La guerra di Spagna è già stata oggetto di una grande quantità di pubblicazioni, tra studi di storici e la memorialistica di coloro che ne furono protagonisti. Tuttavia, negli ultimi venti anni, la documentazione archivistica a disposizione degli storici è notevolmente aumentata, grazie a nuove fonti resesi disponibili in Spagna, alla digitalizzazione parziale e alla messa in rete degli archivi dell’Internazionale Comunista e del Comintern, quest’ultima realizzata sotto gli auspici del Consiglio Internazionale degli archivi e del Consiglio d’Europa.
Altra documentazione si è resa disponibile grazie al lavoro dell’Istituto Gramsci, mentre varia documentazione, scritta e iconografica è disponibile ma non ancora completamente utilizzata presso l’AIVACS (Associazione Italiana Combattenti Antifascisti in Spagna).
Proprio con il contributo dell’AIVACS e utilizzando, almeno in parte, le nuove fonti citate, lo storico Marco propone un nuovo libro sulla guerra di Spagna, che esce presso le Edizioni Kappa Vu di Udine (Garibaldini in Spagna, Storia della XII Brigata Internazionale nella guerra di Spagna, Kappa Vu, pag. 240, €16).
Come si comprende già dal titolo, il lavoro di Puppini si concentra sulla formazione e sugli avvenimenti che videro protagonista la XII Brigata Internazionale, inquadrata nella quarantacinquesima divisione dell’esercito repubblicano. Tale Brigata fu composta e comandata prevalentemente da italiani e prese per questo il nome di Garibaldi, deciso unitariamente dai tre partiti che ne furono promotori (comunista, socialista e repubblicano).
Tra i pregi di questo libro è però il suo punto di vista ampio, che permette di inquadrare la partecipazione italiana alle Brigate Internazionali nel vasto contesto dei fatti politici, militari e umani generali vissuti dal fronte repubblicano in Spagna e anche da quello antifascista italiano. Si può dire che questo libro permette di leggere molti fatti e problemi della guerra di Spagna attraverso la lente della storia della Brigata Garibaldi.
Il libro prende avvio da quella che Puppini definisce “la crisi dell’antifascismo italiano” alla metà degli anni trenta, in anni particolarmente difficili tra persecuzioni, prigioni ed esilio. In questo modo si può capire quale fosse la composizione politica e sociale dei circa 3500 volontari italiani che combatterono in Spagna, alcuni dei quali presenti in altre formazioni (come la Centuria Gastone Sozzi), oltre alla Garibaldi, già prima della costituzione delle Brigate Internazionali. Di questi combattenti, la maggior parte non proveniva direttamente dall’Italia ma da altri paesi europei dove si era dovuta rifugiare per ragioni politiche e di lavoro.
La maggior parte dei volontari proveniva dalla Francia, dove tra il 1920 e il 1940 si trasferì un milione di italiani e una percentuale assai minore invece arrivava dal Belgio, dove era presente una forte comunità italiana, altri dalla Svizzera e dall’Unione Sovietica. Non mancarono però arrivi dagli Stati Uniti e dal Sud America, attraverso difficili viaggi pagati dalle organizzazioni antifasciste. Infine, una parte dei combattenti si trovava già in Spagna, poiché vi aveva cercato riparo dopo la proclamazione della Repubblica spagnola, nel 1931.
Dal punto di vista sociale, essi erano soprattutto lavoratori più o meno qualificati, muratori, minatori, operai di fabbrica, contadini. Gli intellettuali erano pochi, la maggior parte dei quali costituita in realtà da “rivoluzionari di professione” come Togliatti, Longo e Vidali. Erano presenti anche una sessantina di donne italiane, impegnate soprattutto come infermiere, la più nota delle quali era la fotografa Tina Modotti. Il viaggio verso la Spagna era in ogni caso difficile e faticoso per tutti, poiché si dovevano costruire corridoi e passaggi clandestini per arrivarci, soprattutto dai paesi caduti sotto la dominazione nazifascista.
La decisione di costituire le Brigate Internazionali fu parte della risoluzione del Presidio dell’Internazionale, presa il 18 settembre 1936, che avviò una complessa e imponente operazione di invio in Spagna, dai porti dell’URSS o di altri paesi, ma a carico dell’URSS, del materiale bellico e logistico necessario alla difesa della repubblica spagnola.
La Brigata Garibaldi, a composizione italo-spagnola, fu costituita a partire dagli organici del precedente Battaglione Garibaldi, già operativo in Spagna, integrato da italiani presenti in altri reparti e da nuove reclute. A comandarla fu designato il repubblicano ed ex ufficiale dell’esercito Randolfo Pacciardi, mentre Ilio Barontini, comunista, ne fu nominato commissario politico.
Quello del “commissario politico” era un ruolo delicato, già esistente nelle brigate bolsceviche e nell’Armata Rossa. La sua presenza voleva dare corpo all’idea di un esercito nuovo, popolare e, nel caso della Spagna, internazionalista, e a un concetto di disciplina diverso da quello delle forze armate degli stati capitalisti. Infatti, il combattente doveva essere considerato nel suo aspetto interamente umano; gli era ovviamente richiesta disciplina, ma aveva anche diritto di udienza per i suoi problemi, a condizioni di vita le migliori possibili nella situazione bellica e alle cure necessarie.
Il commissario politico doveva quindi occuparsi dell’alloggio, dell’alimentazione e del benessere dei combattenti e costruire una disciplina basata sulla consapevolezza e lo spirito di sacrificio e non sull’autoritarismo, facendosi anche carico dei diversi problemi umani dei militari.
Quella del commissario politico fu una figura istituita in seguito anche nelle brigate partigiane, molti combattenti e comandanti delle quali si forgiarono nella guerra di Spagna. Purtroppo, le buone intenzioni di costituire un esercito popolare e umano si scontrarono non solo con una realtà di guerra molto difficile, ma soprattutto con le concezioni autoritarie e militaresche di molti comandanti e del comando generale, composto in gran parte da ufficiali formatisi negli eserciti tradizionali.
Infatti, non era facile conciliare, nella situazione di guerra, gli atteggiamenti di alcuni comandanti con un esercito di volontari che erano anche militanti politici e che quindi erano disposti al sacrificio ma pretendevano chiarezza nelle relazioni e nelle decisioni. Lo stesso comandante della Garibaldi, Randolfo Pacciardi, fu criticato per i suoi atteggiamenti da militare di vecchio stampo, per avere istituito alloggi e mense distinte per ufficiali e soldati e per la scarsa adattabilità a una organizzazione diversa da quella vissuta nell’esercito italiano durante la prima guerra mondiale.
Inoltre, i combattenti delle Brigate Internazionali non erano residenti in Spagna e avevano bisogno, di tanto in tanto, di permessi e licenze per vari problemi o semplicemente per poter rivedere la famiglia e riprendere le forze dopo battaglie estenuanti combattute in condizioni difficili, d’inferiorità di armamenti e mezzi rispetto ai franchisti.
Lo stato maggiore spagnolo era però sordo a queste richieste di licenza, nonostante le insistenze di Longo, commissario generale delle Brigate Internazionali. Questo fatto contribuì a creare malcontento e disagio che si unirono alla fatica dei combattimenti nel creare, nel 1937, una crisi nella Brigata.
Naturalmente, le difficoltà vissute dalla Brigata Garibaldi, come dalle altre brigate, non furono dovute solo ai problemi citati, ma furono causate soprattutto dalle diverse linee politiche dei partiti che avevano contribuito alla sua costituzione, prima di tutto tra la componente socialista e comunista e quella repubblicana, ma in alcuni casi anche tra socialisti e comunisti. Queste divergenze, a volte anche forti, furono una delle ragioni dei frequenti cambiamenti al vertice della Brigata, con i continui e controproducenti avvicendamenti nella direzione.
Se il primo comandante fu Randolfo Pacciardi, questi giunse, in seguito a delle valutazioni politiche discutibili e a insofferenze personali, a proporre a un certo punto persino lo scioglimento della Brigata; vari altri comandanti si avvicendarono, in seguito, al dirigente repubblicano e lo stesso avvenne per i commissari politici. I frequenti cambiamenti nel comando della Brigata Garibaldi, come in altre, furono dovuti peraltro, oltre ai contrasti politici, alla morte e ai ferimenti di cui i comandanti e i commissari politici furono vittime; non si deve dimenticare che le Brigate Internazionali nel loro complesso ebbero una percentuale di caduti altissima, che sfiorò il 25% degli organici.
Una percentuale di caduti che fu dovuta anche all’imperizia dei comandi generali dell’esercito spagnolo e all’impiego delle Brigate Internazionali come truppe d’assalto in condizioni a volte di scarsa considerazione per la vita dei volontari. In tale contesto, una terza ragione dei continui cambi al vertice delle Brigate fu anche la fatica psicofisica vissuta dai comandanti, esposti, in una situazione già difficile sul campo, a critiche politiche e di conduzione militare.
Il libro di Marco Puppini segue tutte le vicende politiche e militari vissute dalla Brigata Garibaldi attraverso le numerose battaglie a cui partecipò, a volte concluse con importanti vittorie, come quella di Guadalajara, contro l’esercito fascista italiano e purtroppo più spesso con dolorose sconfitte, come nel caso di Huesca, sino a quella decisiva e finale sul fronte dell’Ebro.
Battaglie che furono tutte segnate da grande spirito di sacrificio e spesso da eroismi dei volontari; mi sembra importante che Puppini abbia svolto un lavoro di ricerca per poter dare un nome e qualche informazione sul maggior numero di caduti possibile, operazione di memoria e di omaggio a quanti sacrificarono la loro vita in per la difesa della democrazia, non solo in Spagna ma in tutta Europa. Infatti, la guerra di Spagna non fu solo una tragedia nazionale, ma un episodio del più vasto quadro della lotta tra fascismo e nazismo e forze democratiche e popolari.
In una precedente occasione1 ho avuto modo di ricordare come molti combattenti della battaglia dell’Ebro (luglio-novembre 1938), che segnò la svolta finale della guerra a favore dei franchisti, ricordano con rimpianto che la sconfitta fu dovuta, in gran parte, al grande squilibrio di armamenti tra i due eserciti e aggiungono che se le armi bloccate alla frontiera franco-spagnola fossero giunte a destinazione, forse gli eventi avrebbero preso un’altra strada.
Infatti, se l’URSS si era impegnata per far giungere rifornimenti all’esercito repubblicano, tali invii seguivano ovviamente percorsi tortuosi e difficili e si scontravano in particolare con la linea di “non intervento” delle potenze occidentali, segnatamente Gran Bretagna e Francia, i cui governi bloccavano regolarmente le spedizioni.
Tale linea politica di “non intervento” fu una delle cause della vittoria dei franchisti che invece disponevano del sostegno dei rifornimenti e dell’aviazione della Germania e dell’Italia fascista. L’intervento italiano si concretò oltre che con la collaborazione dell’aviazione e della marina, anche con l’invio di circa 75.000 soldati. Mussolini sognava un Mediterraneo fascistizzato che andasse dalla Grecia alla Spagna e si prolungasse sino al Portogallo di Salazar.
