modo in cui un molteplice ha a che fare con lo spazio: far funzionare una macchina da guerra significa infatti «distribuirsi in uno spazio aperto, tenere lo spazio, conservare la possibilità di apparire in qualsiasi punto».[5] Le componenti della macchina da guerra sono le stesse del nomos stanziale (spazio, elementi e l’occupazione dello spazio da parte degli elementi) ma diverso è il loro incastro reciproco. La differenza fondamentale tra il nomos sedentario e il nomos della macchina da guerra è che quest’ultimo rende impossibile scandire il suo funzionamento in tappe, non distingue tra la conquista, la spartizione e la produzione. Le ultime due tappe del nomos stanziale (spartire e utilizzare) presuppongono la prima (conquistare). Invece, per la macchina da guerra, tenere uno spazio vuol dire percorrerlo senza una presa di possesso preliminare, distribuirvisi senza dividerlo o costruendo recinti. La macchina da guerra tiene uno spazio indeterminato (ovvero “liscio”) nel modo in cui tengono il pendio i massi che ci rotolano sopra oppure – è l’esempio che fa Deleuze – tengono il pascolo gli animali che si distribuiscono sul fianco di una montagna, su una distesa nei pressi di una città, comunque in uno spazio «senza frontiere e senza chiusura».[6] Per il nomos della macchina da guerra lo spazio non è un perimetro inerte da occupare e misurare perché esso è fatto della tensione fra i corpi che lo popolano: c’è spazio solo nel momento in cui un molteplice vi si distribuisce per riempirlo. Lo spazio è ciò che succede tra i corpi. Per il nomos stanziale lo spazio è già dato, esso è qualche cosa di semplicemente presente di cui appropriarsi per poi suddividerlo. Il nomos dello Stato è incapace di produrre qualche cosa di nuovo, inedito, sorprendente, perché la distribuzione e la produzione rimangono funzioni della appropriazione iniziale, la natura del proprietario e della proprietà decidono della spartizione e della produzione. Il presente e il futuro del nomos stanziale sono una conseguenza del passato. Lo spazio “liscio” della macchina da guerra, invece, nasce insieme agli elementi, è la novità della combinazione tra gli elementi: pezzi di realtà, che prima s’ignoravano, si incontrano e si combinano per produrre qualche cosa che prima non c’era. La macchina da guerra non è orientata verso il passato dell’appropriazione ma verso il futuro della produzione. Il nomos stanziale mette ordine e sfrutta il vecchio, la macchina da guerra produce il nuovo. Di questo è fatta la necessaria fragilità della macchina da guerra rispetto a qualsiasi apparato che obbedisca al nomos stanziale. Poiché la macchina da guerra produce il proprio spazio, la tenuta di quest’ultimo non è garantita da nulla se non dall’azzardo della combinazione. È uno spazio sperimentale che può sparire con la stessa facilità con la quale è nato.
Per comprendere meglio la struttura di una macchina da guerra facciamo un esempio idraulico, il vortice. Il vortice è una dei primi fenomeni fisici sui quali si è esercitato il pensiero filosofico, segnatamente quello atomistico, che in esso ha scoperto una struttura intermedia tra il disordine e l’ordine, una fase di passaggio tra la pioggia verticale degli atomi e la condizione del mondo con cui abbiamo a che fare tutti i giorni. La pioggia verticale di atomi è un flusso lamellare: gli strati compongono un flusso lamellare, differenti per viscosità e consistenza, procedono paralleli, senza mescolarsi e interferire. Un flusso lamellare è come una torta a strati che si disloca: è mobile rispetto all’ambiente ma al proprio interno è immobile perché la disposizione reciproca delle parti non cambia. La condizione presente, invece, è fatta di atomi aggregati in modo più o meno stabile. Tra il flusso uniforme degli atomi in caduta e la condizione presente del mondo, il vortice è la produzione attiva delle cose. La stratificazione di cui sono fatte le cose è un prodotto della vorticazione nella quale parti eterogenee di realtà si distribuiscono e si raccolgono. Il vortice dell’onda trascina con sé i detriti e separa i più grossi dai più piccoli. Questo ordine incipiente è ben rappresentato dal mulinello che si forma in certi corsi d’acqua e che già aveva attirato l’attenzione di Descartes nei Principes de la philosophie: se un torrente incontra un ostacolo (un sasso sul fondo), quest’ultimo gli rimanda indietro un controflusso il quale, combinandosi con il flusso, produce un vortice. Il vortice è una novità perché combina due cose che si ignoravano: lo scorrere del fiume e l’inerzia della pietra. Prima della formazione del vortice pietra e flusso aderivano l’una all’altro senza nessuna sfasatura. Quando il flusso inciampa nella pietra, una turbolenza dell’acqua segna la sfasatura tra i due elementi che in questo modo entrano per la prima volta in relazione.
[1] G. Deleuze – F. Guattari, Mille piani, cit., p. 573. [2] C. Schmitt, Appropriazione, divisione, produzione, in Le categorie del politico, tr. it. P. Schiera, Il Mulino, Bologna 1972, pp. 295-312. [3] G. Sibertin-Blanc, Politique et État chez Deleuze et Guattari. Essai sur le matérialisme historico-machinique, PUF, Paris 2013, pp. 120-121. [4] C. Schmitt, Il nomos della terra, tr. it. E. Castrucci, Adelphi, Milano 1991, p. 59 [5] G. Deleuze – F. Guattari, Mille piani, cit., p. 488. [6]Ivi, p. 524.
Ciascuno dei giri di cui è fatto il vortice è fatto di un equilibrio fisico tra le spinte e le controspinte, allaccia la forza centripeta (che origina dal sasso, tendenza alla chiusura) e quella centrifuga (che origina dal fiume, tendenza all’apertura). Per mantenersi il vortice deve catturare le forze che rischiano di distruggerlo: la dispersione della corrente e l’inerzia della pietra. Il vortice si alimenta di queste forze, ma se prevale la spinta centrifuga il giro si allarga troppo e si sfascia, se invece prevale l’inerzia centripeta il giro si restringe e il vortice può chiudersi. Una combinazione dei corpi (flusso d’acqua, pietra) produce uno spazio nuovo e precario (il vortice).
Ma nel vortice riconosciamo un’altra caratteristica della macchina da guerra che fino adesso è rimasta implicita e che ci dice qualcosa di più preciso sulla natura dello spazio che la macchina allestisce: il vortice organizza la propria struttura producendo il vuoto e facendone un qualche uso. Il perno del movimento vorticoso è infatti la cavità conica che mette in comunicazione la superficie del torrente e il sasso sul fondo. Lo spazio della macchina è essenzialmente uno spazio di vuoto. Pensiamo alla ruota, dispositivo che non esiste in natura, capace di riconfigurare l’ambiente e che permette di spostarsi in modo nuovo: la ruota combina il moto di un oggetto circolare con l’immobilità del mozzo, ma funziona soltanto se tra il mozzo e il cerchio c’è un’intercapedine. A causa di questa giunzione senza saldatura la macchina rischia di saltare e guastarsi: tra la ruota e il mozzo, infatti, c’è una frizione (è una delle prime osservazioni che ha fatto la filosofia, «l’asse dei mozzi mandava un sibilo acuto, infiammandosi, in quanto era premuto da due rotanti cerchi da una parte e dall’altra» dice Parmenide del carro su cui era salito). Le macchine, prima di avere un effetto distruttivo sull’ambiente o sugli altri, sono dannose per se stesse, sono coinvolte in un processo di auto-demolizione. La precarietà della struttura è il prezzo che la macchina deve pagare per la propria audacia e novità. Una macchina, quanto più è complessa e fatta di elementi eterogenei, tanto più è fragile nel suo funzionamento. È il vuoto a permettere che elementi eterogenei si combinino insieme, ma questo assemblaggio rischia sempre di cadere a pezzi. Se, a differenza del nomos di terrritorializzazione, il nomos della macchina da guerra ha un potere inventivo, non si limita a ripetere tale e quale il passato, è perché si addentra in uno spazio di vuoto. Il vuoto investito dalla macchina è uno spazio catastrofico, è il suo futuro. La macchina da guerra trasforma lo spazio in tempo: ogni combinazione, incontro, macchinazione “da guerra” si mantiene soltanto se è capace di assimilare ciò che gli può accadere, il guasto, la rovina, la caduta.
