Andrea Zanzotto,due nuovi volumi sul Poeta di Pieve di Soligo
Editore Mondadori
Nel centenario della nascita e a dieci dalla scomparsa di Andrea Zanzotto Mondadori pubblica due volumi sul grande poeta di Pieve di Soligo: Andrea Zanzotto, ERRATICI disperse e altre poesie (1937-2011) a cura di Francesco Carbognin e Andrea Zanzotto, TRADUZIONI TRAPIANTI IMITAZIONI a cura di Giuseppe Sandrini.
Il primo volume a cura di Carbognin, propone una serie di poesie di Andrea Zanzotto pubblicate in varie sedi tra il 1937 e il 2011 ma mai confluite nei suoi libri, testimonianze fedeli della vivacità e dell’operosità della sua officina poetica.
“L’esplorazione dell’archivio privato in cui il poeta spesso teneva traccia o a volte copia delle sue pubblicazioni occasionali, assieme alla esplorazione sistematica di annate di quotidiani e riviste, ha infatti consentito di espanderne il corpus di un centinaio di poesie, da quelle adolescenziali risalenti agli anni del liceo (1937-38), improntate a un sostanziale pascolismo psicologico, ai versi di impostazione civile (1946) legati agli eventi della Resistenza. Se le poesie successive delineano l’evolversi dell’esperienza poetica zanzottiana fino a quel primo acuminato vertice toccato da Vocativo , quelle degli anni Sessanta ne dilatano l’orizzonte del sapere e del dire tra classicismo, caustica ironia e inclinazione sperimentale, proiettandosi verso i grandi esiti di “La Beltà”. Ed eccoci poi alle prime e già mature ricognizioni in versi sul dialetto (precedenti l’edizione del poemetto “Filò” e la composizione dei testi per il “Casanova” di Federico Fellini), fino alle prove quanto mai varie degli ultimi decenni, quando il soggetto lirico zanzottiano «si diffrange identificandosi con gli enti minimali del paesaggio», o con gli indizi del suo «”accadere” nella pagina, esitante tra silenzi e “promesse” di senso».”(Francesco Carbognin)
Biografia di Andrea Zanzotto- a cura di Carmelo Princiotta
Andrea Zanzotto– Nacque a Pieve di Soligo (Treviso) il 10 ottobre 1921, primogenito di Giovanni e di Carmela Bernardi, cui sarebbero poi nati le gemelle Angela e Marina, colpite da morte prematura nel 1926 e nel 1937, quindi Maria e infine Ettore.
Visse un’infanzia non felice, ma poeticamente ricca, grazie al Corriere dei piccoli e, soprattutto, alla nonna paterna. In Cal Santa, la stradina fra la chiesa e il cimitero, Angela Bertazzon recitava in filastrocche quasi ipnotiche le rime in toscano illustre di Ludovico Ariosto e Torquato Tasso. Il padre era pittore, decoratore e miniaturista, oltre che insegnante, ma dovette emigrare per la sua opposizione al fascismo.
Zanzotto frequentò una scuola materna gestita da suore che seguivano il metodo Montessori e fu ammesso direttamente alla seconda elementare. All’età di sette anni compose i primi versi. Il tentativo del padre di ricongiungere a sé la famiglia si rivelò fallimentare e sopraggiunsero anche difficoltà economiche. La zia Maria, però, coinvolgeva il nipote nel teatrino delle suore e gli trasmetteva l’avida pulsione alla lettura di giornalini e settimanali. Zanzotto ricevette anche le prime lezioni di musica, intanto che assorbiva il francese quasi casalingo dell’emigrazione trevigiana.
Nel 1937 si diplomò come maestro e iniziò a dare ripetizioni private. Era periodicamente soggetto a episodi allergici e asmatici. Dopo una pubblicazione adolescenziale di versi amorosi, dal 1938 raccolse le prime poesie, edite in parte nella strenna di Giovanni Scheiwiller A che valse? (Versi 1938-1942) (Milano 1970). Conseguì come privatista anche la maturità classica. Si iscrisse alla facoltà di lettere dell’Università di Padova, dove ebbe come maestri, anche di coscienza, Diego Valeri e Concetto Marchesi.
Scoprì Arthur Rimbaud e cominciò a leggere l’amatissimo Friedrich Hölderlin, nella traduzione di Vincenzo Errante, con suggestioni da rispecchiamento. Venne a contatto con la cultura dell’esistenzialismo. Studiò un po’ di tedesco, qualche rudimento di ebraico, e approfondì l’inglese, benché da cultore di grammatiche più che da esperto di lingue.
Vinse i prelittoriali di poesia con un gruppo di versi giovanili. Nel 1940 ottenne la prima di una lunga serie di supplenze. Il 30 ottobre 1942 si laureò discutendo una tesi su Grazia Deledda, pubblicata poi nel 2015.
Nel febbraio del 1943 fu chiamato alle armi e inviato ad Ascoli Piceno, dove si portò Frontiera di Vittorio Sereni. La manifestazione violenta della pollinosi comportò la sospensione dell’addestramento e l’assegnazione ai servizi non armati. L’8 settembre, alla notizia dell’armistizio, intraprese un avventuroso ritorno a casa. Si nascose sulle colline, ma riuscì anche a impartire lezioni private presso il collegio Balbi Valier di Pieve di Soligo. Nell’inverno cominciò a collaborare con i gruppi partigiani, in cui spiccava la figura non violenta di Antonio Adami. Nella primavera del 1944 si impegnò nella propaganda resistenziale. Il 10 agosto, durante una rappresaglia tedesca contro la piccola repubblica partigiana di Quartier di Piave, perse un amico, Gino Dalla Bortola. Il rastrellamento del 31 agosto mise a ferro e fuoco il paesaggio natio, che aveva protetto il poeta anche dagli orrori della guerra civile. Zanzotto visse alla macchia a fasi alterne, poi fu reclutato per il lavoro coatto, mentre continuavano i massacri. All’inizio del 1945 ritornò sulle colline; il 30 aprile la zona fu liberata. Zanzotto disseppellì i propri scartafacci, interrati un anno prima vicino casa. Riprese i contatti intellettuali con Treviso. Si recò più volte a Milano, dove conobbe Alfonso Gatto e Vittorio Sereni. Nel 1946, per la sua posizione repubblicana, perse una supplenza al Balbi Valier ed emigrò in Svizzera, dove insegnò in un collegio a Villars-sur-Ollon. Pur di non sottostare alle costrizioni dell’istituto, l’anno dopo fece il barista e il cameriere a Losanna. Scrisse o continuò a scrivere prose diaristiche e, alla fine del 1947, fece rientro in Italia.
Nel 1948 chiuse la composizione delle poesie d’esordio, cominciata nel 1940. Tramite Sereni inviò una silloge a Mondadori, che divenne poi suo principale editore, anche se la stampa dell’opera prima di Zanzotto si ebbe un anno dopo la vittoria del premio S. Babila per gli inediti nel 1950, con una giuria in cui figuravano Eugenio Montale, Salvatore Quasimodo, Sereni, Leonardo Sinisgalli e Giuseppe Ungaretti. A Milano incontrò Cesare Musatti, cui espose il proprio disagio psichico. Conobbe Giuseppe Bevilacqua, germanista e traduttore, che lo introdusse alla poesia di Paul Celan.
Dietro il paesaggio (Milano 1951) si presentava come il frutto epigonale di un ermetismo radicalizzato dagli apporti del surrealismo europeo; invece rimase, nella sua ambiguità, fra i titoli più emblematici di uno dei più grandi e ormai proverbiali poeti del paesaggio. La cancellazione della presenza umana, la sostituzione del tempo cronologico con quello stagionale, l’adozione di una grammatica a forte carica astrattiva e il ricorso a una specie di citazionismo araldico sono misure manieristiche di protezione psichica.
Nel 1954 ottenne un posto di insegnante di ruolo presso la scuola media di Conegliano. Partecipò al convegno di San Pellegrino, dove fu presentato da Ungaretti, ed entrò in polemica con Italo Calvino, sostenendo tesi d’impronta esistenzialista. Dal punto di vista politico, Zanzotto fu iscritto al Partito socialista italiano (PSI) fino alla metà degli anni Ottanta. Conobbe a Pordenone Pier Paolo Pasolini. Comparve nell’antologia Quarta generazione. La giovane poesia in Italia (1945-1954) (Varese 1954). Le Edizioni della Meridiana stamparono Elegia e altri versi (Milano 1954) nella collana diretta da Sereni, con una nota di Giuliano Gramigna, che sottolineava permanenze e novità rispetto al libro precedente.
Vocativo (Milano 1957) parve a Giorgio Caproni «uno dei libri più belli del dopoguerra, riconoscibilmente nuovo» (G. Caproni, «Vocativo» di Z., in Id., Prose critiche, a cura di R. Scarpa, II, 1954-1958, Torino 2012, p. 925) e già Sereni lo riteneva secondo solo a La bufera e altro. Pasolini non esitò a definirlo come un libro di «piena crisi» (P.P. Pasolini, Principio di un «engagement», in Id., Saggi sulla letteratura e sull’arte, a cura di W. Siti – S. De Laude, Milano 1999, I, p. 1207), perché Zanzotto oggettivizza, problematizzandoli, i presupposti di ogni poesia soggettiva, a partire dall’io, ridotto alla sua «miseria di fatto “grammaticale”» (Profili dei libri e note alle poesie, a cura di S. Dal Bianco, in A. Zanzotto, Le poesie e prose scelte, 1999, p. 1435), come recita il risvolto di copertina, anonimo ma di mano dell’autore.
Alla problematizzazione dell’io, in senso psichico, linguistico e storico-letterario, si uniscono quella del colloquio, ridotto alla pura vocatività, e della lingua, avvertita come transeunte. Michel David parlò poi di «inconsapevole lacanismo» (v. A. Zanzotto, Nei paraggi di Lacan, ibid., p. 1211) per il grammaticalismo di questo ‘secondo’ Zanzotto, che irrompe anche come poeta del linguaggio.
Nel 1959 Zanzotto si unì in matrimonio con Marisa Micheli, da cui ebbe Giovanni nel 1960 (a pochi giorni dalla morte del padre) e Fabio nel 1961. Per il periodico riacutizzarsi dell’insonnia e degli stati ansiosi, si sottopose a un’analisi freudiana a Padova. Pur continuando a insegnare, svolse anche le funzioni di preside nella scuola media di Col San Martino.
IX Ecloghe (Milano 1962) inaugurò la collana Il Tornasole, diretta da Niccolò Gallo e Sereni per Mondadori.
Secondo Franco Fortini, che aveva già trovato bellissime alcune poesie di Vocativo, il libro giungeva a risultati ineguagliati negli anni più recenti, anche per l’immissione di linguaggi allotri sotto la grande ombra di Virgilio e, in particolare, per la capacità di trasformare in rapporto con la storia il rapporto con il proprio inconscio.
Nel 1963 ottenne il trasferimento alla scuola media di Pieve di Soligo, dove insegnò fino al 1971. Si stabilì con la famiglia nella nuova casa di via Garibaldi (poi Mazzini). Per Neri Pozza pubblicò Sull’Altopiano. Racconti e prose: 1942-1954 (Vicenza 1964), riproposto e accresciuto in nuove edizioni a partire dagli anni Novanta. Nel 1966 tradusse Età d’uomo (Milano 1966) di Michel Leiris. Altre traduzioni seguirono negli anni Settanta da Georges Bataille, Pierre Francastel e Honoré de Balzac. Partecipò alla conferenza tenuta a Milano da Jacques Lacan per l’uscita degli Écrits. Si sottopose alla cosiddetta terapia del sonno. Nel 1967 si recò a Praga con Sereni, Fortini e Giovanni Giudici, per un incontro di poesia: uno dei non frequenti ma significativi spostamenti europei di questo appartatissimo poeta.
La Beltà (Milano 1968) fa «esplodere la “lingua”», come recita l’anonimo risvolto di copertina. Il volume fu presentato a Roma da Pasolini e, in modo piuttosto drammatico, a Milano da Fortini, che vi aveva individuato la «testimonianza […] di un accurato cerimoniale di autodistruzione» (R. Cicala, Zanzotto «in su la cima». Sulle lettere editoriali degli esordi in Mondadori e del rapporto con Sereni, in Andrea Zanzotto. La natura, l’idioma, a cura di F. Carbognin, Treviso 2018, p. 167, con stralcio d’archivio), oltre che un ammicco allo strutturalismo ormai imperante.
Secondo Montale, autore di un’importante recensione, la coltissima nevrosi di Zanzotto problematizzava in modo estremamente contemporaneo il rapporto fra poeta e mondo, creando un cortocircuito sostanzialmente tragico fra espressione di secondo grado e pre-espressione, in una percussività da batticuore. Il libro, forse il più importante del Novecento poetico italiano dopo Le Occasioni di Montale, si presenta come le stazioni di un Calvario psicoanalitico che non abbia perso la propria laica spinta pasquale (donde un certo dantismo paradisiaco) e, insieme, come una strada senza uscita.
Nel 1969 Zanzotto partecipò al festival di Spoleto, dove ebbe modo di incontrare Ezra Pound. Stampò semiclandestinamente Gli Sguardi i Fatti e Senhal (Pieve di Soligo e s.l. 1969; Milano 1990), un poemetto sull’allunaggio come ferimento del mito lunare. Iniziò gli Appunti e abbozzi per un’ecloga in dialetto sulla fine del dialetto, pubblicati in rivista nel 2001 e in volume nel 2019. Nel 1970 acquistò un piccolo appartamento a Milano. Dal 1971 al 1975 fu distaccato come formatore nelle scuole della provincia di Treviso. Nel 1973 morì la madre.
La fortunata antologia Poesie (1938-1972) (Milano 1973) fu curata da Stefano Agosti, che, da principale critico di Zanzotto, ne metteva in relazione la poesia con la nozione di arbitrarietà del segno postulata da Ferdinand de Saussure e con la priorità del significante sul significato elaborata da Jacques Lacan. Pasque (Milano 1973), libro dei passaggi rituali, anche pedagogici, che coinvolgono una comunità e dei passaggi psichici dell’individuo, chiuso in un’ambigua privatizzazione, fu recensito, fra gli altri, da Pasolini, che vide ne La Pasqua a Pieve di Soligo la «poesia più importante scritta in Italia in questi ultimi anni; forse, addirittura, dagli anni Cinquanta» (cfr. P.P. Pasolini, Andrea Zanzotto, «Pasque», in Id., Saggi sulla letteratura e sull’arte, cit., II, p. 2019).
Nel 1975 uscì la prima traduzione in volume della poesia di Zanzotto, avviando l’internazionalizzazione della sua fortuna. Nel 1976 collaborò a Casanova di Federico Fellini, con testi in dialetto poi ricompresi in Filò (Venezia 1976; Roma 1981; Milano 1988) insieme con altri materiali e soprattutto col poemetto omonimo, civile tentativo di rifondazione del rapporto fra natura, uomini e linguaggio, in aperto confronto con La ginestra o Il fiore del deserto, di Giacomo Leopardi. Altre importanti collaborazioni cinematografiche seguirono negli anni successivi. Uscì intanto un’edizione petrarchesca con un memorabile contributo di Zanzotto.
Il Galateo in Bosco (Milano 1978 e 1996) è aperto da una prefazione di Gianfranco Contini, che indica in Zanzotto «il più importante poeta italiano dopo Montale» (p. 5).
Il libro avvia una «pseudo-trilogia» (v. A. Zanzotto, Note a «Idioma», in Id., Le poesie e prose scelte, cit., p. 811). La partizione va intesa in senso topografico, con la collocazione del Galateo nel Montello e di Fosfeni (Milano 1983) sulle Dolomiti, rispettivamente a sud e a nord di Pieve di Soligo, centro di Idioma (Milano 1986), ma è anche tematica, stilistica e tonale, come mostrano l’inselvamento del Galateo, la rarefazione quasi noumenica di Fosfeni e la quotidianità comunitaria di Idioma. Al centro del volume fa spicco l’Ipersonetto, che sembrò quasi autorizzare il ritorno alle forme chiuse degli anni Ottanta. A dispetto di consensi come il premio Viareggio del 1979, anno in cui usciva anche la prima monografia dedicata al poeta, l’autore temeva che fosse stato frainteso il senso profondo del libro e, quindi, disatteso il suo invito a una ripartenza da zero.
Entrando nella cosiddetta terza età, subì una grave depressione. Intanto venne insignito del premio Librex-Montale con Fosfeni, per cui Parise notava come la grandezza, anche ‘geologica’, di Zanzotto fosse di gran lunga superiore alla sua leggibilità. Nel 1987 l’Accademia nazionale dei Lincei conferì a Zanzotto il premio Feltrinelli. Numerosi anche i riconoscimenti internazionali, fino all’assegnazione del premio Hölderlin nel 2005. L’inizio degli anni Novanta, segnato dalla morte del fratello Ettore, vide l’uscita di Fantasie di avvicinamento (Milano 1991) e Aure e disincanti del Novecento letterario (Milano 1994), poi raccolti, per le cure di Gian Mario Villalta, in Scritti sulla letteratura (I-II, Milano 2001), volumi che fanno di Zanzotto un grande poeta-critico.
Meteo (Roma 1996), con disegni di Giosetta Fioroni, inaugurò la collana poetica di Donzelli come un’anticipazione di lavori in corso. Si apriva un’altra fase della poesia di Zanzotto, con una nuova posizione del soggetto e del linguaggio, oltre che un diverso trattamento del paesaggio. Le poesie e prose scelte (Milano 1999) uscì ne I Meridiani, vincendo poi il premio Bagutta. In Sovrimpressioni (Milano 2001) la deriva anche testuale, non priva di esiti indimenticabili, ruota attorno alla distruzione del paesaggio e alla trasformazione della nozione stessa di natura, come avverte l’anonimo risvolto di copertina.
Nel 2001 Zanzotto firmò un significativo contributo su Hölderlin e il crescente interesse nei suoi confronti lo spinse a pubblicare, a partire dagli eventi per il suo ottantesimo compleanno, conversazioni, scritti sul cinema e qualche altro saggio.Nel 2005 subì ulteriori restrizioni alla propria mobilità per la rottura di un femore.
Conglomerati (Milano 2009) chiude in modo testamentario l’opera in versi di Zanzotto. Non mancarono, però, pubblicazioni successive, come la plaquette Il Vero Tema (Milano 2011).