La ragioni dell’offensiva lanciata dai repubblicani sull’Ebro, ci chiarisce Puppini, non furono solo militari, ma in gran parte politiche. La situazione internazionale era difficile poiché l’URSS era impegnata sul fronte orientale a fronteggiare l’invasione giapponese dalla Mongolia e probabilmente avrebbe avuto in futuro meno risorse da destinare alla Spagna; diventava quindi importante dimostrare la vitalità della Repubblica nella speranza che Francia e Gran Bretagna, di fronte anche alla conclamata aggressività dei nazisti che stavano aggredendo la Cecoslovacchia, avessero una reazione.2 Che non venne.
Fu così che il capo del governo spagnolo Juan Negrin giocò la carta, rivelatasi controproducente, del ritiro delle Brigate Internazionali, che comunicò il 21 settembre 1938 alla Società delle Nazioni. La situazione era tale che la presenza delle Brigate Internazionali non avrebbe, probabilmente, potuto ribaltare le sorti della guerra e Negrin chiese in cambio della loro partenza, il ritiro del sostegno tedesco, italiano e portoghese ai franchisti.
Ma la mossa di Negrin fu inutile, poiché proprio in quei giorni, alla conferenza di Monaco, i governi francese e inglese scelsero l’accordo con Hitler concedendogli la vittoria nella questione dei Sudeti. Dichiarando che con quell’accordo “avevano evitato la guerra” (sappiamo come finì la storia), l’inglese Chamberlain e il francese Daladier posero anche la pietra tombale sulla Repubblica Spagnola.
Il governo francese non fu meno ostile verso la Repubblica nel comportamento che tenne in seguito, quando gran parte dei volontari si ritirarono in Francia, paese dove, tra l’altro, erano massicciamente residenti prima della guerra. Furono internati in diversi campi di concentramento, dove furono praticamente prigionieri, in condizioni di vita pessime e umilianti, che solo l’inziativa degli antifascisti rese più accettabili dal punto di vista umano.
Questo prima di essere, in molti casi, consegnati alla polizia del paese natale, che, nel caso degli italiani, significava confino o prigione. Questi antifascisti il riscatto lo avranno, nella loro maggioranza, durante la Resistenza, quando si avvarranno dell’esperienza politica e militare maturata nella guerra di Spagna.
2 E’ il caso di ricordare che l’URSS invece aveva promesso il suo sostegno alla Cecoslovacchia e in caso di guerra avrebbe dovuto sostenere un ulteriore impegno militare.
Poesie di Fadwa Toqan -Poetessa araba della Resistenza-Copia Anastatica
Fadwa Tuqan nasce nel 1917 a Nablus; soprannominata da Mahmoud Darwish “la madre della poesia palestinese”, è l’emblema della componente femminile nella resistenza e nella lotta sociale e umanitaria per il popolo della sua terra. Fadwa dedica questi versi di poesia a tutti i poeti della resistenza, riuniti per l’occasione in una conferenza ad Haifa.
Fadwa Tuqan nasce nel 1917 a Nablus; soprannominata da Mahmoud Darwish “la madre della poesia palestinese”, è l’emblema della componente femminile nella resistenza e nella lotta sociale e umanitaria per il popolo della sua terra. Fadwa dedica questi versi di poesia a tutti i poeti della resistenza, riuniti per l’occasione in una conferenza ad Haifa.
Lo fa scandendo una serie di versi, di quesiti, di punti di riflessione in un susseguirsi talmente veloce, talmente duro, dirompente e tagliente che arriva a toccare e a bruciare l’anima.
La simbologia è fortissima, le parole prendono quasi vita, si possono immaginare, concretizzare; pregne di tristezza, sature di dolore. Fadwa sembra quasi discostarsi dalla sua stessa realtà, appare una visitatrice ignara, catapultata a sua insaputa di fronte a un pezzo importante della tragedia e travolta da un senso profondo di solitudine.
In pochi ma efficaci fiumi di parole, racconta il dramma -ancora attuale- di donne, uomini e bambini. Il dramma logorante dell’abbandono delle proprie case, ancore dell’appartenenza alla loro patria. E’ proprio l’abbandono il concetto che fa da sfondo e cornice; sensazione alienante che accompagna la poetessa quasi fosse un osso granitico che si riforma in essa, dal quale non si può separare mai più – declinato e espresso tramite più metafore. Le “piante spinose”, cresciute nelle case, sono il simbolo della tangibile solitudine rimasta del seme dell’ingiustizia maturato fino a prendere il posto di chi, fra quelle mura, aveva vissuto e costruito i propri sogni. Cosa vi è rimasto dopo la diaspora? Dei gufi, branchi di gufi cupi, sinistri. Tipico simbolo della letteratura classica, viene proiettato dalla poetessa nel suo presente: diviene la metafora dell’occupante.
La casa, quello che fra gli spazi materiali è il più intimamente caro all’uomo, qui viene persino personificata per evidenziare la concreta realtà, l’unica rimasta dopo l’occupazione. Un panorama, però, desolato di rovine, specchio della condizione dell’anima di chi le ha lasciate; costruzioni vacue, non più case, ora abitate soltanto dal silenzio dell’assenza -forse il più assordante fra tutti- che ne colma il ventre, eco della privazione di un’identità. Dov’è ora il sogno? Dov’è l’avvenire? Dove sono loro?
Fadwa Tuqan, “la poetessa della Palestina”. Le sue poesie di impegno, di lotta, di incoraggiamento verso il popolo palestinese, sono ciò per cui ricordiamo e conosciamo la poetessa.
Per me, però, è stato illuminante scoprire che i suoi componimenti su questi temi, non costituiscono la totalità della sua produzione.
Fadwa Tuqan è stata prima di tutto una donna. Una donna che ha lottato per la propria libertà personale e per i propri diritti. Solo dopo ha unito la sua voce alla protesta nei confronti di Israele, in seguito a una ricerca di sé, una presa di coscienza maturata nel corso di buona parte della sua vita.
Inutile dire come questo mi abbia letteralmente conquistato.
Ciò che più mi ha affascinato è stato, sopratutto che la vita della poetessa e le vicende palestinese sembrano non viaggiare sullo stesso binario, ma anzi percorrere direzioni opposte. O almeno fino al 1967.
Mi spiego meglio: Fadwa Tuqan nasce a Nablus nel 1917 (anche se non ci sono dati certi sull’anno esatto) ed essendo nata in una famiglia appartenente all’alta borghesia e per di più conservatrice, la sua libertà era decisamente limitata e ben presto le venne proibito persino di frequentare la scuola.
Negli stessi anni si abbatterono sulla Palestina gli accordi Sykes-Picot e la dichiarazione di Balfour, che diedero il via all’immigrazione ebrea sotto il protettorato inglese, ma che non influirono in maniera diretta sulla vita quotidiana di Nablus, almeno non subito.
Allo stesso tempo la minaccia sionista diede propulsione a movimenti nazionalisti e di emancipazione femminile che permisero alla poetessa di riprendere gli studi.
Arrivò poi la Nakba, la catastrofe del 1948. Nablus rimase sotto il controllo arabo e migliaia di profughi vi si rifugiarono in cerca di protezione. Nello stesso anno morì il padre della Tuqan.
Questa duplice disgrazia, se da un lato gettò la poetessa nello sconforto, le fece acquistare una libertà mai sperimentata prima, grazie all’assenza del padre-padrone e all’impegno sociale e politico che la situazione richiedeva. Le donne palestinesi poterono finalmente unirsi ai combattenti e rivendicare, insieme alla libertà del proprio paese, anche quella personale.
Perciò uno dei momenti più drammatici della storia palestinese, rappresenta per Fadwa Tuqan l’inizio della libertà tanto agognata.
Tutto cambia, come vi dicevo, dopo il 1967, quando ha luogo il terzo conflitto arabo-israeliano, che vede la sconfitta definitiva delle rivendicazioni palestinesi.
È solo da questo momento in poi che la poetessa iniziò a celebrare la Palestina nelle sue poesie. In seguito a quest’ultimo dramma la Tuqan e il suo Paese si riconciliano e iniziano a camminare nella stessa direzione.
Questo percorso si rispecchia perfettamente nella sua produzione poetica.
La poetessa viene iniziata alla poesia dal fratello Ibrahim, anche lui poeta politicamente impegnato nella difesa della Palestina. I primi componimenti di Fadwa Tuqan sono quasi esclusivamente incentrati sul dolore: per l’isolamento in casa, per i lutti familiari (primo fra tutti quello per il fratello Ibrahim, morto giovanissimo). Anche se viene spesso invitata a scrivere per la causa Palestinese sembra che la poetessa non riesca a farsi carico di questo compito.
Quando nel 1948 la libertà fa capolino nella vita della Tuqan, lei ne approfitta a piene mani, ma, quasi come un’adolescente, è inesperta e immatura, sia dal punto di vista personale che politico. Inevitabilmente si rivolge al sentimento che più di tutti le era stato proibito: l’amore. Mai uguale a se stesso, l’amato cambia volto, carattere, ma rimane sempre anonimo.
Nello stesso periodo iniziano i viaggi della poetessa per presenziare a conferenze e incontri sulla poesia. In una di queste occasioni incontrò Salvatore Quasimodo, il quale rimase colpito dalla Tuqan e, probabilmente, le rivolse degli apprezzamenti. La poetessa gli rispose con una poesia intitolata “Lan abi’ hubbahu” (Non venderò il suo amore), in cui declina con ironia le avance del poeta:
Io, poeta mio, ho nella mia cara patria
un innamorato che attende il mio ritorno.
È un amato compatriota, del mio paese natio;
e tutte le ricchezze del mondo,
le stelle luminose e la luna
non mi faranno mai perdere il suo cuore
o vendere il suo dolce amore.
Ma, ciò nonostante, i sentimenti ed i desideri di donna
mi fanno battere il cuore gioiosamente
al vedere le ombre d’amore negli occhi tuoi
e al sentire il loro desideroso invito.
Perdona, o caro, l’orgoglio del mio cuore
al sentirti bisbigliare dolcemente:
«I tuoi occhi sono profondi e tu sei bella!»
Essenziale nella formazione personale e artistica della poetessa fu anche il suo soggiorno in Inghilterra, dove decise anche di iscriversi ad un corso di Lingua e letteratura inglese presso l’Università di Oxford.
La scoperta di un paese diverso dal proprio dove poteva essere molto più libera fu un’esperienza elettrizzante per l’ormai quarantacinquenne Fadwa Tuqan. Dopo qualche anno, però, iniziò a vedere con disillusione anche l’Inghilterra, che dopo l’entusiasmo iniziale, si rivelò un Paese estraneo. Significativa è questa poesia senza titolo:
Brutto tempo; e il nostro cielo è sempre coperto di nebbia.
Ma dì, di dove sei signorina?
Una Spagnola, forse?
– No, sono della Giordania.