“Macchina da guerra” può essere una struttura fisica, un’invenzione tecnologica, un circuito commerciale, un’opera d’arte, tutto ciò che allestisce uno spazio plastico e metamorfico dentro il quale è impossibile codificare i rapporti una volta per tutte. Per una scienza della macchina da guerra anche gli esseri viventi sono vortici:
onde, flutti, particelle semplici […], quel che chiamiamo un “essere” non è mai qualcosa di semplice […]: è travagliato da una profonda divisione interiore, è chiuso in modo imperfetto e, in certi punti, viene aggredito dall’esterno. […] Quel che sei riposa sull’attività che tiene insieme gl’innumerevoli elementi di cui sei fatto, sulla comunicazione intensa degli elementi tra di loro. Sono contatti energetici, movimento, calore e migrazioni d’elementi che fanno la vita intima del tuo essere organico. La vita non è mai situata in un luogo preciso: passa rapidamente da un punto all’altro […] come un flusso o una specie di torrente elettrico. […] La tua vita, inoltre, non è fatta soltanto di questo scorrimento interiore; scorre al di fuori e si apre a ciò che fluisce o le zampilla addosso. Il vortice durevole di cui sei fatto va a sbattere contro vortici simili con i quali forma una figura più ampia, animata da un’agitazione relativa.[1]
La storia evolutiva dell’uomo è eminentemente vorticosa, essa ha portato a intersecarsi forze che precedentemente s’ignoravano: la orizzontalità terragna del movimento animale e la postura erettile della pianta che punta verso il cielo.[2] Il vortice umano nasce quando il flusso animale incontra la pianta che gli manda indietro un contro-flusso di verticalizzazione. I picchi dell’esistenza sono fatti di quel «vortice del godimento» che si eleva «nella direzione di un cielo bello come la morte, pallido e improbabile come la morte, mentre gli occhi lo tengono attaccato con stretti legami alle cose volgari dove la necessità ha fissato il suo cammino».[3]
Non dobbiamo però immaginare il molteplice deterritorializzato come un’entità distinta da un molteplice territorializzato, il nomos della macchina da guerra come il “contrario” del nomos sedentario. Deterritorializzazione e territorializzazione sono due condizioni differenti che riguardano lo stesso corpo o insieme di corpi. Il movimento della macchina da guerra di solito rompe una occupazione sedentaria dello spazio e sedimenta in un’altra occupazione stanziale: i massi prima o poi avranno finito di rotolare. Le bestie si saranno distribuite sul fianco della montagna e il pastore le terrà sott’occhio disegnando con il pensiero un perimetro dal quale i singoli capi non devono uscire. Il vortice idraulico proviene da un flusso lamellare nel quale dopo un certo tempo si ritrasformerà. La deterritorializzazione della macchina da guerra va verso un’ulteriore territorializzazione. La macchina da guerra, dunque, è sempre orientata in due direzioni contemporaneamente: la novità della produzione in atto e lo stato di cose nel quale la novità si è ritradotta. Lo stato di cose è la novità fatta abitudine, l’invenzione diventata “scuola”. La macchina da guerra trova il proprio limite nella riterritorializzazione alla quale mette capo. Quest’ultima ne è il limite perché le assegna una figura riconoscibile, per certi versi ne è la continuazione sotto un’altra forma. Rispetto alla macchina da guerra e alla linea molare, la linea molecolare è una condizione di mezzo. La linea molecolare è una specie di compromesso[4] tra il nomos della macchina da guerra e la territorializzazione. La segmentarietà molecolare, fatta di sconfinamenti ed equivoci, può sconcatenarsi fino a diventare macchina da guerra, oppure può perdere la propria flessibilità, irrigidirsi e territorializzare il proprio molteplice. L’equivoco consiste nell’assolutizzare l’una condizione rispetto alle altre, non comprendere che la linea di fuga è il processo genealogico di cui la molarità è il risultato. L’equivoco fascista è proprio questo: il culto di una molarità auto-sufficiente, priva di genealogia (la razza), e il desiderio di costruire una macchina da guerra capace di un movimento continuo (la Panzerwaffe).
[1] G. Bataille, L’experiènce interieure, in Œuvres complètes, vol. V, Gallimard, Paris 1973, p. 111. [2] Id., Dossier de l’œil pinéal, in Œuvres complètes, vol. II, Gallimard, Paris 1970, p. 26. [3]Ibidem. [4] G. Deleuze – F. Guattari, Mille piani, cit., p. 295.
Tratto da Tommaso Tuppini, La caduta. Fascismo e macchina da guerra, Orthotes 2019
Tommaso Tuppini La caduta. Fascismo e macchina da guerra
Orthotes Editrice
Via Saverio Costantino Amato 16 84014 – Nocera Inferiore (SA)
Adélia Luzia Prado de Freitas, meglio conosciuta come Adélia Prado (Divinópolis, 13 dicembre 1935), è una poetessa, docente e filosofa brasiliana che si rifà al modernismo. Una delle caratteristiche del suo stile è il fatto di parlare del quotidiano con perplessità e incanto, guidato dalla fede cristiana. Nel 1976, invia il manoscritto di Bagagem ad Affonso Romano de Sant’Anna, colonnista di critica letteraria per Jornal do Brasil, il quale rimanendo colpito li invia a Carlos Drummond de Andrade, che spinge la pubblicazione del libro dall’Editora Imago. Da docente insegna per 24 anni, fino a quando si dedica interamente alla scrittura. Una moglie, una madre e una donna di casa, Adélia, grazie al suo ingresso nella letteratura brasiliana, fa sì che la figura della donna acquisti valore come essere pensante.
Adelia Prado
O sonho encheu a noite
Extravasou pro meu dia
Encheu minha vida
E é dele que eu vou viver
Porque sonho não morre.
Adélia Prado
Il sogno ha riempito la notte
Estravaso dalla mia giornata
Mi ha riempito la vita
Ed è lui che vivrò
Perché il sogno non muore.
Adélia Prado
Adélia costuma dizer que o cotidiano é a própria condição da literatura. Morando na pequena Divinópolis, cidade com aproximadamente 200.000 habitantes, estão em sua prosa e em sua poesia temas recorrentes da vida de província, a moça que arruma a cozinha, a missa, um certo cheiro do mato, vizinhos, a gente de lá.
Adelia dice spesso che la quotidianità è la condizione stessa della letteratura. Vivendo nella piccola Divinopolis, città di circa 200.000 abitanti, sono nella sua prosa e nella sua poesia temi ricorrenti della vita di provincia, la signora che sistema la cucina, la messa, un certo odore di cespuglio, vicini di casa, gente di là.
Adélia Prado
BALÉ
– A Imagem Refletida – Balé do Teatro Castro Alves – Salvador – Bahia – Direção Artística de Antônio Carlos Cardoso. Poema escrito por Adélia Prado especialmente para a composição homônima de Gil Jardim.
Vem de antes do sol
A luz que em tua pupila me desenha.
Aceito amar-me assim
Refletida no olhar com que me vês.
Ó ventura beijar-te,
espelho que premido não estilhaça
e mais brilha porque chora
e choro de amor radia.
(Divinópolis, 1998).
Adélia Prado
BALLET
– L’immagine riflessa – Balletto del Teatro Castro Alves – Salvador – Bahia – Direzione artistica di Antonio Carlos Cardoso. Poesia scritta da Adelia Prado appositamente per l’omonima composizione di Gil Garden.
Viene da prima del sole
La luce che nella tua pupilla mi disegna.
Accetto di amarmi così
Riflesso nello sguardo con cui mi vedi.
Oh ventura baciarti,
specchio che premuto non si frantuma
e più brilla perché piange
e piango d’amore radia.
(Divinopolis, 1998).
Dia
As galinhas com susto abrem o bico
e param daquele jeito imóvel
– ia dizer imoral –
as barbelas e as cristas envermelhadas,
só as artérias palpitando no pescoço.
Uma mulher espantada com sexo:
mas gostando muito.
– Adélia Prado
Adélia Prado
Giorno
Le galline spaventate aprono il becco
e si fermano in quel modo immobile
– stavo per dire immorale –
le barbe e le creste rosse,
solo le arterie che palpitano sul collo.
Una donna stupita dal sesso:
ma mi piace molto
– Adélia Prado
Adélia Prado
Testo estratto dal libro “Filandras”, Editore Record – Rio de Janeiro, 2001, pag. 111.