In Conglomerati si mette in discussione l’idea stessa di definitività: la poesia è ormai sostituita dalle sue varianti, in una virtualizzazione che assume in sé anche la testualità, pur nella sua materica stratificazione. Stefano Dal Bianco, in particolare, presenta Conglomerati come una Commedia contemporanea e la chiusura di una «trilogia dell’oltremondo» (in A. Zanzotto, Tutte le poesie, 2011, p. LXXIII).
Morì a Conegliano, il 18 ottobre 2011, in seguito a complicazioni respiratorie.
Opere. Le poesie e prose scelte, a cura di S. Dal Bianco – G.M. Villalta, con due saggi di S. Agosti – F. Bandini, Milano 1999; Tutte le poesie, a cura di S. Dal Bianco, Milano 2011, e relativa bibliografia, cui si aggiungano almeno: Il Vero Tema, Milano 2011; In nessuna lingua in nessun luogo. Le poesie in dialetto 1938-2009, nota introduttiva di G. Agamben, prefazione di S. Dal Bianco, Macerata 2019; Haiku. For a Season. Per una stagione, a cura di A. Secco – P. Barron, con una nota di M. Breda, Milano 2019. Per la prosa si vedano: Ascoltando dal prato. Divagazioni e ricordi, a cura di G. Ioli, Novara 2011; Luoghi e paesaggi, a cura di M. Giancotti, Milano 2013; L’arte di Grazia Deledda, prefazione di A Balduino e introduzione di E. Zinato, Padova 2015.
Fonti e Bibl.: Tra gli studi monografici: P. Steffan, Un «giardino di crode disperse». Uno studio di «Addio a Ligonàs» di A. Z., Roma 2012; Il sacro e altro nella poesia di A. Z., a cura di M. Richter – M.L. Daniele Toffanin, Pisa 2013; “Dirti Z.”: Z. e Bologna (1983-2011), a cura di N. Lorenzini – F. Carbognin, Varese 2013; C. Cardolini Rizzo, Dai versi giovanili al vocativo. Semiologia poetica nel primo Z., Taranto 2013; Hommage à A. Z., textes réunis par D. Favaretto – L. Toppan, Paris 2014; N. Lorenzini, Dire il silenzio: la poesia di A. Z., Roma 2014; S. Agosti, Una lunga complicità. Scritti su A. Z., Milano 2015; «A foglia ed a gemma». Letture dall’opera poetica di A. Z., a cura di M. Natale – G. Sandrini, Roma 2016; M. Natale, Il sorriso di lei. Studi su Z., Verona 2016; L. Stefanelli, Il divenire di una poetica. Il «logos veniente» di A. Z. dalla «Beltà» a «Conglomerati», Milano-Udine 2016; F. Venturi, Genesi e storia della «trilogia» di A. Z., Pisa 2016; S. Sferruzza, Vocativo. A. Z. sul margine. Introduzione e commento alle poesie, Ospedaletto 2017; A. Z., la natura, l’idioma, a cura di F. Carbognin, Treviso 2018; Nel melograno di lingue. Plurilinguismo e traduzione in A. Z., a cura di G. Bongiorno – L. Toppan, Firenze 2018; S. Bubola, Dietro il paesaggio. Friedrich Hölderlin nell’opera di A. Z., Udine 2018; A. Russo Previtali, Il destinatario nascosto. Lettore e paratesto nell’opera di A. Z., Firenze 2018; A. Russo Previtali, Z./Lacan. L’impossibile e il dire, Milano-Udine 2019; C. Cardolini Rizzo, La poesia pastorale nell’età moderna. Le «IX Ecloghe» di A. Z., Avellino 2019.
Roma -Alla Casa dell’Architettura è aperta la mostra “Tutte le stelle portano a Roma” che presenta i volti di grandi attori e attrici ritratti dagli scatti d’autore di Luigi de Pompeis, giovane fotoreporter e fotografo di linea sui red carpet nazionali di Roma e Venezia.
La mostra proseguirà fino al 27 ottobre2024
La mostra a cura di Georgiana Ionescu, organizzata in collaborazione con la Casa dell’Architettura dell’Ordine Architetti Roma e Provincia e l’Acquario Romano nell’ambito della Festa del Cinema di Roma con il patrocinio della Presidenza della Commissione Cultura della Camera dei deputati racconta i due principali Festival di cinema italiani, ognuno con la propria specificità: Roma – laddove tutto ebbe inizio, con Cinecittà, e Venezia – capitale del Cinema internazionale e del glamour.
Evento all’interno del più ampio programma della terza edizione di Proiezioni, la rassegna cinematografica organizzata dalla Casa dell’Architettura in occasione della Festa del Cinema di Roma.
Casa dell’Architettura | Sala Monitor P complesso monumentale Acquario Romano p.zza Manfredo Fanti, 47 – Roma
Casa dell’Architettura -Si trova all’interno dell’Acquario Romano, un edificio tanto assurdo quanto controverso nato sul finire dell’Ottocento per volere dell’esperto in piscicultura Pietro Garganico, subito andato in malora e adibito a sala spettacolo e magazzino. La struttura è ellittica e ricorda un teatro. Nel 2002 il comune lo cede all’Ordine degli Architetti di Roma, ora ospita convegni, mostre e rassegne video a tema immobiliare, ma non disdegna esibizioni d’arte contemporanea.
In piazza Manfredo Fanti, circondato da un piccolo giardino, sorge l’edificio monumentale, ispirato a tipologie architettoniche classiche, nato su iniziativa dell’ittiologo comasco Pietro Carganico, per la realizzazione di uno stabilimento di piscicoltura con acquario, uno spazio soprattutto ricreativo, sul modello degli square parigini, impreziosito da un laghetto e ponticelli.
La costruzione faceva parte del progetto di ammodernamento di Roma a opera di Quintino Sella, con l’idea di rendere la capitale un centro della scienza. Inaugurato nel 1887, su progetto dell’architetto Ettore Bernich, l’Acquario venne utilizzato per i suoi scopi istituzionali per breve tempo: tra il 1900 e il 1930, fu teatro (vi recitarono Petrolini e Viviani), sala cinematografica, circo e, infine, magazzino del Governatorato e deposito degli scenari del Teatro dell’Opera, e abbandonato sino al 1984.
L’Acquario Romano si presenta con un corpo cilindrico con un avancorpo di ingresso con arco a nicchione, cui si accede da due scale simmetriche. La facciata principale è riccamente decorata con elementi di ispirazione acquatica, come le sculture “La Pesca” e “La Navigazione”, ospitate nelle edicole ai due lati dell’ingresso, e il gruppo raffigurante il carro di Venere tirato da un tritone ed una nereide, sulla sommità dell’attico.
Nel giardino, è presente uno dei più interessanti tratti delle Mura Serviane, realizzate intorno al IV sec. a.C. per difendere Roma. Ciò che rimane non è solo la struttura in grandi blocchi di tufi, ma il sistema difensivo nella sua interezza: la cinta muraria ed il profondo fossato che la completava e rinforzava al suo esterno, a cui si addossa una serie di edifici di età imperiale.
Entrando, si accede nell’atrio dagli splendidi ornamenti “alla pompeiana”, con nicchie ricche di statue, per poi giungere alla sala centrale, di forma ellittica, sovrastata da un lucernario. Un doppio ordine di colonne in ghisa, a sostegno della galleria superiore e del soffitto, scandisce la grande sala, dove al pianoterreno si aprivano le vasche – ora murate – decorate da specchiature dipinte da Silvestro Silvestri. L’ambiente affascina per la spettacolarità e la quantità delle decorazioni.
Dopo un lungo restauro, volto a restituirne l’immagine originale, l’Acquario Romano è oggi Casa dell’Architettura: un luogo finalizzato a dare voce e diffondere i nuovi fermenti progettuali, per esporre le ultime tendenze dell’architettura e dell’arte locale e internazionale, una sede polifunzionale dove promuovere la cultura e organizzare eventi e attività istituzionali dell’Ordine degli Architetti.
Roma – La personale dell’artista Tinamaria Marongiu dal titolo “BOX-ES ARTE COMPATTA” aperta sino al 30 ottobre 2024, posta sotto il Patrocinio della Città metropolitana di Roma Capitale. La mostra è stata inaugurata domenica 13 ottobre alla presenza dell’On. Cristina Michetelli, Consigliera Delegata al Bilancio e al Patrimonio della Città metropolitana di Roma Capitale e dell’On. Nicola Galloro
Tinamaria Marongiu è una scultrice sarda che del materiale di scarto ha fatto la propria cifra più intima di artista. Percorritrice dell’ARTE COMPATTA, espressione che si traduce in arte nel 2013, inventa un modo specifico di creare arte 3D, combinando vecchie materie di scarto e nuovi materiali, inorganici ed organici, metalli, paste e colori, che uniti fra loro diventano un corpo unico e compatto, frammenti di universo e di accadimenti di questa nostra esistenza.
L’uomo contemporaneo nel suo rapporto con la natura ha innescato una vera e propria “guerra”, attuando in continuazione modifiche strutturali e climatiche in modo talmente pervasivo da incidere negativamente sui processi naturali della geologia. Di questo rapporto conflittuale la Marongiu prende le vesti di un attento sismografo che utilizza una “cassetta degli attrezzi”, tutta particolare, in grado di manipolare “ciò-che-trova” nel suo continuo peregrinare in cerca di materie organiche e inorganiche, gettate da quell’esercito umano durante il suo stato d’assedio nei confronti della natura.
ARTE COMPATTA è la locuzione che Tinamaria utilizza in merito alla sua prospettiva artistica: gli oggetti la chiamano, spesso la catturano scoprendo in lei l'”accumulatrice seriale” dall’orecchio teso il cui scopo è quello di unire, amalgamare, colorare cinque “U”: Unicità, Universalità, Unione, Umanità, Uguaglianza, laddove la sua mano magicamente è guidata dall’universo mondo racchiuso in quel materiale di scarto, stoffe, pillole, spago, fiale, fili di ferro, piume, pezzetto di carta, pietre e altro ancora. Ai suoi occhi si apre un più vasto spazio in cui immergersi e, al contempo, fare immergere coloro che osservano il risultato ottenuto, vale a dire la scultura, essenza imprescindibile alla base dell’esistenza umana.
Fanno un tutt’uno atto a “compattare”, a far “convivere” in modo armonioso il materiale trovato con le materie plasmate al momento, miste, a loro volta, a colori e resine creando, riproponendo, come l’artista stessa ha avuto occasione di affermare, immagini di natura e frammenti di accadimenti del nostro vivere sociale.
Un viaggio verso nuovi universi fatti da un “Insieme Compatto” rispettando, anche del più piccolo frammento, la sua importanza ed unicità. Unità ed Unicità, caratteristiche considerate intrinseche perché ogni ente, ad iniziare dall’essere umano è unito e unico. Per giungere a questa concezione artistica Marongiu ha iniziato il proprio percorso basandosi su due costanti di fondo: la teca di plexiglas ribattezzata come “Box-Es”, con un evidente richiamo al bambino che freudianamente agisce sulla base delle sue sole pulsioni giocando e costruendo liberi orizzonti senza alcuna progettualità e la pillola e tutto ciò che cura, simbolo al tempo stesso sia dell’agio che del disagio dell’Antropocene.
La mostra si avvale di un catalogo con un testo critico di Domenico Segna.
Informazioni, orari e prezzi
NOTIZIE UTILI
Orari tutti i giorni 10-19. Sabato e domenica chiuso
Ingresso gratuito
Info tel. 339 7551888 | info@tinamaria.it | tinamaria-marongiu.it
Descrizione del libro di Fabio Stassi-Vince Corso è un biblioterapeuta. Precario più per nascita e per vocazione esistenziale che per condizione sociale, un giorno ha scoperto le doti curative, per l’anima e per il corpo, dei libri e ne ha fatto la propria professione. Si rivolge a lui una bella sessantenne: ha un fratello malato di Alzheimer che, nel marasma della sua mente, da qualche tempo ripete delle frasi spezzate, sempre le stesse, senza alcun legame tra di loro. Era stato uno studioso di fama e un lettore vorace, un amante delle lingue, un ricco collezionista di volumi, quelle parole potrebbero essere citazioni da un romanzo. «E solo un’ipotesi, ma se questo libro esiste, ci terrei a sapere qual è. E se lei lo trovasse, potrei leggerglielo a voce alta, qualche pagina al giorno». Il biblioterapeuta si mette al lavoro, con una domanda che lo assilla: se avessi perso tutto, e ti venisse concesso di salvare un solo ricordo, quale sceglieresti? Ha diversi enigmi da risolvere, mediante tecniche per decifrare e interpretare i testi, attraverso psicologie di identificazione con possibili autori, ricerche di biblioteca in biblioteca, incontri fortuiti e rivelatori. Un’avventura che lo guida a una soluzione che proprio innocente, come all’inizio appariva, non sarà. Intanto scruta i luoghi, fa sedute di biblioterapia con pazienti nuovi e inaspettati, scopre l’odio che è tornato ad attraversare i quartieri e la società. Ed è come una ricerca nella ricerca, un romanzo nel romanzo. Perché Vince è un camminatore, un esploratore di spazi e di persone: itinerari, spazi e persone che lo rimandano senza tregua a coincidenze con i momenti della letteratura di cui è vittima e complice, quasi come un prigioniero felice. Ma dominato da un bisogno inesauribile: trovare la linea di confine tra la vita e i libri e forse superarla, perché sempre di più è attratto dalle passioni, dalle paure e dalle gioie di uomini e donne in carne e ossa.
Recensione di Simona Bettin
OGNI COINCIDENZA HA UN’ANIMA Fabio Stassi
Il protagonista è un biblioterapeuta, Vince, accoglie pazienti nel proprio studio e a seconda delle esigenze, invece di prescrivere medicine , consiglia la lettura dei testi trovando affinità tra le parole scritte e le emozioni dei suoi pazienti. Durante una delle sue sedute arriva una donna di mezza età per sottoporgli il caso del fratello malato di Alzheimer che ormai non comunica quasi più se non ripetendo come una cantilena alcune frasi sconnesse tra di loro, sarà questo il compito del biblioterapeuta, scoprire il libro da cui sono tratte le citazioni.
Un’avventura che lo guida a una soluzione che proprio innocente, come all’inizio appariva, non sarà.
Intanto scruta i luoghi, fa sedute di biblioterapia con pazienti nuovi e inaspettati, scopre l’odio che è tornato ad attraversare i quartieri e la società. Ed è come una ricerca nella ricerca, un romanzo nel romanzo. Vince che distribuisce libri come cura, che promuove lo scambio di storie per salvare le persone, e mi torna in mente che è una coincidenza con il mio disagio nel leggere libri non miei , e mi accorgo che soprattutto la coincidenza è già nel titolo e questo romanzo ha un’anima bellissima.
Breve biografia incompleta di Fabio Stassi,scrittore di origini arbëreshë della Sicilia, è nato a Roma nel 1962 e attualmente vive a Viterbo e lavora a Roma in una biblioteca universitaria. È autore di romanzi quali Fumisteria (GBM 2006, Premio Vittorini per il miglior esordio), È finito il nostro carnevale (2007), La rivincita di Capablanca (2008), Holden, Lolita, Zivago e gli altri (2010), pubblicati da Minimum Fax. Ha scritto L’ultimo ballo di Charlot (Sellerio, 2012), in traduzione in diciassette lingue (secondo classificato al Campiello 2013, Premio Sciascia Racalmare, Premio Caffè Corretto Città di Cave, Premio Alassio), e ha curato l’edizione italiana di Curarsi con i libri. Rimedi letterari per ogni malanno (Sellerio, 2013).
Franco Fortini (pseudonimo di Franco Lattes), nato a Firenze nel 1917 da padre ebreo e madre cattolica (Fortini è il cognome della madre da lui adottato nel 1940), ha compiuto i suoi studi nella città natale laureandosi in lettere e in giurisprudenza. Espulso, in seguito alle leggi razziali, dall’organizzazione universitaria fascista, dopo l’8 settembre 1943 si trasferisce in Svizzera dove si unisce ai partigiani della Valdossola. Dal l945 si stabilisce a Milano, sua città d’adozione e dove oltre all’insegnamento svolge molteplici attività di copywriter, consulente editoriale, traduttore e, infine, come docente universitario di Storia della Critica all’ Università di Siena. Tra le sue opere: “Foglio di via e altri versi”, Einaudi, Torino, 1946; “Agonia di Natale”, Einaudi, Torino, 1948; “Dieci inverni” (1947-1957), Feltrinelli, Milano, 1957; “Poesia ed errore (1937-1957)”, Feltrinelli, Milano, 1959;”Verifica dei poteri”, Il Saggiatore, Milano, 1965; “L’ospite ingrato”, De Donato, Bari, l966; “I cani del Sinai”, De Donato, Bari, 1967; “Questioni di frontiera”, l977; “Insistenze”, l985; “Composita solvantur”, Einaudi, Torino, l995. Ha tradotto: M. Proust, “Albertina scomparsa”, Einaudi, Torino, 1952; e, dello stesso autore, “Jean Santeuil”, Einaudi, Torino, l953; Bertold Brecht, “Poesie e canzoni”, Einaudi, Torino, 1961; W. Goethe, “Faust”, Mondadori, Milano, 1970; “Il ladro di ciliege”, Einaudi, Torino, l983; “Composita solvantur”, Einaudi, Torino, 1994. Franco Fortini ha collaborato ad alcune tra le più importanti riviste del Novecento: a “Letteratura” (di Bonsanti) e “Riforma letteraria” (di Carocci e Noventa), sotto il regime fascista; e, dopo la guerra, a “Il Politecnico” (di Vittorini), “Ragionamenti” (da lui fondata nel l955 con L. Amodio, S. Caprioglio, e Roberto e Armanda Guiducci) “Officina” e “Comunità”, nonché a diversi quotidiani: dall’ “Avanti!” (di cui è stato redattore dal l945 al l948) al “Corriere della Sera”, al “Sole-24 0re”.
E’ morto a Milano nel l994.
Sonetto dei sette cinesi
Una volta il poeta di Augsburg ebbe a dire
che alla parete della stanza aveva appeso
l’Uomo del Dubbio, una stampa cinese.
L’immagine chiedeva: come agire?
Ho una foto alla parete. Vent’anni fa
nel mio obiettivo guardarono sette operai cinesi.
Guardano diffidenti o ironici o sospesi.
Sanno che non scrivo per loro. Io
so che non sono vissuti per me.
Eppure il loro dubbio qualche volta mi ha chiesto
più candide parole o atti più credibili.
A loro chiedo aiuto perché siano visibili
contraddizioni e identità fra noi.
Se un senso esiste, è questo.
(da L’ospite ingrato secondo, 1985)
Molto chiare si vedono le cose.
Puoi contare ogni foglia dei platani.