– Scusami, della Giordania, dici?
Non capisco!
– Sono delle colline di Gerusalemme; della Patria della luce e del sole!
– Oh, oh! Capisco; sei un’ebrea!
Ebrea?
Che pugnalata mi ferì al cuore!Una pugnalata tanto crudele e tanto selvaggia!
Tornata finalmente in Palestina, fu allora che iniziò ad impegnarsi attivamente per il suo Paese e diventò realmente una degli esponenti più significativi della letteratura palestinese.
Vi voglio lasciare con una delle poesie a me più care di questo periodo. Si intitola Madinati al-hazina (La mia triste città):
Il giorno in cui vedemmo la morte e il tradimento
l’alta marea si ritirò,
e finestre del cielo si chiusero
e la mia città perse il fiato.
Il giorno in cui si ritirarono le onde
e le bruttezze dei precipizi volsero il volto verso il sole,
s’infiammarono gli occhi della speranza
e la mia triste città
si soffocò di tormento.
Sparirono bimbi e canzoni,
non più ombre né più echi,
e la tristezza andava nuda in mezzo alla mia città
Poesie di Irma Verolín, poetessa argentina-Traduzione di Marcela Filippi Plaza
Irma Verolín poetessa argentina-Traduzione di Marcela Filippi Plaza-Irma Verolín Nació el 8 de diciembre de 1953 en Buenos Aires, Argentina. Ha recibido numerosos premios y galardones, entre ellos: el primer premio municipal “Eduardo Mallea”, el primer premio internacional “Horacio Silvestre Quiroga”, el primer premio internacional de la Fundación Luis Palés Matos de Puerto Rico; primer premio de la Fundación Victoria Ocampo; Premio Emece; Primer premio municipal de la ciudad de Buenos Aires; primer premio internacional de novela del Mercosur. Ha publicado tres libros de poesía, cuatro de cuentos y dos novelas. Es autora de libros de literatura infantil y juvenil, de los cuales se han publicado cinco. Algunos de sus textos han sido traducidos al inglés, alemán, italiano, ruso y portugués.
Prima
Mia madre ha ripetuto il suo nome in me
non per mancanza d’immaginazione ma per amore agli specchi
dove lei trova il suo corpo
in un equilibrio che pensava d’aver dimenticato.
Quando mi chiama
la sua voce trasforma la mia persona in un’eco
in una ripetizione cantilenante
una serie infinita di specchi
riproduce la mia sagoma fino all’indicibile
svuotandomi
polverizzandomi.
Quando mia madre mi chiama
sta chiamando se stessa
e alla fine nessuno sa chi è chi in questa casa.
Antes
Mi madre ha repetido su nombre en mí
no por falta de imaginación sino por amor a los espejos
donde ella encuentra su cuerpo
en un equilibrio que creyó olvidar.
Al llamarme
su voz convierte a mi persona en un eco
en una repetición en sonsonete
una serie infinita de espejos
reproduce mi silueta hasta lo indecible
vaciándome
pulverizándome.
Cuando mi madre me llama
se está llamando a ella
y al final nadie sabe quién es quién en esta casa.
Dalla raccolta De madrugada (2014)
I suoi occhi
Non c’era nulla dietro i suoi occhi
solo un mare senza movimento,
un mare
di acque scure
con pesci nuotando al rallentatore
e sirene sminuzzate
in un fondo senza fondo
tra montagne schiacciate
che una volta furono
remotamente
animali che il tempo estinse.
I suoi occhi
nonostante tutto
cercano
in me
un altro mare
simile e distante
per accarezzarlo con il suo sguardo.
Sus ojos
No había nada detrás de sus ojos
sólo un mar sin movimiento,
un mar
de aguas oscuras
con peces nadando en cámara lenta
y sirenas desmenuzadas
en un fondo sin fondo
entre montañas hundidas
que alguna vez fueron
remotamente
animales que el tiempo extinguió.
Sus ojos
a pesar de todo
buscan en mí
otro mar
parecido y distante
para acariciarlo con su mirada.
Cane che abbaia
C’è un cane nell’edificio di fronte
rinchiuso
dietro la ringhiera di un balcone
che non fa altro che abbaiare
dalla mattina alla sera.
Nel frattempo
il mondo passa nella sua vertiginosa disarmonia
abbaia al cane
e il cane sempre risponde.
Il dialogo non ha fine
è diventato inverosimile,
non si capiscono
non si capiranno mai.
La mattina si espande
dai suoi propri limiti
scivolosi
naufraga e riprende i suoi impulsi
e naufraga di nuovo.
A questo punto
nessuno in questo quartiere
vuole sentire ancora
il beato cane che abbaia
e abbaia.
Che il mondo si faccia capire
una buona volta
che quell’animale ritorni in sé
una volta per tutte
e capisca che nulla gli appartiene.
È un cane squallido
brutto
dagli occhi sporgenti
l’ho visto sbadigliare, mangiare e
grattarsi le pulci,
molti vorremmo avvelenarlo
ma non potremmo:
il balcone è alto
e il mondo non smette di passare
continuamente
con la sua cantilena che alimenta
latrati e chissà quante altre cose
in questa strada
dove si trova la mia casa.
Irma Verolín
Perro que ladra
Hay un perro en el edificio de enfrente
encerrado
detrás de la baranda de un balcón
que no hace otra cosa que ladrar
de la mañana a la noche.
Mientras tanto
el mundo pasa en su vertiginosa desarmonía
le ladra al perro
y el perro siempre contesta.
El diálogo no tiene fin
se ha vuelto inverosímil,
no se entienden
nunca se entenderán.
La mañana se explaya
desde sus propios límites
resbaladizos
naufraga y retoma sus ímpetus
y naufraga otra vez.
A esta altura
ya nadie en este vecindario
quiere oír más
al dichoso perro que ladra
y ladra.
Que el mundo se haga entender
de una buena vez
que ese animal entre en razones
de una vez por todas
y entienda que nada le pertenece.
Es un perro escuálido
feo
de ojos saltones
lo he visto bostezar y comer y
rascarse las pulgas,
muchos quisiéramos envenenarlo
pero no podríamos:
el balcón es alto
y el mundo no deja de pasar
continuamente
con su cantilena que alimenta
ladridos y quién sabe cuántas cosas más
por esta calle
en la que está mi casa.
Gatto davanti alla finestra
Il mio gatto crede che nella finestra ci sia molto da guardare.
La finestra con quel mondo ristretto che porta dentro
rimane in silenzio.
Il vetro
tuttavia
riflette il corpo del mio gatto
che guarda e guarda,
so che pensa che se il mondo fosse così grande
come la gente suol credere
non ci entrerebbe in quel miserabile rettangolo.
La luce è buona
per il gatto e per il mondo,
li riflette entrambi.
Senza il vetro nulla di tutto questo sarebbe possibile.
Gato frente a la ventana
Mi gato cree que en la ventana hay mucho para mirar.
La ventana con ese mundo apretado que lleva dentro
permanece en silencio.
El vidrio
sin embargo
refleja el cuerpo de mi gato
que mira y mira,
sé que piensa que si el mundo fuera tan grande
como la gente suele creer
no entraría en ese miserable rectángulo.
La luz es buena
para el gato y para el mundo,
los refleja a los dos.
Sin el vidrio nada de esto sería posible.
Come questa povera gente
Come questa povera gente che
ripetutamente
ritorna
alla loro casa allagata,
ritorno a guardarmi allo specchio:
i miei occhi,
che non vogliono vedere, vedono
l’ampiezza del mio viso
il coraggioso gesto della vita
che cade lungo il bordo delle mie sopracciglia;
causa ed effetti si inanellano
con totale impunità:
la vita è un tulle che lascia vedere
le tracce di un transito in vertigini infinite.
Como esta pobre gente
Como esta pobre gente que
una y otra vez
regresa
a su casa inundada,
vuelvo a mirarme en el espejo:
mis ojos,
que no quieren ver, ven
la amplitud de mi cara
el esforzado gesto de la vida
cayendo por el borde de mis cejas;
causas y efectos se enhebran
con total impunidad:
la vida es un tul que deja ver
las huellas de un tránsito en infinito vértigo
Venti d’autunno
Cominciano ad arrivare
i venti dell’autunno,
giungono prima dell’autunno
come deve essere, quei venti
scuotono le pareti
di questa mia casa
che li attende
ancor prima che si facciano sentire
tremare borbottare tremolare,
pareti e tetti rimangono avvolti nei loro scuotimenti.
Il futuro ha spiegato le sue ali al presente
mentre il passato si è reclinato nell’appoggiò
di ciò che mai si ripeterà.
Il vento mi racconta che l’autunno verrà a sdraiarsi
sul tetto di casa mia
come un gatto.
Tutto va bene ora
che il futuro ha spinto i suoi venti fin qui.
Irma Verolín
Vientos de otoño
Comienzan a llegar
los vientos del otoño,
se adelantan al otoño
como debe ser, esos vientos
estremecen las paredes
de esta casa mía
que los espera
aún antes de que se hagan oír
temblar refunfuñar tremolar,
paredes y techos quedan envueltos en sus sacudimientos.
El futuro ha desplegado sus alas hacia el presente
mientras el pasado se reclinó en el respaldo
de lo que nunca se repetirá.
El viento me cuenta que el otoño vendrá a recostarse
sobre el techo de mi casa
como un gato.
Todo está bien ahora
que el futuro empujó el viento hasta aquí.
Dalla raccolta Los días (2014)
Congedo
Mettesti la mia mano sul tuo petto
e chiudesti gli occhi:
La mia mano rimase dentro il tuo petto.
Dall’altro lato dei tuoi occhi
la mia mano accarezzò la tua memoria
parsimoniosamente
la mia mano affogò nella tua liscia memoria
poi qualcuno fischiò nel corridoio
la sera levigò i suoi margini,
dire addio è facile
quando il silenzio avvolge la vita
senza limiti
il silenzio è un piccolo dio
che rende il nostro congedo un luogo di arrivo
ora posso guardare
la mia propria morte nei tuoi occhi
la vedo inerpicarsi sul bordo del mio nome
e ci protegge entrambi.
Despedida
Pusiste mi mano sobre tu pecho
y cerraste los ojos:
mi mano quedó dentro de tu pecho.
Del otro lado de tus ojos
mi mano acarició tu memoria
parsimoniosamente
mi mano se ahogó en tu lisa memoria
después alguien silbó en el pasillo
la tarde pulió sus aristas,
despedirse es fácil
cuando el silencio envuelve a la vida
sin límites
el silencio es un pequeño dios
que convierte nuestra despedida en sitio de llegada
puedo mirar ahora
mi propia muerte en tus ojos
la veo trepándose sobre el borde de mi nombre
y nos cobija a los dos.