La mia anima è in difficoltà, tentata dalla tristezza e dalla sua raffinatezza. Mio padre morto non lo ripeterà quest’anno: “Niente come un pollo con riso dopo la messa”. Mia sorella piange perché suo marito è legato con i soldi e lei voleva davvero comprare qualche festa, qualche regalino in più, la vita, e lui trova tutto sciocco e vuole solo riempire il frigorifero con mortadella e birra. Forse per questo o perché mi sono trovata troppo vecchia nello specchio del negozio, ho difficoltà ad aiutare Coralia. Vorrei tanto piangere, sto piangendo davvero, alla vigilia della nascita del Signore, io che tremo appena nati. Sto trovando il mondo triste, volendo mamma e papà, anch’io Coralia ha detto: sei così creativa! E lo sono davvero, potrei inventarmi una sofferenza così insopportabile da appassire tutto intorno a me. Ma non voglio. E anche se volessi, per destino, non posso. Questo muschio tra le pietre non consente, è troppo verde E questa sabbia. Sono troppo carini! A mezzanotte arriva il ragazzo, a mezzanotte in punto. Fodero il sonno di paglia. Arriva, le cose lo sanno, perché pulsano, le pecore di gesso, la stella di brillantini, la laguna fatta di specchi. Farò le ghirlande per Coralia adornare il tuo negozio. Le radiazioni della “luce che non ferisce gli occhi” si fanno strada tra le macerie, avanza impercettibile e i ruvidi, anche i ruvidi, bagnati. Sfoco un po’ lo sguardo e c’è l’aureone, la chiarezza attesa, a Coralia, a Giovanna con suo marito e in me, anche in me che scelgo di bere il vino della gioia, perché da questo luogo, dove “il leone mangia la paglia con il bue”, questa certezza mi prende: “uno piccolo ragazzo ci condurrà”.
Presso il Presepe- Adelia Prado
Testo estratto dal libro “Filandras”, Editore Record – Rio de Janeiro, 2001, pag. 111.
Adélia Prado
· ” Dona Doida “
Uma vez, quando eu era menina, choveu grosso
com trovoadas e clarões, exatamente como chove agora.
Quando se pôde abrir as janelas,
as poças tremiam com os últimos pingos.
Minha mãe, como quem sabe que vai escrever um poema,
decidiu inspirada: chuchu novinho, angu, molho de ovos.
Fui buscar os chuchus e estou voltando agora,
trinta anos depois. Não encontrei minha mãe.
A mulher que me abriu a porta, riu de dona tão velha,
com sombrinha infantil e coxas à mostra.
Meus filhos me repudiaram envergonhados,
meu marido ficou triste até a morte,
eu fiquei doida no encalço.
Só melhoro quando chove.
– Adélia Prado
O texto acima foi extraído do livro “Poesia Reunida”, Editora Siciliano – 1991, São Paulo, página 108.
Adélia Prado
“Dona pazza”
Una volta, quando ero bambina, pioveva forte
con temporali e lampi, esattamente come piove ora.
Quando si è potuto aprire le finestre,
le pozzanghere tremavano con le ultime gocce.
Mia madre come chi sa che scriverà una poesia
ha deciso ispirato: nuovissimo chuchu, angu, salsa all’uovo.
Sono andato a prendere i chuchus e sto tornando ora,
trent’anni dopo Non ho trovato mia madre.
La donna che mi ha aperto la porta, ha riso di una donna così vecchia,
con ombrello per bambini e cosce in vista.
I miei figli mi hanno ripudiato in vergogna,
mio marito era triste fino alla morte,
Sono impazzito a cercare
Miglioro solo quando piove
– Adélia Prado
Il testo sopra è stato estratto dal libro “Poesia riunita”, Editore Siciliano – 1991, San Paolo, pagina 108.
·
Texto extraído do livro “Quero minha mãe”, Editora Record – Rio de Janeiro, 2005, pág. 41.
Adélia Prado
Quero minha mãe
Abel e eu estamos precisando de férias. Quando começa a perguntar quem tirou de não sei onde a chave de não sei o quê, quando já de manhã espero não fazer comida à noite, estamos a pique de um estúpido enguiço. Sou uma pessoa grata? Às vezes o que se nomeia gratidão é uma forma de amarra. Entendo amor ao inimigo, mas gratidão o que é? Tenho problemas neste particular. Se aviso: passo na sua casa depois do almoço, acrescento logo se Deus quiser, não sendo grata, temo que me castigue com um infortúnio. Bajulo Deus, esta é a verdade, tenho o rabo preso com Ele, o que me impede de voar. Como posso alçar-me com Ele grudado à cauda? Uma esquizofrenia teológica, eu sei, quando fica tudo confuso assim, meu descanso é recolher-me como um tatu-bola e repetir até passar a crise, Senhor, tem piedade de mim. Até em sonhos repito, Senhor, tem piedade de mim, é perfeito. Sensação de confinamento outra vez, minha pele, minha casa, paredes, muro, tudo me poda, me cerca de arame farpado. Coitada da minha mãe, devia estar nesta angústia no dia em que me atingiu: “trem ordinário” Com certeza não suportava a idéia, o fardo de ter-que-dar-conta-daquela-roupa-de-graxa-do-meu-pai, daquele caldo escuro na bacia, fedendo a sabão preto e ela querendo tempo pra ler, ainda que pela milésima vez, meu manual de escola, o ADOREMUS, a REVISTA DE SANTO-ANTONIO. Mãe, que dura e curta vida a sua. Me interditou um reloginho de pulso, mas não teve meios de me proibir ficar no barranco à tarde, vendo os operários saírem da oficina, sabia que eu saberia o motivo. Duas mulheres, nos comunicávamos. Tá alegre, mãe? A senhora não liga de ficar em casa, não? Posso ir no parque com a Dorita? Vai chamar tia Ceição pra conversar com a senhora? Nem na festa da escola, nem na parada pra ver eu carregar a bandeira ela não foi. Não dava para ir de “mantor” porque era de dia com sol quente, gastei cinqüenta anos pra entender. Teve uma lavadeira, a Tina do Moisés, que ela adorava e tratava como rainha. Sua roupa acostumou comigo, Clotilde, nem que eu queira, não consigo largar. Foi um tempo bom de escutar isto, descansei de vê-la lavando roupa com o olhar perdido em outros sítios, sentindo e querendo, com toda certeza, o que qualquer mulher sente e quer, mesmo tendo lavadeira e empregada. Tenho sonhado com a mãe tomando conta de mim, me protegendo os namoros, me dando carinho, deixando, de cara alegre, meus peitinhos nascerem e até perguntando: está sentindo alguma dor, Olímpia? É normal na sua idade. Com certeza aprendeu, nas prédicas às Senhoras do Apostolado, como as mães cristãs deviam orientar suas filhas púberes. Te explico, Olímpia, porque pode te acontecer na escola, não precisa levar susto, não é sangue de doença. Achei minha mãe bacana, uma palavra ainda nova que só os moleques falavam. Coitadas da Graça e da Joana, que nem isso ganharam dela. Morreu antes de me ensinar a lidar com as incômodas e trabalhosas toalhinhas. mãe, mãezinha, mamãezinha, mamãe, e o reino do céu é um festim, quem escondeu isto de você e de mim?
– Adélia Prado
Texto extraído do livro “Quero minha mãe”, Editora Record – Rio de Janeiro, 2005, pág. 41.