Lungo il parco di settembre
l’autobus già ne porta via qualcuna.
Ad uno ad uno tornano gli ultimi mesi,
il lavoro imperfetto e l’ansia,
le mattine, le attese e le piogge.
Lo sguardo è là ma non vede una storia
di sé o di altri. Non sa più chi sia
l’ostinato che a notte annera carte
coi segni di una lingua non più sua
e replica il suo errore.
È niente? È qualche cosa?
Una risposta a queste domande è dovuta.
La forza di luglio era grande.
Quando è passata, è passata l’estate.
Però l’estate non è tutto.
Franco Fortini, Traducendo Brecht
Un grande temporale
per tutto il pomeriggio si è attorcigliato
sui tetti prima di rompere in lampi, acqua.
Fissavo versi di cemento e di vetro
dov’erano piaghe murate e membra
anche di me, cui sopravvivo. Con cautela, guardando
ora i tegoli battagliati ora la pagina secca,
ascoltavo morire
la parola d’un poeta o mutarsi
in altra, non per noi più voce. Gli oppressori tranquilli
parlano nei telefoni, l’odio è cortese, io stesso
credo di non sapere più di chi è la colpa.
Scrivi, mi dico, odia
chi con dolcezza guida al niente
gli uomini e le donne che con te si accompagnano
e credono di non sapere. Fra quelle dei nemici
scrivi anche il tuo nome. Il temporale
è sparito con enfasi. La natura
per imitare le battaglie è troppo debole. La poesia
lasciare che ci giudichino guidarli essere guidati
con loro volere il bene fare con loro il male
e il bene la realtà servire negare mutare.
1944/47
*
Scoprivi il mare di sera, era qua
e là verde, qua e là nero vino.
Un’alga lunga era quieta a mezz’acqua.
Così non visto muta un destino.
Non dava segno di vita la “monaca” violetta.
Poi si staccò, calò al fondo su ali eque.
Fu paura o che? Da allora tacque
la verità ma aspetta.
PER TRE MOMENTI
1
Queste foglie d’aceri e questa luce
mi rammentano che una volta sono stato
visitatore d’un santuario, viaggiando la Cina.
Era il mese di settembre, c’era una luce così.
Così le foglie nella valletta ventilata.
Indulgo ai cortili perfetti, indulgo alle carpe
che nelle vasche, se applaudi, salgono. Penso
che anime offese o vinte sempre così cercarono
di persuadersi. Perché in segreto le accusa
l’erba che fino a sera annuisce al vento?
2
Ma l’erba che fino a sera annuisce al vento
e devota sembra a morte consentire
ah non sa nulla delle anime ferite,
di quel loro cauto bramare quiete. E’ senza
mente, una pianta che pazienta, poco
diversa dall’insetto o dal rettile. Sono io
che la mia forma effondo
in quella definita forma e ingenuo credo
realtà la metafora.
Nega l’eterna lirica pietà,
mi dico, la fantastica separazione
del senso del vero dal vero
delle domande sul mondo dal mondo. Disperdi
la deliziosa nuvola del pianto
e fuor del primo errore procedi almeno.
Anche se non è tempo ancora di riposo,
se non è luogo ancora per la saggezza
e tu starai alla fine con un sorriso deluso
che gli altri bene vedranno tremando per sé.
3
Questo conosco nei chiostri chiari, nei santuari,
nelle perfette cavità lasciate dagli anni giovani.
Questo nel suo simbolo mi comanda
l’erba che il vento realmente consuma.
LE PICCOLE PIANTE…
Le piccole piante mi vengono incontro e mi dicono:
«Tu, lo sappiamo, nulla puoi fare per noi.
Ma se vorrai entreremo nella tua stanza,
rami e radici fra le carte avranno scampo».
Ho detto di sì a quella loro domanda
e il gregge di foglie ora è qui che mi guarda.
Con le foreste riposerò e le erbe sfinite,
vinte innumerabili armate che mi difendono.
Molto chiare…
Molto chiare si vedono le cose.
Puoi contare ogni foglia dei platani.
Lungo il parco di settembre
l’autobus già ne porta via qualcuna.
Ad uno ad uno tornano gli ultimi mesi,
il lavoro imperfetto e l’ansia,
le mattine, le attese e le piogge.
Lo sguardo è là ma non vede una storia
di sé o di altri. Non sa più chi sia
l’ostinato che a notte annera carte
coi segni di una lingua non più sua
e replica il suo errore.
È niente? È qualche cosa?
Una risposta a queste domande è dovuta.
La forza di luglio era grande.
Quando è passata, è passata l’estate.
Però l’estate non è tutto.
Postfazione: Edoardo Albinati- Nota filologica: Demetrio Marra-
-Interno Novecento-
Descrizione della raccolta poetica di Ottiero Ottieri.La collana «Interno Novecento» riporta in libreria l’esordio in poesia, pubblicato nel 1971 da Bompiani, dell’allora già celebre narratore “industriale” Ottiero Ottieri. Una riedizione curata nei minimi dettagli, grazie ai contributi di Edoardo Albinati e Demetrio Marra, per un volume accolto dalla critica come «un libro bellissimo» (Pasolini) e un «oggetto bruciante […], alieno nel senso profondo» (Zanzotto). Un’opera prima nata da un’intuizione: per cogliere “dal vivo”, cioè osservandolo in atto, quindi esorcizzandolo, i meccanismi, i significati ritmici del pensiero ossessivo, per natura interrotto, lacunoso, “chiuso”, sono necessari i versi o le «righe corte», cioè la forma “chiusa” della poesia. La patologia viene esposta, allora, portata alla luce attraverso una scrittura paradossalmente non metaforica, quasi “filosofica”: l’autore si ricalca sul foglio, diviene personaggio in lotta con il cancro della mente, con le funzioni perverse che soffocano quelle sentimentali e sessuali. Al centro il dubbio: «Dal dubbio deve essere / occupata la mente. / Altrimenti che pensa la mente? / Che fa la mente imperplessa?».
Cerca di scrivere del pensiero ossessivo nel pochissimo tempo
lasciatogli libero dal pensiero ossessivo.
Cerca di scrivere del pensiero ossessivo nel pochissimo tempo.
Non lavora, non esce, non mangia,
all’infinito perfeziona la tessitura d’aria
con un’aderenza perfetta
schiacciata incollata alla cerebrale
spoletta. Schifiltosità disperata
verso ogni dolce contaminazione,
non guarda, non tosse, immobile e puro
sfuggendo la pena che avvampa
dopo il barlume d’una distrazione. Se si accantona, se schiaccia.
la molla del dubbio, scatta
più forte, il velo opaco che era
nella scatola della testa
si indurisce, il dubbio marrone
scuro picchia da sinistra e da destra.
Sensazionale è nel letto la notte dello scoppio
(precedente per l’obbligo
real mentale
la scelta obbligatoria). È bianca,
lunga, corta, morta,
piena di pantere e di germi,
precipita, ferma sbarra gli occhi al traguardo.
Si sbatte, arranca, fila.
Fruga prevede cieca
nella visione storta
del mattino,
se sceglie si condanna,
la non scelta è dannata.
Scrive del pensiero ossessivo nel pochissimo tempo
roso, dal margine sfilacciato e breve:
impegnata, tesa è la testa nella notte,
inutile il corpo, l’istinto morto,
e misterioso, il buio
istinto del cervello trivella
l’aria e il tempo. Acrobatico cervello
esteso fino allo stiramento
della carnale propria ineffabile
estensività per toccare la cosa
assente
la cosa
opposta. È vicino
il mattino e più soffia vicino
più la spoletta urge e s’avventa
nella testa, meno la mesta
rassegnazione imbalsama la festa del dubbio.
Dà questo dubbio finali squilli,
cunei di ghisa, enormi spilli.
Tesa è la notte ossessiva mentre il resto
del mondo riposa, tesa e non si rompe:
il tempo invincibile gomma,
il tempo che come il dubbio
pompa il pensiero nero.
Continua la notte illuminata
dalla fiamma ossidrica della
mente tramortita e accesa.
La scadenza, l’alba
fende l’esistente.
Nudo il cervello si muove e sposta coi sussulti,
le esplorazioni da faro dell’ossessione impaziente,
perché la gente aspetta. Non può aspettare la gente
il figlio del travaglio
mongoloide forgiato dal maglio
che fora il tubo di ferro e d’aria.
Troppo corta è sempre la notte
per il pensiero ossessivo, di natura
infinito. Il pensiero
ossessivo pensa sempre più dentro
e sempre più fuori del mondo
perché la decisione interiore
sia più acuta
e meno sussultorio il risveglio.
Meglio non dormire che svegliarsi.
Scatenata è la sindrome. La depressione
sotterra vivacissimo il dubbio, lo slarga,
l’ansia lo piglia per le due
corna e lo sbatte per lo spazio mentale
percuotendo il vuoto pieno di segretissimi
lampi, di qualche cenere, di soffocato fuoco
del più acre pensiero umano.
L’uomo a letto immobilizzato
tutto pensa la ridicola decisione.
È l’ora di essa. Un corno
del dilemma si drizza: ha vinto senza catarsi,
maturazione autonoma e sfuggente,
ei non sa bene perché ha vinto.
Per l’antica coazione
che non apre l’orizzonte del mare,
mare del nascimento? destino.
L’uomo s’alza pesante sotto il piombo
della riserva mentale, sotto
la rinuncia che scuce il cervello.
Appare come pigrizia!
Esce fosco nei trattenuti sussulti
della psiche bevuta durante il trasporto,
avvelenato dall’idea
irrealizzata, avversa nel suo comportamento perverso,
trainato dalla decisione immatura,
slogato dal corno trascurato che tira
verso una mira già diventata ideale,
la mira che non s’avvera,
in una mattina di repellente cera.
la molla del dubbio, scatta
più forte, il velo opaco che era
nella scatola della testa
si indurisce, il dubbio marrone
scuro picchia da sinistra e da destra.
Sensazionale è nel letto la notte dello scoppio
(precedente per l’obbligo
real mentale
la scelta obbligatoria). È bianca,
lunga, corta, morta,
piena di pantere e di germi,
precipita, ferma sbarra gli occhi al traguardo.
Si sbatte, arranca, fila.
Fruga prevede cieca
nella visione storta
del mattino,
se sceglie si condanna,
la non scelta è dannata.
Scrive del pensiero ossessivo nel pochissimo tempo
roso, dal margine sfilacciato e breve:
impegnata, tesa è la testa nella notte,
inutile il corpo, l’istinto morto,
e misterioso, il buio
istinto del cervello trivella
l’aria e il tempo. Acrobatico cervello
esteso fino allo stiramento
della carnale propria ineffabile
estensività per toccare la cosa
assente
la cosa-
Biografia di Ottiero Ottieri (Roma, 1924 – Milano, 2002)si trasferisce a Milano nel 1948, dove lavora come giornalista. Dal 1953 è “psicotecnico” alla Olivetti. Dopo l’esordio “Memorie dell’incoscienza” (Einaudi, 1954) Ottieri pubblica “Tempi stretti” (Einaudi, 1957), primo libro “industriale”, a cui seguono Donnarumma all’assalto (Bompiani, 1959) e La linea gotica (Bompiani, 1962). Dopo aver collaborato alla sceneggiatura di “L’eclisse” (1962) di Michelangelo Antonioni scrive “L’impagliatore di sedie” (Bompiani, 1964). Negli anni Sessanta vince il Premio Viareggio con “L’irrealtà quotidiana” (Guanda, 1966), inaugurando la scrittura “psicologica”. Nel 1968 per Bompiani esce I divini mondani. Dopo il lungo ricovero in clinica due libri: “Il pensiero perverso” (Bompiani, 1971), l’esordio poetico, e “Il campo di concentrazione” (Bompiani, 1972). In versi scriverà “La corda corta” (Bompiani, 1978), “Vi amo” (Einaudi, 1988), “L’infermiera di Pisa” (Garzanti, 1991), “Il palazzo e il pazzo” (Garzanti, 1993), “Storia del PSI nel centenario dalla nascita” (Guanda, 1993), “La psicoterapeuta bellissima” (Guanda, 1994), “Diario del seduttore passivo” (Giunti, 1994), fino al prosimetro “Il poema osceno” (Longanesi, 1996). Parallelamente, coltiva la scrittura in prosa, nella quale spiccano per esempio “Contessa” (Bompiani, 1976), “Improvvisa la vita” (Bompiani, 1987) e De Morte (Guanda, 1997), fino a “Un’irata sensazione di peggioramento” (Guanda, 2002).
Maria Pina Ciancio di origine lucana è nata in Svizzera nel 1965. Trascorre la sua infanzia tra la Svizzera e il Sud dell’Italia e da qualche anno vive nella zona dei Castelli Romani.
Viaggia fin da quand’era giovanissima alla scoperta dei luoghi interiori e dell’appartenenza, quelli solitamente trascurati dai grandi flussi turistici di massa, in un percorso di riappropriazione della propria identità e delle proprie radici.
Ha pubblicato testi che spaziano dalla poesia, alla narrativa, alla saggistica. Tra i suoi lavori più recenti ricordiamo ‘Il gatto e la falena’ (Premio Parola di Donna, 2003), ‘La ragazza con la valigia’ (Ed. LietoColle, 2008), ‘Storie minime e una poesia per Rocco Scotellaro‘ (Fara Editore 2009), ‘Assolo per mia madre’ (Edizioni L’Arca Felice, 2014), ‘Tre fili d’attesa‘ (Associazione Culturale LucaniArt 2022).
Nel 2012 ha curato il volume antologico Scrittori & Scritture – Viaggio dentro i paesaggi interiori di 26 scrittori italiani.
Suoi scritti e interventi critici sono ospitati in cataloghi, antologie e riviste di settore. Recentemente è stata inserita nelle collettive: ‘Orchestra’ (a cura di Guido Oldani) LietoColle 2010; ‘Il rumore delle parole – 28 poeti del Sud‘ (a cura di Giorgio Linguaglossa), Edizioni EdiLet 2015, ‘Sud – Viaggio nella poesia delle donne‘ (a cura di Bonifacio Vincenzi) Edizioni Macabor 2017, ‘Il sarto di Ulm, Bimestrale di poesia’, Macabor Editore, luglio-agosto 2020, ‘Dizionario critico della poesia italiana 1945-2020′ (a cura di Mario Fresa), Società Editrice Fiorentina 2021
Ha fatto parte di diverse giurie letterarie, è presente in numerosi cataloghi e riviste di settore.
È presidente dell’Associazione Culturale LucaniArt e su internet cura lo spazio web lucaniart.wordpress.com
Con il libro Storie Minime e una poesia per Rocco Scotellaro nel 2022 ha vinto il Premio Leandro Polverini per la poesia edita; nel 2015 la X Edizione del Premio Letterario “Gaetano Cingari”; nel 2014 il Premio Internazionale della Migrazione – Attraverso L’Italia e il Premio Letterario Città di Cerchiara – Perla dello Jonio (con un testo tratto dalla raccolta); nel 2009 il Premio “Tremestieri Etneo” (Targa Antonio Corsaro).
Mi abitano i paesi spopolati
e il vento
la luce che scorre in un istante
e frana
nella crepa dei calanchi
nella carne
* (Sola andata)
I cartelli stradali sono tutti uguali stanotte
e puntano dritti alla confluenza del Sinni
unica salvezza che separa dall’attimo
un viaggio di sola andata una via di fuga forse una morsa sfilacciata dalla resa
Lungo strade mezzevuote
il vento arruffa il pelo delle capre
e rallenta la corsa verso casa
dove senza sentenza attendono gli affetti
silenzi imperfetti
incapacità di muoversi
a volte
fianco a fianco
Il riparo atteso della notte
*
Abbiamo allineato lo sguardo i passi, i vasi dei geranei sul selciato ancora fresco senza sapere che nel vaso di pietra riverso alla finestra sono cresciuti i cardi stanotte
con la testa capovolta nella crepa
*
La vita certe volte è ferma al di là delle finestre chiuse e il vento lo senti solo dentro frugare fugace come un clandestino
nelle tasche delle giacche nei granai, sotto gli archi
dappertutto
*
E’ nella crepa grande quella priva di intonaco e calce che il cedimento talvolta arriva come un presagio d’azzurro aperto al cielo
un fiato appena
*
Abbiamo gridato così tanto a vent’anni che la voce si è spezzata nella gora e adesso restano gli occhi
e il petto che ogni notte si scassa per la tosse
Maria Pina Ciancio
da La ragazza con la valigia, LietoColle 2008
La ragazza con la valigia
Parte e ritorna ogni notte
la valigia rossoazzurra
rigonfia di stracci
e lo sguardo di terra
annodato alla luna
*
Stese panni biancoazzurri
al filo delle rondini nere
di ritorno
e rimase immobile, scarmigliata dal vento
i capelli e i vestiti graffiati
da carezze senza cura
chissà perché in quella casa
dai tetti rossi
il tempo del presente
era sempre altrove
*
Timpa Pizzuta
Aveva lavorato una vita
per non sentirsi ai piedi
odore fresco di mastice
ma a Timpa Pizzuta
la strada rovinò
e Nina perse le scarpe nuove
della festa
*
Certi tremori Carla li sentiva ancora adesso
erano piccoli crolli in pieno giorno
su quelle strade battute di notte
(dieci, venti, trenta volte)
e prima dell’alba
divenute misura di un pensiero
domestico
*
La solitudine non le faceva più paura, da quando la vita le aveva fatto scempio in lungo e in largo. A Nina adesso faceva paura guardare in faccia il cielo e in quella smerigliata innocenza, socchiudere gli occhi e non saper pregare.
Da dove viene la tua poesia. Da tante cose. Non sempre i motivi che ci inducono a scrivere sono esaurientemente elencabili e chiaramente consapevoli. Potrei dire, per tentare di rispondere in qualche modo alla domanda, che il filo conduttore della mia scrittura nasce innanzitutto dall’incontro con la Lucania, cioè con quella “terra” del sud affascinante e magica e al tempo stessa terribile e arcaica, dove dalla Svizzera sono ritornata bambina all’età di circa sette anni.
Per chi scrivi, come immagini il tuo lettore? Non scrivo mai per un fine. Per me la scrittura è un modo di stare al mondo, un fatto mio (privato) innanzitutto; tutto ciò che ne consegue (condivisione, riconoscimento, identificazione) è un valore aggiunto, di cui ringraziare ed essere riconoscenti.
Come vivi, con te stessa e con gli altri, il tuo essere poeta? Oggi con (conquistata) serenità, da giovane con la lacerante consapevolezza interiore della marginalità e dell’esclusione.