Dalla raccolta Invierno (inediti)
Irma Verolín
Biografia di Irma Verolín è nata l’8 dicembre 1953 a Buenos Aires, in Argentina. Ha ottenuto numerosi premi e riconoscimenti, tra i quali: il primo premio comunale «Eduardo Mallea», il primo premio internazionale «Horacio Silvestre Quiroga», il primo premio internazionale della Fondazione Luis Palés Matos di Porto Rico; primo premio della Fondazione Victoria Ocampo; Premio Emecé; Primo premio comunale della città di Buenos Aires; primo premio internazionale del romanzo di Mercosur. Ha pubblicato tre libri di poesia, quattro di racconti e due romanzi. E’ autrice di libri di letteratura per bambini e ragazzi, e di questi ne sono stati pubblicati cinque. Alcuni dei suoi testi sono stati tradotti in inglese, tedesco, italiano, russo e portoghese.
Irma Verolín Nació el 8 de diciembre de 1953 en Buenos Aires, Argentina. Ha recibido numerosos premios y galardones, entre ellos: el primer premio municipal “Eduardo Mallea”, el primer premio internacional “Horacio Silvestre Quiroga”, el primer premio internacional de la Fundación Luis Palés Matos de Puerto Rico; primer premio de la Fundación Victoria Ocampo; Premio Emece; Primer premio municipal de la ciudad de Buenos Aires; primer premio internacional de novela del Mercosur. Ha publicado tres libros de poesía, cuatro de cuentos y dos novelas. Es autora de libros de literatura infantil y juvenil, de los cuales se han publicado cinco. Algunos de sus textos han sido traducidos al inglés, alemán, italiano, ruso y portugués.
ILSE WEBER: Da Terezin verso Auschwitz Birkenau-Articolo di Anna Foa
Elsa Weber, di religione ebraica, nata a Witkowitz nel 1903, scrisse poesie e fiabe per bambini fin da giovanissima, entrando a far parte del grande mondo intellettuale ceco. Come tutti gli ebrei cechi, era di lingua tedesca. Sposatasi con Willi Weber, Ilse si dedicò poi alla famiglia, pur senza interrompere la sua attività di scrittrice. Nel 1930 aveva già pubblicato tre fortunati libri di fiabe ed era divenuta una valente musicista. Patriota della sua Cecoslovacchia, diede al suo secondo bambino il nome di Tomáš in onore del presidente Masaryk.
La Cecoslovacchia degli anni Trenta era un’isola di democrazia e una crogiolo di attività intellettuali, che spiccava nel panorama degli altri Stati dell’Europa orientale, sottoposti a regimi dittatoriali e caratterizzati dal prevalere dell’antisemitismo.
Elsa Weber
Nel 1939, dopo l’occupazione nazista, i Weber decisero di mandare il primo figlio Hanuš in Inghilterra, affidandolo all’amica di Ilse, che lo avrebbe lasciato in Svezia presso sua madre e che sarebbe poi morta nel 1941. Il piccolo Weber partì così insieme ad oltre seicento bambini ebrei, sottratti ai nazisti grazie all’attività di salvataggio di un agente di borsa inglese, Nicolas George Winton, e spediti in treno nell’unico paese europeo che accettò di accoglierli, l’Inghilterra. Ilse non lo avrebbe più rivisto. Nel 1942, Ilse con il marito e il piccolo Tomáš furono deportati a Theresienstadt, “il ghetto modello” da cui partivano i trasporti per Auschwitz. Qui Ilse fece l’infermiera nell’ospedale dei bambini, creando per loro e per gli altri prigionieri poesie e canzoni, suonando per loro il liuto e la chitarra. Una sua poesia, Le pecore di Lidice, suscitò violente reazioni da parte delle SS, senza fortunatamente che Ilse ne fosse individuata come l’autrice. Un’altra, Lettera al mio bambino, indirizzata al figlio Hanuš, fu tradotta e pubblicata nel 1945 in Svezia e Hanuš poté così leggerla. Nel 1944, Willi fu per primo deportato ad Auschwitz. Poco dopo anche Ilse e Tomáš furono inseriti in un “trasporto all’Est”. Sembra che Ilse abbia scelto volontariamente la deportazione per non abbandonare i bambini a lei affidati. E qui, insieme con loro, Ilse e Tomáš furono subito mandati alle camere a gas. Tornato a Praga dopo la guerra, Willi riprese con sé il figlio, che era vissuto in Svezia affidato alla madre di Lilian, Gertrud. Un ricongiungimento difficile, perché il ragazzo, dopo quei sei anni lontano, rifiutava di parlare con il padre su quanto era avvenuto durante la Shoah. Nel 1968, dopo l’invasione da parte dei russi, divenuto giornalista e legato alla primavera praghese, Hanuš fuggì in Svezia dove si stabilì. Lentamente, alla rimozione dei suoi primi anni si sostituì il desiderio di ricostruire la sua storia. Nel 1974, Willi si preparava a raggiungere in Svezia il figlio per collaborare ad un film sui campi di concentramento che questi stava preparando, quando morì improvvisamente d’infarto. Ora questo libro, con la presentazione di Hanuš e un’ampia prefazione di Ulrike Migdal, viene a riproporci la storia di Ilse e della sua famiglia.Se la storia dei Weber è in sé una storia straordinaria, le poesie composte nel campo da Ilse sono di una struggente bellezza, mentre le sue lettere a Lilian, che vanno dal 1933 al 1944, cioè fino alla deportazione a Auschwitz, sono un eccezionale e vivissimo ritratto, oltre che della sua vita, dei suoi affetti e della sua arte, anche del suo paese, la Cecoslovacchia, man mano che l’ombra dell’antisemitismo e di Hitler si faceva più vicina. Dopo la partenza del figlio, nel 1939, la maggior parte delle lettere sono indirizzate al bambino, che Ilse cerca di seguire a distanza, della cui educazione si preoccupa, di cui lamenta la pigrizia nello scrivere, di cui sollecita il mantenimento dell’appartenenza ebraica. Le ultime lettere sono da Theresienstadt, dove Ilse fa ancora in tempo, prima della deportazione, a piangere in una lettera alla madre di Lilian la morte dell’amica. Subito dopo, Auschwitz.
Poesie inedite di Zahira Ziello pubblicate dal blog L’Altrove-
Zahira Ziello è nata in provincia di Caserta, ha frequentato il liceo classico ed è diplomata all’accademia di recitazione, si occupa di teatro e drammaturgia. Ha pubblicato Sibilla (Terra d’ulivi Edizioni).
GEOMETRIE I
Era dolce baciare la verticale della tua schiena, poggiare su di te la mia guancia stanca e, affamati capire che non c’era amore, solo poca voglia e pelle sudata, Nessuna cura ma la ricerca di un centro che sapesse stringerci voglioso, non come facevamo noi.
Era dolce baciare il centro della tua schiena.
GEOMETRIE II
Non mi manca il tuo amore Mi manca raschiarmi cuore e vene per permetterti di entrare. Ritrovarti la notte lì, steso a gemere lento Rannicchiato e placito a otturare lo spazio dove prima scorreva forte il sangue. E poi scoprirmi entusiasta e piena Di un’euforia che non mi apparterrà Perché ogni tua cura tornerà a te E a me resterà il vuoto che avevo scavato per permetterti entrare.
GEOMETRIE VII
Sapessi frazionare in cerchi la realtà, mi libererei dei rigidi assiomi di questa folle ellisse, che carceriera, trattiene in sé un dramma ripetitivo e indolente ma mai menzognero.
Sapessi sedermici su e impormi, renderei torchio il cerchio e le assi e muovendolo deciderei io cosa stringere (almeno in questa tra le ripetizioni)
E il torchio cosa maciullerebbe? L’area del cerchio? I resti del contorno? O i resti miei?
L’AUTRICE
Zahira Ziello è nata in provincia di Caserta, ha frequentato il liceo classico ed è diplomata all’accademia di recitazione, si occupa di teatro e drammaturgia. Ha pubblicato Sibilla (Terra d’ulivi Edizioni).
L’Altrove è un Blog di poesia contemporanea italiana e straniera
“La poesia non cerca seguaci, cerca amanti”. (Federico García Lorca)
Con questo presupposto, L’Altrove intende ripercorrere insieme a voi la storia della poesia fino ai giorni nostri.
Si propone, inoltre, di restituire alla poesia quel ruolo di supremazia che ultimamente ha perso e, allo stesso tempo, di farla conoscere ad un pubblico sempre più vasto.
Troverete, infatti, qui tutto quello che riguarda la poesia: eventi, poesie scelte, appuntamenti di reading, interviste ai poeti, concorsi di poesia, uno spazio dedicato ai giovani autori e tanto altro.
Noi de L’Altrove crediamo che la poesia possa ancora portare chi legge a sperimentare nuove emozioni. Per questo ci auguriamo che possiate riscoprirvi amanti e non semplici seguaci di una così grande arte.
Poesie di Anne Bradstreet-Poetessa statunitense- Poetry Foundation –
Anne Bradstreet-Poetessa statunitense-
Anne Bradstreet was the first woman to be recognized as an accomplished New World Poet. Her volume of poetry The Tenth Muse Lately Sprung Up in America … received considerable favorable attention when it was first published in London in 1650. Eight years after it appeared it was listed by William London in his Catalogue of the Most Vendible Books in England, and George III is reported to have had the volume in his library. Bradstreet’s work has endured, and she is still considered to be one of the most important early American poets.
Although Anne Dudley Bradstreet did not attend school, she received an excellent education from her father, who was widely read— Cotton Mather described Thomas Dudley as a “devourer of books”—and from her extensive reading in the well-stocked library of the estate of the Earl of Lincoln, where she lived while her father was steward from 1619 to 1630. There the young Anne Dudley read Virgil, Plutarch, Livy, Pliny, Suetonius, Homer, Hesiod, Ovid, Seneca, and Thucydides as well as Spenser, Sidney, Milton, Raleigh, Hobbes, Joshua Sylvester’s 1605 translation of Guillaume du Bartas’s Divine Weeks and Workes, and the Geneva version of the Bible. In general, she benefited from the Elizabethan tradition that valued female education. In about 1628—the date is not certain—Anne Dudley married Simon Bradstreet, who assisted her father with the management of the Earl’s estate in Sempringham. She remained married to him until her death on September 16, 1672. Bradstreet immigrated to the new world with her husband and parents in 1630; in 1633 the first of her children, Samuel, was born, and her seven other children were born between 1635 and 1652: Dorothy (1635), Sarah (1638), Simon (1640), Hannah (1642), Mercy (1645), Dudley (1648), and John (1652).
Although Bradstreet was not happy to exchange the comforts of the aristocratic life of the Earl’s manor house for the privations of the New England wilderness, she dutifully joined her father and husband and their families on the Puritan errand into the wilderness. After a difficult three-month crossing, their ship, the Arbella, docked at Salem, Massachusetts, on July 22, 1630. Distressed by the sickness, scarcity of food, and primitive living conditions of the New England outpost, Bradstreet admitted that her “heart rose” in protest against the “new world and new manners.” Although she ostensibly reconciled herself to the Puritan mission—she wrote that she “submitted to it and joined the Church at Boston”—Bradstreet remained ambivalent about the issues of salvation and redemption for most of her life.