Voglio la mia mamma
Io e Abel abbiamo bisogno di una vacanza Quando inizi a chiedere chi ha preso da non so dove la chiave di non so cosa, quando già al mattino spero di non cucinare la sera, siamo in giro per uno stupido maialino. Sono una persona grata? A volte ciò che si chiama gratitudine è una forma di legatura. Capisco l’amore per il nemico, ma la gratitudine cos’è? Ho dei problemi in questo privato. Vi avverto: passo a casa vostra dopo pranzo, aggiungo subito se Dio vuole, non essendo grato, temo che mi punisca con una sfortuna. Dio lusinghiero, questa è la verità, ho il sedere incastrato con Lui, il che mi impedisce di volare. Come posso stare con Lui attaccato alla coda? Una schizofrenia teologica, lo so, quando tutto si confonde così, il mio riposo è raccogliermi come un tatu-palla e ripeterlo fino alla crisi, Signore, abbi pietà di me. Anche nei sogni ripeto, Signore, abbi pietà di me, è perfetto. Sensazione di reclusione ancora, la mia pelle, la mia casa, i muri, il muro, tutto mi pota, mi circonda di filo spinato. Povera mia madre, dovrei essere in questa angoscia il giorno in cui mi ha colpito: “treno ordinario” Di sicuro non sopportavo l’idea, il peso di dover-dare-conto-di quel-vestito di levasso di mio padre, di quel brodo scuro nella bacinella, puzza di sapone nero e lei che vuole tempo per leggere, anche se per la millesima volta, il mio manuale di scuola, l’ADOREMUS, la RIVISTA DI SANT’ANTONIO Mamma, che dura e breve vita la tua. Mi ha vietato un orologio da polso, ma non ha avuto modo di vietarmi di stare al barcone il pomeriggio a guardare gli operai lasciare l’officina, sapeva che avrei saputo il motivo. Due donne, comunicavamo. Sei felice, mamma? La signora non le importa di stare a casa, vero? Posso andare al parco con Dorita? Chiamerai zia Ceizione per parlare con la signora? Né alla festa della scuola, né alla parata per vedermi portare la bandiera, lei non c’è andata. Non potevo fare il “mantore” perché era giorno con il sole caldo, ho speso cinquant’anni per capire. C’era una lavandaia, la Tina di Mosè, che lei amava e trattava come una regina. Il tuo vestito mi ha abituato, Clotilde, anche se lo voglio, non riesco a lasciarlo andare. È stato un bel momento per ascoltarlo, mi sono riposato nel vederla fare il bucato con lo sguardo perso altrove, sentendo e volendo, sicuramente, quello che ogni donna sente e vuole, anche se ha lavandaia e una cameriera. Ho sognato che mamma si prendesse cura di me, mi proteggeva gli appuntamenti, mi dava affetto, lasciandomi nascere, con un viso allegro, le mie tette e mi chiedevano anche: stai provando dolore, Olimpia? È normale alla tua età. Sicuramente hai imparato, nelle prediche delle signore dell’Apostolato, come le madri cristiane dovrebbero guidare le loro figlie pubere. Te lo spiego Olimpia perché può capitare a scuola, non devi spaventarti, non è sangue di malattia. Ho trovato mia madre figa, una parola ancora giovane che solo i ragazzi parlavano. Povere Grazia e Giovanna, che non l’hanno battuta nemmeno quella. È morto prima di insegnarmi a gestire le fastidiose e le fastidiose salviette. mamma mamma mamma mamma mamma e il regno del cielo è una festa chi l’ha nascosto a me e a te?
– Adelia Prado
Testo estratto dal libro “Voglio mia madre”, Record Editore – Rio de Janeiro, 2005, pag. 41.
Adélia Prado
Com licença poética
Quando nasci um anjo esbelto,
desses que tocam trombeta, anunciou:
vai carregar bandeira.
Cargo muito pesado pra mulher,
esta espécie ainda envergonhada.
Aceito os subterfúgios que me cabem,
sem precisar mentir.
Não sou feia que não possa casar,
acho o Rio de Janeiro uma beleza e
ora sim, ora não, creio em parto sem dor.
Mas o que sinto escrevo. Cumpro a sina.
Inauguro linhagens, fundo reinos
— dor não é amargura.
Minha tristeza não tem pedigree,
já a minha vontade de alegria,
sua raiz vai ao meu mil avô.
Vai ser coxo na vida é maldição pra homem.
Mulher é desdobrável. Eu sou.
Con permesso poetico
Quando sono nato un angelo snello,
di quelli che suonano la tromba, ha annunciato:
vai a portare bandiera.
Un posto molto pesante per una donna,
questa specie ancora vergognata.
Accetto i sotterfugi che mi stanno bene,
senza dover mentire.
Non sono brutta che non posso sposarmi,
Trovo Rio de Janeiro una bellezza e
Bene sì, ora no, credo nel parto senza dolore.
Ma quello che sento lo scrivo. Faccio il destino.
Inauguro le stirpe, i regni di fondo
— il dolore non è amarezza.
La mia tristezza non ha pedigree,
già la mia voglia di gioia,
la tua radice va a mio nonno mille
Sarà zoppo nella vita è una maledizione per gli uomini.
Le donne sono pieghevoli Lo sono.
·
Com licença poética
Quando nasci um anjo esbelto,
desses que tocam trombeta, anunciou:
vai carregar bandeira.
Cargo muito pesado pra mulher,
esta espécie ainda envergonhada.
Aceito os subterfúgios que me cabem,
sem precisar mentir.
Não sou feia que não possa casar,
acho o Rio de Janeiro uma beleza e
ora sim, ora não, creio em parto sem dor.
Mas o que sinto escrevo. Cumpro a sina.
Inauguro linhagens, fundo reinos
— dor não é amargura.
Minha tristeza não tem pedigree,
já a minha vontade de alegria,
sua raiz vai ao meu mil avô.
Vai ser coxo na vida é maldição pra homem.
Mulher é desdobrável. Eu sou.
Con permesso poetico
Quando sono nato un angelo snello,
di quelli che suonano la tromba, ha annunciato:
vai a portare bandiera.
Un posto molto pesante per una donna,
questa specie ancora vergognata.
Accetto i sotterfugi che mi stanno bene,
senza dover mentire.
Non sono brutta che non posso sposarmi,
Trovo Rio de Janeiro una bellezza e
Bene sì, ora no, credo nel parto senza dolore.
Ma quello che sento lo scrivo. Faccio il destino.
Inauguro le stirpe, i regni di fondo
— il dolore non è amarezza.
La mia tristezza non ha pedigree,
già la mia voglia di gioia,
la tua radice va a mio nonno mille
Sarà zoppo nella vita è una maledizione per gli uomini.
Le donne sono pieghevoli Lo sono.
·
Adélia Prado
Adélia Luzia Prado de Freitas, meglio conosciuta come Adélia Prado (Divinópolis, 13 dicembre 1935), è una poetessa, docente e filosofa brasiliana che si rifà al modernismo. Una delle caratteristiche del suo stile è il fatto di parlare del quotidiano con perplessità e incanto, guidato dalla fede cristiana. Nel 1976, invia il manoscritto di Bagagem ad Affonso Romano de Sant’Anna, colonnista di critica letteraria per Jornal do Brasil, il quale rimanendo colpito li invia a Carlos Drummond de Andrade, che spinge la pubblicazione del libro dall’Editora Imago. Da docente insegna per 24 anni, fino a quando si dedica interamente alla scrittura. Una moglie, una madre e una donna di casa, Adélia, grazie al suo ingresso nella letteratura brasiliana, fa sì che la figura della donna acquisti valore come essere pensante.
Franco Leggeri Fotoreportage-Murales Ospedale Spallanzani di Roma-
11) Alexander Fleming- Batteriologo, scopritore della penicillina -Premio Nobel per la Medicina nel 1945-
Franco Leggeri Fotoreportage- Murales Ospedale Spallanzani di Roma- 11) Alexander Fleming- Batteriologo, scopritore della penicillina- Premio Nobel per la Medicina nel 1944
Franco Leggeri Fotoreportage-Murales Ospedale Spallanzani di Roma- 11) Alexander Fleming- Batteriologo, scopritore della penicillina- Premio Nobel per la Medicina nel 1945 -Roma -Portuense-Vigna Pia e Dintorni–
– Questo reportage, come quelli a seguire, vuole essere un viaggio che documenta e racconta la storia di un quartiere di Roma: Portuense-Vigna Pia e i suoi Dintorni con scatti fotografici che puntano a fermare il tempo in una città in continuo movimento. Non è facile scrivere, con le immagini di una fotocamera, la storia di un quartiere per scoprire chi lascia tracce e messaggi. Ci sono :Graffiti, Murales, Saracinesche dipinte, Vetrine eleganti che sanno generare la curiosità dei passanti ,il Mercatino dell’usato, il Mercato coperto, le Scuole, la Parrocchia, il Museo, la Tintoria storica della Signora Pina, la scuola di Cinema, la scuola di Musica, le Palestre , il Bistrò ,i Bar ,i Ristoranti, le Pizzerie e ancora i Parrucchieri e gli specialisti per la cura della persona e come non ricordare l’Ottica Vigna Pia .Non mancano gli Artigiani e per finire, ma non ultimo, il Fotografo “Rinaldino” . Il mio intento è di presentare un “racconto fotografico” che ognuno può interpretare e declinare con i suoi ”Amarcord” come ad esempio il rivivere “le bevute alla fontanella”, sita all’incrocio di Vigna Pia-Via Paladini, dopo una partita di calcio tra ragazzi ,oppure ricordando i “gavettoni di fine anno scolastico. Infine, vedendo il tronco della palma tagliato, ma ancora al suo posto, poter ricordare, con non poca tristezza, la bellezza “antica” di Viale di Vigna Pia.
