Antonia Pozzi –Poesia “Indugiano” da Brughiera del 1937
Biografia tratta da Antonia Pozzi. Nelle immagini l’anima: antologia fotografica, a cura di Ludovica Pellegatta e Onorina Dino, Ancora, Milano 2007
Indugiano
carezze non date
fra le dita dei peschi
e gli sguardi
d’amore che mai non avemmo
s’appendono alle glicini sui ponti –
Ma il fiume
è densa furia d’acque senza creste, nel grembo
porta profondi visi di montagne:
e all’immenso
svolto dei boschi trova lieve il vento,
tocca le fresche nuvole
d’aprile.
(da Brughiera – Antonia Pozzi – 28 aprile 1937)
Per troppa vita che ho nel sangue
tremo nel vasto inverno.
(Antonia Pozzi)-Foto: Antonia, Casorate 1937
Biografia di ANTONIA POZZI (Milano 1912-1938)-Quando Antonia Pozzi nasce è martedì 13 febbraio 1912: bionda, minuta, delicatissima, tanto da rischiare di non farcela a durare sulla scena del mondo; ma la vita ha le sue rivincite e … … Antonia cresce: è una bella bambina, come la ritraggono molte fotografie, dalle quali sembra trasudare tutto l’amore e la gioia dei genitori, l’avvocato Roberto Pozzi, originario di Laveno, e la contessa Lina, figlia del conte Antonio Cavagna Sangiuliani di Gualdana e di Maria Gramignola, proprietari di una vasta tenuta terriera, detta La Zelata, a, Bereguardo. Il 3 marzo la piccola viene battezzata in San Babila ed eredita il nome del nonno, primo di una serie di nomi parentali (Rosa, Elisa, Maria,Giovanna, Emma), che indicherà per sempre la sua identità. Antonia cresce, dunque, in un ambiente colto e raffinato: il padre avvocato, già noto a Milano; la madre, educata nel Collegio Bianconi di Monza, conosce bene il francese e l’inglese e legge molto, soprattutto autori stranieri, suona il pianoforte e ama la musica classica, frequenta la Scala, dove poi la seguirà anche Antonia; ha mani particolarmente abili al disegno e al ricamo. Il nonno Antonio è persona coltissima, storico noto e apprezzato del Pavese, amante dell’arte, versato nel disegno e nell’acquerello. La nonna, Maria, vivacissima e sensibilissima, figlia di Elisa Grossi, a sua volta figlia del più famoso Tommaso, che Antonia chiamerà “Nena” e con la quale avrà fin da bambina un rapporto di tenerissimo affetto e di profonda intesa. Bisogna, poi, aggiungere la zia Ida, sorella del padre, maestra, che sarà la compagna di Antonia in molti suoi viaggi; le tre zie materne, presso le quali Antonia trascorrerà brevi periodi di vacanza tra l’infanzia e la prima adolescenza; la nonna paterna, Rosa, anch’essa maestra, che muore però quando Antonia è ancora bambina. Nel 1917 inizia per Antonia l’esperienza scolastica: l’assenza, tra i documenti, della pagella della prima elementare, fa supporre che la bimba frequenti come uditrice, non avendo ancora compiuto i sei anni, la scuola delle Suore Marcelline, di Piazzale Tommaseo, o venga preparata privatamente per essere poi ammessa alla seconda classe nella stessa scuola, come attesta la pagella; dalla terza elementare, invece, fino alla quinta frequenta una scuola statale di Via Ruffini. Si trova, così, nel 1922, non ancora undicenne, ad affrontare il ginnasio, presso il Liceo-ginnasio “Manzoni”, da dove, nel 1930, esce diplomata per avventurarsi negli studi universitari, alla Statale di Milano.
Gli anni del liceo segnano per sempre la vita di Antonia: in questi anni stringe intense e profonde relazioni amicali con Lucia Bozzied Elvira Gandini, le sorelle elettive, già in terza liceo quando lei si affaccia alla prima; incomincia a dedicarsi con assiduità alla poesia, ma, soprattutto, fa l’esperienza esaltante e al tempo stesso dolorosa dell’amore. È il 1927: Antonia frequenta la prima liceo ed è subito affascinata dal professore di greco e latino, Antonio Maria Cervi; non dal suo aspetto fisico, ché nulla ha di appariscente, ma dalla cultura eccezionale, dalla passione con cui insegna, dalla moralità che traspare dalle sue parole e dai suoi atti, dalla dedizione con cui segue i suoi allievi, per i quali non risparmia tempo ed ai quali elargisce libri perché possano ampliare e approfondire la loro cultura. La giovanissima allieva non fatica a scoprire dietro l’ardore e la serietà, nonché la severità del docente, molte affinità: l’amore per il sapere, per l’arte, per la cultura, per la poesia, per il bello, per il bene, è il suo stesso ideale; inoltre il professore, ha qualcosa negli occhi che parla di dolore profondo, anche se cerca di nasconderlo, e Antonia ha un animo troppo sensibile per non coglierlo: il fascino diventa ben presto amore e sarà un amore tanto intenso quanto tragico, perché ostacolato con tutti i mezzi dal padre e che vedrà la rinuncia alla “vita sognata” nel 1933, “non secondo il cuore, ma secondo il bene”, scriverà Antonia, riferendosi ad essa. In realtà questo amore resterà incancellabile dalla sua anima anche quando, forse per colmare il terribile vuoto, si illuderà di altri amori, di altri progetti , nella sua breve e tormentata vita.