Anne Bradstreet-Poetessa statunitense-
Once in New England the passengers of the Arbella fleet were dismayed by the sickness and suffering of those colonists who had preceded them. Thomas Dudley observed in a letter to the Countess of Lincoln, who had remained in England: “We found the Colony in a sad and unexpected condition, above eighty of them being dead the winter before; and many of those alive weak and sick; all the corn and bread amongst them all hardly sufficient to feed them a fortnight.” In addition to fevers, malnutrition, and inadequate food supplies, the colonists also had to contend with attacks by Native Americans who originally occupied the colonized land. The Bradstreets and Dudleys shared a house in Salem for many months and lived in spartan style; Thomas Dudley complained that there was not even a table on which to eat or work. In the winter the two families were confined to the one room in which there was a fireplace. The situation was tense as well as uncomfortable, and Anne Bradstreet and her family moved several times in an effort to improve their worldly estates. From Salem they moved to Charlestown, then to Newtown (later called Cambridge), then to Ipswich, and finally to Andover in 1645.
Although Bradstreet had eight children between the years 1633 and 1652, which meant that her domestic responsibilities were extremely demanding, she wrote poetry which expressed her commitment to the craft of writing. In addition, her work reflects the religious and emotional conflicts she experienced as a woman writer and as a Puritan. Throughout her life Bradstreet was concerned with the issues of sin and redemption, physical and emotional frailty, death and immortality. Much of her work indicates that she had a difficult time resolving the conflict she experienced between the pleasures of sensory and familial experience and the promises of heaven. As a Puritan she struggled to subdue her attachment to the world, but as a woman she sometimes felt more strongly connected to her husband, children, and community than to God.
Anne Bradstreet-Poetessa statunitense-
Bradstreet’s earliest extant poem, “Upon a Fit of Sickness, Anno. 1632,” written in Newtown when she was 19, outlines the traditional concerns of the Puritan—the brevity of life, the certainty of death, and the hope for salvation:
O Bubble blast, how long can’st last?
That always art a breaking,
No sooner blown, but dead and gone,
Ev’n as a word that’s speaking.
O whil’st I live, this grace me give,
I doing good may be,
Then death’s arrest I shall count best,
because it’s thy decree.
Artfully composed in a ballad meter, this poem presents a formulaic account of the transience of earthly experience which underscores the divine imperative to carry out God’s will. Although this poem is an exercise in piety, it is not without ambivalence or tension between the flesh and the spirit—tensions which grow more intense as Bradstreet matures.
The complexity of her struggle between love of the world and desire for eternal life is expressed in “Contemplations,” a late poem which many critics consider her best:
Then higher on the glistering Sun I gaz’d
Whose beams was shaded by the leavie Tree,
The more I look’d, the more I grew amaz’d
And softly said, what glory’s like to thee?
Soul of this world, this Universes Eye,
No wonder, some made thee a Deity:
Had I not better known, (alas) the same had I
Although this lyrical, exquisitely crafted poem concludes with Bradstreet’s statement of faith in an afterlife, her faith is paradoxically achieved by immersing herself in the pleasures of earthly life. This poem and others make it clear that Bradstreet committed herself to the religious concept of salvation because she loved life on earth. Her hope for heaven was an expression of her desire to live forever rather than a wish to transcend worldly concerns. For her, heaven promised the prolongation of earthly joys, rather than a renunciation of those pleasures she enjoyed in life.
Bradstreet wrote many of the poems that appeared in the first edition of The Tenth Muse … during the years 1635 to 1645 while she lived in the frontier town of Ipswich, approximately thirty miles from Boston. In her dedication to the volume written in 1642 to her father, Thomas Dudley, who educated her, encouraged her to read, and evidently appreciated his daughter’s intelligence, Bradstreet pays “homage” to him. Many of the poems in this volume tend to be dutiful exercises intended to prove her artistic worth to him. However, much of her work, especially her later poems, demonstrates impressive intelligence and mastery of poetic form.
The first section of The Tenth Muse … includes four long poems, known as the quaternions, or “The Four Elements,” “The Four Humors of Man,” “The Four Ages of Man,” and “The Four Seasons.” Each poem consists of a series of orations; the first by earth, air, fire, and water; the second by choler, blood, melancholy, and flegme; the third by childhood, youth, middle age, and old age; the fourth by spring, summer, fall, and winter. In these quaternions Bradstreet demonstrates a mastery of physiology, anatomy, astronomy, Greek metaphysics, and the concepts of medieval and Renaissance cosmology. Although she draws heavily on Sylvester’s translation of du Bartas and Helkiah Crooke’s anatomical treatise Microcosmographia (1615), Bradstreet’s interpretation of their images is often strikingly dramatic. Sometimes she uses material from her own life in these historical and philosophical discourses. For example, in her description of the earliest age of man, infancy, she forcefully describes the illnesses that assailed her and her children:
What gripes of wind my infancy did pain,
What tortures I in breeding teeth sustain?
What crudityes my stomach cold has bred,
Whence vomits, flux, and worms have issued?
Like the quaternions, the poems in the next section of The Tenth Muse—”The Four Monarchies” (Assyrian, Persian, Grecian, and Roman)—are poems of commanding historical breadth. Bradstreet’s poetic version of the rise and fall of these great empires draws largely from Sir Walter Raleigh’s History of the World (1614). The dissolution of these civilizations is presented as evidence of God’s divine plan for the world. Although Bradstreet demonstrates considerable erudition in both the quaternions and monarchies, the rhymed couplets of the poems tend to be plodding and dull; she even calls them “lanke” and “weary” herself. Perhaps she grew tired of the task she set for herself because she did not attempt to complete the fourth section on the “Roman Monarchy” after the incomplete portion was lost in a fire that destroyed the Bradstreet home in 1666.
Anne Bradstreet-Poetessa statunitense-
“Dialogue between Old England and New,” also in the 1650 edition of The Tenth Muse … expresses Bradstreet’s concerns with the social and religious turmoil in England that impelled the Puritans to leave their country. The poem is a conversation between mother England and her daughter, New England. The sympathetic tone reveals how deeply attached Bradstreet was to her native land and how disturbed she was by the waste and loss of life caused by the political upheaval. As Old England’s lament indicates, the destructive impact of the civil strife on human life was more disturbing to Bradstreet than the substance of the conflict:
O pity me in this sad perturbation,
My plundered Towers, my houses devastation,
My weeping Virgins and my young men slain;
My wealthy trading fall’n, my dearth of grain
In this poem, Bradstreet’s voices her own values. There is less imitation of traditional male models and more direct statement of the poet’s feelings. As Bradstreet gained experience, she depended less on poetic mentors and relied more on her own perceptions.
Another poem in the first edition of The Tenth Muse … that reveals Bradstreet’s personal feelings is “In Honor of that High and Mighty Princess Queen Elizabeth of Happy Memory,” written in 1643, in which she praises the Queen as a paragon of female prowess. Chiding her male readers for trivializing women, Bradstreet refers to the Queen’s outstanding leadership and historical prominence. In a personal caveat underscoring her own dislike of patriarchal arrogance, Bradstreet points out that women were not always devalued:
Nay Masculines, you have thus taxt us long,
But she, though dead, will vindicate our wrong,
Let such as say our Sex is void of Reason,
Know tis a Slander now, but once was Treason.
These assertive lines mark a dramatic shift from the self-effacing stanzas of “The Prologue” to the volume in which Bradstreet attempted to diminish her stature to prevent her writing from being attacked as an indecorous female activity. In an ironic and often-quoted passage of “The Prologue,” she asks for the domestic herbs “Thyme or Parsley wreath,” instead of the traditional laurel, thereby appearing to subordinate herself to male writers and critics:
Let Greeks be Greeks, and women what they are
Men have precedency and still excell,
It is but vain unjustly to wage warre;
Men can do best, and women know it well
Preheminence in all and each is yours;
Yet grant some small acknowledgement of ours.
In contrast, her portrait of Elizabeth does not attempt to conceal her confidence in the abilities of women:
Who was so good, so just, so learned so wise,
From all the Kings on earth she won the prize.
Nor say I more then duly is her due,
Millions will testifie that this is true.
She has wip’d off th’ aspersion of her Sex,
That women wisdome lack to play the Rex
This praise for Queen Elizabeth expresses Bradstreet’s conviction that women should not be subordinated to men—certainly it was less stressful to make this statement in a historic context than it would have been to confidently proclaim the worth of her own work.
The first edition of The Tenth Muse … also contains an elegy to Sir Philip Sidney and a poem honoring du Bartas. Acknowledging her debt to these poetic mentors, she depicts herself as insignificant in contrast to their greatness. They live on the peak of Parnassus while she grovels at the bottom of the mountain. Again, her modest pose represents an effort to ward off potential attackers, but its ironic undercurrents indicate that Bradstreet was angered by the cultural bias against women writers:
Fain would I shew how he same paths did tread,
But now into such Lab’rinths I am lead,
With endless turnes, the way I find not out,
How to persist my Muse is more in doubt;
Which makes me now with Silvester confess,
But Sidney’s Muse can sing his worthiness.
Although the ostensible meaning of this passage is that Sidney’s work is too complex and intricate for her to follow, it also indicates that Bradstreet felt his labyrinthine lines to represent excessive artifice and lack of connection to life.
Anne Bradstreet-Poetessa statunitense-
The second edition of The Tenth Muse …, published in Boston in 1678 as Several Poems …, contains the author’s corrections as well as previously unpublished poems: epitaphs to her father and mother, “Contemplations,” “The Flesh and the Spirit,” the address by “The Author to her Book,” several poems about her various illnesses, love poems to her husband, and elegies of her deceased grandchildren and daughter-in-law. These poems added to the second edition were probably written after the move to Andover, where Anne Bradstreet lived with her family in a spacious three-story house until her death in 1672. Far superior to her early work, the poems in the 1678 edition demonstrate a command over subject matter and a mastery of poetic craft. These later poems are considerably more candid about her spiritual crises and her strong attachment to her family than her earlier work. For example, in a poem to her husband, “Before the Birth of one of her Children,” Bradstreet confesses that she is afraid of dying in childbirth—a realistic fear in the 17th century—and begs him to continue to love her after her death. She also implores him to take good care of their children and to protect them from a potential stepmother’s cruelty:
And when thou feel’st no grief, as I no harms,
Yet love thy dead, who long lay in thine arms:
And when thy loss shall be repaid with gains
Look to my little babes my dear remains.
And if thou love thy self, or love’st me
These O protect from step Dames injury.
Not only is this candid domestic portrait artistically superior to of “The Four Monarchies,” it gives a more accurate sense of Bradstreet’s true concerns.