Roma,lungo via Folchi ,con inizio dalla via Portuense, si trovano i Murales che raffigurano gli scienziati che hanno combattuto e vinto le battaglie contro le malattie infettive. Eroi veri, ma dimenticati su questo muro di cinta . I Murales ora rischiano il degrado e la “polverizzazione” dell’intonaco. Il muro di cinta dell’Ospedale “Lazzaro Spallanzani”, lato via Folchi, fa da “sostegno” e “tela” ai murales realizzati in questi 270 metri. L’Opera fu iniziata nel febbraio del 2018 e completata e inaugurata il 3 maggio dello stesso anno. Nei Murales sono immortalati i 13 volti di Scienziati che hanno scritto la storia della ricerca sulle malattie infettive. Il progetto dei Murales, finalizzato a celebrare gli 80 anni della struttura ospedaliera, è stato realizzato grazie alla collaborazione fra la Direzione dello Spallanzani e l’Associazione Graffiti Zero che promuove l’integrazione fra la Street Art e i luoghi che la ospitano. Unica grave pecca ,ahimè, non vi è immortalata nessuna donna.
Franco Leggeri Fotoreportage- Murales Ospedale Spallanzani di Roma- 11) Alexander Fleming- Batteriologo, scopritore della penicillina- Premio Nobel per la Medicina nel 1944
Franco Leggeri Fotoreportage- Murales Ospedale Spallanzani di Roma- 11) Alexander Fleming- Batteriologo, scopritore della penicillina- Premio Nobel per la Medicina nel 1944
Franco Leggeri Fotoreportage- Murales Ospedale Spallanzani di Roma- 11) Alexander Fleming- Batteriologo, scopritore della penicillina- Premio Nobel per la Medicina nel 1944
Roma l
Franco Leggeri Fotoreportage- Murales Ospedale Spallanzani di Roma- 11) Alexander Fleming- Batteriologo, scopritore della penicillina- Premio Nobel per la Medicina nel 1944Verranno pubblicati le foto dei Murales di tutti i 13 scienziati , uno alla volta, questo al fine di poter evidenziare la biografia e la loro Opera in maniera più completa possibile. Le biografie pubblicate a corredo delle foto sono prese da vari Blog e siti web-
Franco Leggeri Fotoreportage-Murales Ospedale Spallanzani di Roma
Biografia di Alexander Fleming- Batteriologo, scopritore della penicillina-Premio Nobel per la Medicina nel 1945-
Alexander Fleming- Batteriologo, scopritore della penicillina-Premio Nobel per la Medicina nel 1945-Batteriologo inglese (Lochfield, Scozia, 1881 – Londra 1955); prof. di batteriologia nell’univ. di Londra e direttore dell’Inoculation Department del St. Mary’s Hospital; accademico pontificio (1946) e socio straniero dei Lincei (1947)-Alexander nasce il 6 agosto 1881, in una zona rurale nei pressi di Darvelen Ayrshire (Scozia) in una famiglia composta dai genitori e da tre fratelli nati dal secondo matrimonio del padre. Passa l’infanzia e la preadolescenza studiando nelle scuole della zona, dopodiché intorno ai 14 anni si trasferisce a Londra, città in cui convive con uno dei fratelli che studia medicina.
Alexander Fleming- Batteriologo, scopritore della penicillina -Premio Nobel per la Medicina nel 1945
La vita dell’uomo che avrebbe scoperto il primo antibatterico della storia è molto più normale di quanto potremmo immaginare: nella capitale inglese, infatti, Alexander frequenta prima il Regent Street Polytechnic Institute e poi per quattro anni lavora in una compagnia che si occupa di spedizioni. Insomma, fa l’impiegato.
Nel 1901 la sua vita prende un’altra piega: eredita dallo zio John una piccola somma di denaro e successivamente il fratello lo convince a iscriversi alla Scuola di Medicina Saint Mary dell’Università di Londra.Durante questi anni entra a far parte del club dei fucilieri dell’università e il suo capitano gli consiglia di unirsi al gruppo di ricerca della facoltà di medicina. È così che Alexander diventa l’assistente batteriologo di Sir Almroth Wright, uno dei primi studiosi di immunologia.
Se inizialmente era intenzionato a diventare un chirurgo, grazie all’esperienza in laboratorio Alexander cambia idea e capisce che quella della batteriologia sarebbe stata la sua strada.
Nel 1906 si laurea in medicina e chirurgia e solamente due anni dopo vince la medaglia d’oro dell’Università e inizia la carriera come Professore sempre all’interno dell’Ateneo.
Nel 1915 si sposa con Sarah Marion McElroy ma durante la Prima Guerra Mondiale viene inviato al fronte occidentale francese per assistere e curare i feriti di guerra. Qui affronta moltissimi casi di setticemia, cancrena e tetano, ed è costretto a mettere alla prova tutte le sue capacità come medico e, in particolare, come batteriologo.
Terminata la guerra Alexander può tornare finalmente a casa: è l’inizio di un nuovo capitolo della sua vita che lo porterà a diventare uno dei precursori della medicina moderna.
La prima grande scoperta arriva nel 1922: il lisozima.
Alexander Fleming- Batteriologo, scopritore della penicillina -Premio Nobel per la Medicina nel 1945
Il lisozima (dal greco lysis = dissoluzione) è un enzima, una sostanza composta da proteine che il nostro corpo utilizza per prevenire le infezioni e che è presente nelle lacrime, nelle secrezioni nasali e nella saliva. Alexander scopre l’esistenza di una potente barriera che produciamo autonomamente e che mentre a noi non causa nessun danno, è nociva per i batteri (anche se in modo piuttosto blando).Ma come avviene la scoperta? Casualmente, come spesso accadde nella storia di quest’uomo.
Alexander aveva semplicemente lasciato in un recipiente un po’ del suo stesso muco nasale per qualche settimana e poi, una volta rientrato in laboratorio, aveva notato che si erano sviluppati dei microbi in tutto il recipiente, tranne in quelle zone dove c’era il suo muco.
Decide così di ripetere l’esperimento con altre sostanze che normalmente produce il nostro corpo come le lacrime e la saliva e capisce che tutte contengono un antibatterico, per quanto leggero, del tutto naturale. Non era però in grado di isolarlo perché, purtroppo, nel laboratorio mancava un chimico.
Franco Leggeri Fotoreportage- Murales Ospedale Spallanzani di Roma- 11) Alexander Fleming- Batteriologo, scopritore della penicillina- Premio Nobel per la Medicina nel 1944
Grazie allo studio del lisozima e alcune ricerche sulle muffe svolte negli anni successivi, si realizza anche la più grande scoperta di Alexander: la penicillina. È il 1928 e nel suo laboratorio sta studiando e coltivando lo stafilococco, un comune batterio che vive sulla superficie e all’interno del nostro corpo, ma che può generare delle patologie in circostanze particolari.
Anche in questo caso Alexander dopo qualche giorno di assenza torna in laboratorio e scopre che una muffa ha contaminato uno dei recipienti che contenevano una cultura di stafilococchi. La cosa strabiliante è che la colonia di stafilococco a contatto con muffa era stata totalmente distrutta. Il motivo? La muffa, appartenente al genere Penicillium, produceva una sostanza in grado di annientare i batteri. Il 7 marzo del 1929 la sostanza prodotta dalla muffa prende il nome di penicillina.
Franco Leggeri Fotoreportage- Ospedale Spallanzani di Roma
Franco Leggeri Fotoreportage- Ospedale Spallanzani di Roma
Anche in questo caso sono necessari moltissimi altri test di laboratorio per verificare l’efficacia di questa nuova sostanza scoperta, ma – nonostante gli incoraggianti risultati ottenuti – la penicillina diventerà un medicinale diffuso e utilizzato solo 15 anni dopo. Ad aiutare il processo di ingresso della penicillina nel grande mondo dei medicinali furono due studiosi di Oxford, Howard Florey ed Ernst Boris Chain che isolarono la penicillina pura, di gran lunga più efficace di quella grezza prodotta naturalmente dalla muffa. Furono loro ad entrare in contatto con le case farmaceutiche statunitensi e a fare in modo che la penicillina fosse prodotta in enormi quantità.
Nel 1944 Alexander viene nominato Sir, titolo onorifico nei paesi anglofoni, e riceve il Premio Nobel per la Medicina insieme a Florey e Chain.Alexander è spesso collegato al tema della serendipità o – in inglese – “serendipity”. Si tratta della capacità o la fortuna di fare per caso delle scoperte importanti mentre si sta cercando (o in questo caso studiando) altro, come sono state quelle di Alexander in ambito medico-scientifico.
La grandezza di questo medico sta nell’aver predisposto tutte le condizioni affinché le scoperte potessero avvenire e, dall’altro lato, aver saputo osservare i fenomeni che si generavano ed essere riuscito ad interpretarli.Nel 1947 viene a mancare il maestro di Alexander, Sir Almroth Wright, e due anni dopo purtroppo viene a mancare la moglie, Sarah.