Come hai iniziato? Ho iniziato alle soglie dell’adolescenza. Ricordo tra le prime composizioni una poesia giovanile sulla luna, dalla chiusa fortemente pessimistica. Fu il mio professore di filosofia a leggerla, ad apprezzarla, a consigliarmi la riflessione e il superamento dolente ed esistenziale che ne caratterizzava gli ultimi versi.
Come ti veniva insegnata a scuola la poesia, che ricordi hai? Non ho ricordi particolarmente nitidi legati alla scuola. La passione per la poesia è nata in territori altri; un’esperienza personale e intima, completamente anarchica direi.
A chi fai leggere per primo i tuoi versi. Quasi mai a nessuno.
Usi la penna o il computer? Scrivo rigorosamente a mano: biro nera e comunissimi fogli bianchi. Ho bisogno di intimità quando scrivo e al computer disperdo l’ispirazione.
Quando viene di getto o è frutto di lunghe elaborazioni. Non credo nell’estemporaneità della parola. La poesia è sempre frutto di un fermento e di una lunga riflessione interiore, seppure appaia di getto.
A parte le tue, quante poesie di altri pensi di ricordare a memoria? Pochissime, ma sicuramente più quelle degli altri che le mie. Mi sono rimaste particolarmente dentro alcune terzine dall’Inferno di Dante.
Un consiglio prezioso da passare agli altri. L’onestà della parola, nient’altro. Per il resto credo nel dialogo costruttivo e nella condivisione.
Un poeta su tutti. Non saprei. Da giovanissima avrei detto Withman e Lee Masters. Ho amato la poesia americana con la stessa ardente passione di Pavese e Campana. Poi, pian piano sono arrivati gli altri, la poesia europea ed italiana e infine i poeti del Sud. Non si può vivere qui, senza aver fatto i conti, prima o poi, con quelli che sono stati i nostri padri “spirituali” della terra.
Maria Pina Ciancio
(San Severino Lucano, 19 ottobre 2010)
Critica
“(Storie minime) Una raccolta breve, ma compatta, stilisticamente consapevole e calibrata, tutta racchiusa in un paesaggio remoto, tra il Sinni e il Pollino, dove la letteratura poche volte è sostata, e dove si compie così felicemente la poesia notturna e limpida e buona di Maria Pina Ciancio” – Andrea Di Consoli (da Il quotidiano di Basilicata, 8 giugno 2009)
*
“Maria Pina Ciancio ha scritto parole che sono rivendicazione di esistenza e di resistenza. Ma la sua poesia è, in primo luogo, passione. Dichiarazione d’amore alla sua terra, alla sua gente, agli incontri e agli addii accaduti durante il cammino. Sono lampi lirici dai toni struggenti” – Mimmo Sammartino (da La Gazzetta del Mezzogiorno, 9 luglio 2009)
*
“Poetessa passionale, ancorata alle sue radici, modellata e forgiata con le lacrime e il sangue della propria terra, la terra lucana, terra del Sud. Storie minime è una preziosa silloge di poesia sull’emigrazione (…) Maria Pina Ciancio racconta il suo mondo attraverso la scrittura, ne assimila le sofferenze , le gioie del quotidiano, si rende messaggera di un malessere atavico. Nei suoi scritti l’impegno, l’ideologia trovano equilibri sottili, si appellano alla coscienza, e la poesia diviene il punto di confluenza, il luogo nel quale abbattere i confini e offrire dimora agli stranieri di tutto il mondo” – Salvo Zappulla (da La Sicilia, 2 novembre 2009)
*
“Maria Pina Ciancio, al contrario di quelli che sono partiti, è nata in Svizzera ma è poi tornata nella terra d’origine, la Basilicata, dove oggi vive. Basilicata o Lucania? Già nella scelta del nome della regione, si coglie il tema di fondo del suo ultimo e intenso bel libro di poesie, dal titolo Storie minime (Fara editore), con il quale conferma il suo notevole talento letterario e la sua scrittura, libera dal versificare barocco e autoreferenziale. E il tema di fondo è lo «spaesamento»” – Michele Brancale (da Il Corriere fiorentino, 13 ottobre 2009)
*
“L’autrice, nata in Svizzera, di origini lucane e operante a San Severino, in provincia di Potenza, affronta un tema così complesso in maniera eccentrica nei confronti dei tradizionali canoni − realistici e neorealistici − che furono tipici, storicamente, della cosiddetta letteratura dell’emigrazione. Elementi realistici non mancano, ma circola accanto ad essi un che di trasognato, qua e là anche una fugace aura visionaria. L’asse è spostata dall’oggettivismo (quintessenziale nell’estetica realistica) alla dimensione della soggettività e l’andamento è più impressionistico che descrittivo” – Lucio Zinna (da Arenaria, ragguagli di letteratura – due, 2009)
*
“I suoi versi scorrono leggeri come haiku. Sono pennellate delicate e incisive a un tempo. E suggeriscono, evocano situazioni che, dalla contingenza spaziale o temporale, tramutano i dati oggettivi in veicoli di significazione esistenziale” – Luigi Reina, Università degli Studi di Salerno, 2002
*
“Questo, il nuovo itinerario di Maria Pina Ciancio (…). E vi si entra piano, come a voler chiedere di abitare coi versi, forse per timore di sgualcirne l’incanto o per il dubbio scontato di restarne incagliati. Ebbene, l’incanto arriva presto, ed è quello della parola, performativa, rituale, conativa, e pur sempre fortemente icastica. La poetessa lo sa e ci accompagna nel viaggio” – Pierino Gallo (da Il Fiacre, Quadrimestrale di Letteratura Italiana, Settembre 2009 – numero 6)
*
“… poesie asciutte e lisce come ciottoli di torrente; testi che, sotto l’occhio di chi legge, rimbalzano sulla superficie dell’anima, lasciando anelli concentrici di senso che si espandono dentro di noi come brividi. È questa la sensazione che si prova a leggere “La ragazza con la valigia”, la smilza ed essenziale raccolta di Maria Pina Ciancio, edita da Lietocolle nel 2008 e dalla quale sono tratte le poesia qui pubblicate. Si tratta di testi brevi, quasi privi di punteggiatura, senza orpelli e aggettivi, rugosi e duri come le mani delle contadine e delle vedove vestite di scuro, scabri come certi muri calcinati e pietrosi dei villaggi del Sud che fanno da cornice a questi versi.” – Luca Benassi (da Noi Donne, Mensile di Politica, Cultura, Attualità fondato nel 1944, dicembre 2009)
*
“… sono soprattutto poesie semplici. Semplicità intrinseca di pathos e di emozioni forti che difficilmente prova chi non vive intensamente i nostri paesi, come fa l’autrice” – Andrea Lauria (da La Piazza, mensile di informazione, cultura, sport, agosto-settembre 2009
*
“Mi è rimasto in corpo questo libro, piccolo, minuto, ma di una sostanza che si innesta direttamente con la terra di cui anch’io sono fatta, terra che nutre. Un libro di sonorità profonda, che, a mio parere, non si limita a calzare le pendenze d’Italia, il meridione che sta giù. Qui, il giù segnalato, con vastità di segni, tanti, una sabbia finissima che ancora non si solleva, si lascia calpestare, è amore,un amore che è mare e comprende l’umanità, tutta, nella sua interezza, nel corpo che continua, oggi, ad essere solcato, non solo graffiato, vilipeso, brutalizzato da segni che, al contrario, non sono affatto minimi”. – Fernanda Ferraresso, luglio 2009
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“(La ragazza con la valigia) …un gioco di chiaroscuri e di sottintesi, eppure lucidissimo e anche “impegnato” come più non si può, da un punto di vista femminile ma soprattutto umano e ovviamente poetico. – Gina Labriola, 2 agosto 2008
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“(La ragazza con la valigia) Si tratta di una poesia rarefatta e originale, cifra comune a tutte le composizioni del libro, poesie di solito brevi e scabre, ma, talvolta anche più lunghe e articolate architettonicamente (…). Il tema del viaggio è centrale in questa raccolta, come pure, si avverte, spesso, una vena di quotidianità, nei versi che l’autrice presenta al lettore e c’è da notare che Maria Pina Ciancio riesca a costruire segmenti leggeri e icastici, costruendo immagini che emergono l’una dall’altra, rendendo così piacevole e accattivante la fruizione. – Raffaele Piazza (da Vico Acitiello – Poetry Wave, 2010)
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“Maria Pina Ciancio è voce solida, ben impostata, caratterizzata da un senso della liricità che ormai, purtroppo, è quasi al tramonto nella nostra epoca e pertanto difficile da trovarsi nella poesia attuale, giocata quasi tutta al gioco dei minimi termini, dell’elenco di cose. Consapevole di una forte tradizione letteraria e poetica, legata alle voci più alte del nostro Novecento, come Montale e Ungaretti, di cui si sente il vento che spira tra le righe nei versi della nostra poeta, veniamo catapultati in un versificare leggero, musicale, che evapora in una apparentemente inconsapevole nettezza di profondo senso ed elevato contenuto, dove si gioca il significato della nostra esistenza, nella quale capita spesso d’impuntarci, di essere colti da un crampo che ci fa restare nell’aporia, la quale può essere risolta soltanto ed esclusivamente dalla parola poetica che ben conosce la tempistica dell’esistenza” – Maurizio Soldini (LietoColle 2010)
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“(…) Qui non ci sono stanze morbide e non c’è riposo: chi pratica l’«imperfezione» delle “storie minime” si muove. E chi legge, dai suoi abitacoli comodi o nevrotici, impara che è impossibile, davvero impossibile – e forse vergognoso – scrivere senza intensità: «la protesta ha bisogno di passione», e la passione, che protesta, ha anche il suo stile. Questo stile fa una cosa serena e forte: rinuncia a rinunciare ai campi, quindi si espone al dolore dell’oltre la Svizzera. – Massimo Sannelli (da Lettera sull’intensità, Genova, 7-19 marzo 2009)
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La poesia di Maria Pina Ciancio è un assolo paradossale, che si trasforma in un dialogo forte, silenzioso e quieto: un dialogo che sempre cerca, e sempre chiede, un amoroso contatto con l’assenza, con l’eco del passato (e col riemergere dunque, magico e incomprensibile, di tutto ciò che è stato). Forse è questo, chissà, l’autentico sapere della poesia: riconoscere nella potenza della parola la capacità di dialogare con chi manca, riformulando i principi della vita e della morte, e condensandoli, infine, con l’aiuto di una grazia misteriosa. – Mario Fresa(da un contributo interno alla silloge ‘Assolo per mia madre’, L’Arca Felice 2015)
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“E giunge la parte politica: la necessità storica di reagire allo spaesamento, di ricominciare a negare gli errori del presente, a desiderare di riprendersi la voce e l’urlo collettivo contro i poteri disgreganti, in un tempo di migrazioni ancora più sanguinanti. Ma per chi rompe la tradizione, per chi urla nel silenzio, ecco immediata la reazione dei benpensanti, dei narcotizzati, dei piccolo-borghesi affondatori: ‘ Per ogni parola contro/ ti lanciano un sasso/ e poi ti schiacciano all’angolo’. Emarginazione delle teste pensanti, misoneismo, ipocrisia, paura di perdita del potere di posizione e delle idee fatte, miseria psicologica che si somma alla miseria economico-sociale. La poesia ribadisce che ‘la vita è una guerra’ e con tale messaggio, positivo per la trasformazione, si dipana la poesia della Ciancio che dispiega, alla fine, il mito di R. Scotellaro narrato al proprio figlio, perché la rabbia e l’orgoglio si levino fino al cielo, impastati di polvere.” – Antonio Lotierzo, settembre 2015.
Carlotta Cicci-Raccolta di Poesie “Sul banco dei pesci”
–Prefazione di Alberto Brtoni- Editrice L’Arcolaio- Forlimpopoli
L’esordiente Carlotta Cicci ha posto tre versi visionari del gallese Kavanagh in apertura di questa raccolta – E Cristo viene/ come un fiore/ di gennaio – fondando così questa poesia sulla sua imprevedibilità, come quell’apparire inatteso di un fiore a gennaio.
La scrittura è fortemente metapoetica, continuamente attraversata dalla necessità di dar conto di sè, della sua germinazione, del suo esserci nel dolore, nell’amore, nell’abbandono e nell’oblio.
L’autrice è disorientata ma sensibilissima, sente la vita ma sa che la poesia la precede – inseguo vertigini/ come un uccello cieco/ che mangia il vuoto// sono preistoria.
Avvertiamo nei testi quasi un travaglio, la fatica che si ripete del vero parto della figlia, a cui Carlotta Cicci dedica la sua silloge – il sangue mi è sfuggito/ tutto è già accaduto/…/ mi lecco le ferite/ chiedo asilo.
L’io è inafferrabile, metamorfico, teso alla pietas ma anche in polemos, tra accettazioni totali e rifiuti radicali.
C’è un poeta spettatore (e io che rimango/ immobile a guardare) e un poeta speculatore (esistere a tratti/ prima del mondo/ prima del caos) ; ed ancora, un poeta del corpo – Voglio ballare/ finalmente sudare – e un poeta dell’anima – In attesa del sangue/ reclamo il fondo del lago/…/ la mia anima è svanita/ tra i seni/ nelle città mutilate/ nelle acque mescolate/ in frammenti di stoffe/ e vortici di silenzio.
Alberto Bertoni, nella prefazione, parla di “un libro generoso e multiforme” e spende il nome di Milo De Angelis per porre l’accento “sulla spinta comune all’inclusività e alla multanimità delle prospettive di rappresentazione”, nonostante la differenza di peso e di personalità tra i due poeti; parla di “scrittura istintivamente fenomenologica”, di “metrica flessuosa e flessibile, come un giunco”, di poeta che preferisce alla metafora “una liberissima associatività d’eco surrealista” – spunti molto interessanti, davvero rari per una poesia d’esordio.
* * *
.
Torna un qualunque mattino
batte il fegato del mondo
insopportabile
nessun presagio
sul palmo della mano
in un passaggio
di vortici e soglie
con l’anima capovolta
in un improvviso odore
di fieno e sale
nel delirio
lei nasce
il suo respiro
come una carezza
assoluta
un suono
piccolo
.
*
.
Nei silenzi vicinissimi
ho la bocca macchiata di reato
rigo muri col pollice
scortico tavoli e sedie
mi sposto di continuo
tocco fondi
riemergo
sola sono tutta mia
.
*
.
Le voci registrate
il suono delle campane
la domenica nei labirinti in fiore
in quei giardini spalancati
tiravo su le pieghe dei vestiti
correvo sulle punte
allontanandomi dal tuo grido
.
* * *
.
Breve biografia di Carlotta Cicci videomaker, illustratrice, fotografa, nata a Roma nel 1984, vive a Bologna. Ha curato e realizzato numerosi progetti video e documentari (www.disforme.net). Sul banco dei pesci è la sua opera prima in poesia.
Nota di Antonio Fiori
L’esordiente Carlotta Cicci ha posto tre versi visionari del gallese Kavanagh in apertura di questa raccolta – E Cristo viene/ come un fiore/ di gennaio – fondando così questa poesia sulla sua imprevedibilità, come quell’apparire inatteso di un fiore a gennaio.
La scrittura è fortemente metapoetica, continuamente attraversata dalla necessità di dar conto di sè, della sua germinazione, del suo esserci nel dolore, nell’amore, nell’abbandono e nell’oblio.
L’autrice è disorientata ma sensibilissima, sente la vita ma sa che la poesia la precede – inseguo vertigini/ come un uccello cieco/ che mangia il vuoto// sono preistoria.
Avvertiamo nei testi quasi un travaglio, la fatica che si ripete del vero parto della figlia, a cui Carlotta Cicci dedica la sua silloge – il sangue mi è sfuggito/ tutto è già accaduto/…/ mi lecco le ferite/ chiedo asilo.
L’io è inafferrabile, metamorfico, teso alla pietas ma anche in polemos, tra accettazioni totali e rifiuti radicali.
C’è un poeta spettatore (e io che rimango/ immobile a guardare) e un poeta speculatore (esistere a tratti/ prima del mondo/ prima del caos) ; ed ancora, un poeta del corpo – Voglio ballare/ finalmente sudare – e un poeta dell’anima – In attesa del sangue/ reclamo il fondo del lago/…/ la mia anima è svanita/ tra i seni/ nelle città mutilate/ nelle acque mescolate/ in frammenti di stoffe/ e vortici di silenzio.
Alberto Bertoni, nella prefazione, parla di “un libro generoso e multiforme” e spende il nome di Milo De Angelis per porre l’accento “sulla spinta comune all’inclusività e alla multanimità delle prospettive di rappresentazione”, nonostante la differenza di peso e di personalità tra i due poeti; parla di “scrittura istintivamente fenomenologica”, di “metrica flessuosa e flessibile, come un giunco”, di poeta che preferisce alla metafora “una liberissima associatività d’eco surrealista” – spunti molto interessanti, davvero rari per una poesia d’esordio.
-Editrice L’Arcolaio-
Forlimpopoli
Via Ubaldo Gardelli 15, Forlimpopoli, Italy, 47034
Premio IILA Photo Identità. Così uguali Così diversi – XV edizione-
Museo di Roma in Trastevere-PHOTO IILA è il premio dedicato a fotografi latinoamericani under 40.- È uno dei progetti di cooperazione culturale dell’IILA-Organizzazione internazionale italo-latino americana, realizzato con il contributo del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale italiano (DGCS/MAECI), in collaborazione con i Paesi latinoamericani membri dell’IILA e il Centro Sperimentale di Fotografia Adams.
Photo IILA è un premio finalizzato a promuovere la conoscenza della fotografia latinoamericana emergente e a incentivare le opportunità di collaborazione internazionale. Sin dal 2008 questo premio offre in Italia un interessante spazio allo sguardo originale dei giovani fotografi latinoamericani sul mondo: un vero e proprio osservatorio privilegiato sull’America Latina contemporanea, attraverso le scoperte e gli interrogativi che il mezzo fotografico sa cogliere in profondità e trasmettere con immediatezza.
Il tema della XV edizione è “Identità. Così uguali, così diversi”: identità è ciò che ci definisce come esseri umani e come parte di una comunità caratterizzata da molteplici forme di espressione e da peculiarità che rendono ogni individuo unico all’interno della società.
In mostra i lavori di Andrés Pérez (Repubblica Bolivariana del Venezuela), vincitore di questa quindicesima edizione con il progetto “Familia Muerta”; Verónica Javier (Uruguay), menzione d’onore con il progetto “Patrones identitarios”; Enrique Pezo (Perù), vincitore della precedente edizione, che presenta il progetto ispirato alla città di Roma realizzato durante la residenza d’artista svolta nel 2023, “Ficciones de un tiempo infinito”.