Anne Bradstreet-Poetessa statunitense-
In her address to her book, Bradstreet repeats her apology for the defects of her poems, likening them to children dressed in “home-spun.” But what she identifies as weakness is actually their strength. Because they are centered in the poet’s actual experience as a Puritan and as a woman, the poems are less figurative and contain fewer analogies to well-known male poets than her earlier work. In place of self-conscious imagery is extraordinarily evocative and lyrical language. In some of these poems Bradstreet openly grieves over the loss of her loved ones—her parents, her grandchildren, her sister-in-law—and she barely conceals resentment that God has taken their innocent lives. Although she ultimately capitulates to a supreme being—He knows it is the best for thee and me”—it is the tension between her desire for earthly happiness and her effort to accept God’s will that makes these poems especially powerful.
Bradstreet’s poems to her husband are often singled out for praise by critics. Simon Bradstreet’s responsibilities as a magistrate of the colony frequently took him away from home, and he was very much missed by his wife. Modeled on Elizabethan sonnets, Bradstreet’s love poems make it clear that she was deeply attached to her husband:
If ever two were one, then surely we
If ever man were lov’d by wife, then thee;
If ever wife was happy in a man
Compare with me ye women if you can
Marriage was important to the Puritans, who felt that the procreation and proper training of children were necessary for building God’s commonwealth. However, the love between wife and husband was not supposed to distract from devotion to God. In Bradstreet’s sonnets, her erotic attraction to her husband is central, and these poems are more secular than religious:
My chilled limbs now nummed lye forlorn;
Return, return sweet Sol from Capricorn;
In this dead time, alas, what can I more
Than view those fruits which through thy heat I bore?
Anne Bradstreet-Poetessa statunitense-
Anne Bradstreet’s brother-in-law, John Woodbridge, was responsible for the publication of the first edition of The Tenth Muse…. The title page reads “By a Gentlewoman in those parts”—and Woodbridge assures readers that the volume “is the work of a Woman, honored and esteemed where she lives.” After praising the author’s piety, courtesy, and diligence, he explains that she did not shirk her domestic responsibilities in order to write poetry: “these poems are the fruit but of some few hours, curtailed from sleep and other refreshments.” Also prefacing the volume are statements of praise for Bradstreet by Nathaniel Ward, the author of The Simple Cobler of Aggawam (1647), and Reverend Benjamin Woodbridge, brother of John Woodbridge. In order to defend her from attacks from reviewers at home and abroad who might be shocked by the impropriety of a female author, these encomiums of the poet stress that she is a virtuous woman.
In 1867, John Harvard Ellis published Bradstreet’s complete works, including materials from both editions of The Tenth Muse … as well as “Religious Experiences and Occasional Pieces” and “Meditations Divine and Morall” that had been in the possession of her son Simon Bradstreet, to whom the meditations had been dedicated on March 20, 1664. Bradstreet’s accounts of her religious experience provide insight into the Puritan views of salvation and redemption. Bradstreet describes herself as having been frequently chastened by God through her illnesses and her domestic travails: “Among all my experiences of God’s gractious Dealings with me I have constantly observed this, that he has never suffered me long to sit loose from him, but by one affliction or other hath made me look home, and search what was amiss.” Puritans perceived suffering as a means of preparing the heart to receive God’s grace. Bradstreet writes that she made every effort to submit willingly to God’s afflictions which were necessary to her “straying soul which in prosperity is too much in love with the world.” These occasional pieces in the Ellis edition also include poems of gratitude to God for protecting her loved ones from illness (“Upon my Daughter Hannah Wiggin her recovering from a dangerous fever”) and for her husband’s safe return from England. However, these poems do not have the force or power of those published in the second edition of The Tenth Muse … and seem to be exercises in piety and submission rather than a complex rendering of her experience.
Anne Bradstreet-Poetessa statunitense-
The aphoristic prose paragraphs of “Meditations Divine and Morall” have remarkable vitality, primarily because they are based on her own observations and experiences. While the Bible and the Bay Psalm Book are the source of many of Bradstreet’s metaphors, they are reworked to confirm her perceptions: “The spring is a lively emblem of the resurrection, after a long winter we see the leaveless trees and dry stocks (at the approach of the sun) to resume their former vigor and beauty in a more ample manner than when they lost in the Autumn; so shall it be at that great day after a long vacation, when the Sun of righteousness shall appear, those dry bones shall arise in far more glory then that which they lost at their creation, and in this transcends the spring, that their lease shall never fail, nor their sap decline” (40)
Perhaps the most important aspect of Anne Bradstreet’s poetic evolution is her increasing confidence in the validity of her personal experience as a source and subject of poetry. Much of the work in the 1650 edition of The Tenth Muse … suffers from being imitative and strained. The forced rhymes reveal Bradstreet’s grim determination to prove that she could write in the lofty style of the established male poets. But her deeper emotions were obviously not engaged in the project. The publication of her first volume of poetry seems to have given her confidence and enabled her to express herself more freely. As she began to write of her ambivalence about the religious issues of faith, grace, and salvation, her poetry became more accomplished.
Bradstreet’s recent biographers, Elizabeth Wade White and Ann Stanford, have both observed that Bradstreet was sometimes distressed by the conflicting demands of piety and poetry and was as daring as she could be and still retain respectability in a society that exiled Anne Hutchinson. Bradstreet’s poetry reflects the tensions of a woman who wished to express her individuality in a culture that was hostile to personal autonomy and valued poetry only if it praised God. Although Bradstreet never renounced her religious belief, her poetry makes it clear that if it were not for the fact of dissolution and decay, she would not seek eternal life: “for were earthly comforts permanent, who would look for heavenly?”
In a statement of extravagant praise Cotton Mather compared Anne Bradstreet to such famous women as Hippatia, Sarocchia, the three Corinnes, and Empress Eudocia and concluded that her poems have “afforded a grateful Entertainment unto the Ingenious, and a Monument for her Memory beyond the stateliest Marbles.” Certainly, Anne Bradstreet’s poetry has continued to receive a positive response for more than three centuries, and she has earned her place as one of the most important American women poets.
Fonte Poetry Foundation
Anne Bradstreet
Anne’s Poems
A few favorites…
To my Dear and Loving Husband
If ever two were one, then surely we.
If ever man were lov’d by wife, then thee.
If ever wife was happy in a man,
Compare with me, ye women, if you can.
I prize thy love more than whole Mines of gold
Or all the riches that the East doth hold.
My love is such that Rivers cannot quench,
Nor ought but love from thee give recompence.
Thy love is such I can no way repay.
The heavens reward thee manifold, I pray.
Then while we live, in love let’s so persever
That when we live no more, we may live ever.
.
To my Dear Children
This book by any yet unread
I leave for you when I am dead
That being gone, here you may find
What was your living mother’s mind.
Make use of what I leave in love
And God shall bless you from above
.
The Author to her Book
Thou ill-form’d offspring of my feeble brain,
Who after birth did’st by my side remain,
Till snatcht from thence by friends, less wise than true,
Who thee abroad expos’d to public view,
Made thee in rags, halting to th’ press to trudge,
Where errors were not lessened (all may judge).
At thy return my blushing was not small,
My rambling brat (in print) should mother call.
I cast thee by as one unfit for light,
Thy Visage was so irksome in my sight,
Yet being mine own, at length affection would
Thy blemishes amend, if so I could.
I wash’d thy face, but more defects I saw,
And rubbing off a spot, still made a flaw.
I stretcht thy joints to make thee even feet,
Yet still thou run’st more hobbling than is meet.
In better dress to trim thee was my mind,
But nought save home-spun Cloth, i’ th’ house I find.
In this array, ‘mongst Vulgars mayst thou roam.
In Critics’ hands, beware thou dost not come,
And take thy way where yet thou art not known.
If for thy Father askt, say, thou hadst none;
And for thy Mother, she alas is poor,
Which caus’d her thus to send thee out of door.
.
Verses upon the Burning of our House, July 18th, 1666
Anne was born in Northampton, England in 1612 and set sail for the New World in 1630. Her poems were published in 1650 as The Tenth Muse Lately Sprung Up in America, which is generally considered the first book of original poetry written in colonial America.
She was the daughter of Thomas Dudley, governor of the Massachusetts Bay Colony, and in 1628 she married Simon Bradstreet, who later became governor of the colony. A housewife with eight children, she was also considered to be the first important poet in the American colonies. Her poems were published in 1650 as The Tenth Muse Lately Sprung Up in America, which is generally considered the first book of original poetry written in colonial America. Through it she asserted the right of women to learning and expression of thought. Although some of Bradstreet’s verse is conventional, much of it is direct and shows sensitivity to beauty.
Bradstreet’s most deeply felt poetry concerns the arduous life of the early settlers, and her work provides an excellent view of the difficulties she and her fellow colonists encountered. She wrote several poems in response to the early deaths of her grandchildren, and her “Contemplations” (1678) explores her place in the natural world. Bradstreet also used her poetry to examine her religious struggles; she was unable to embrace Calvinism completely. “The Flesh and the Spirit” (1678) describes the conflict she felt between living a pleasant life and living a Christian life, and “Meditations Divine and Moral” (written 1664; published 1867) recounts to her children her doubts about Puritanism. Although Bradstreet addressed broad and universal themes, she is remembered best for her body of evocative poems that provide intimate glimpses into the home life of inhabitants of colonial New England.
ANNE BRADSTREET: la Poetessa del Mayflower tra Finito ed Infinito- Testi raccolti da Giulia Sonnante
Anne Bradstreet
Anne Bradstreet nacque a Northampton, in Inghilterra.(1612 – 13 -1672) Era la figlia di Thomas Dudley e Dorothy Yorke. Suo padre era l’amministratore del Conte di Lincoln. Il buono stato della sua famiglia l’ha aiutata ad avere una buona educazione e educazione. Durante i suoi anni di crescita, ad Anne fu insegnata storia, diverse lingue e letteratura. Era sposata con Simon Bradstreet all’età di sedici anni. Nel 1630, a bordo della nave Arbella che faceva parte della flotta Winthrop degli emigranti puritani, Anne, Simon e i suoi genitori immigrarono in America. Raggiunsero l’America il 14 giugno 1630 in quello che oggi è il Pioneer Village (Salem, Massachusetts).
Il conflitto tra l’effimero e l’eterno, la meditata celebrazione della gloria divina e il tentativo di percepire l’invisibile attraverso il visibile; ma anche l’affermazione della dignità femminile nella storia, l’amore per i figli e quello per il marito di cui si dichiara, velato dalle metafore, il desiderio fisico…
È questa la materia che nutre i versi di ANNE BRADSTREET, pima poetessa e capostipite della letteratura creativa dell’America coloniale, che alla scrittura affida il compito di riscattarla dalle costrizioni dell’esilio, di sottrarla alla perdita della memoria d’una cultura rinascimentale in cui si affaccia la sensibilità barocca.
Anne Bradstreet-Poetessa statunitense-
Lettera al marito assente per un impegno pubblico
Mente mia, cuor mio, miei occhi, vita mia, anzi di più,
mia gioia, mia riserva di beni terreni,
se due sono uno, come di certo siamo noi,
come puoi indugiare lì mentr’io languisco a Ipswich?
Quanti gradini separano il capo dal cuore,
se non avessimo un collo presto saremmo insieme.