Nel 1953 Alexander sposerà la sua seconda moglie, la microbiologa Amalia Coutsoris-Voureka con cui aveva stretto un legame negli anni dopo essere stati colleghi al Saint Mary.Il Dottor Alexander Fleming muore d’infarto l’11 marzo del 1955 a soli 74 anni.
Biografia a cura diA cura di Camilla Ferrario-Fonte-Geopop è un progetto editoriale di Ciaopeople.- https://www.geopop.it/
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Poesie inedite di Daniele Giustolisi,pubblicate dalla Rivista Atelier-
Daniele Giustolisi è nato a Catania nel 1989 e vive a Bologna. In versi ha pubblicato Se scendevi per strada (Capire edizioni, 2019) con cui ha vinto il Premio Le stanze del tempo. Si occupa da sempre di arti figurative, musica e letteratura. Oltre a contributi di critica letteraria e di arte su ClanDestino, Nuova Ciminera, AlmaPoesia, ha pubblicato, in saggistica, L’officina del vivere: attraverso il Diario di Angelo Fiore (Centro Studi Angelo Fiore, 2018) e Alla finestra. Sguardi, soglie, fratture tra pittura e cinema (Industria&Letteratura, 2023). Collabora con il Centro di poesia contemporanea di Catania. Ha inciso dischi e suonato in ambito rock, metal e jazz come batterista e percussionista. Gli inediti sono tratti da “La condizione dell’orma”, di prossima pubblicazione nel 2025.
Daniele Giustolisi
a Diana che arriva
Ancona è questo tempo che scioglie i pendii,
sei tu entrata al mattino
in un movimento d’alba,
quando agosto è l’acqua ferma del porto,
risveglio di tavolo, radio, pane,
la resa che s’innalza da terra,
la sua somiglianza alle vele,
a questa rotta adriatica
che della tua forma consegna il nome.
*
Da questa finestra chiusa,
a te che dormi,
si ostina il breve viale,
superstite soglia della sera
che non dà voci,
solo luci in lontananza.
*
Nell’ora più buia
posso percorrerti senza vederti,
ritrovarti come madre cieca col figlio
nei passi d’ansia della notte.
Portami ancora a sentire la tua voce,
Oriente che sferza santuari.
Portami da te, alle tue rive,
foce che tiene le pietre della mia casa,
La rivista «Atelier» ha periodicità trimestrale (marzo, giugno, settembre, dicembre) e si occupa di letteratura contemporanea. Ha due redazioni: una che lavora per la rivista cartacea trimestrale e una che cura il sito Online e i suoi contenuti. Il nome (in origine “laboratorio dove si lavora il legno”) allude a un luogo di confronto e impegno operativo, aperto alla realtà. Si è distinta in questi anni, conquistandosi un posto preminente fra i periodici militanti, per il rigore critico e l’accurato scandaglio delle voci contemporanee. In particolare, si è resa levatrice di una generazione di poeti (si veda, per esempio, la pubblicazione dell’antologia L’Opera comune, la prima antologia dedicata ai poeti nati negli anni Settanta, cui hanno fatto seguito molte pubblicazioni analoghe). Si ricordano anche diversi numeri monografici: un Omaggio alla poesia contemporanea con i poeti italiani delle ultime generazioni (n. 10), gli atti di un convegno che ha radunato “la generazione dei nati negli anni Settanta” (La responsabilità della poesia, n. 24), un omaggio alla poesia europea con testi di poeti giovani e interventi di autori già affermati (Giovane poesia europea, n. 30), un’antologia di racconti di scrittori italiani emergenti (Racconti italiani, n. 38), un numero dedicato al tema “Poesia e conoscenza” (Che ne sanno i poeti?, n. 50).
Direttore responsabile: Giuliano Ladolfi Coordinatore delle redazioni: Luca Ariano
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Gianni RODARI muore il 14aprile 1980-Il Partigiano e lo Scrittore e Poeta dei bambini-
Roma, 14 aprile 2022– Ricorre oggi il 42esimo anniversario dalla scomparsa di Gianni Rodari, morto il 14 aprile del 1980 a Roma. Il 10 aprile 1980 venne ricoverato in una clinica a Roma per potersi sottoporre ad un intervento chirurgico alla gamba sinistra, data l’occlusione di una vena; morì quattro giorni dopo, il 14 aprile, per shock cardiogeno, all’età di 59 anni. Le sue spoglie furono sepolte nel cimitero del Verano, dove tuttora riposano.
Gianni RODARI
Nato il 23 ottobre 1920 a Omegna, sul lago d’Orta, lo scrittore piemontese è stato anche pedagogista, giornalista, poeta e partigiano italiano, specializzato in letteratura per l’infanzia e tradotto in molte lingue. Con le sue storie, ha fatto viaggiare con l’immaginazione diverse generazioni di bambini. Dopo aver conseguito il diploma magistrale, per alcuni anni ha fatto l’insegnante. Al termine della Seconda guerra mondiale ha intrapreso la carriera giornalistica, che lo ha portato a collaborare con numerosi periodici, tra cui «L’Unità», il «Pioniere», «Paese Sera». A partire dagli anni Cinquanta ha iniziato a pubblicare anche le sue opere per l’infanzia, che hanno ottenuto fin da subito un enorme successo di pubblico e di critica. I suoi libri hanno avuto innumerevoli traduzioni e hanno meritato diversi riconoscimenti, fra cui, nel 1970, il prestigioso premio «Hans Christian Andersen», considerato il «Nobel» della letteratura per l’infanzia.
Negli anni Sessanta e Settanta ha partecipato a conferenze e incontri nelle scuole con insegnanti, bibliotecari, genitori, alunni. E proprio dagli appunti raccolti in una serie di questi incontri ha visto la luce, nel 1973, Grammatica della fantasia, che è diventata fin da subito un punto di riferimento per quanti si occupano di educazione alla lettura e di letteratura per l’infanzia. Gianni Rodari è morto a Roma nel 1980. Tra le sue opere più significative: Le avventure di Cipollino, Gelsomino nel paese dei bugiardi, Filastrocche in cielo e in terra, Favole al telefono, Il libro degli errori, C’era due volte il barone Lamberto.
Tra le sue innumerevoli opere ha scritto diversi testi con un messaggio pacifista. Qui sotto sono riportate due sue poesie contro la guerra.
Promemoria
Ci sono cose da fare ogni giorno:
lavarsi, studiare, giocare,
preparare la tavola
a mezzogiorno.
Ci sono cose da fare di notte:
chiudere gli occhi, dormire,
avere sogni da sognare,
orecchie per non sentire.
Ci sono cose da non fare mai,
né di giorno, né di notte,
né per mare, né per terra:
per esempio, la guerra.
Dopo la pioggia
Dopo la pioggia viene il sereno,
brilla in cielo l’arcobaleno:
è come un ponte imbandierato
e il sole vi passa, festeggiato.
È bello guardare a naso in su
le sue bandiere rosse e blu.
Però lo si vede – questo è il male –
soltanto dopo il temporale.
Non sarebbe più conveniente
il temporale non farlo per niente?
Un arcobaleno senza tempesta,
questa si che sarebbe una festa.
Sarebbe una festa per tutta la terra
fare la pace prima della guerra
Armi dell’allegria
Eccole qua
le armi che piacciono a me:
la pistola che fa solo pum
(o bang, se ha letto qualche fumetto)
ma buchi non ne fa…
il cannoncino che spara
senza far tremare
nemmeno il tavolino…
il fuciletto ad aria
che talvolta per sbaglio
colpisce il bersaglio
ma non farebbe male
né a una mosca né a un caporale…
Armi dell’allegria!
le altre, per piacere,
ma buttatele tutte via!
Per Gianni Rodari i bimbi erano portavoce di grandi verità e meritavano di essere ascoltati; ecco quali motivi ritmati ha ideato appositamente per loro:
Gianni RODARI
1) La cicala e la formica
Chiedo scusa alla favola antica
se non mi piace l’avara formica
io sto dalla parte della cicala
che il più bel canto non vende…
regala!
2) Bambini, imparate a fare cose difficili
È difficile fare le cose difficili:
parlare al sordo,
mostrare la rosa al cieco.
Bambini, imparate a fare cose difficili:
dare la mano al cieco,
cantare per il sordo,
liberare gli schiavi che si credono liberi.
3) Como nel comò
Una volta un accento
per distrazione cascò
sulla città di Como
mutandola in comò.
Figuratevi i cittadini
comaschi, poveretti:
detto e fatto si trovarono
rinchiusi nei cassetti.
Per fortuna uno scolaro
rilesse il componimento
e liberò i prigionieri
cancellando l’accento.