Nel 1930 Antonia entra all’Università nella facoltà di lettere e filosofia; vi trova maestri illustri e nuove grandi amicizie: Vittorio Sereni, Remo Cantoni, Dino Formaggio, per citarne alcune; frequentando il Corso di Estetica, tenuto da Antonio Banfi, decide di laurearsi con lui e prepara la tesi sulla formazione letteraria di Flaubert, laureandosi con lode il 19 novembre 1935. In tutti questi anni di liceo e di università Antonia sembra condurre una vita normalissima, almeno per una giovane come lei, di rango alto-borghese, colta, piena di curiosità intelligente, desta ad ogni emozione che il bello o il tragico o l’umile suscitano nel suo spirito: l’amore per la montagna, coltivato fin dal 1918, quando ha incominciato a trascorrere le vacanze a Pasturo, paesino ai piedi della Grigna, la conduce spesso sulle rocce alpine, dove si avventura in molte passeggiate e anche in qualche scalata, vivendo esperienze intensissime, che si traducono in poesia o in pagine di prosa che mettono i brividi, per lo splendore della narrazione e delle immagini; nel 1931 è in Inghilterra, ufficialmente per apprendere bene l’inglese, mentre, vi è stata quasi costretta dal padre, che intendeva così allontanarla da Cervi; nel 1934 compie una crociera, visitando la Sicilia, la Grecia, l’Africa mediterranea e scoprendo, così, da vicino, quel mondo di civiltà tanto amato e studiato dal suo professore e il mondo ancora non condizionato dalla civiltà europea, dove la primitività fa rima, per lei, con umanità; fra il 1935 e il 1937 è in Austria e in Germania, per approfondire la conoscenza della lingua e della letteratura tedesca, che ha imparato ad amare all’Università, seguendo le lezioni di Vincenzo Errante, lingua che tanto l’affascina e che la porta a tradurre in italiano alcuni capitoli di “Lampioon”, di M. Hausmann. Intanto è divenuta “maestra” in fotografia: non tanto per un desiderio di apprenderne la tecnica, aridamente, quanto perché le cose, le persone, la natura hanno un loro sentimento nascosto che l’obiettivo deve cercare di cogliere, per dar loro quell’eternità che la realtà effimera del tempo non lascia neppure intravedere. Si vanno così componendo i suoi album, vere pagine di poesia in immagini. Questa normalità, si diceva, è, però, solamente parvenza. In realtà Antonia Pozzi vive dentro di sé un incessante dramma esistenziale, che nessuna attività riesce a placare: né l’insegnamento presso l’Istituto Tecnico Schiaparelli, iniziato nel ‘37 e ripreso nel ’38; né l’impegno sociale a favore dei poveri, in compagnia dell’amica Lucia; né il progetto di un romanzo sulla storia della Lombardia a partire dalla seconda metà dell’Ottocento; né la poesia, che rimane, con la fotografia, il luogo più vero della sua vocazione artistica. La mancanza di una fede, rispetto alla quale Antonia, pur avendo uno spirito profondamente religioso, rimase sempre sulla soglia, contribuisce all’epilogo: è il 3 dicembre del 1938.
Lo sguardo di Antonia Pozzi, che si era allargato quasi all’infinito, per cogliere l’essenza del mondo e della vita, si spegne per sempre mentre cala la notte con le sue ombre viola.
Onorina Dino
Biografia tratta da Antonia Pozzi. Nelle immagini l’anima: antologia fotografica, a cura di Ludovica Pellegatta e Onorina Dino, Ancora, Milano 2007
Torino- 1928-1° mostra “Gruppo Piemontese per la fotografia artistica”-
Articolo di Comirias De Albroit-Rivista Il Corriere Fotografico-Torino
Torino- gennaio 1928- La Mostra del “Gruppo Piemontese per la fotografia artistica”ha rivelato , come lo sanno le migliaia di visitatori succedutesi in quel troppo breve spazio di tempo, non diciamo una nuova tendenza ad una nuova scuola , ma la collettività di un senso d’arte e d’interpretazione della natura, che finora si ammirava sparsa e disgiunta nelle opere di pochi fra le fitte schiere di fotografi dilettanti e professionisti.
Colla prima Mostra del “Gruppo Piemontese per la fotografia artistica” si inizia una seconda tappa , che segnerà, non v’ha dubbio, il meriggio dell’arte nostra.
Iniziamo in questo fascicolo , con sobrietà di commento, la riproduzione di un buon numero fra le opere esposte, per quanti non ebbero modo di ammirare la mostra e per il modello a coloro che della mostra si persuasero a calcare le nuove vie. Veggasi adunque in “Lo STAGNO” di Carlo Baravalle ed in “LA SCIA” di Cesare Giulio quanto possa il senso delle cose artisticamente date anche colla maggiore semplicità di mezzi. Nell’uno e nell’altro l’omogeneità dello sfondo riempie l’intero quadro; questo rotto obliquamente dalla sottile scia degli sky, quelle di pochi ciuffi di alghe. Ma l’occhio spazia oltre i margini delle vedute e la mente si raccoglie e pensa e gode nel suo intimo pensiero.