Come la terra in questa stagione, nel lutto mi oscuro,
così lontano il mio sole si è spento nello zodiaco,
mentre quando di lui gioivo, né tempeste né gelo sentivo,
il suo calore scioglieva quel freddo glaciale.
Le mie gelide membra ora intorpidite giacciono inermi;
torna, torna dal Capricorno dolce sole;
in questi tempi morti, ahimé cos’altro mi resta
se non contemplare quei frutti che generali col tuo calore?
Per qualche tempo mi danno un dolce appagamento,
reali immagini viventi del volto paterno.
Oh singolare conseguenza! Ora che sei andato verso sud,
stancamente prolungo la noia del giorno,
ma quando tornerai da me al nord,
voglio che il mio sole non tramonti mai, ma dardeggi
nel Cancro del mio seno ardente,
accogliente dimora di colui che è per me l’ospite più caro.
Lì sempre, sempre rimani e mai non te ne andare,
finché la triste legge della natura da lì ti chiamerà;
carne della tua carne, ossa delle tue ossa,
io qui, tu lì, eppure entrambi una sola persona.
A.B.
***
A Letter to her Husband, absent upon Publick employment
My head, my heart, my Eyes, my life, nay more,
My joy, my Magazine of earthly store,
If two be one, as surely thou and I,
How stayest thou there, whilst I at Ipswich lye?
So many steps, head from the heart sever:
If but a neck, soon should we be together:
I like the earth this season, mourn in black,
My Sun is gone so far in’s Zodiack,
Whom whilst I joy’d, nor storms, nor frosts I felt,
His warmth such frigid colds did come to melt.
My chilled limbs now nummed lye forlorn;
Return, return, sweet Sol from Capricorn;
In this dead time, alas, what can I more
Then view those fruits which through thy heart I bore?
Which sweet contentment yield me for a space,
True living Pictures of their fathers face.
O strange effect! Now thou art Southward gone,
I weary grow, the tedious day so long;
But when thou Northward to me shalt return,
I wish my Sun may never set, but burn
Within the Cancer of my glowing breast,
The welcome house of him my dearest guest.
Where ever, ever stay and go not thence,
Till natures sad decree shall call thee hence;
Flesh of thy flesh, bone of thy bone,
I here, thou there, yet both but one.
[1641-43]
La lirica sopra riportata non è che un lungo lamento per l’assenza del marito, lontano per un impegno pubblico. Qui la poetessa che esprime il desiderio fisico, velato dalla metafora, propone il tema dell’unità di mondi distanti; il capo, a cui fa riferimento nei primi versi, richiama alla razionalità che è prerogativa maschile; il cuore, e per estensione il sentimento, appartiene invece al femminile. Il capo e il cuore, parti di un unico corpo, sono dunque separati dal collo che unisce e separa ad un tempo. Il collo è anche immagine fallica che unisce l’uomo alla donna. C’è inoltre il riferimento agli “steps” che richiamano l’immagine del patibolo in cui la testa viene separata dal resto del corpo. Si tratta dunque di una lirica che potremmo definire anche erotica in cui i riferimenti al Nord (Northward) richiamano l’attività sessuale; il sud, invece, indica inattività.
Anne Bradstreet-Poetessa statunitense-
Sull’incendio della nostra casa
Mentre riposavo nella notta silente
non mi aspettavo l’irrompere d’un dolore,
fui destata dall’eco di un frastuono
e dalle grida pietose d’una voce agghiacciante.
Quel terribile suono, al fuoco, al fuoco,
vorrei che mai nessuno udisse.
Balzando in piedi spiai il bagliore,
e al mio Dio il cuore grido
di darmi forza nel dolore,
di non lasciarmi priva di soccorso.
Poi uscendo osservai un momento
la fiamma consumare il mio ritrovo.
E quando più non potei sopportare la vista
benedissi il nome di colui a cui spetta dare e sottrarre,
che disperdeva ora i miei beni tra la polvere.
Sì, così era e così era giusto.
Ogni cosa era sua e non mia,
non sia mai detto che me ne lamenti.
Avrebbe potuto a buon diritto privarci di tutto,
eppure ci lasciava quanto basta.
Quando spesso passavo accanto alle macerie
volgevo altrove il mio sguardo dolente
e qua e là spiavo i luoghi
ove spesso sedevo e a lungo restavo.
Qui c’era quel baule e lì la cassapanca,
là s’appoggiava la credenza che ritenevo la migliore,
le mie cose più belle son ridotte in cenere
e mai più potrò vederle.
Sotto il tuo tetto non siederà alcun ospite,
né alla tua tavola consumerà un boccone.
***
Upon the burning of our house
In silent night when rest I took,
For sorrow neer I did not look,
I waken’d was with thundering nois
And Piteous shrieks of dreadful voice.
That fearful sound of fire and fire,
Let no man know is my Desire.
I, starting up, the light did spye,
And to my God my heart did cry
To strengthen me in my Distresse
And not to leave me succourlesse.
Then coming out beheld a space,
The flame consume my dwelling place.
And when I could no longer look,
I blest his Name that gave and took.
That layd my goods now in the dust:
Yea so it was, and so ‘twas just.
It was his own: it was not mine;
Far be it, that I should repine.
He might of All justly bereft,
But yet sufficient for us left.
When by the Ruines Oft I past,
My sorrowing eyes aside did cast,
And here and there the places spye
Where oft I sate, and long did lye.
Here stood the Trunk, and there that chest;
There lay that store I counted best:
My pleasant things in ashes lye,
And them behold no more shall I.
Under thy roof no guest shall sitt,
Nor at thy Table eat a bitt.
Upon the burning of our house è tra gli “occasional poems” cioè quelle composizioni scaturite da un evento contingente, in questo caso l’incendio di cui è oggetto la sua dimora. Questo rovinoso evento diviene occasione per riflettere sulla vita terrena e sulla presenza di Dio.
La Bradstreet non mostra una fede cieca ma appare spesso rivolta alla materialità delle cose terrene. Tuttavia, in questa lirica ella recupera il valore della consolazione che Dio dona all’Uomo attraverso la Speranza.
I testi in lingua originale e le traduzioni sono tratti da: MICHELE BOTTALICO, TRA CIELO E TERRA – La poesia di Anne Bradstreet , Pubblicato da Palomar di Alternative, Bari, 1996.-
Poesie sul sagrato di David Maria Turoldo- Interlinea Edizioni-
Descrizione-Nella voce di David Maria Turoldo, tra le più vicine al dramma spirituale dell’uomo contemporaneo, troviamo le parole capaci di esprimere la condizione esistenziale di un mondo, il nostro, tra angoscia e speranza.
“Non avanza di me che una macchia pallida / un involucro d’alga alla deriva, mentre / la facciata è una sindone immensa di occhi / che mi denudano allo stupore di tutti. / Sola ci cammina sopra la luna con vesti regali verso l’alta notte”. Con tre note di Luciano Erba, Giannino Piana e Roberto Cicala; incisioni di Mauro Maulini.
David Maria Turoldo
Un brano del libro
Padre Turoldo dà così voce alla nostra ansia che non sappiamo sciogliere; nell’angoscia che, nelle sue parole, fa disperare ma allo stesso tempo offre occasioni per sperare. E un caso di speranza, favorito dalla memoria, è il giorno festivo come momento i cui l’uomo ritrova l’immagine più profonda di se stesso riflessa in una presenza interiore sacra, come insegna il pastore, «quando il sagrato continua il racconto / delle biade delle mucche del tempo / immutabile», nella penultima poesia di questa plaquette, scritta nel 1947 davanti all’«immobile» lago Maggiore.
«Ma quando facevo il pastore…», riprende il poeta nell’ultima composizione, «i tronchi degli alberi parevano / creature piene di ferite… / Io portavo le pecore fino al sagrato/ e sapevo d’essere uomo vero / del tuo regale presepio». In questi versi il sagrato è il luogo dove l’uomo nfa un incontro importante ed è provocato – dal mistero, dal sacro, dai simboli della natura e dell’arte – a interrogarsi, per rivivere una fede genuina (come quella di un pastore evangelico), per prendere coscienza di un impegno sociale al «margine della strada» dove vive chi «non sa sperare», oppure per scoprire davanti al tempio che drammaticamente «la facciata è una sindone immensa di occhi / che mi denudano allo stupore di tutti». Anche se crediamo di non decifrare più l’alfabeto delle cose e degli uomini e di non trovare un senso per tutto, alla fine ecco (ancora Nel segno di Giona) un segnale della Sua presenza: «Sola ci cammina sopra la luna / con vesti regali verso l’alta notte».
Nella nostra notte le parole di David Maria Turoldo sprigionano una luce di speranza, pur raggrumata nel sangue della sofferenza e della crisi: sono parole cvissute e scomode che si fanno profezia. (dalla nota di Roberto Cicala)
David Maria Turoldo– Poesie sul sagrato – Mauro Maulini
Interlinea Edizioni ha sede a Novara
via Mattei 21 28100 Novara, NO, Italia
L’interlinea lo spazio bianco tra due righe scritte o stampate, apparentemente inutile ma in verità necessario alla lettura. Infatti le parole si confonderebbero sulla pagina senza questa distanza, il cui bianco fa risaltare il nero del testo illuminando così il significato di un romanzo, di uno studio, di una poesia.
All’inizio degli anni Novanta due giovani novaresi hanno creduto giusto cercare un senso e uno spazio nell’interlinea lasciata bianca dai titoli di tanti e grandi cataloghi librari, riscoprendo autori italiani dell’800 e ‘900, anche con inediti (da Rebora a Montale, fino a Soldati e Vassalli), aprendo la prima collana letteraria italiana legata al Natale “Nativitas“ (nonsolo con Dickens ritradotto ma con Soldati, Consolo, Rigoni Stern, Testori, Wojtyla… e un premio letterario), offrendo uno spazio diverso alla critica letteraria (partendo però dai maestri: Dionisotti, Maria Corti, Mengaldo),e pubblicando la rivista “Autografo” del Fondo Manoscritti di Pavia, credendo nella poesia, con la collana “Lyra” e la serie “Lyra giovani” diretta da Franco Buffoni, e facendo dialogare letteratura e spiritualità con autori da Hesse a Turoldo, da Anna Maria Cànopi a Testori, senza facili buonismi ma scegliendo la crisi dell’uomo come tema della collana “Passio“, offrendo anche servizi editoriali di qualità (dagli atti di convegni ai repertori bibliografici fino ai cataloghi d’arte). Negli ultimi anni si sono avviate le edizioni nazionali delle opere di due classici come Matteo Maria Boiardo e Giovanni Verga.
Se la letteratura è una riscoperta di parole vecchie e nuove nel 1992 da Novara è salpato il piccolo vascello di carta che non chiede altro se non di avere lettori che sappiano leggere la verità di quelle parole vecchie e nuove nell’interlinea dell’editoria e della cultura italiana.