Per concludere, con l’intento di rafforzare il fecondo dialogo fra fotografia latinoamericana e fotografia italiana, l’IILA ha invitato ad esporre assieme ai fotografi latinoamericani Dario De Dominicis, con il progetto “Francisco”.
Informazioni
Luogo
Museo di Roma in Trastevere
Orario
Dal 18 settembre al 27 ottobre 2024
Da martedì a domenica ore 10.00 – 20.00 Ultimo ingresso un’ora prima della chiusura
Chiuso il lunedì
CONSULTA SEMPRE LA PAGINA AVVISI prima di programmare la tua visita al museo
Piero Calamandrei- Uomini e città della Resistenza-
Discorsi, scritti ed epigrafi
a cura di Sergio Luzzatto, prefazione di Carlo Azeglio Ciampi
Editori Laterza-Bari
Il testo fondatore della nostra epica resistenziale. Noi non dimentichiamo.Piero Calamandrei.. C’era, in quegli anni di durissime prove, fra tante tragedie e lutti, una speranza nell’aria. Possiamo affermare oggi che in larga parte quella speranza si è realizzata.Carlo Azeglio Ciampi.Uomini e città della Resistenza, pubblicato una prima volta nel 1955, in occasione del decennale della Liberazione, ha il merito di individuare una fra le dimensioni fondamentali della Resistenza: la sua natura tellurica, il legame
Non piangetemi, non chiamatemi povero.
Muoio per aver servito un’idea.
Guglielmo Jervis
VIVI E PRESENTI CON NOI
FINCHÉ IN LORO
CI RITROVEREMO UNITI
MORTI PER SEMPRE
PER NOSTRA VILTÀ
QUANDO FOSSE VERO
CHE SONO MORTI INVANO
Prefazione di Carlo Azeglio Ciampi
Mi compiaccio vivamente della decisione dell’Editore Laterza di ripubblicare il volume Uomini e città della Resistenza di Piero Calamandrei, a cinquant’anni dalla prima edizione, e nel cinquantesimo, anche, della morte dell’Autore.
A distanza di mezzo secolo, questa raccolta di discorsi, scritti ed epigrafi di Piero Calamandrei su uomini ed eventi della Resistenza ci appare, se possibile, ancor più attuale. È una testimonianza diretta, e al tempo stesso una riflessione su quella che fu l’ispirazione profonda della Resistenza, il carattere «religioso e morale, prima che sociale e politico» che essa ebbe, nella concezione, e nell’esperienza, di Piero Calamandrei; il suo essere stata, «più che un movimento militare, un movimento civile».
Questo volume raccoglie testi che l’Autore scrisse tra il 1944, subito dopo la liberazione di Firenze, e il 1955. Si rileggono con commozione sia i discorsi e gli scritti, sia le bellissime e famose epigrafi da lui dettate per monumenti della Resistenza. Subito dopo la Liberazione, Calamandrei venne chiamato ripetutamente, in diverse «città della Resistenza», per parlare della Resistenza. Ho ancora un vivido ricordo di un discorso da lui pronunciato a Livorno, nel 1945. Quel discorso non compare in questa raccolta, pur vasta e ricca: ma in essa ho ritrovato diverse riflessioni che non avevo dimenticato.
Lo ascoltavamo allora con una passione che questi scritti, a distanza di oltre mezzo secolo, suscitano ancora in me. Così come sollecitano una rinnovata riflessione su ciò che fu, e su ciò che ci ha lasciato, la Resistenza; che cosa «è rimasto di vivo della Resistenza nelle nostre coscienze».
Questa è la domanda che lo stesso Calamandrei si poneva nel testo con cui si apre questa raccolta – il discorso del 28 febbraio 1954, tenuto a Milano alla presenza di Ferruccio Parri. Cinquantuno anni dopo, sono tentato di dare una risposta forse più fiduciosa di quella che allora proponeva lo stesso Calamandrei.
Le solenni cerimonie tenute a Roma e a Milano, al Quirinale e in Piazza del Duomo, nel sessantesimo anniversario del 25 aprile 1945; le innumerevoli altre occasioni in cui ho partecipato, come Presidente della Repubblica, a commemorazioni di eventi tragici o gloriosi della Resistenza (ricordo per tutte la visita-pellegrinaggio a Marzabotto, compiuta con al fianco il Presidente tedesco Rau, nell’aprile 2002); l’appassionata partecipazione popolare a tutte queste manifestazioni, mi dicono che la Resistenza è ancora viva nella memoria degli Italiani.
Questa memoria è fondamento della nostra passione per la libertà. Dalla Resistenza discende la Carta costituzionale, garante dei diritti democratici per tutti gli Italiani, di ogni parte politica. Coloro che in quella lotta diedero la loro vita vollero un’Italia libera e unita. Il loro sacrificio ci insegna la concordia, insieme con l’amore per la Repubblica democratica.
Dalla Resistenza discende anche la nostra scelta europeista, stella polare, ancora oggi, della politica dell’Italia repubblicana.
Noi non dimentichiamo. A noi, i sopravvissuti, è toccata la fortuna di essere partecipi di una grande rinascita democratica della nostra Patria; partecipi altresì della miracolosa costruzione di una unione di Stati e di popoli, che assicura a tutte le nazioni europee, dopo millenni di guerre, una pace irreversibile. C’era, in quegli anni di durissime prove, fra tante tragedie e lutti, una speranza nell’aria. Possiamo affermare oggi che in larga parte quella speranza si è realizzata. Il ricordo della Resistenza incita ad andare avanti sulla strada intrapresa.
Giugno 2005
Introduzione di Sergio Luzzatto
Sul Calamandrei fondatore dell’epos resistenziale circola una sorta di vulgata, il cui primo artefice e propagandista è stato il più illustre fra i suoi allievi spirituali, Norberto Bobbio. Seguace politico del «maestro e compagno» dal 1945 in poi, oltreché collaboratore assiduo del «Ponte», Bobbio ha tenuto a presentare quello di Calamandrei con la Resistenza come un incontro naturale, quasi obbligato. «Dal suo rifugio in un piccolo paese dell’Umbria, seguì con trepidazione, con fierezza, con struggimento, la crescita del movimento partigiano, la graduale trasformazione dell’insurrezione popolare in guerra di liberazione», si legge nell’introduzione di Bobbio agli Scritti e discorsi politici di Calamandrei. «Nacque in lui durante quei mesi il sentimento di ammirazione e di gratitudine per l’Italia del popolo, che avrebbe trasfigurato la guerra di liberazione in epopea popolare e dato impeto, vigore, forza di persuasione e di commozione, ai discorsi coi quali sarebbe passato di città in città per celebrarla».
Le cose furono più complicate di così. Fra 1943 e ’44, a dispetto del suo viscerale antifascismo, Calamandrei esitò a riconoscere nei partigiani i giusti vendicatori di un popolo oppresso, i sospirati eroi di una guerra di liberazione nazionale. Beninteso, non si tratta qui di fargliene rimprovero: meno che mai al giorno d’oggi, quando una nuova storiografia va finalmente ragionando sul carattere tutt’altro che lineare del rapporto intercorso fra l’antifascismo politico e la lotta armata. Piuttosto, si tratta di risalire alle origini dell’apparente paradosso per cui il più tenace forgiatore del mito della Resistenza poté assistere alla nascita del movimento partigiano non soltanto senza contribuirvi di persona, ma considerandolo con sufficienza o addirittura con diffidenza. Si tratta di individuare le molteplici ragioni (ideologiche o psicologiche, confessate o segrete, politiche o personali: insomma pubbliche e private) che spinsero un antifascista integrale come Calamandrei ad accogliere la Resistenza senza sollievo, quasi a malincuore. Si tratta di scoprire per quali vie egli sarebbe giunto a imboccare, dopo il 1944, la strada maestra dell’epica. Infine, si tratta di chiedersi se la memoria della Resistenza possa sopravvivere, fin dentro il nostro ventunesimo secolo, declinata nella forma che fu più cara a Calamandrei: come una necrologia prima ancora che una mitologia.
1. L’altra patria
Risalire all’8 settembre 1943 non basta a rendere conto di questa storia. Data fatidica per quanti si trovarono a viverla da ventenni o poco più (per la generazione cui apparteneva il figlio stesso di Calamandrei, Franco), l’8 settembre non rivestì un significato altrettanto epocale per la generazione dei padri: per chi, come Piero, ne fece esperienza a cinquant’anni suonati da un pezzo. Nella sensibilità di questi ultimi, che si erano fatti adulti nelle trincee della Grande Guerra e per cui il ventennio fascista aveva coinciso con la maturità, la data decisiva va situata fra il 1939 e il ’40: quando dapprima la prospettiva, poi la realtà della seconda guerra mondiale aveva obbligato tutti i padri di famiglia italiani, o almeno i più consapevoli tra loro, a fare i conti con se stessi e con la propria vita. Nel caso di Piero Calamandrei, il momento decisivo – quello senza capire il quale nulla si intende di lui negli anni successivi – era scoccato nel mese di maggio del 1940: dunque in anticipo sul 10 giugno, sull’entrata in guerra dell’Italia. A stravolgere la sua esistenza era stato il crollo della Francia, la caduta della Terza Repubblica a fronte del Terzo Reich.
Strumento imprescindibile per ritrovarne la vita interiore, il diario di Calamandrei attesta senza equivoci la portata del trauma. 13 maggio: «La morte è sulla Francia e sul Belgio, sulla nostra famiglia, sulla nostra patria che è là». 18 maggio: «Se sapessi pregare oggi pregherei in ginocchio per la Francia». 24 maggio: «I giorni trascorsi dal 19 a oggi sono i giorni più angosciosi della mia vita»; «finita la Francia è come se fosse spento il sole: non si vedranno più i colori». Per chi ricordava di avere vissuto, venticinque anni prima, un ben diverso 24 maggio («la notte fummo fino a tarda ora a cantare Trento e Trieste per le vie del centro»; «si andava con la Francia, contro gli assassini del Belgio»), riusciva sin troppo naturale di ravvisare nella tragedia francese la propria tragedia. Durante le settimane seguenti la fine della drôle de guerre, quando le fortificazioni della linea Maginot si rivelarono pateticamente inadeguate a contenere il Blitzkrieg hitleriano, Calamandrei sperimentò – in fondo – qualcosa come la morte della patria. E dopo il 10 giugno, considerò un sesto atto del dramma il fatto che l’Italia di Mussolini infierisse sulla Francia pugnalandola alle spalle.
«Peggio di questo nulla potrà accadere: né mai più vergogna di così»: l’angoscia non velava lo sguardo del compilatore del diario, nell’ora in cui pure sentiva che si era toccato il fondo. Con una lucidità che pareggiava lo sgomento, Calamandrei avvertiva come da quell’abisso, individuale e collettivo, si potesse soltanto risalire. Qui va riconosciuto, in effetti, l’inizio della sua nuova vita interiore e, alla lunga, della sua nuova vita pubblica. Non a caso, esattamente tra il maggio e il giugno del ’40 le pagine del diario si infittiscono di appunti sopra un tema che diventerà capitale per lui: il rapporto fra politica e religione. Stimolato dal dialogo con uomini di lettere come Pietro Pancrazi e Luigi Russo, il giurista fiorentino prende allora a meditare intorno ai nessi tra morale laica e fede cristiana, giustizia umana e giustizia sovrumana: secondo parole sue, tra le mischie dell’aldiqua e la credenza nell’aldilà, fra i moventi del terreno operare e i risarcimenti di un ultraterreno sopravvivere. Da allora Calamandrei si interroga sulle virtualità di quanto chiama (memore forse di Péguy) una mistica, mentre altri l’avrebbero detta una religione civile. E da allora si affatica intorno al modo di rendere la patria agli italiani attraverso un sacrificio originario, un olocausto glorioso.
I martiri di una qualche forma di resistenza vengono da lui invocati ben prima della Resistenza. Eccolo – in quel solito, cruciale mese di maggio 1940 – discorrere con Guido Calogero sui valori da contrapporre agli appetiti hitleriani, alla furia animalesca della conquista e della violenza: «Ci vorrebbe un cristianesimo eroico, con martirî e supplizi». Eccolo annunciare a Pancrazi che, presto o tardi, sarebbe toccato in sorte agli italiani «un urto a morte con i tedeschi»: e che l’unica opportunità per vincere sarebbe venuta non già dal diffondere fra le masse gli ideali liberali, ma dal risuscitare in esse «la fede cristiana dei primi martiri». Lungi da Calamandrei la tentazione di convertirsi al cristianesimo; anzi, agli amici egli confessava di allontanarsene sempre più a misura che l’invecchiare gli andava rivelando, con l’irrazionalità della vita, la vanità di ogni speranza postuma. La religione petrina gli appariva né più né meno che come un instrumentum regni: l’unica arma disponibile per sottrarre gli italiani al tallone dei nuovi Unni, a un futuro di schiavitù sotto i barbari ritornati.
Durante gli anni successivi, Calamandrei approfondì la propria riflessione sia sul ruolo politico della religione, sia sui modi per sollecitarlo nella storia. E se dobbiamo giudicare dal diario e dall’epistolario, sempre più egli lo fece nella forma di un congedo intellettuale da Benedetto Croce (cui pure capitava di frequentare l’eletta schiera di umanisti che si riunivano intorno a Calamandrei nella sua nuova casa in Versilia, a Marina di Poveromo). L’intero sistema crociano dei rapporti fra storia e morale, critica e azione, giudizio e fede, gli sembrò spaventosamente inadeguato all’ora presente: quasi un incitamento all’indifferentismo o, peggio, al collaborazionismo. L’atteggiamento stesso di un Russo, che rimproverava a Calamandrei la sua fede «esclamativa» e lo canzonava quasi fosse un catecumeno, gli parve un gesto di remissività che sconfinava nella vigliaccheria. Per tutta risposta, il giurista prese a carezzare l’idea di un’estetica così anticrociana da riuscire, in se stessa, una politica.
C’è una lettera, risalente all’agosto 1941, che dice molto del Calamandrei di allora e della sua evoluzione di poi. A Pancrazi – il confidente più intimo di quel giro di anni – egli spiegava di apprezzare enormemente lo «stile mazziniano» di Giani Stuparich nel suo ultimo libro dedicato all’esperienza della Grande Guerra; e di valutarne come massimo pregio proprio il «carattere oratorio», perché la vera arte non si contenta di esprimere gli umani sentimenti, ma sceglie di stabilire una gerarchia fra essi, «in modo da far apparire in primo piano soltanto i sentimenti grandi ed eterni». Il romanzo di Stuparich, dove pure il lavoro della fantasia tendeva a prevalere sui depositi della memoria, era un libro sui due volti della guerra triestina: da una parte i volontari al fronte, dall’altra la città in attesa. Per parte sua, Calamandrei trovava istintivo di leggerlo confrontando la poesia del «maggio radioso» alla prosa dell’attualità italiana, e sospirando il giorno in cui giovani allevati da balilla si sarebbero dimostrati altrettanto capaci dei loro padri di immolarsi per la patria.
2. I «pietromicchismi» che fanno la storia
Il futuro cantore dell’epopea partigiana non aveva atteso dunque la caduta del fascismo e l’armistizio con gli Alleati – la tragedia necessaria del suo paese – per arrovellarsi intorno alle questioni decisive del dopo 8 settembre: il problema morale della scelta, la funzione storica dell’esempio, il carattere trascendente del sacrificio.
In un appunto del diario vergato nell’estate dello stesso 1941, Calamandrei si era interrogato sull’olocausto personale di Lauro de Bosis (una figura che sarebbe ritornata a occuparlo in Uomini e città della Resistenza). Quale significato poteva mai rivestire, nella storia politica e civile d’Italia, il gesto del giovane aviatore dilettante che in un giorno d’ottobre del 1931 aveva sfidato l’Aeronautica di Balbo per lanciare nei cieli di Roma quattrocentomila volantini di tenore antifascista, salvo inabissarsi nel Tirreno lungo la rotta di ritorno verso la Costa Azzurra? Tanto gravida di intenzioni quanto leggera di effetti, la missione aerea era valsa forse a riflettere la superiorità etica dell’antifascismo sul fascismo? De Bosis andava considerato un eroe estemporaneo ma possibile, un Pietro Micca del ventesimo secolo? Sì, aveva risposto Calamandrei a se stesso. Perché «sono questi pietromicchismi che fanno la storia», ed «è alla fine che bisogna giudicarli».
Poche settimane più tardi, il 13 luglio 1941, il diario del giurista aveva registrato un impressionante vaticinio su quanto sarebbe effettivamente avvenuto fra il 25 luglio e l’8 settembre 1943. Il popolo italiano – profetizzava Calamandrei – non sarebbe stato capace di compiere da solo una rivoluzione antifascista. Il regime di Mussolini sarebbe stato tuttavia rovesciato, non appena gli anglo-americani avessero preso il sopravvento sui tedeschi nella guerra mondiale: gerarchi fascisti quali Grandi e Bottai, d’accordo con Casa Savoia, avrebbero organizzato un colpo di stato contro Mussolini e i suoi compari più stretti. Infine, nell’ultimo periodo del conflitto mondiale, l’Italia sarebbe entrata in guerra contro la Germania. Nella prospettiva di un tale futuro, Calamandrei aveva smesso di invocare dai soli giovani il coraggio della scelta militante, aveva formalmente rinunciato alla soluzione di comodo della delega: «allora – si era impegnato – anche noi vecchi andremo volontari».
Lasciamo trascorrere ventiquattro mesi debordanti di storia e di sangue, per ritrovare Calamandrei esattamente due anni dopo, il 13 luglio 1943. Come sempre d’estate, il professore fiorentino sta alloggiando nella bella casa versiliese del Poveromo, ch’egli ha fatto costruire da poco secondo i dettami della più ortodossa architettura modernista. Senonché la sua non somiglia affatto a una villeggiatura. Tre giorni prima, gli Alleati sono sbarcati in Sicilia. Alla radio, Calamandrei segue con animo sospeso l’avanzata degli anglo-americani «sulle terre ove sbarcò Garibaldi» (mentre «ogni città che il nemico conquista […] pare che sia una città liberata…»). Molto più vicino a lui, lungo le strade stesse della Marina di Poveromo, un altro nemico – il medesimo della Grande Guerra, il nemico ereditario – si prepara al tradimento dell’alleato italiano, serra le file nell’imminenza di un’occupazione militare:
Stamani un reparto in armi faceva esercitazioni qui sul vialone: non potevo lavorare a sentire quei comandi secchi come starnuti rientrati. Sono sceso a vedere dietro la siepe. Facevano ordine chiuso e ordine sparso colla maschera antigas a proboscide: mostruosi, sotto gli elmi col viso a scheletro di gorilla. A un certo punto il plotone si è ricomposto, e colle maschere sul viso si son messi in marcia per tornare all’accampamento, e il tenente, senza maschera lui, ha dato lo scatto del coro: cra-cra-cra. E allora s’è sentito questo coro cantato dentro le maschere: lontano, funebre, con quel tremolio metallico che hanno le musiche rimaste chiuse dentro una scatola. Uno spettacolo terribile questo corteo di scheletri che si allontanava cantando con voce remota, soffocata, come quella dei fantasmi che viene dall’altro mondo: questo è proprio il simbolo della marcia della Germania.