Ora ai giardini pubblici
han dedicato un busto
“A colui che sa mettere
gli accenti al posto giusto”.
4) Tutti gli animali
Mi piacerebbe un giorno
poter parlare
con tutti gli animali.
Che ve ne pare?
Chissà che discorsi geniali
sanno fare i cavalli,
che storie divertenti
conoscono i pappagalli,
i coccodrilli, i serpenti.
Una semplice gallina
che fa l’uovo ogni mattina
chissà cosa ci vuol dire
con il suo coccodè.
E l’elefante, così grande e grosso,
la deve saper lunga
più della sua proboscide:
ma chi lo capisce
quando barrisce?
Nemmeno il gatto
può dirci niente.
Domandagli come sta
non ti risponde affatto.
O – al massimo – fa “miao”,
che forse vuol dire “ciao”.
5) Il primo giorno di scuola
Suona la campanella;
scopa, scopa la bidella;
viene il bidello ad aprire il portone;
viene il maestro dalla stazione;
viene la mamma, o scolaretto,
a tirarti giù dal letto…
Viene il sole nella stanza:
su, è finita la vacanza.
Metti la penna nell’astuccio,
l’assorbente nel quadernuccio,
fa la punta alla matita
e corri a scrivere la tua vita.
Scrivi bene, senza fretta
ogni giorno una paginetta.
Scrivi parole diritte e chiare:
Amore, lottare, lavorare.
6) Il paese delle vacanze
Il Paese delle Vacanze
non sta lontano per niente:
se guardate sul calendario
lo trovate facilmente.
Occupa, tra Giugno e Settembre,
la stagione più bella.
Ci si arriva dopo gli esami.
Passaporto, la pagella.
Ogni giorno, qui, è domenica,
però si lavora assai:
tra giochi, tuffi e passeggiate
non si riposa mai.
7) Per la mamma
Filastrocca delle parole
si faccia avanti chi ne vuole.
Di parole ho la testa piena
con dentro “la luna” e “la balena”.
Ma le più belle che ho nel cuore
le sento battere: “mamma”, “amore”.
8)Filastrocca corta e matta
Filastrocca corta e matta:
il porto vuole sposare la porta;
la viola studia il violino;
il mulo dice: “Mio figlio è il mulino”;
la mela dice: “Mio nonno è il melone”;
il matto vuole essere un mattone.
E il più matto della terra
sapete che vuole?
Fare la guerra!
9) Filastrocca di primavera
Filastrocca di primavera
più lungo è il giorno,
più dolce la sera.
domani forse tra l’erbetta
spunterà la prima violetta.
Oh prima viola fresca e nuova
beato il primo che ti trova,
il tuo profumo gli dirà,
la primavera è giunta, è qua.
Gli altri signori non lo sanno
e ancora in inverno si crederanno:
magari persone di riguardo,
ma il loro calendario va in ritardo.
10) Dopo la pioggia
Dopo la pioggia viene il sereno
brilla in cielo l’arcobaleno.
E’ come un ponte imbandierato
e il sole ci passa festeggiato.
E’ bello guardare a naso in su
le sue bandiere rosse e blu.
Però lo si vede, questo è male
soltanto dopo il temporale.
Non sarebbe più conveniente
il temporale non farlo per niente?
Un arcobaleno senza tempesta,
questa si che sarebbe una festa.
Sarebbe una festa per tutta la terra
fare la pace prima della guerra.
11) Le favole al rovescio
C’era una volta
un povero lupacchiotto,
che portava alla nonna
la cena in un fagotto.
E in mezzo al bosco
dov’è più fosco
incappò nel terribile
Cappuccetto Rosso,
armato di trombone
come il brigante Gasparone,
Quel che successe poi,
indovinatelo voi.
Qualche volta le favole
succedono all’incontrario
e allora è un disastro:
Biancaneve bastona sulla testa
i nani della foresta,
la Bella Addormentata non si addormenta,
il Principe sposa
una brutta sorellastra,
la matrigna tutta contenta,
e la povera Cenerentola
resta zitella e fa
la guardia alla pentola.
Poesie dell’autore de Grammatica della fantasia
12) A un bambino pittore
Appeso a una parete
ho visto il tuo disegnino:
su un foglio grande grande
c’era un uomo in un angolino.
Un uomo piccolo, piccolo,
forse anche
un po’ spaventato
da quel deserto bianco
in cui era capitato,
e se ne stava in disparte
non osando farsi avanti
come un povero nano
nel paese dei giganti.
Tu l’avevi colorato
con vera passione:
ricordo il suo magnifico
cappello arancione.
Ma la prossima volta,
ti prego di cuore,
disegna un uomo più grande,
amico pittore.
Perché quell’uomo sei tu,
tu in persona, ed io voglio
che tu conquisti il mondo:
prendi, intanto
tutto il foglio!
Disegna figure
grandi grandi,
forti, senza paura,
sempre pronte a partire
per una bella avventura.
13) Il punto interrogativo
C’era una volta un punto
interrogativo, un grande curiosone
con un solo ricciolone,
che faceva domande
a tutte le persone,
e se la risposta
non era quella giusta
sventolava il suo ricciolo
come una frusta.
Agli esami fu messo
in fondo a un problema
così complicato
che nessuno trovò il risultato.
Il poveretto, che
di cuore non era cattivo,
diventò per il rimorso
un punto esclamativo.
14) Tragedia di una virgola
C’era una volta
una povera virgola
che per colpa di uno scolaro
disattento
capitò al posto di un punto
dopo l’ultima parola
del componimento.
La poverina, da sola,
doveva reggere il peso
di cento paroloni,
alcuni perfino con l’accento.
Per la fatica atroce morì.
Fu seppellita
sotto una croce
dalla matita
blu del maestro,
e al posto di crisantemi e sempreverdi
s’ebbe un mazzetto
di punti esclamativi.
15)La famiglia Punto e virgola
C’era una volta un punto
e c’era anche una virgola:
erano tanto amici,
si sposarono e furono felici.
Di notte e di giorno
andavano intorno
sempre a braccetto:
“Che coppia modello”
la gente diceva
“che vera meraviglia
la famiglia Punto-e-virgola”.
Al loro passaggio
in segno di omaggio
perfino le maiuscole
diventavano minuscole:
e se qualcuna, poi,
a inchinarsi non è lesta
la matita del maestro
le taglia la testa.
16) Autunno
Il gatto rincorre le foglie
secche sul marciapiede.
Le contende (vive le crede)
alla scopa che le raccoglie.
Quelle che da rami alti
scendono rosse e gialle
sono certo farfalle
che sfidano i suoi salti.
La lenta morte dell’anno
non è per lui che un bel gioco,
e per gli uomini che ne fanno
al tramonto un lieto fuoco.
17) Chi è uomo
Con un gran frullo d’ali
dal campo, spaventati,
i passerotti in frotta
al nido son rivolati.
Raccontano ora al nonno
la terribile avventura:
“C’era un uomo! Ci ha fatto
una bella paura.
Peccato per quei chicchi
sepolti appena ieri.
Ma con quell’uomo… Ah, nonno,
scappavi anche tu, se c’eri.
Grande grande, grosso grosso,
un cappellaccio in testa,
stava li certamente
per farci la festa…”.
“E che faceva?”. “Niente.
Che mai doveva fare?
Con quelle braccia larghe
era brutto da guardare!”.
“Non lavorava?”. “O via,
te l’abbiamo già detto.
Stava ritto tra i solchi
con aria di dispetto…”.
“Uno spaventapasseri,
ecco cos’era, allora!
Non sapevate che
non è un uomo chi non lavora?”.
Poesie di Gianni Rodari, brevi o che arrivano fino nello spazio
18) La bugia
Nel paese della bugia,
la verità è una malattia.
19) Quanto pesa una lacrima?
La lacrima di un bambino capriccioso
pesa meno del vento,
quella di un bambino affamato
pesa più di tutta la terra.
20) Il sole
Dica ognuno
quel che vuole:
la meglio stufa
è sempre sole.
21)Distrazione interplanetaria
Chissà se a quest’ora su Marte,
su Mercurio o Nettuno,
qualcuno
in un banco di scuola
sta cercando la parola
che gli manca
per cominciare il tema
sulla pagina bianca.
E certo nel cielo di Orione,
dei Gemelli, del Leone,
un altro dimentica
nel calamaio
i segni d’interpunzione …
come faccio io.
Quasi Io sento
lo scricchiolio
di un pennino
in fondo al firmamento:
in un minuscolo puntino
nella Via Lattea
un minuscolo scolaretto
sul suo libro di storia
disegna un pupazzetto.