Si è spenta Gioia Mori, storica dell’arte, curatrice e docente all’Accademia di Belle Arti di Roma-
Gioia Mori-storica dell’arte, curatrice di mostre e docente di storia dell’arte contemporanea all’Accademia di Belle Arti di Roma
Si è spenta a Roma, storica dell’arte, curatrice di mostre e docente di storia dell’arte contemporanea all’Accademia di Belle Arti di Roma. Studiosa appassionata e riconosciuta nel panorama culturale italiano e internazionale, Mori ha saputo coniugare la passione per la storia dell’arte con una straordinaria capacità di analisi interdisciplinare, intrecciando le arti visive con la moda, il costume e la società.
Profonda conoscitrice di epoche e movimenti artistici, Gioia Mori lascia un’eredità preziosa fatta di studi e mostre: la sua carriera è stata segnata da importanti studi e pubblicazioni su Vittore Carpaccio, Carlo Crivelli, Sofonisba Anguissola, Giorgio de Chirico, Edgar Degas, Marc Chagall, Corrado Cagli, Renato Guttuso, Fabrizio Clerici, Frida Kahlo, Maryla Lednicka-Szczytt, Helen Dryden, e Luisa Casati e Tamara de Lempicka, di cui era considerata la maggiore esperta mondiale.
Negli ultimi anni aveva lavorato sull’Art Deco in Italia (Musei di San Domenico, Forlì), sull’immagine della donna moderna negli anni Venti (Schall und Rauch. Die wilden 20er, Kunsthaus di Zurigo e Guggenheim di Bilbao), sulle artiste emigrate dalla Russia (Divine avanguardie a Palazzo Reale, Milano, 2020), sulle artiste del Rinascimento e del Barocco (Le Signore dell’Arte. Storie di donne tra ‘500 e ‘600 a Palazzo Reale, Milano, 2021), sul rapporto tra Umberto Boccioni e la Marchesa Luisa Casati (Giovanni Boldini. Il piacere al MART, Rovereto, 2020) e sugli anni genovesi di Sofonisba Anguissola (Rubens a Genova a Palazzo Ducale, Genova, 2022).
Dal 1996 al 2007 ha diretto Art e Dossier per Giunti Editore. Nel corso della sua carriera editoriale, ha rivestito anche il ruolo di capo redattrice del sito Artonline e direttrice scientifica della serie multimediale CdRom Arte.
Il legame con Tamara de Lempicka ha segnato profondamente la sua vita professionale: il primo libro che ha dedicato all’artista polacca nel 1994 ha aperto la strada a numerose mostre internazionali: a Palazzo Reale a Milano (2006), al Complesso del Vittoriano a Roma (2011) e poi a Parigi (2013), Torino e Verona (2015), a Madrid (2018). Fino all’ultimo, Mori ha lavorato alla grande mostra, la prima mai dedicata all’artista da un museo americano, al De Young Museum di San Francisco, che in primavera sarà ospitata al Museum of Fine Arts di Houston.
Dylan Thomas-Visione e preghiera-e altre poesie scelte .
Testo originale a fronte a cura di Tommaso Di Dio-Editore- Giometti & Antonello-Macerata
Descrizione -La poesia di Dylan Thomas, a distanza di settant’anni dalla morte, non smette di ossessionare poeti, lettori e appassionati di tutto il mondo. La potenza visionaria della sua scrittura, che sembra imbrigliare – in una lingua fra le più virtuosistiche e musicali che l’inglese abbia mai conosciuto – le forze telluriche della natura e quelle psichiche, i movimenti dello zodiaco e i desideri più intimi del corpo, torna ora in una nuova traduzione in lingua italiana, con una selezione di testi disposti in ordine cronologico, così da permettere al lettore di seguire il cammino evolutivo dello stile di Thomas, in una sorta di diario che si svolge poesia dopo poesia. Il volume presenta il percorso dell’autore fin dai testi della giovinezza, scritti poco dopo i vent’anni sui suoi preziosissimi taccuini, passando attraverso i primi capolavori come And death shall have no dominion e le poesie che testimoniano la tragedia dei bombardamenti su Londra (come Ceremony after a fire raid o il celebre poemetto visivo di dolore e rinascita Vision and prayer), per approdare ai capolavori sinfonici e pastorali della maturità, come Fern Hill e Author’s prologue. Ogni poesia di Thomas è abitata dal desiderio inesausto di una vita più intensa, in cui morte e vita, tenebra e luce si stringono in un circuito senza fine: «La mia arca canta nel sole/ alla velocità di Dio alla fine di un’estate/ E il diluvio, ora, fiorisce».
Quarta
Una volta era il colore del dire il più brutto lato della collina inzuppava il mio tavolo con un campo rovesciato dove immobile stava una scuola e un bianco e nero rattoppo di ragazze cresceva giocando.Io devo disfare l’amabile scivolo marino del dire affinché tutti gli annegati per incanto risorgano per far cantare il gallo e uccidere. Quando marinando la scuola fischiettavo con i ragazzi nel parco dove di notte lapidavamo i freddi e gli stupidi amanti nello sporco dei loro letti di foglie, l’ombra dei loro alberi era una parola di molte ombre e per il povero, nel buio, era una lampada di fulmini. Adesso il mio dire sarà il mio disfacimento e ogni pietra sarà srotolata come un mulinello.
Poesie Inedite di Adriano Cataldo pubblicate dalla Rivista Atelier-
Adriano Cataldo, cilentano, è nato nel 1985 in un paese che non esiste più: la Germania Ovest. Dal 2008 è attivo nella Grande Distribuzione di parole, attraverso pubblicazioni di testi su blog, riviste e collettanee di poesia contemporanea, tra cui Soglie di Transito (Digressioni 2019). Ha inoltre pubblicato due raccolte di poesie (Liste Bloccate, 2018; Famiglia nucleare, 2021) e due plaquette autoprodotte (Amore, morte e altre cose compostabili, 2019; Come poter dire alla fine, 2020).
Arredava la mota stradale
l’asporto sirenato di pacciame.
Lindore titillato alla lontana
per contrasto, dai reflui di discarica.
Il tanfo e la grandeur, motivo per parlarne.
Scattavano foto alle brande cartonate per guardarli comunque hanno tutti il cellulare[i].
Soltanto i cani da festare, erano i più puliti.
*
Nell’angolo decubita annodato
un assorbente in nembi ematici.
Riversa tra i cartoni dei corrieri
e i take away, la nuca pallida[ii]
cullata dal vibrame del cassone.
Il gigante ha progredito
da quando dalla stanza
pachidermava inerte.
Tra i passi svelti dei passanti
sgusciano dei ratti.
*
Tra i cormorani squamati, stagnante
difformità marina, il petrolio era
il solco nero arso delle stagnole
sul PVC lercio nel box degli autoscatti.
Fumo e sudore feticci di tenda
sputi di gomma a piombare la lente.
Le giuste distanze, norme di legge.
[i] È un meccanismo di difesa e rappresentazione comune il riportare le dinamiche sociali alla propria esperienza, con il notevole risultato di avere da un lato semplificato la dinamica e dall’altro aver complessificato la propria visione.
[ii] “Empoli, 28 marzo 2022 – Scoperta choc, questa mattina 28 marzo, in una azienda cartiera di Empoli. All’interno di un container è stato trovato il cadavere di un giovane straniero. Lo ha scoperto verso le 10.30 un addetto con mansioni di smistamento della carta della raccolta differenziata attraverso una gru. Il cadavere è di un ventenne somalo.” (La Nazione, online).
Biografia di Adriano Cataldo, cilentano, è nato nel 1985 in un paese che non esiste più: la Germania Ovest. Dal 2008 è attivo nella Grande Distribuzione di parole, attraverso pubblicazioni di testi su blog, riviste e collettanee di poesia contemporanea, tra cui Soglie di Transito (Digressioni 2019). Ha inoltre pubblicato due raccolte di poesie (Liste Bloccate, 2018; Famiglia nucleare, 2021) e due plaquette autoprodotte (Amore, morte e altre cose compostabili, 2019; Come poter dire alla fine, 2020). È coautore, assieme a Mauro Milanaccio, di Divani (2022) ed è presente come autore in La Trento che vorrei (2019) e Le parole e il consenso (2021). Ha creato il movimento Breveintonso, di cui ha curato una pubblicazione autoprodotta Poesie il cui titolo è più lungo della poesia stessa (2017). Si occupa di progetti di poesia e musica, tra cui Electro Montale e Subalterna. Dal 2015 organizza reading ed eventi di poesia in Trentino e Campania, come presidente dell’associazione Trento Poetry Slam e membro del CdA dell’Università popolare del Cilento. È tra gli ideatori di Poè Trento, il Festival delle Parole ed è membro della redazione del litblog Poesia del nostro tempo. Ha curato i podcast “Il pubblico della poesia”, “Le domande della poesia” e “Lungo l’Adige, la poesia trentina in podcast”. Vive a Trento.
Biblioteca DEA SABINA
-La rivista «Atelier»-
http://www.atelierpoesia.it
La rivista «Atelier» ha periodicità trimestrale (marzo, giugno, settembre, dicembre) e si occupa di letteratura contemporanea. Ha due redazioni: una che lavora per la rivista cartacea trimestrale e una che cura il sito Online e i suoi contenuti. Il nome (in origine “laboratorio dove si lavora il legno”) allude a un luogo di confronto e impegno operativo, aperto alla realtà. Si è distinta in questi anni, conquistandosi un posto preminente fra i periodici militanti, per il rigore critico e l’accurato scandaglio delle voci contemporanee. In particolare, si è resa levatrice di una generazione di poeti (si veda, per esempio, la pubblicazione dell’antologia L’Opera comune, la prima antologia dedicata ai poeti nati negli anni Settanta, cui hanno fatto seguito molte pubblicazioni analoghe). Si ricordano anche diversi numeri monografici: un Omaggio alla poesia contemporanea con i poeti italiani delle ultime generazioni (n. 10), gli atti di un convegno che ha radunato “la generazione dei nati negli anni Settanta” (La responsabilità della poesia, n. 24), un omaggio alla poesia europea con testi di poeti giovani e interventi di autori già affermati (Giovane poesia europea, n. 30), un’antologia di racconti di scrittori italiani emergenti (Racconti italiani, n. 38), un numero dedicato al tema “Poesia e conoscenza” (Che ne sanno i poeti?, n. 50).
Direttore responsabile: Giuliano Ladolfi Coordinatore delle redazioni: Luca Ariano
Redazione Online Direttori: Eleonora Rimolo, Giovanni Ibello Caporedattore: Carlo Ragliani Redazione: Mario Famularo, Michele Bordoni, Gerardo Masuccio, Paola Mancinelli, Matteo Pupillo, Antonio Fiori, Giulio Maffii, Giovanna Rosadini, Carlo Ragliani, Daniele Costantini, Francesca Coppola.
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direzioneatelierpoesiaonline@gmail.com
Per tutte le comunicazioni e proposte per Atelier Online, sia di pubblicazione di inediti che di recensioni vi preghiamo di scrivere al seguente indirizzo mail di direzione: eleonorarimolo@gmail.com
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