In tale manovra del luglio 1943 sembra già di riconoscere i tedeschi dell’estate successiva: quei soldati freddi e fieri, insieme robotici e nibelungici, che faranno strage di italiani anche nelle immediate vicinanze del Poveromo, a Vinca, alle Fosse del Frigido, a Sant’Anna di Stazzema. E la penna di chi li descrive sembra già possedere la qualità icastica, lapidaria, della sua scrittura post-bellica. Ma quest’ultima è solo un’impressione, poiché l’urgenza dell’ora batte alle porte della casa di Calamandrei, vietandogli il distacco pensoso e solenne del moralista. «Sulla strada corrono motociclisti coll’elmetto prussiano che abbiamo imparato a odiare nell’altra guerra»: nascosto dietro la siepe, il compilatore del diario si accorge di spiarne le mosse come il soldato nascosto dietro una macchia sorveglia i movimenti del nemico da uccidere, o da cui essere ucciso.
Il fotogramma successivo ci porta – tre mesi dopo – in un’altra casa dei Calamandrei, non fresca di calce, questa: la casa avita di Montepulciano, dove il piccolo Piero era stato cresciuto all’«arte magica della scrittura» grazie alla scuola estiva del nonno, magistrato a riposo. Per intanto, in Italia è successo di tutto. Mussolini è stato deposto dal colpo di stato del 25 luglio, imprigionato dapprima a Ponza, poi alla Maddalena e quindi al Gran Sasso, liberato da paracadutisti tedeschi per dirigere una Repubblica di Salò nei fatti asservita al Terzo Reich. Badoglio ha tergiversato per quarantacinque giorni dopo la nascita del suo governo, prima di decidersi a sottoscrivere con gli Alleati un gravoso armistizio. Quanto a Calamandrei, ha fatto appena in tempo, dopo la caduta del fascismo, a indossare le vesti di rettore dell’università di Firenze, prima di doverne scappare a causa dell’occupazione tedesca. Presto, il ritiro stesso di Montepulciano riuscirà insidioso per un docente da sempre nel mirino dei fascisti fiorentini, obbligandolo a fuggire anche da lì per riparare presso parenti a Colcello Umbro, nel Ternano. Già il 12 settembre la villa del Poveromo è stata sequestrata da militari tedeschi, che ne hanno fatto un alloggio per il loro comando. Eppure, quando ci ripensa, quando pone mente alle circostanze frenetiche quanto patetiche del passaggio di consegne dai legittimi proprietari ai profanatori germanici, Calamandrei non può fare a meno di riconoscere come si tratti – in ultima istanza – di una «giusta sanzione». Troppo bella la villa del Poveromo, per meritarla nello sfacelo d’Italia. E troppo drammatica la rovina della nazione, perché al prof. avv. Calamandrei non toccasse di condividerla con milioni di altri perseguitati o fuggiaschi.
È un uomo altero quello che si china sul proprio diario in questo 9 ottobre 1943. Più che sull’ingrato destino del Poveromo, egli riflette sul bisogno di «armare un esercito» che combatta la Germania anche quando l’occupante sarà stato ricacciato oltre l’Appennino e le Alpi: «un esercito di volontari» che siano «pronti a sacrificarsi a centinaia di migliaia». Soltanto così, precisa Calamandrei, l’Italia avrebbe potuto redimersi: «altro sangue, altre stragi per lavare altro sangue e altre stragi…». Tuttavia, l’uomo che dalla sua casa di campagna va baldanzosamente programmando tale levée en masse (mai e poi mai «far finire tutto senza sangue, senza tragedia, senza possibilità di fare i conti») è il primo a non sentirsi sicuro che i connazionali rispondano presente al nuovo appello delle armi. Annota sul diario, subito dopo aver discettato dell’esercito di volontari:
Pancrazi mi scrive una cartolina ottimistica: dice che attraverso questi febbroni il ragazzo rifarà le ossa. Ma per rifar le ossa ci vuole il midollo: c’è il midollo in questa Italia? Non so, a me par di vedere in tutti, nei giovani e nei vecchi, una generale rassegnazione, un desiderio di non morire: di scegliere sempre, a ogni bivio, la strada che porta alla viltà pur che viva, anziché alla dignità con pericolo di morte. Anche ai giovani migliori manca forse, per la nostra civiltà, questa capacità quasi meccanica di esercitare la violenza, di far saltare il ponte, di uccidere il tedesco: questa mollezza umanitaria che ci fa impietosire dinanzi al sangue porta con sé una fiacchezza svirilizzata che per esempio non hanno i croati e i serbi, meno civili ma aspri e inflessibili.
Così, mentre la Resistenza italiana andava muovendo i primi difficilissimi suoi passi, colui che – ex post – meglio di ogni altro avrebbe saputo dirne la necessità o addirittura la poesia, consegnava al prudente segreto di un diario la più scorata tra le professioni di impotenza.
3. Guerriglia civile
Alla Resistenza Piero Calamandrei non andò volontario, come pure si era ripromesso. Trascorse a Colcello Umbro il periodo compreso fra l’ottobre 1943 e il giugno ’44, quando l’avanzata anglo-americana diede luogo alla liberazione di gran parte dell’Italia centrale; dopodiché visse tra Roma e Firenze, ormai da leader politico dell’Italia nuova, i dieci mesi necessari perché l’azione congiunta degli eserciti alleati e delle brigate partigiane sfociasse nell’insurrezione popolare dell’aprile 1945. Nel frattempo, i «giovani migliori» del paese – gli stessi che a Calamandrei erano sembrati affetti da una «fiacchezza svirilizzata» – intrapresero la via della lotta armata, compirono la scelta di «uccidere il tedesco»: e l’unico figlio suo, Franco, contò tra i loro capi.
Inutile almanaccare qui sulle ragioni che dissuasero Calamandrei padre da un impegno diretto nella Resistenza. Forse, cinquantaquattro anni gli parvero troppi per vivere un’esperienza fondamentalmente giovanile come quella della macchia. O forse, più semplicemente, prevalse in lui il «desiderio di non morire». Certo è che gran parte della successiva evoluzione psicologica e ideologica di Calamandrei – sia nel rapporto con il figlio, sia in quello con la patria – avrà a che fare con questo atto mancato: con la sua non-resistenza. Le pagine stesse, famose, sulla «desistenza» dell’Italia degasperiana, acquistano intero il loro senso se le si rilegge non soltanto come una critica, ma anche come un’autocritica: perché il demone della desistenza si era annidato, tra 1943 e ’44, fin nel cuore di Calamandrei. Da qui, nel resto del tempo che gli restava da vivere (lo straordinario decennio in cui il noto avvocato e il colto giurista si sarebbero trasformati in ben altro: nell’uomo politico, nel legislatore costituente, nel venerando epigrafista, insomma nel «padre della patria»), qualcosa di più, in Calamandrei, che una vaga nostalgia per l’azione non compiuta, del genere di quella che l’amato Carducci si era trovato ad avvertire per i fasti del Risorgimento. Piuttosto, si direbbe, un vero e proprio senso di colpa: e l’elaborazione di qualcosa come una strategia destinata a sublimarlo.
È ancora dal Diario che bisogna partire, se si vuole riconoscere gli ingredienti essenziali di questa vicenda. In particolare, si tratta di riprendere in mano le tante pagine che Calamandrei vergò a Colcello durante la sua stagione da sfollato. Sono questi, del resto, gli unici frammenti del journal intime ch’egli avrebbe deciso di pubblicare da vivo, sul «Ponte», nel 1954; ma in una versione fortemente ridotta, e dove l’autore avrebbe comunque rinunciato a trascrivere i passi più significativi e più gravi, i più rivelatori dello stato d’animo ch’era stato il suo quando in Italia infuriava la guerra civile. A cominciare dal dubbio che lo aveva assalito non appena giunto a Colcello, dopo la fuga da Montepulciano: «Come sarà giudicata questa mia assenza?». «Quale sarà la mia situazione, dopo che ho tagliato i ponti così, e creato a me stesso questa situazione singolare di fuoruscito in patria?». Quello di Calamandrei non era solo, evidentemente, lo scrupolo del pubblico funzionario lontano dal suo posto di lavoro all’università, né solo il fastidio del libero professionista costretto a sospendere la pratica forense; era anche, più in profondità, il disagio dell’antifascista consapevole di mancare all’appuntamento con la storia. «Questa mia assenza da Firenze sarà quasi da tutti interpretata per fuga e viltà. E si dirà che nei momenti del più cupo dolore, quando nella mia città tutte le persone di buona volontà tenevano il loro posto, io ho disertato».
Neppure per un istante, nei nove interminabili mesi in cui rimase nascosto a Colcello Umbro, un uomo con la moralità (e con le ambizioni) di Calamandrei poté celare a se stesso quanto vi era nella sua condizione di sorprendente e, in fondo, di deludente. Lui, l’antifascista della prima ora, il sodale dei fratelli Rosselli, l’erede fiorentino di Salvemini come simbolo della resistenza culturale alla dittatura; lui, cui l’intellighenzia liberalsocialista e la dirigenza azionista guardavano come a un sicuro primattore sulla scena dell’Italia nuova, ridotto alla striminzita quotidianità di una vita da sfollato «che si interessa del proprio sonno e della propria digestione, collo scaldino e colla candela che puzza di moccolaia». Certo, quando più nettamente prevaleva in lui un umanissimo istinto di conservazione, Calamandrei confidava al diario niente più che il sollievo di esserci ancora: «basta vivere, per ora…» (non diversamente, nella Francia del Termidoro, l’abate Siéyès aveva replicato con tre sole parole a chi gli chiedeva ragione della sua eclissi sotto il Terrore: J’ai vécu…). Ma almeno altrettanto spesso, Calamandrei era abitato dalla «pena» e assediato dall’«umiliazione». Che cosa avevano materialmente fatto, lui e quelli come lui, per far cadere il fascismo? E adesso, che cosa andavano concretamente facendo per combattere il nazifascismo? «Parole e parole: non uno che si faccia uccidere, non uno che sia pronto a dare un esempio di sacrificio personale. Sempre gli stessi: e io che scrivo, con loro». La vergogna di Calamandrei, il suo tormento, era scoprirsi incapace di qualunque pietromicchismo.
Quando poi, all’uscita dell’inverno 1943-1944, fu dato al profugo di Colcello di cogliere i primi segnali di un progressivo organizzarsi della Resistenza, non per questo egli ne trasse immediato conforto. Il 16 marzo lo raggiunse la notizia dei gravissimi scontri di Poggio Bustone, presso Rieti: dove un commando partigiano aveva attaccato un contingente della Guardia nazionale repubblicana seminando la morte nei ranghi fascisti. Sia la temerarietà dell’azione compiuta dalla brigata Gramsci, sia la ferocia con cui la popolazione locale si era accanita contro i cadaveri dei militi sarebbero rimaste lungamente impresse nella memoria collettiva degli abitanti del Ternano: a Poggio Bustone, la Resistenza dell’Italia centrale aveva conosciuto il suo battesimo di sangue. Ma Calamandrei, sfollato poco lontano, non maturò dell’episodio che un’immagine tanto più negativa quanto più la sua visione delle cose riusciva laterale e distorta. «La gente scappa da Rieti, terrorizzata da questa guerra civile»; «questi ribelli sono comandati, a quanto si dice, da ufficiali inglesi: salutano col pugno chiuso. In una scaramuccia sono stati fatti prigionieri un gruppo: su settanta, cinquanta erano tedeschi disertori!». Pugni chiusi, ufficiali inglesi, disertori tedeschi: nell’isolamento di Colcello, un intellettuale raffinato come Calamandrei si trovava a dipendere totalmente dal chiacchiericcio popolare, dall’immancabile rincorrersi bellico di voci, notizie false, leggende.
Il sor Piero (come gli abitanti del villaggio avevano l’abitudine di chiamarlo) risultava tributario dei «si dice» anche nella rappresentazione delle brigate partigiane come un movimento surrettiziamente infiltrato dal comunismo russo. Era con la falce e martello ricamata sui berretti che i «ribelli» si avvicinavano sempre più ad Amelia, dunque a Colcello! «Giorni fa hanno catturato e tenuto tre giorni sotto accusa di essere fascista un omino che fa l’esattore della luce elettrica e che pochi giorni fa vidi io stesso qui, all’uscio di casa a riscuoter la bolletta». La segretaria di una scuola del circondario era giunta ad Acquasparta sconvolta, fuggendo da un paesino sopra Terni dov’era sfollata, perché i «ribelli» erano andati a casa sua, avevano bastonato il marito accusandolo di essere un gerarca, avevano devastato la mobilia… «Guerriglia civile – concludeva Calamandrei – che si inasprirà e diventerà rapidamente una lotta contro i “borghesi”». E tutto in questa sua pagina di diario, dalla scelta dei termini all’uso delle virgolette, diceva di un uomo più preoccupato che entusiasta all’approssimarsi della Resistenza in corpore vili.
Nella notte fra il 14 e il 15 giugno 1944, quando l’offensiva dell’esercito anglo-americano si fece più decisa dopo la conquista di Roma, la linea del fronte passò fragorosamente oltre Amelia, lasciando i pochi abitanti di Colcello – e Calamandrei con loro – dalla parte giusta, nell’Italia liberata. Ma una banda di partigiani si era manifestata in paese già pochi giorni prima, mentre ancora la zona era sotto il controllo dei tedeschi. Senza che il sor Piero si lasciasse incantare dall’epifania della Resistenza:
Ieri Colcello fu «occupato» per due ore da patrioti. Ciro mi venne ad avvertire del loro arrivo: non si sapeva che volessero. Erano una diecina, al comando di un capo che è un socialista di Amelia: tra essi vi erano due ex carabinieri ex guardie repubblicane, un disertore austriaco di Vienna (diciottenne), un prigioniero russo, un sottotenente che è stato molti mesi in prigione a Perugia imputato di diserzione e che appena lasciato libero si è dato alla macchia, un sottufficiale di aviazione ed altri due o tre: tutti armati di moschetto o rivoltella, e il capo col binocolo.
Uscii con Ciro: qui sulla piazzetta dinanzi a casa su una panchina dove stanno a sedere di solito le donnine, c’erano due di essi, seduti, col moschetto sui ginocchi. Più su, alla Buca, c’era l’austriaco e un altro attorniati da ragazzi e donne. Ci dissero che il capo era a conferire con Guido Valentini, che viene considerato l’esponente antifascista del borgo: il resto della squadra era andato a occupare le diverse vie d’uscita del villaggio. Il capo, in pullover, senza cappello, con occhiali neri e zucca spelacchiata, piuttosto buffo, dice che avevano l’ordine «da Roma» di disarmare i fascisti. […] Ci trattenemmo a lungo con tutta la squadra, tra i quali il sottotenente. Quando sentì il mio nome mi disse di essere studente di lettere a Roma, allievo di De Ruggiero: è un ragazzo con grandi occhi febbricitanti in una faccia pallidissima resa più sparuta da una barba non fatta da due settimane. Che cosa voglion fare non lo sanno bene neanche loro.
Adesso che gli studiosi della Resistenza hanno cominciato a scriverne la storia indipendentemente dal mito, noi andiamo scoprendo come – per molti aspetti – le cose stessero proprio quali Calamandrei le registrò nell’unico incontro de visu che mai gli capitò di avere con dei partigiani. I resistenti non sapevano bene che cosa volevano fare. Volevano cacciare i tedeschi, certo, e volevano farla pagare ai fascisti; ma non avevano chiare le coordinate del mondo nuovo da costruire, né antivedevano il proprio ruolo nella città futura. D’altronde, i più sinceri fra loro lo avrebbero ammesso, in testi scritti a caldo dopo l’avventura della macchia o della clandestinità, nei più riusciti fra i racconti o le memorie di ambientazione partigiana: come tutte le rivoluzioni che si rispettino, la Resistenza era stata un guazzabuglio inestricabile di determinazione e di confusione, di ordine e di disordine, di pulizia e di sporcizia, di umiltà e di prosopopea… Il che non toglie che vi sia qualcosa di stonato nella rappresentazione dei «ribelli» che Calamandrei consegnava al proprio diario. Perché davvero si fatica a riconoscervi un qualunque elemento in comune con la rappresentazione dei partigiani ch’egli avrebbe diffuso dopo la Liberazione, nei «discorsi, scritti ed epigrafi» raccolti in Uomini e città della Resistenza. Semmai, le pagine del Calamandrei di Colcello ricordano quelle di un altro diario coevo, tenuto da uno scrittore scettico e vagamente qualunquista come l’Andrea Damiano di Rosso e Grigio: il quale pure, nell’unica occasione in cui si incontrò con una banda di partigiani, ne trasse un’immagine picaresca e maccheronica, da armata Brancaleone avanti lettera.
4. Una questione privata
La pagina di diario in cui Calamandrei descrisse l’epifania della Resistenza au village appare tanto più significativa in quanto – dietro il velo di una toscanissima ironia – risulta impregnata di umori professorali, o comunque generazionali. Fra le ragioni per cui Calamandrei faticò a capire e ad apprezzare la Resistenza va annoverata questa: egli faticava a capire e ad apprezzare i giovani ai quali, dalla sua cattedra di docente universitario, si era trovato a rivolgersi negli ultimi anni, sino alla vigilia immediata dell’8 settembre. Mentre erano soprattutto quei giovani borghesi che, con altri di estrazione popolare, andavano combattendo nella Resistenza.