Alla Mostra sociale erano ammesse le Mostre personali di tre grandi fotografi stranieri:Marcus Adams di Londra, Leonard Misonne di Glly nel Belgio, Josè Ortiz-Echague di Madrid. Diamo dell’Adams, l’aristocratico fotografo ritrattista, uno <Studio> e l’<Abito di gala> cose soavemente pensate e squisitamente rese; del Misonne, che conosce i piani lontani e l’atmosfera del paesaggio e le carezze di luce , un< All’ombra> e un <Mattino d’autunno>; dell’Ortiz infine, il forte fotografo tutto impregnato della pittura spagnola da Goya a Zoloaga <El viejo arrabelero> e< En el atrio de Anso>: lo zampognaro dal volto rude e incartapecorito e le quattro donne in attesa nell’atrio del tempio. Ma i visitatori della Mostra non dimenticheranno mai l’effetto d’assieme di quelle tre pareti che accoglievano ciascuna i venti originali dei tre fotografi d’oltr’alpe. Comirias De Albroit
Nota biografica di Lara Pagani è nata nel 1986 a Lugo (Ravenna), dove vive e lavora. È laureata in lingue e letterature straniere. Suoi inediti sono apparsi su alcune riviste online, tra cui Poetarum Silva, Larosainpiu e Limina Mundi.
Non basta andare a capo a questo verso:
giù deve sprofondare, a capofitto
gettarsi dove risiede il tuo palpito
segreto, quello che pensiamo perso.
*
Anno scorso, dicono, una donna
si è spacciata per me. Mi somigliava
parecchio: aveva quel modo vagante
tutto mio di deludere, rideva
tremenda ai vetri come faccio anch’io
talvolta con la mia povera voce.
Quest’ingannatrice voglio trovarla
e baciarla sulla bocca: quanto amore
mi ha risparmiato, quanto male.
*
A lungo abbiamo discorso del dopo.
Tu non chiedevi, dandomi le spalle
forti mi interrogavi come un oracolo.
Non esiste miracolo, dicevo, solo
per noi la giustizia dell’incontro.
E così esiste, pensavo, il congedo
dei congedi. Esiste la mano che porta
lontano il suono amato del tuo volto.
*
Dammi la sconsiderata fiducia
di mio padre nel futuro, del futuro
dammi il sacro terrore di mia madre.
Stringimi forte a non finire
più schiacciata dal passo del tempo —
appuntami al petto la lettera scarlatta
dei sopravvissuti. Scatta, dissolvimi
col cuore nel bicchiere dei minuti.
*
Questo amo di te: il tuo vuoto
di parole, il lapsus che ti racconta
da un romanzo, la carezza invisibile
a occhio nudo, la nuda mezza mela
rimasta sul letto per errore.
Nota biografica di Lara Pagani è nata nel 1986 a Lugo (Ravenna), dove vive e lavora. È laureata in lingue e letterature straniere. Suoi inediti sono apparsi su alcune riviste online, tra cui Poetarum Silva, Larosainpiu e Limina Mundi.
Rivista «Atelier»
La rivista «Atelier» ha periodicità trimestrale (marzo, giugno, settembre, dicembre) e si occupa di letteratura contemporanea. Ha due redazioni: una che lavora per la rivista cartacea trimestrale e una che cura il sito Online e i suoi contenuti. Il nome (in origine “laboratorio dove si lavora il legno”) allude a un luogo di confronto e impegno operativo, aperto alla realtà. Si è distinta in questi anni, conquistandosi un posto preminente fra i periodici militanti, per il rigore critico e l’accurato scandaglio delle voci contemporanee. In particolare, si è resa levatrice di una generazione di poeti (si veda, per esempio, la pubblicazione dell’antologia L’Opera comune, la prima antologia dedicata ai poeti nati negli anni Settanta, cui hanno fatto seguito molte pubblicazioni analoghe). Si ricordano anche diversi numeri monografici: un Omaggio alla poesia contemporanea con i poeti italiani delle ultime generazioni (n. 10), gli atti di un convegno che ha radunato “la generazione dei nati negli anni Settanta” (La responsabilità della poesia, n. 24), un omaggio alla poesia europea con testi di poeti giovani e interventi di autori già affermati (Giovane poesia europea, n. 30), un’antologia di racconti di scrittori italiani emergenti (Racconti italiani, n. 38), un numero dedicato al tema “Poesia e conoscenza” (Che ne sanno i poeti?, n. 50).
Direttore generale e responsabile: Giuliano Ladolfi Coordinatore delle redazioni: Luca Ariano
Redazione Online
Direttori: Eleonora Rimolo, Giovanni Ibello Caporedattore: Carlo Ragliani Redazione: Giovanna Rosadini, Paola Mancinelli, Antonio Fiori, Gisella Blanco, Lucrezia Lombardo, Sarah Talita Silvestri, Massimo D’Arcangelo, Valentina Furlotti, Nicola Barbato, Mario Famularo, Piero Toto. Collaboratori: Michele Bordoni, Gerardo Masuccio, Matteo Pupillo, Giulio Maffii, Daniele Costantini, Francesca Coppola.