Lo sa che non sta bene,
e anch’io lo so:
ma rideremo insieme
quando lo incontrerò.
22)La luna bambina
E adesso a chi la diamo
questa luna bambina
che vola in un “amen”
dal Polo Nord alla Cina?
Se la diamo a un generale,
povera luna trottola,
la vorrà sparare
come una pallottola.
Se la diamo a un avaro
corre a metterla in banca:
non la vediamo più
nè rossa nè bianca.
Se la diamo a un calciatore,
la luna pallone,
vorrà una paga lunare:
ogni calcio un trilione.
Il meglio da fare
è di darla ai bambini,
che non si fanno pagare
a giocare coi palloncini:
se ci salgono a cavalcioni
chissà che festa;
se la luna va in fretta,
non gli gira la testa,
anzi la sproneranno
la bella luna a dondolo,
lanciando grida di gioia
dall’uno all’altro mondo.
Della luna ippogrifo
reggendo le briglie,
faranno il giro del cielo
a caccia di meraviglie.
I versi che abbiamo apprezzato a scuola
23)Girotondo in tutto il mondo
Filastrocca per tutti i bambini,
per gli italiani e per gli abissini,
per i russi e per gli inglesi,
gli americani ed i francesi;
per quelli neri come il carbone,
per quelli rossi come il mattone;
per quelli gialli che stanno in Cina
dove è sera se qui è mattina.
Per quelli che stanno in mezzo ai ghiacci
e dormono dentro un sacco di stracci;
per quelli che stanno nella foresta
dove le scimmie fan sempre festa.
Per quelli che stanno di qua o di là,
in campagna od in città,
per i bambini di tutto il mondo
che fanno un grande girotondo,
con le mani nelle mani,
sui paralleli e sui meridiani…
24)Il Paese Senza Errori
C’era una volta un uomo che andava per terra e per mare
in cerca del Paese Senza Errori.
Cammina e cammina, non faceva che camminare,
paesi ne vedeva di tutti i colori,
di lunghi, di larghi, di freddi, di caldi,
di così così:
e se trovava un errore là, ne trovava due qui.
Scoperto l’errore, ripigliava il fagotto
e ripartiva in quattro e quattr’otto.
C’erano paesi senza acqua,
paesi senza vino,
paesi senza paesi, perfino,
ma il Paese Senza Errori dove stava, dove stava?
Voi direte: Era un brav’uomo. Uno che cercava
una bella cosa. Scusate, però,
non era meglio se si fermava
in un posto qualunque,
e di tutti quegli errori
ne correggeva un po’?
25)L’odore dei mestieri
Io so gli odori dei mestieri:
di noce moscata sanno i droghieri,
sa d’olio la tuta dell’operaio,
di farina sa il fornaio,
sanno di terra i contadini,
di vernice gli imbianchini,
sul camice bianco del dottore
di medicina c’è un buon odore.
I fannulloni, strano però,
non sanno di nulla e puzzano un po’.
Poesie di Alessandro Canzian- raccolta poetica “IN ABSENTIA” Editore Interlinea-
Alessandro Canzian (Pordenone1977) è molto attivo come editore e operatore culturale. Ha fondato la casa editrice Samuele, e ideato il ciclo di incontri letterari “Una Scontrosa Grazia” a Trieste, l’osservatorio poetico on line Laboratori Poesia e la rivista semestrale “Laboratori critici”. Collabora con Pordenonelegge pubblicando le collane “Gialla” e “Gialla Oro”.
ALESSANDRO CANZIAN, IN ABSENTIA –Editore INTERLINEA, NOVARA
Versi sull’assenza di pietà
Articolo di Alida Airaghi-La raccolta poetica di Alessandro Canzian mette in luce, con uno stile stringato e severo, la durezza del mondo verso chi vive ai margini e non può difendersi nemmeno rivolgendosi al cielo, che rimane indifferente e mutoScritte tra il 2020 e il 2024, e pubblicate a tiratura limitata dalle edizioni Interlinea lo scorso anno, le poesie di Alessandro Canzian già dal titolo sembrano voler sottolineare un’aspirazione al distacco o il riscontro di una mancanza, suggerite anche dalla scelta ricercata e differenziante della lingua latina. In effetti, la prima impressione che si ricava dalla lettura del libro, è quella di una privazione, affiorante dalle situazioni evocate nei versi, dalle immagini che li accompagnano e soprattutto dalla severa secchezza dello stile. Privazione di pietà, in primis, davanti alla sofferenza che affiora in ogni composizione, dove protagonisti sono esseri umani e non-umani privi di importanza, quasi insignificanti agli occhi del mondo: anziani, bambini, bestiole, oggetti comuni. Il poeta si sofferma su di essi con uno sguardo constatativo, lontano dal giudizio, quindi esso pure segnato dalla privazione di una partecipe empatia, come a dire “le cose sono queste, la vita funziona così”: l’esibita non adesione, che superficialmente può sembrare impassibilità, in realtà vuole proibirsi la facile retorica di una commozione ostentata. Che invece si evidenzia nella contrapposizione dei concetti, che spesso affiancano a una descrizione di ordinaria normalità la visione brutale che ne scalfisce l’ovvia piattezza. Le poesie delle tre sezioni che compongono l’opera (Minimalia, Sul fondo, In absentia) sono per lo più strofe di cinque versi, non rimate e costruite sull’antitesi dei tre primi versi e dei due ultimi: “così la poesia diventa un piccolo dispositivo drammatico basato sul contrasto fra una cosa vista e la sua iscrizione nella sensibilità”, secondo il postfatore Martin Rueff.
Si prono davanti agli occhi quadri di desolazione, miseria, talvolta sporcizia, sia negli ambienti domestici che nei paesaggi esterni, prevalentemente di periferia: “La tovaglia piena di briciole / e mosche, a terra / tra la polvere un grano. / Alla finestra un latrato”, “Per anni la cucina lasciata così com’era”. Ancora: le tende sporche, la persiana sfondata, e “grate, gronde e greppi” ripetono nei loro “gr” sinistri cigolii. I suoni e gli odori sono disturbanti, le architetture dismesse, il tempo atmosferico alterna pioggia insistente al “caldo di un’estate dei rospi e dei cani”.
In tutta la raccolta si respira la violenza del più forte contro chi non sa difendersi, nella guerra, nel sesso, nella crudeltà verso gli animali, che soffrono quanto le persone, e vengono descritti nella loro storpiata fisicità (un geco mozzato, una zampa spezzata sotto il cancello, le rane scoppiate, un insetto senz’occhi, corpi di mosca caduti). Addirittura un topo – che nella postfazione è assimilato a “una presenza enigmatica, quasi metafisica” – aggirandosi giorno e notte nella casa del poeta, lascia le sue tracce escrementizie in cucina e in bagno, quasi a indicare una negatività persecutoria verso il mondo degli umani. Di questi Canzian rimarca la fragilità morale e fisica (“L’uomo è un ramo / che si spezza facilmente”), in particolare quando si sofferma a osservare le adolescenti: ragazza e ragazzina sono sostantivi ripetuti dodici volte nelle varie poesie, e raccontano di una violenza a cui l’ingenuità giovanile non sa opporsi, se non nella decisione tragica di un rifiuto definitivo: “La ragazzina a lato dei binari / con le calze smagliate e le / unghie scolorite domani / risolverà tutti i problemi / bevendo ammoniaca”.
I corpi straziati con prepotenza rimangono inermi, incapaci di difendersi fisicamente (la scheggia incarnita nella schiena, un buco tra le costole, la pancia scoperchiata, una maglietta strappata), e ancor di più mentalmente, producendo un’indifferenza che si risolve alla fine in estraneità a ciò che accade, alla storia personale e collettiva: “La storia accade / ma non se ne ha memoria”, “Il mondo passa e non la tocca”. In questa situazione di totale ostilità umana, nemmeno Dio può rappresentare un’ancora di salvezza: se interrogato non risponde, chiuso nella sua indifferenza. È un Dio che “ha confessato d’essere / solo un buio, uno sbaglio”; “vendicativo e geloso… scuro come un topo… sinonimo di mai”.
Alessandro Canzian (Pordenone1977) è molto attivo come editore e operatore culturale. Ha fondato la casa editrice Samuele, e ideato il ciclo di incontri letterari “Una Scontrosa Grazia” a Trieste, l’osservatorio poetico on line Laboratori Poesia e la rivista semestrale “Laboratori critici”. Collabora con Pordenonelegge pubblicando le collane “Gialla” e “Gialla Oro”.
ALESSANDRO CANZIAN, IN ABSENTIA – INTERLINEA, NOVARA 2024
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