Niente di più normale, d’altronde, dello sconcerto di Calamandrei. Fra 1943 e ’44, non era facile comprendere – nel corso stesso del suo sviluppo – la parabola umana e politica dei «redenti»: della generazione intellettuale che dopo avere militato, alla fine degli anni Trenta, entro i ranghi della «sinistra» fascista, andava scoprendo nella lotta armata contro il nazifascismo (e all’occorrenza nel comunismo) una nuova risposta alla propria domanda di giustizia e di rivoluzione. Né era facile comprendere come, nella mente e nel cuore dei giovani, la Resistenza potesse essere insieme una questione di immaturità e una questione di maturità, come potesse fondere la dimensione leggera del gioco da bambini con quella onerosa del diventare grandi. Nel caso di Calamandrei, una complicazione supplementare nasceva dal fatto di avere un redento in famiglia: suo figlio Franco, che dopo una giovinezza trascorsa, con ovvio scorno del padre, negli ambienti della sinistra fascista, all’indomani dell’8 settembre gli aveva lasciato intendere – durante un burrascoso faccia a faccia – di sentirsi votato a un futuro da militante comunista.
Per oltre tre anni dopo l’entrata in guerra dell’Italia, Calamandrei aveva disseminato nel proprio diario giudizi inclementi sulla gioventù universitaria, di cui il padre antifascista considerava il «figlio fascista» un degno rappresentante: «gioventù di merda», capace bensì di obbedire, ma non di credere né di combattere; patetica genia di «egotisti incorreggibili», «letteratucoli» occupati dall’ermetismo più che preoccupati dell’hitlerismo; «sparuto gruppetto di poveri ragazzi presuntuosi malati di narcisismo». Cos’era stato l’intero regime dei Bottai o dei Pavolini, se non un desolante esempio di «paidocrazia»? Nell’Italia che fosse riuscita a estrarsi dalla catastrofe, dopo la fine della dittatura fascista e della guerra mondiale, «bisognerà che i ragazzi tornino a fare i ragazzi», aveva severamente concluso il professore universitario. Secondo i taccuini di guerra di Piero Calamandrei come secondo quelli coevi di Benedetto Croce, il cosiddetto problema dei giovani si riduceva al problema di un’«immaturità» che il regime dei fasci aveva avuto l’astuzia di elevare a professione, la gioventù dei Guf l’ingenuità di sbandierare come merito.
Alla severità del giudizio che i padri davano sulla generazione dei balilla corrispondeva però, nel vissuto emotivo e politico dei figli, una severità uguale e contraria. Fra le molle che dopo l’8 settembre spinsero alcune migliaia di giovani italiani sulla strada della lotta armata fu precisamente il disprezzo per l’inane atteggiamento dei padri. Anche quando i vecchi antifascisti finivano col rivelarsi buoni per scrivere gli articoli di fondo dei giornali clandestini, i loro figli naturali o putativi non li trovavano convincenti per davvero; rifiutavano di pensare che tali sussiegosi maestri di retorica, con le guerre del Risorgimento sempre in bocca, potessero valere da figure-modello nella lotta contro Mussolini e contro Hitler: «Credevamo in un corpus di sapienza anti-fascista; ma rigettavamo l’idea che ne fossero questi i custodi». E poi, di là dalle parole, in quale maniera la generazione dei padri si era mai espressa nei fatti? Dove, come, quando si era mai sacrificata? Per riscattare il male storico del fascismo – pensavano le reclute di una banda partigiana come quella vicentina di Luigi Meneghello – qualcuno doveva pur soffrire. Dal momento che tanti padri non si erano resi disponibili, certi figli dovevano farlo per loro.
Vent’anni dopo, il titolo stesso della memoria resistenziale di Meneghello, I piccoli maestri, avrebbe offerto un’immagine trasparente del modo in cui i giovani partigiani avevano inteso replicare ai vecchi «professori addottrinati»: sarebbe riecheggiato come lo schiaffo dei figli resistenti ai padri desistenti. Ma senza attendere così a lungo, senza rimetterlo all’arte sincera o bugiarda della memoria, c’era chi quello schiaffo lo aveva dato da subito, secondo il tempo impaziente e divisivo della storia. Tale fu il caso di Franco Calamandrei. Come documentano le pagine del diario ch’egli riuscì a tenere nel pieno della Resistenza romana, fin dentro la sua clandestina quotidianità di comunista e di gappista, la scelta partigiana di Calamandrei figlio maturò nella consapevole forma di un «congedo» da Calamandrei padre. Il risultato fu, per entrambi, qualcosa di estremamente lacerante: un autentico psicodramma, senza penetrare il quale si rischia di intendere poco del cammino che avrebbe fatto di Piero l’autore di Uomini e città della Resistenza.
Franco Calamandrei non aveva atteso l’8 settembre 1943 per prendere le distanze da un ingombrantissimo padre. Un po’ tutte le sue decisioni di vita successive alla laurea in giurisprudenza (ch’egli aveva conseguito ventiduenne nel ’39) si erano configurate come le tappe di un progressivo allontanamento non solo dalla città di Firenze, ma dalla figura di Piero: la frequentazione degli ambienti letterari fascisti, la rinuncia a perfezionarsi da avvocato, l’entrata nella funzione pubblica come impiegato presso l’Archivio di Stato di Napoli. Nell’agosto del ’41, un verbo aveva fatto capolino nella prosa del suo diario, in relazione al rapporto con l’ambiente d’origine e segnatamente con il padre: era il verbo salpare. Sicché rinunceremo a stupirci se all’indomani dell’8 settembre – dopo che Piero e Franco avevano avuto il loro drammatico faccia a faccia, e il figlio aveva comunicato al padre la propria intenzione di arruolarsi da comunista contro il nazifascismo – il diario di Franco aveva ospitato la trascrizione dei versi di un poeta americano, nella traduzione che Fernanda Pivano ne aveva appena dato per l’editore Einaudi. Era la finta lapide di George Gray, nell’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters: «E adesso so che bisogna alzare le vele / e prendere i venti del destino / dovunque spingano la barca. / Dare un senso alla vita può condurre alla follia, / ma una vita senza senso è una tortura / dell’inquietudine e del vano desiderio, / è una barca che anela al mare eppure lo teme».
Qualcosa come trentasei anni più tardi, nel novembre del 1979, Franco Calamandrei avrebbe ancora fatto ricorso al verbo salpare per rendere conto della propria scelta resistenziale nella fatidica notte dell’8 settembre 1943; spiegando come, pur di raggiungere i lidi di un antifascismo fattivo anziché parolaio, si fosse sentito pronto a «passare sul corpo di [suo] padre». Dettaglio rivelatore: nel romanzo di ambientazione partigiana da lui rimuginato per decenni, Franco avrebbe organizzato la scena madre dell’incontro-scontro fra il padre desistente e il figlio resistente sulla base di criteri strettamente autobiografici: salvo immaginare che quello del padre non fosse il mestiere dell’avvocato, ma il mestiere del giudice. Altrettanti modi per esprimere, agli sgoccioli della vita, quanto gli era stato comunque ben chiaro già al tempo della Resistenza. Da un lato, essere figlio di Piero Calamandrei aveva significato un esercizio tanto continuo quanto logorante di recitazione, nel tentativo di presentarsi allo sguardo indagatore del padre in una postura che gli riuscisse soddisfacente. «Scrivo una lettera per i miei genitori» – leggiamo nel diario di Franco alla data del 28 febbraio 1944, cinque giorni dopo ch’egli aveva guidato a Roma il commando gappista di via Rasella – «con il solito disagio, il solito sentimento di scrivere in una lingua straniera, di porgere in vece mia un manichino, una figura retorica». Dall’altro lato, essere figlio di Piero Calamandrei aveva significato una precisa assunzione di responsabilità. «I figli devono educare i genitori», si legge pure nel diario, come una citazione di Marx secondo Lafargue.
Se volessimo riprendere la terminologia di Meneghello, diremmo che Franco ce l’aveva avuto in casa, il professore addottrinato cui servire da piccolo maestro. Se invece ci volessimo nuovamente affidare alla ricostruzione retrospettiva del figlio, diremmo che il trauma originario aveva coinciso con un banale incidente capitato in Versilia durante una vacanza al mare. A causa di un’onda anomala, il padre aveva rischiato di affogare, e il figlio che gli nuotava accanto aveva letto sul suo viso un’angoscia senza limiti, il terrore di morire: «Brusca rottura dell’immagine dell’autorità paterna. Un “poveruomo”». Il poveruomo del Poveromo: per il resto della vita, dopo la crisi della Resistenza, Franco non avrebbe smesso di rielaborare l’immagine del padre, provando fierezza per la sua vigorosa «moralità», ma rabbia per una «meschinità» patetica o addirittura «ripugnante». Un egoista, Piero Calamandrei, nell’animo del quale l’attaccamento alla moglie e al figlio si confondevano con l’eterna paura di soffrire; un velleitario, la cui unica forma di opposizione al fascismo era consistita nella pluriennale tenacia con cui aveva raccolto da destra o da sinistra barzellette antiducesche.
Quello della psicoanalisi è un terreno scivoloso per lo storico, che si trova nell’ovvia impossibilità di trattare i propri personaggi alla maniera di Freud con i suoi pazienti. Nondimeno, la natura del rapporto fra Piero e Franco Calamandrei sollecita una ricostruzione storiografica che non escluda a priori la dimensione della psicologia del profondo. Quali risultano dai taccuini privati di entrambi, alcune situazioni avevano un contenuto freudiano addirittura flagrante. Così, se la metafora del salpare era centrale nel modo in cui Franco si figurava il congedo da Piero, un’identica metafora occorreva – rovesciata di segno – nelle nostalgie e nelle fantasie di Piero, a proposito di un riavvicinamento con Franco. Il 16 gennaio 1944, registrando le proprie impressioni di lettura sulle Ricordanze della mia vita di Luigi Settembrini, il Calamandrei di Colcello si diceva commosso dalle pagine in cui l’oppositore dei Borboni aveva evocato «con tanta tenerezza» la figura del figlio Raffaele; in particolare, da «quelle in cui racconta del figliuolo, che s’imbarca come cameriere sulla nave per liberare il padre». Due mesi più tardi, rimpiangendo la mancanza di notizie riguardo alla vita romana di Franco, Piero annotava: «L’ho sognato stanotte […] in una specie di grande adunata in cui egli era senza cappello e in camicia nera, e così tutti noi: io sono arrivato in ritardo, e lui mi ha fatto cenno di andarmi a mettere in un certo punto della folla, e mi par che m’abbia detto: “Lì, vicino alla ringhiera, non tirano”, come per rassicurarmi».
Sarebbe certo imprudente spingersi oltre sulla strada della psicoanalisi, fino a sostenere che nella vita interiore di Franco Calamandrei la suprema prova di virilità – «l’uccisione», «l’uccisione del fascista» – abbia rappresentato una forma sublimata di uccisione del padre. Sta di fatto che soltanto dopo aver praticato l’esperienza perigliosa e inebriante della clandestinità, l’attività sabotatoria e terroristica, insomma la guerra civile guerreggiata, Franco si scoprì disponibile a recuperare un qualche rapporto con i genitori. Ebbe allora l’impressione che i ruoli si fossero invertiti, e che ormai toccasse a lui, al comandante partigiano, di prendersi cura di un padre e di una madre irrimediabilmente scavalcati dalle correnti della storia. Si legge nel diario di Franco alla data del 2 aprile 1944, dieci giorni dopo l’attentato di via Rasella e la strage delle Fosse Ardeatine: «Una lettera triste della mamma: tutto viene meno intorno a loro. E temo che non abbiamo più parole ormai con cui io possa cercare di consolarli. Vorrei poterlo fare, vorrei tanto trovare un contatto». Due settimane più tardi si legge nel diario di Piero: «Ieri Franco ha scritto da Roma: in tono genericamente fiducioso e virile: lui, per sua fortuna, ha dinanzi a sé l’avvenire. Non può sentire questo logoramento del tempo che fugge inutile, che si prova all’età mia…». Così, la virilità del figlio non sembrava possibile che a prezzo della senilità del padre.
Ma per quanto si sentisse vecchio, stanco e colpevole, il sor Piero di Colcello non aveva rinunciato all’antica abitudine di salire in cattedra. Poteva dunque – nella medesima pagina di diario in cui ripicchiava sul tasto della «vergogna» per l’inconcludenza e la vigliaccheria della sua propria generazione – assumere un tono di condiscendenza verso «questi giovani ingenui, i nostri figliuoli, che a rischio della vita si danno alla macchia come “ribelli” o preparano nella città la riscossa». Viceversa, Calamandrei padre poteva parlare sia dell’attentato di via Rasella (quando ancora non lo sapeva guidato dal figlio!), sia della rappresaglia delle Fosse Ardeatine, con accenti sorprendentemente leggeri, analoghi a quelli di certa vox populi capitolina: «Ogni tanto a Roma qualche camion tedesco è fatto saltare dai “comunisti”: l’ultimo in cui furono uccisi da una bomba 32 tedeschi, ha portato come rappresaglia la fucilazione di 320 ostaggi innocenti…». Senza percepire il valore politico e militare dell’azione compiuta dai Gap in via Rasella, momento simbolicamente fra i più intensi della Resistenza europea, Calamandrei si contentava dunque di alludere alle responsabilità degli attentatori, colpevoli indiretti dell’eccidio delle Fosse Ardeatine. E anche in questo il profugo di Colcello era in buona compagnia, se è vero che i gappisti di via Rasella dovettero subito difendersi dall’accusa di avere sulle proprie mani – oltre al sangue dei carnefici tedeschi – il sangue delle vittime italiane.
5. Un segnalatore d’incendio
Soltanto a partire dal luglio 1944, dopo che l’arrivo degli anglo-americani in Umbria gli ebbe permesso di concludere la propria esperienza da sfollato e di raggiungere Roma, Piero Calamandrei prese a guardare alla Resistenza attraverso nuove lenti. Né avrebbe potuto essere diversamente, dal momento che il suo arrivo nella capitale coincise con l’inizio di un’attività politica frenetica, a stretto contatto con i capi del Partito d’Azione, i dirigenti del Cln, le autorità alleate. Dopo nove mesi di completo isolamento, e dopo venti lunghissimi anni di censura e di autocensura, al giurista fiorentino era dato ora di ritornare a essere se stesso; e al suo antifascismo intellettuale era dato di riconciliarsi con l’antifascismo militare di chi andava combattendo nella Resistenza.
Per Calamandrei padre, questo significò anzitutto l’opportunità – e il sollievo – di una riconciliazione con il figlio. Al limite, proprio la scoperta del contributo di Franco al gappismo romano («non c’è stato attentato che non abbia fatto lui, o a cui non abbia assistito») spinse Piero a riconoscere come «eroico» il «contegno dei giovani» dopo l’8 settembre: fu l’agnizione intorno al ruolo del figlio che mutò l’atteggiamento del padre rispetto alla Resistenza. Non che le retrouvailles fra Piero e Franco avessero dissipato ogni ombra nel loro rapporto. Ben presto dopo l’arrivo nella capitale, il diario del padre ospitò acidi commenti sulla maniera in cui il figlio aveva trasformato la propria passione letteraria per l’ermetismo in passione politica per il comunismo. L’intuizione stessa del coinvolgimento di Franco nell’attentato di via Rasella («arrossisce quando si parla della bomba sotto il Quirinale») mosse Piero a riflessioni intransigenti. Quanto vi era, nel coraggio di chi compiva simili gesti, di residuo libresco, di un maldigerito Gide da Sotterranei del Vaticano («Lafcadio che uccide il compagno di viaggio per prova»)? Ma al di là di queste e di altre riserve affidate al segreto del diario, per Calamandrei ritrovare il figlio fece tutt’uno col ritrovare la patria.
Nel vissuto di Piero durante quel fervido mese di luglio del 1944, il primo uomo della Resistenza fu Franco, la prima città della Resistenza fu Roma. Pochi giorni dopo essere giunto nella capitale, Calamandrei prese parte – con il figlio stesso, e la moglie Ada – a qualcosa come un pellegrinaggio verso la famigerata pensione Iaccarino di via Romagna: là dove Franco, tratto in arresto alla fine di aprile, era sfuggito per un soffio alle torture di Pietro Koch e del suo Reparto speciale di polizia. Ecco l’ingresso della pensione da cui Franco era entrato in catene; ecco il «giardinetto con oleandri fioriti» dove il prigioniero, approfittando di una disattenzione dei po-liziotti collaborazionisti, si era gettato da una finestra al piano rialzato, riuscendo poi a dileguarsi oltre una cancellata. Senonché, nella Roma da poco libera, i pellegrinaggi sentimentali di un uomo come Calamandrei non potevano limitarsi a questo. Era inevitabile ch’egli sentisse il bisogno di spingersi sino alla «fossa della via Ardeatina», luogo di scempio che andava rapidamente trasformandosi in luogo di memoria.
Per una somma di pulsioni private e di pubbliche ragioni, capitò quindi a Calamandrei di avvertire doveroso l’omaggio sia all’attentatore di via Rasella, sia alle vittime della successiva rappresaglia. Logiche familiari e logiche politiche si combinarono per sottrarlo alla tentazione di insistere sulla responsabilità morale dei gappisti romani nell’eccidio delle Fosse Ardeatine. In generale, con l’estate del ’44 il pensiero di Calamandrei conobbe un processo di radicalizzazione: piena fu la sua adesione alla richiesta azionista di una Resistenza inflessibile, di una guerra civile senza prigionieri. «Gli inglesi e il governo Bonomi sono troppo miti: i fascisti bisogna spengerli», a costo di «snida[rli] con lanciafiamme», era il commento del diarista alla notizia della liberazione di Perugia. Tuttavia, la sensibilità di Calamandrei inclinava meno all’elogio della violenza impartita e più al necrologio della violenza subita. Fin dalla giovinezza, quella del giurista-letterato era stata una poetica della morte e della resistenza alla morte; prima ancora della Grande Guerra, nell’Italia della belle époque, la sua poesia aveva ruotato intorno alle figure dei defunti anzitempo e della loro sopravvivenza spirituale nel mondo. Perciò, fu quasi giocoforza che il Calamandrei del ’44 si trovò ad abbozzare – senza ancora saperlo – il progetto di Uomini e città della Resistenza: «Quale lista di martiri, quando tutta la storia potrà essere raccontata!».