Redazione Cartaceo
Direttore: Giovanna Rosadini Redazione: Mario Famularo, Giulio Greco, Alessio Zanichelli, Mattia Tarantino, Giuseppe Carracchia, Carlo Ragliani
Torrita Tiberina-(RM)- Fondazione Mario & Maria Pia Serpone
Parco d’Arte Contemporanea nel cuore della Sabina
La Collezione-La Fondazione Mario e Maria Pia Serpone, un parco d’arte contemporanea nel cuore della Sabina, a soli 40km da Roma. Le opere della collezione sono orientate in corrispondenza con le stelle madri della costellazione del Toro dando forma ad un’architettura invisibile che accompagna i visitatori a scoprire installazioni all’aperto di artisti come Mimmo Paladino, Jannis Kounellis, Bruno Munari e Luca Maria Patella, per citarne alcuni. Oltre a ciò, la Fondazione è orgogliosa di ospitare due rarità nel panorama artistico internazionale: un ‘bottle crash’ di Shozo Shimamoto, la quale opera è un work in progress oggetto di performance annuali; e la cappella Nitsch, una cappella che il fondatore dell’azionisimo viennese Hermann Nitsch ha allestito con sue opere create in loco. Un luogo d’incontro per quanti celebrano l’amore, la libertà, la pace e l’equilibrio nel rispetto reciproco di tutte le forze che governano la natura, l’istituzione ha come centro d’interesse lo studio, la riflessione e la diffusione dell’arte contemporanea. La fondazione è visitabile esclusivamente su prenotazione.
Per info e per organizzare una visita, scrivere a: info@fondazioneserpone.org.
La collezione permanente
Una fondazione dove opere d’arte contemporanea contornano il prato, ne seguono le curve, lo impreziosiscono con significati estetici e lo ridisegnano, nobilitando lo spazio con installazioni ambientali a cielo aperto, con performance e con tutto quanto possa prendere forma d’arte attraverso il linguaggio del contemporaneo, in perfetta relazione con l’ambiente.
La cappella Nitsch
Uno spazio nel bosco concepito come una piccola cappella, il cui progetto, sottoposto al parere dell’artista, ha riscontrato la sua piena approvazione. Hermann Nitsch ha dato, infatti, la sua totale disponibilità per l’allestimento e arredamento della stessa, con opere ed installazioni da realizzarsi in loco.
Hermann Nitsch, artista austriaco, massimo esponente dell’azionismo viennese, filosofo, musicista e pittore dal 1957 si dedica alla concezione del suo “Orgien Mysterien Theater”(OMT): forma di arte totale che coinvolge tutti e cinque i sensi. Per Nitsch, teatro, palcoscenico, musica, architettura e natura divengono imprescindibili l’uno dall’altro.
Nelle sue opere si evidenzia l’aspetto drammatico di una “liturgia ematica”, che ripercorre concettualmente il processo di sublimazione dolorosa del “sangue glorioso”. Il sacrificio diviene elemento centrale di un processo di identificazione-coinvolgimento, che travolge i tradizionali schemi comportamentali.
L’opera di Nitsch è riconosciuta a livello mondiale. L’Austria e precisamente Mistelbach gli ha dedicato un museo personale, così come anche la Fondazione Morra a Napoli gli ha dedicato un museo a lui intitolato, inaugurato nel 2008; inoltre le sue opere sono presenti nei più importanti musei di arte contemporanea.
Contattaci-Per organizzare una visita della Fondazione Serpone, un evento privato o per avere maggiori informazioni sui nostri progetti e collaborazioni, inviaci una mail: info@fondazioneserpone.org
Cercaci su Google Maps: Fondazione Serpone Viale Marconi, 5 (S.P. Tiberina 15a, Km. 37,100) 00060 Torrita Tiberina, Roma
Giudizio del critico Cesare Garboli sul poeta e saggista Franco Fortini
da MaledettiPoeti
Cesare Garboli :<<La verità è che Franco Fortini -(Firenze, 1917 – Milano, 1994)- era un grande letterato, un letterato che, ogni tanto, scriveva delle poesie bellissime e insuperabili. Solo che questo letterato incallito, con tutti i vizi, le qualità, le vanità dei letterati, è stato visitato un giorno dalla politica così come Cristo si è fatto visitare dal demonio.>>
L’Autore toscano è stato uno degli intellettuali più influenti del ‘900. In seguito alle leggi razziali dell’Italia fascista cambiò il cognome ebraico Lattes con quello materno, Fortini.
A proposito del suo scomodo ruolo nel dibattito culturale nazionale, dichiarò negli anni ’90: “Ho praticato l’isolamento per quasi trent’anni. Vivo da tempo incontrando pochissime persone, evito quanto posso le pubbliche occasioni e gli ambienti letterari, non leggo miei versi in pubblico. Per vent’anni non ho concorso a premi. Non mi perdonano, da sempre, certe posizioni e certi giudizi. L’Italia aveva avuto, dal Risorgimento in poi, quello che Edoarda Masi chiama un ‘ceto pedagogico’. Ossia intellettuali che si facevano latori di coscienza critica. Oggi tale categoria non esiste più. La sua goffa imitazione è quella dei moralisti da giornalismo corrente e da TV.”
Il suo impegno civile proseguì fino alla fine della sua vita. Pochi mesi prima di scomparire venne infatti pubblicato da Einaudi, all’interno della sua ultima raccolta di versi, ‘Composita solvantur’, un capitolo dedicato alla Guerra del Golfo, conflitto armato tra Iraq e Stati Uniti che divenne il più grande evento mediatico globale del ventesimo secolo. La sezione conteneva anche la esemplare lirica ‘Lontano, lontano’, ironico componimento sulla sanguinaria crudeltà bellica ‘anestetizzata’ e spettacolarizzata dal racconto televisivo.