Ma un passo restava da compiere al professore fiorentino, prima di recuperare la propria vena funeraria per farsi ineguagliabile poeta di una Repubblica nata viva dai morti della Resistenza: gli restava da elevare il genere stereotipato del martirologio a riflessione originale intorno alla specificità storica del nazifascismo. È il passo che Calamandrei mosse nel corso medesimo del 1944, quando trasformò un invito editoriale dell’amico Pancrazi – in apparenza, poco più che una proposta erudita: scrivere per Le Monnier una prefazione a Dei delitti e delle pene di Beccaria – nell’occasione per un confronto intellettualmente serrato con alcuni caratteri distintivi della violenza nazifascista. Poiché Calamandrei percepì nettamente come le vittime di Hitler e di Mussolini non fossero, se così si può dire, vittime come le altre. La «carneficina d’Europa» alla metà del ventesimo secolo non andava confrontata con alcuna strage del passato; la tortura sistematicamente praticata sui corpi di «person[e]» ridotte a «cos[e]», la fucilazione in massa di «donne innocenti» e «bambini ignari», la deportazione di «popoli come mandrie», la messa a punto dell’«esterminio» quale «un’industria “razionalizzata”», rappresentavano un sovrappiù nella vicenda storica del male.
L’edizione Le Monnier di Beccaria uscì nelle librerie dell’Italia liberata il 17 gennaio 1945: quando la parte settentrionale del paese ancora si trovava sotto l’occupazione tedesca, e quando – molto più a nord – i cancelli di Auschwitz ancora non erano stati abbattuti dai blindati dell’Armata Rossa. Ma in anticipo sui ritmi della competizione militare, la prefazione del libretto conteneva il sugo di tutta la storia. Nel lessico ermeneutico di oggi, diremmo che Calamandrei identificò chiaramente l’essenza del nazifascismo come aberrazione biopolitica: irrimediabile attentato contro l’homo sacer, contro la sacralità della nuda vita. Annichilito il principio della personalità della pena, i carnefici di Berlino avevano oliato una macchina capace di gestire «la tortura metodicamente inflitta a popoli interi», «intere regioni accuratamente attrezzate da sale di supplizio». E se il colmo dell’efferatezza era stato raggiunto dagli aguzzini germanici nell’Europa centrale e orientale, i loro collaboratori di Salò avevano fatto il possibile per reggere il confronto al di qua delle Alpi.
Il nome di Piero Calamandrei va aggiunto a quello dei rari segnalatori d’incendio i quali – all’uscita dalla seconda guerra mondiale – riconobbero nell’«esterminio» un punto di non ritorno della storia universale. Nel decennio successivo il 1945, la sua voce di cantore della Resistenza sarebbe risuonata tanto più alta, quanto meglio Calamandrei sapeva che l’innocenza del mondo era perduta per sempre.
6. Monumenti
Il 7 ottobre 1945, nel piccolo comune di Bellona presso Caserta, venne inaugurato un monumento alla memoria dei cinquantaquattro abitanti del paese trucidati due anni prima in una feroce rappresaglia nazista. La cerimonia davanti alla lapide fu semplice e decorosa: benedizione del prete, discorso del sindaco. Un po’ discosto, defilato, l’unico personaggio davvero illustre presente quel giorno a Bellona, che era poi l’autore dell’epigrafe incisa a ricordo delle vittime: Benedetto Croce. Ma la discrezione dell’anziano filosofo non lo preservò dall’emozione: «Vedendo da un lato il folto gruppo delle persone vestite a lutto, madri, figlie e figli e padri degli uccisi, e udendo tra i repressi gemiti il prorompere di qualche grido angoscioso verso il monumento, “Papà! papà!”, mi sono commosso a segno da dover tergere le lacrime».
Quella di Bellona non fu la sola epigrafe che Croce ebbe a dettare alla memoria delle vittime di eccidi nazisti: fu invitato a scriverne un’altra per una lapide poco lontano, a Caiazzo; un’altra ancora a Santa Maria Capua Vetere, presso l’albero dove era stato impiccato un eroico sedicenne. Né Croce fu l’unico grande intellettuale che al riemergere dalla guerra accettò di contribuire al genere delle scritture epigrafiche, quali proliferarono ovunque in Italia e in Europa dopo la fine dell’occupazione tedesca. Alle nuove autorità locali, nei borghi e nelle città finalmente libere, dovette riuscire spontanea l’idea di rivolgersi a questo o quel letterato, affinché trovasse le parole per esprimere uno strazio comunitario altrimenti indicibile. Ai letterati, o comunque agli umanisti, dovette riuscire preziosa l’opportunità di trascendere il cordoglio rinnovando un genere fondativo della tradizione occidentale. Nel dopoguerra, «innumeri stele» furono dunque scolpite ai quattro angoli del continente, tragici segnaposti di un’inopinata geografia dell’orrore. In terra italiana, particolarmente memorabili apparvero gli epitaffi dettati da Piero Calamandrei: come quello, più di tutti famoso, murato il 21 dicembre 1952 nel Palazzo comunale di Cuneo, Il monumento a Kesselring.
Ma il filosofo di Napoli e il giurista di Firenze condividevano qualcosa di più che l’arte della retorica e la gravitas dei moralisti. Comune a entrambi era una forma di sensibilità che potremmo definire insieme archivistica e museale: la cura di conservare e di esporre le vestigia del passato, foss’anche un passato ignominioso. Così, per quanto le loro opinioni divergessero sull’interpretazione storica da dare del fascismo, Croce e Calamandrei precocemente misurarono il rischio che l’uscita dalla dittatura si traducesse nella dispersione del patrimonio culturale (o inculturale) prodotto dal regime. Già nel maggio del 1944, da ministro nel secondo governo Badoglio, Croce si adoperò per disciplinare l’«abbattimento dei monumenti fascistici», che s’andava compiendo «in modo tumultuario». Pochi mesi dopo, con eccezionale lungimiranza rispetto allo spirito del tempo, Croce immaginò addirittura un «futuro museo storico dell’età fascista». Per parte sua, già da prima dell’8 settembre Calamandrei aveva ragionato intorno al modo di conservare, ed eventualmente di esibire, fatti e misfatti del fascismo. Nel ’48, il progetto assunse la forma – molto provvisoria, per la verità – di una rete di biblioteche che valessero da «archivi dell’“antiresistenza”».
Dalla Liberazione in poi, «Il Ponte» fu anche questo: una specie di supporto cartaceo al quale appendere gli orrori del fascismo. Sulla rivista, Calamandrei pubblicò persino il testo di lapidi finte. Come l’epigrafe immaginaria ch’egli volle dettare dopo le elezioni politiche del 7 giugno 1953, quando varcarono l’ingresso di Montecitorio – da deputati del Msi – alcuni veterani del Ventennio e di Salò: a cominciare da quel Filippo Anfuso che era stato coinvolto, nel 1937, nell’assassinio dei fratelli Rosselli, prima di solidarizzare con Goebbels e la nomenklatura nazista in qualità di ambasciatore italiano a Berlino. Per l’occasione, il direttore del «Ponte» non esitò a sollecitare un «raccoglitore di curiosità storiche», Carlo Galante Garrone, affinché ristampasse sulla rivista, tali e quali, vecchi scritti o discorsi di Anfuso e degli altri gerarchi fascisti trionfalmente rientrati a Montecitorio. Quasi altrettanto che di elevare un monumento materiale e immateriale alla Resistenza, premeva infatti a Calamandrei di elevare un monumento infamante all’Antiresistenza. E l’etimologia latina della parola monumento lo confortava in tale duplice intenzione, in quanto conteneva, con la nozione di un ricordo del passato, quella di un monito rispetto all’avvenire.
Per Calamandrei forse più che per qualunque altro intellettuale italiano dell’epoca, tutto ciò aveva a che fare con la Shoah: non ce ne stupiremo, dopo averlo individuato come uno dei rari «segnalatori d’incendio» nel distratto Occidente post-bellico. Ad aprile del 1945, la prima pagina del primo numero del «Ponte» contenne una descrizione dei campi di sterminio così vivida da risultare stupefacente, ove si consideri che fu scritta quando fotografie e filmati dei Lager ancora non avevano preso a circolare nell’Europa liberata. Pochi mesi dopo, enumerando i cinquantacinque milioni di vittime della seconda guerra mondiale, Calamandrei evocò anzitutto le ombre dei prigionieri «sigillati senza cibo e senz’acqua nel carro bestiame», dei deportati «spinti in ordine chiuso nelle camere a gas». A qualche anno di distanza, il direttore del «Ponte» indugiò sui «magazzini di balocchi usati» che si conservavano «come sale di museo» presso i crematori di Auschwitz. Oggi queste cose fanno parte integrante della nostra memoria collettiva; al tempo in cui Calamandrei le metteva nero su bianco, Primo Levi faticava a trovare un editore disposto a stampare Se questo è un uomo.
Il bisogno che Calamandrei avvertiva di esporre (nel duplice significato del termine: raccontando e mostrando) le nefandezze del nazifascismo, fu all’origine di un’idea ch’egli ebbe per «Il Ponte» nel 1948, in occasione del decimo anniversario delle leggi razziali di Mussolini: ripubblicare il Manifesto della razza accompagnandolo – «perché la loro gloria non si estingua» – con i nomi di coloro che lo avevano firmato. Nel numero d’ottobre di quell’anno, sulla rivista comparvero effettivamente alcuni stralci del manifesto del ’38, sia pure senza la menzione dei firmatari. Di lì a poco, Calamandrei tornò a sollecitare Carlo Galante Garrone, questa volta per una ricerca storica, appunto, sul razzismo fascista. Al giudice torinese, il direttore del «Ponte» chiedeva di fare luce sulle origini politiche della campagna razziale, sulla maniera in cui la magistratura si era prestata a contribuirvi, sulla teoria e sulla prassi delle discriminazioni, su «quell’altra misteriosa faccenda delle arianizzazioni». Proponeva uno «spoglio accurato delle riviste e dei giornali», «per vedere chi scriveva articoli feroci contro gli ebrei, chi speculava sui loro dolori…». E forse non sapeva, Calamandrei, che fra quanti avevano scritto di questioni razziali era un uomo ch’egli considerava suo pupillo, che gli era amico e collaboratore, che sarebbe stato il suo biografo: il fratello stesso di Carlo, Alessandro Galante Garrone. Anch’egli giudice del tribunale di Torino, nel ’39 aveva discusso di ariani e di ebrei, di cattolici e di catecumeni, di matrimoni misti e di battesimi fasulli, sulla «Rivista del diritto matrimonale italiano e dei rapporti di famiglia».
Magistrato di fermo sentire antifascista, Galante Garrone si era quasi certamente ripromesso – commentando una sentenza della Corte d’Appello di Torino sulle modalità di «accertamento della razza» – di identificare alcuni strumenti giuridici che riducessero al minimo l’ambito di applicabilità delle leggi antiebraiche: aveva inteso cioè sottrarre spazio giurisdizionale al ministero dell’Interno, restituendo competenza decisionale al potere formalmente indipendente dei giudici. Ma la semplice scelta di intervenire in punta di diritto sopra una questione del genere aveva autorizzato certi fascisti a dedurne che risultava comunque ammessa la plausibilità giuridica della legislazione razziale; dunque a concludere, trionfalmente, che esperti di ogni specie ne riconoscevano la legittimità politica. Tale fu il ragionamento dei redattori di un neonato periodico dal titolo assai parlante, «Il Diritto razzista»: i quali, a insaputa dell’autore, pensarono bene di riprodurne il commento sulle pagine della loro propria rivista, ed ebbero buon gioco nel sottolineare l’importanza del contributo prestato alla causa antisemita dal «camerata Alessandro Galante Garrone».
Fra i componenti il comitato scientifico del «Diritto razzista» figurava nientemeno che Santi Romano, professore ordinario dell’università di Roma nonché presidente del Consiglio di Stato: un autentico luminare del diritto costituzionale e amministrativo, giurista fra i massimi del nostro Novecento, arruolato da un pugno di carneadi per fregiare con il suo nome la copertina di una rivista svergognata e vergognosa. Legislazione razziale a parte, la dittatura mussoliniana era durata troppo a lungo nel tempo, e aveva infiltrato troppo a fondo la società italiana, per non produrre tra fascisti e antifascisti forme di collaborazione o di accomodamento, con un inevitabile séguito di appropriazioni politiche e di travisamenti morali. Piero Calamandrei in persona non aveva forse prestato aiuto al ministro della Giustizia di Mussolini, Dino Grandi, per mettere a punto la riforma del Codice di procedura civile promulgato nel 1942? È ben vero che in tale codice fascista egli aveva tenuto a infondere tutto quanto aveva imparato dai suoi maestri liberali sulla legalità del processo e sulla funzione del giudice; ed è ben vero che nel medesimo torno di anni, dopo avere militato nel movimento clandestino di Giustizia e Libertà, egli aveva contribuito alla nascita del Partito d’Azione. In ogni caso, dopo il 1945 l’argomento di una collaborazione puramente tecnica al codice Grandi – quale Calamandrei lo aveva addotto prima di tutto a se stesso, scrivendone a più riprese nel diario – poteva ben apparire una coperta troppo corta per mascherare la realtà di un’expertise politicamente significativa. Quanti fra i soloni dell’Italia libera erano scesi a patti con il regime fascista! Calamandrei compreso, come ricordava un intellettuale «epurato», lo storico Gioacchino Volpe.
Nous sommes tous des ci-devant: la formula impiegata da un giornalista del Direttorio a proposito della Francia post-termidoriana calzava a pennello per l’Italia post-fascista. In un modo o in un altro, tutti i cittadini della neonata Repubblica erano uomini ex. Il che contribuiva a spiegare quanto pure suscitava, con la delusione di tanti ex partigiani, lo scandalo di tanti ex azionisti: il fatto che l’antifascismo e la Resistenza scaldassero il cuore di pochi, nell’Italia dei tardi anni Quaranta e dei primi anni Cinquanta. Più in generale, il tono liquidatorio che gli ex azionisti riservavano alla linea politica di De Gasperi e della Democrazia cristiana – bollandola come una versione aggiornata del clericofascismo – riusciva gravemente inadeguato sia rispetto ai meriti intrinseci di quella politica, sia rispetto alla domanda di cambiamento che saliva dalla società civile. Si voleva allora guardare avanti piuttosto che volgersi indietro; si voleva costruire il futuro piuttosto che rivangare il passato; si voleva ricominciare a vivere piuttosto che reimparare a morire. E Piero Calamandrei, volente o nolente, se ne rendeva conto. Verso la fine del 1947 aveva bensì pensato di porre mano a «una specie di antologia» delle «cose più belle» sulla Resistenza; aveva presto rinunciato al progetto, poiché nell’intera penisola non vi sarebbe stato un solo editore «disposto a pubblicare un’opera così lontana, in questo momento, dai gusti del pubblico».
7. In stile lapidario
Quell’editore, Calamandrei lo trovò sette anni più tardi (con l’unica differenza che nella specie di antologia le cose più belle sulla Resistenza, anziché scaturire da più penne, vennero tutte dalla sua): fu Vito Laterza, giovane dirigente della casa editrice che per mezzo secolo era stata di Benedetto Croce. All’approssimarsi di una scadenza significativa – nel 1955 ricorreva il decimo anniversario della Liberazione – la Laterza aveva mobilitato una piccola schiera di intellettuali di provenienza genericamente ciellenista per una riflessione senza eufemismi intorno ai caratteri e ai limiti della «vita democratica italiana»: come recitava il sottotitolo del corposo volume messo fuori per il 25 aprile, Dieci anni dopo. Anima dell’iniziativa era stato Leo Valiani, e Calamandrei vi aveva contribuito con un impegnativo saggio sulla Costituzione. Fu nell’ambito dei rapporti intrattenuti con Vito Laterza per la preparazione di tale volume collettivo che Calamandrei concepì l’embrione di Uomini e città della Resistenza:
Già che le scrivo vorrei sottoporle un’idea. In questi ultimi anni mi è avvenuto moltissime volte (circa una ventina) di dover dettare epigrafi che ricordano eventi o figure della Resistenza, alcune delle quali, come quella per il monumento a Kesselring, ho visto riprodotte a mia insaputa e affisse nei più svariati luoghi d’Italia. Mi sono persuaso che questa rievocazione in stile lapidario di episodi degni di esser ricordati dal nostro popolo può avere una notevole forza suggestiva; per questo avrei pensato se non fosse il caso di raccogliere queste epigrafi in un volumetto, magari accompagnandole con disegni, uno per ciascuna, di Carlo Levi (se egli fosse disposto a farli). Che ne dice?
È una lettera istruttiva, che dimostra quanto – nella logica culturale e morale di Calamandrei – la meditazione sulla Resistenza fosse esposizione della Resistenza, e la parola su di essa fosse gesto. Riflessi pavloviani di un avvocato, aduso alla scenica e alla mimica della vita forense? No, molto di più. Tanto è vero che il progetto originario del «volumetto» pareva non poter prescindere dal contributo di Carlo Levi: un artista che era anche un moralista (oltreché un ex azionista), e che fin dal ’44 era andato cercando una sua maniera antiretorica per figurare l’esperienza resistenziale.
Quale si conserva presso gli archivi della casa editrice, la successiva corrispondenza fra Calamandrei e Laterza documenta nel dettaglio la genesi di Uomini e città della Resistenza. L’editore aderì alla proposta con entusiasmo. All’autore, che titubante gli domandava se l’immaginato volume avesse «qualche probabilità di interessare il pubblico», rispondeva senza esitare che in ogni caso, «a parte l’interesse» dei potenziali lettori, un libro simile rappresentava il più degno dei contributi possibili alla celebrazione del decennale repubblicano. Peraltro, Vito Laterza invitò Calamandrei ad «andare al di là» del progetto originario, accompagnando ciascuna epigrafe con un racconto più disteso dell’episodio o del momento ricordato dal testo epigrafico. A fronte della ritrosia di Calamandrei a impegnarsi in una vera e propria ricostruzione storica, l’editore gli suggerì di raccogliere in volume, con le epigrafi, i principali discorsi ch’egli aveva dedicato alla Resistenza: «allora le due parti si integrerebbero a vicenda e ne verrebbe un insieme di interesse veramente unico». Calamandrei accettò; e sua fu la proposta di «intercalare» i discorsi e le epigrafi. Il titolo venne suggerito invece da Laterza, così come l’ordinamento interno del volume.
…
L’autore
Piero Calamandrei (1889-1956), giurista, scrittore e uomo politico, fu tra i fondatori del Partito d’Azione e tra gli artefici della Costituzione repubblicana. Nel 1945 fondò a Firenze la rivista “Il Ponte”, animando il dibattito politico, culturale e civile del primo decennio della Repubblica. Nel catalogo Laterza anche: Zona di guerra. Lettere, scritti e discorsi (1915-1924) (a cura di Silvia Calamandrei e Alessandro Casellato); Una famiglia in guerra. Lettere e scritti (1939-1956) (con Franco Calamandrei, a cura di Alessandro Casellato); Fede nel diritto (a cura di Silvia Calamandrei); Non c’è libertà senza libertà senza legalità; Il fascismo come regime della menzogna.
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