Racconta in proposito l’accademico Donatello Santarone: “Nel febbraio 1994 Franco Fortini pubblicò ‘Sette canzonette del Golfo’. Fu tra i pochissimi intellettuali italiani ad avere la tragica consapevolezza di quanto stava accadendo. Di fronte all’orrore dell’Armada occidentale, il poeta sceglie la ‘distanza’ del registro ironico, tra Metastasio e Manzoni, come in questi distici in doppio senario a rima baciata di ‘Lontano, lontano’, ago doloroso contro l’ipocrisia dominante.”
Una curiosità sulla carriera di Fortini denota la sua profonda adesione allo spirito del tempo da lui vissuto. Come riferisce lo scrittore Gianni D’Elia, fu lui a ‘battezzare’ la famosa macchina da scrivere della Olivetti, emblema del Giornalismo dell’era pre-Internet, con il nome con cui è da tutti conosciuta, ovvero ‘Lettera 22’ (dal 1963, ‘Lettera 32), nel periodo in cui lavorava nella fabbrica informatica di Ivrea, dal ’48 al ’54.
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RAGIONE DEGLI ANNI
Si può ancora disperdersi, schiarite
dei mesi incerti, soli obliqui.
Si può ancora volare per la vostra
polvere tenera, schiarite.
Di rado il profondo su querce e vasche d’iride
Eliso azzurro meditando posa
e un chiù persuade il viale roseo
che l’affanno può sparire.
Ma gioventù ci aspetta in una sera
di calme stille dai rami e di passi
incerti. Una leggera chiara sera
avremo ragione degli anni.
AGLI DÈI DELLA MATTINATA
Il vento scuote allori e pini. Ai vetri, giù acqua.
Tra fumi e luci la costa la vedi a tratti, poi nulla.
La mattinata si affina nella stanza tranquilla.
Un filo di musica rock, le matite, le carte.
Sono felice della pioggia. O dèi inesistenti,
proteggete l’idillio, vi prego. E che altro potete,
o dèi dell’autunno indulgenti dormenti,
meste di frasche le tempie? Come maestosi quei vostri
Considerazioni di Pierluigi Cappello<<La poesia sottolinea l’umano che c’è dentro di noi e sottolinea ciò che di umano è ancora rimasto nel mondo.>>
Pierluigi Cappello (Gemona del Friuli, 1967 – Cassacco, 2017), uno dei poeti italiani più popolari degli ultimi decenni.
Dopo esser rimasto paralizzato all’età di 16 anni a causa di un gravissimo incidente stradale, l’autore friulano ha sempre vissuto su una sedia a rotelle.
“Sapeva sorridere, di una risata dolce e contagiosa, di tutto, anche della sua condizione di disabile”, ha scritto il settimanale Avvenire dopo la sua morte, avvenuta all’età di 50 anni.
Tra i tanti riconoscimenti ottenuti per le sue opere c’è anche il premio Vittorio De Sica 2012 per la Poesia, ricevuto il 6 novembre di quell’anno nel palazzo del Quirinale dalle mani dell’allora presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano.
“Sarei diventato poeta anche senza l’incidente, anzi di più, anche meglio”, rivendicava con orgoglio.
Ed a proposito del suo rapporto con l’ispirazione poetica, raccontava in un’intervista pubblicata dal Corriere della sera il 14 settembre 2014: “La poesia ti visita quando decide lei. È leggera e invadente insieme. Le parole non ti danno orari. Alcuni versi li scrivo di notte, poi di giorno li rivedo, li sistemo. L’alba è il momento migliore, quell’intervallo che c’è tra quando se ne va l’infermiere della notte e arriva quello della mattina.”
Pierluigi Cappello è stato anche segnalato all’Accademia di Svezia per una possibile candidatura al Nobel dal PEN Club, una delle istituzioni incaricate di individuare i letterati idonei al prestigioso riconoscimento.
La stessa associazione lo ha ricordato così in occasione della sua scomparsa: “Era prima di tutto un poeta ed ha imperturbabilmente -e potremmo dire eroicamente- affermato la primazia della poesia, affrontando col sorriso una vita difficile al punto da stroncare l’entusiasmo di chiunque ed insegnando a chi lo voleva ascoltare che la vita va riempita di contenuti. Nel mondo di oggi il suo messaggio poteva ben valergli il Nobel”.
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MATTINO
(Pierluigi Cappello)
Ho un acero, fuori casa, e tutto è lontano qualche volta tutto passa nelle cose senza contorno
ho un acero misterioso come una città sommersa
e guardare diventa le sue foglie,
l’ombra premuta
metà sulla strada metà nel giardino
la luce di ciascun giorno
dove le voci si appuntano e si disperdono.
Siamo l’acqua versata sulle pietre dei morti
sul filo teso tra la preghiera e il canto siamo la neve dentro le cose
Presentiamo alcune poesie di Verónica Jiménez: PoesÍa De Chile
Verónica Jiménez (Santiago del Cile, 1964) dal libro Nada tiene que ver el amor con el amor, pubblicato da Piedra de Sol Ediciones a Santiago nel 2011, e da noi, a cura di Sabrina Foschini, nel 2014 con il titolo L’amore non ha niente a che fare con l’amore. Verónica Jiménez ha ricevuto nel 2013 il premio Migliore Opera Letteraria del Consiglio della Cultura del Cile, per il suo saggio Cantores que reflexionan. Cultura y poesía popular en Chile.
L’amore non ha niente a che fare con l’amore
non ha niente a che fare la sete con l’acqua che dirompe
né la primavera con il fiore che si stacca dallo stelo.
Sono solo esempi.
L’amore ha a che vedere con l’abitudine di guardarsi più volte negli occhi
ha a che vedere con l’abitudine
di cercare negli occhi avversi l’eco di un lampo
o parole gentili dietro le maschere severe del silenzio.
Non hanno niente a che fare con l’amore i prolungamenti dell’estate
né le foglie che si staccano esauste dagli alberi
neanche quelle che agli alberi si aggrappano come tarli.
È un esempio.
L’amore ha a che fare con una casa distrutta dalla pioggia
con stanze al buio e le pozzanghere
con le tristi camicie avvinghiate al vuoto dell’aria
con i maglioni senza scopo sospinti nel fuoco
con un paio di occhi soffocati nel loro specchio.
L’amore ha a che fare con l’abitudine di guardarsi negli occhi più volte
e riattizzare le fiamme delle pozzanghere più volte
e ospitare la pioggia nelle stanze buie più volte.
L’amore ha a che fare con la fuga dalle nostre case
col fondare nel fango una nuova città per metterci al riparo
col vestirci in nome dell’amore di una nuova ghirlanda di grandine
col rinnegare nel suo nome i frutti e gli alberi.
L’amore non ha niente a che fare con l’amore.
Non ha niente a che fare l’amore con le parole che feconda.
CORPI AVVERSI
La luce è sedentaria, l’oscurità
ci spinge in quattro direzioni
alla velocità del riso o dello spavento
Abbi il coraggio di incrociare i corpi avversi
anche se ti accorgi che i piedi
sono la contraddizione dei piedi
cercando marciapiedi transitori
nella notte. Va e penetra
nei loro corpi
e se qualcuno ti chiede di trattenerti
nel momento in cui le tue mani
contano mani e quanto hai toccato
è preso da un vento verticale
non lo ascoltare, abbi il coraggio
di abitare solchi avversi, come
il nottambulo fa migrare
quanto ha toccato
verso una luce che sprofonda
nella lampada spenta.
Comprendere all’improvviso
il luogo più propizio per il fiore
l’esatta commemorazione del petalo
che si sfoglia, cade e si dissolve
in un sogno senza più sussulti.
La consunzione dello scheletro
la crescita tenace delle unghie
senza altro scopo
d’immaginari graffi nel legno.
Il fiore perde i nettari che lo intridono
la carne si ripiega verso il ventre del nulla.
I miraggi della luce
sulle steppe solitarie della pelle.
Sotto il suolo
i rituali funebri dell’amore
lacerano le foglie.
Una stella bagna l’altra
come prima bagnava il corpo irrigidito.
Acque di dolore, germoglio
estirpato.
Con la luce degli astri costruisce una lanterna
per cercare sotto le ceneri
statue immobili o cadaveri in movimento:
questo è un braccio e giace aggrappato alla lampada
questi sono gli occhi avvezzi a guardare all’interno.
La bocca lancia pietre nel precipizio
e il corpo
si svuota di tutti i nomi.
Il corpo tenta di entrare in quello che rimane
quando finisce l’accoppiamento degli astri.
Traduzioni di Sabrina Foschini
Verónica Jiménez (Santiago del Cile, 1964) dal libro Nada tiene que ver el amor con el amor, pubblicato da Piedra de Sol Ediciones a Santiago nel 2011, e da noi, a cura di Sabrina Foschini, nel 2014 con il titolo L’amore non ha niente a che fare con l’amore. Verónica Jiménez ha ricevuto nel 2013 il premio Migliore Opera Letteraria del Consiglio della Cultura del Cile, per il suo saggio Cantores que reflexionan. Cultura y poesía popular en Chile.
Introduzione di Sabrina Campolongo. Postfazione di Valérie Cossy.
Descrizione-del libro di Alice Rivaz- “La pace degli alveari“-Credo di non amare più mio marito”. Così si apre il diario segreto di Jeanne Bornand, moglie e lavoratrice, donna che è stata amante e amata e che si ritrova, ancora giovane ma vicina a non esserlo più, faccia a faccia con la sua estraneità alla vita cui le sue scelte l’hanno condotta. A finire implacabilmente sotto accusa è il matrimonio, nella sua prosaicità, nel suo insanabile scollamento dall’amore, ma una volta cominciato sembra che Jeanne non riesca più a fermarsi. L’intera società degli uomini, di cui le donne sono al tempo stesso vittime e complici, finisce sotto la sua critica spietata, tanto più feroce perché tinta della più lucida ironia”.
In tanti anni di femminismo, di teorie e pratiche, mai ho incontrato pagine di una consapevolezza così profonda e insieme di una capacità di nominare l’innominabile della relazione tra uomini e donne, nella quotidianità dei matrimoni come nella vita pubblica, così libera, diretta, felicemente senza remore e coperture.
Verità, svelamenti, messa a nudo impietosa, senza nascondere le ambiguità e le contraddizioni che passano attraverso la violenza invisibile del patriarcato.
Un frammento:
“Non l’avevamo previsto, il lavoro notturno degli aviatori, le bombe sopra i lettini dei bambini, sulle cucine a gas, sulle mensole con i libri. Non avevamo previsto niente, noi donne; come sempre li abbiamo lasciati fare; che si minacciassero, che sfilassero in parata, che venissero alle mani. Siamo rimaste a guardarli mentre si scatenavano. È proprio quello che, da madri, reprimiamo nei nostri figli piccoli, che ammiriamo nei nostri bambini diventati uomini. Quel gesto che meriterebbe il biasimo, se non una sberla, basta che il ragazzino sia diventato adulto ed ecco che le donne gli danno un altro nome. Come le parole “crudeltà” e “violenza” che diventano di colpo coraggio o eroismo.
(…)
Noi facciamo e loro disfano. Disfano persino, poco alla volta, le loro stesse teorie, rimpiazzando il credo di una generazione con quello di un’altra, cercando nomi sempre nuovi per giustificare le loro dementi carneficine.
E noi, invece di dire “Altolà!”, noi ancora ci sforziamo di seguirli, di comprenderli, di ottenere da loro delle attestazioni di devozione, e questo al fine di piacergli.”
“Quella complicità tra i sessi, se ne conosce fin troppo bene la causa, tuttavia non è per forza inevitabile…”
*Alice Rivaz, “La pace degli alveari” pagina uno 2019, pag.80
con Stefano Mancuso, Chiara Valerio, Laura Pepe e Riccardo Falcinelli –
Pesaro-Conto alla rovescia per il debutto dell’iniziativa presentata da Marsilio Arte e Intesa Sanpaolo nella cornice degli eventi che scandiscono l’anno di Pesaro come Capitale della Cultura. Riflettori puntati dunque su on Art Pesaro. L’arte legge il mondo, il ciclo di lezioni ideato per approfondire i grandi temi dell’epoca contemporanea usando l’arte come bussola. Ad alternarsi sul palco del Teatro Sperimentale saranno quattro relatori d’eccezione, invitati ad affrontare un argomento specifico e ogni volta diverso, rifacendosi al modello della lectio magistralis. La narrazione sarà accompagnata da un racconto visivo che rinsalderà il legame tra parola e immagine, stimolando il coinvolgimento del pubblico in un luogo votato per sua stessa natura alle esigenze e alle logiche della collettività.
Si inizia domenica 27 ottobre alle ore 11 in compagnia di Stefano Mancuso, scienziato noto in tutto il mondo e direttore del Laboratorio internazionale di neurobiologia vegetale (LINV), che si interrogherà sull’uomo come misura di tutte le cose, mentre il 10 novembre l’appuntamento sarà con la scrittrice, direttrice artistica e curatrice editoriale Chiara Valerio, impegnata in una riflessione sulla scomparsa delle immagini. Il 24 novembre la parola andrà a Laura Pepe, storica e studiosa del mondo classico, docente di diritto romano e diritti dell’antichità all’Università degli studi di Milano, che affronterà la tematica dell’Uomo e della Natura nel mondo classico. Il 1° dicembre toccherà al graphic designer, autore e docente di Psicologia della percezione alla facoltà di Design ISIA di Roma Riccardo Falcinelli concludere il ciclo di on Art Pesaro con la lezione intitolata Come si guarda un paesaggio. (Nature artificiali e artifici naturali).
Il risultato sarà un mosaico di pensieri e punti di vista sul mondo elaborati da quattro personalità del panorama culturale e artistico internazionale, appartenenti ad ambiti di ricerca differenti e trasversali che rispecchiano il criterio multidisciplinare alla base di on Art Pesaro.
La partecipazione è gratuita, fino ad esaurimento posti, e gli incontri potranno essere seguiti in diretta streaming.
Intesa Sanpaolo e Marsilio Arte annunciano on ArtPesaro, un ciclo di lezioni per interpretare il presente attraverso la chiave dell’arte, pensate e condotte da alcune tra le più autorevoli figure del mondo artistico e culturale attraverso prospettive inedite, multidisciplinari e al contempo rigorose. Gli appuntamenti si terranno presso il Teatro Sperimentale di Pesaro dal 27 ottobre al 1° dicembre 2024 e si inseriscono nell’ambito di Pesaro Capitale della Cultura 2024, di cui Intesa Sanpaolo è Main Partner.
Che l’arte serva in primo luogo a leggere e interpretare il mondo in cui siamo, guardando al passato ma anche al futuro, è la convinzione da cui parte questa nuova iniziativa, che si propone di offrire uno sguardo interdisciplinare e inedito, che rifletterà le esperienze, le conoscenze e le curiosità delle relatrici e dei relatori che prenderanno parte al programma.
Storia, mitologia, scienza, innovazione, natura sono tutti ambiti non solo capaci di dialogare con l’arte, ma anche di porre domande, dubbi e quesiti cui l’arte stessa tenta di rispondere, trascendendo rigidi confini e immaginando nuovi possibili orizzonti.
La prima edizione del progetto s’intitola on Art Pesaro. L’arte legge il mondo, collegandosi al tema “La natura della cultura” di Pesaro Capitale della Cultura 2024. Svincolandosi dai limiti imposti dall’analisi artistica tradizionale, gli interventi proposti da on Art coinvolgeranno vari ambiti di studio, in particolare le interazioni tra arte, natura e tecnologia. Scopri gli appuntamenti di questa prima edizione! https://www.marsilioarte.it/mostre-ed-eventi/on-art/
Cover photo: Stefano Mancuso, Chiara Valerio, Laura Pepe, Riccardo Falcinelli
Stefano Mancuso
Scienziato di fama mondiale e direttore del Laboratorio internazionale di neurobiologia vegetale (LINV), che nel 2013 il “New Yorker” ha inserito nella classifica dei world changers.
Chiara Valerio
Scrittrice, direttrice artistica e curatrice editoriale.
Laura Pepe
Storica e studiosa del mondo classico, docente di diritto romano e diritti dell’antichità all’Università degli studi di Milano.
Riccardo Falcinelli
Celebre graphic-designer, autore e docente di Psicologia della percezione alla facoltà di Design ISIA di Roma.
Tutti gli eventi sono a ingresso gratuito su prenotazione. Gli incontri potranno essere seguiti in diretta streaming. Prevendite disponibili dall’autunno 2024.
Fonte-Marsilio Arte Santa Marta, Fabbricato 17, 30123 – Venezia info@marsilioarte.it – tel. +39 041 2406511
Andrea Zanzotto,due nuovi volumi sul Poeta di Pieve di Soligo
Editore Mondadori
Nel centenario della nascita e a dieci dalla scomparsa di Andrea Zanzotto Mondadori pubblica due volumi sul grande poeta di Pieve di Soligo: Andrea Zanzotto, ERRATICI disperse e altre poesie (1937-2011) a cura di Francesco Carbognin e Andrea Zanzotto, TRADUZIONI TRAPIANTI IMITAZIONI a cura di Giuseppe Sandrini.
Il primo volume a cura di Carbognin, propone una serie di poesie di Andrea Zanzotto pubblicate in varie sedi tra il 1937 e il 2011 ma mai confluite nei suoi libri, testimonianze fedeli della vivacità e dell’operosità della sua officina poetica.
“L’esplorazione dell’archivio privato in cui il poeta spesso teneva traccia o a volte copia delle sue pubblicazioni occasionali, assieme alla esplorazione sistematica di annate di quotidiani e riviste, ha infatti consentito di espanderne il corpus di un centinaio di poesie, da quelle adolescenziali risalenti agli anni del liceo (1937-38), improntate a un sostanziale pascolismo psicologico, ai versi di impostazione civile (1946) legati agli eventi della Resistenza. Se le poesie successive delineano l’evolversi dell’esperienza poetica zanzottiana fino a quel primo acuminato vertice toccato da Vocativo , quelle degli anni Sessanta ne dilatano l’orizzonte del sapere e del dire tra classicismo, caustica ironia e inclinazione sperimentale, proiettandosi verso i grandi esiti di “La Beltà”. Ed eccoci poi alle prime e già mature ricognizioni in versi sul dialetto (precedenti l’edizione del poemetto “Filò” e la composizione dei testi per il “Casanova” di Federico Fellini), fino alle prove quanto mai varie degli ultimi decenni, quando il soggetto lirico zanzottiano «si diffrange identificandosi con gli enti minimali del paesaggio», o con gli indizi del suo «”accadere” nella pagina, esitante tra silenzi e “promesse” di senso».”(Francesco Carbognin)
Biografia di Andrea Zanzotto- a cura di Carmelo Princiotta
Andrea Zanzotto– Nacque a Pieve di Soligo (Treviso) il 10 ottobre 1921, primogenito di Giovanni e di Carmela Bernardi, cui sarebbero poi nati le gemelle Angela e Marina, colpite da morte prematura nel 1926 e nel 1937, quindi Maria e infine Ettore.
Visse un’infanzia non felice, ma poeticamente ricca, grazie al Corriere dei piccoli e, soprattutto, alla nonna paterna. In Cal Santa, la stradina fra la chiesa e il cimitero, Angela Bertazzon recitava in filastrocche quasi ipnotiche le rime in toscano illustre di Ludovico Ariosto e Torquato Tasso. Il padre era pittore, decoratore e miniaturista, oltre che insegnante, ma dovette emigrare per la sua opposizione al fascismo.
Zanzotto frequentò una scuola materna gestita da suore che seguivano il metodo Montessori e fu ammesso direttamente alla seconda elementare. All’età di sette anni compose i primi versi. Il tentativo del padre di ricongiungere a sé la famiglia si rivelò fallimentare e sopraggiunsero anche difficoltà economiche. La zia Maria, però, coinvolgeva il nipote nel teatrino delle suore e gli trasmetteva l’avida pulsione alla lettura di giornalini e settimanali. Zanzotto ricevette anche le prime lezioni di musica, intanto che assorbiva il francese quasi casalingo dell’emigrazione trevigiana.
Nel 1937 si diplomò come maestro e iniziò a dare ripetizioni private. Era periodicamente soggetto a episodi allergici e asmatici. Dopo una pubblicazione adolescenziale di versi amorosi, dal 1938 raccolse le prime poesie, edite in parte nella strenna di Giovanni Scheiwiller A che valse? (Versi 1938-1942) (Milano 1970). Conseguì come privatista anche la maturità classica. Si iscrisse alla facoltà di lettere dell’Università di Padova, dove ebbe come maestri, anche di coscienza, Diego Valeri e Concetto Marchesi.
Scoprì Arthur Rimbaud e cominciò a leggere l’amatissimo Friedrich Hölderlin, nella traduzione di Vincenzo Errante, con suggestioni da rispecchiamento. Venne a contatto con la cultura dell’esistenzialismo. Studiò un po’ di tedesco, qualche rudimento di ebraico, e approfondì l’inglese, benché da cultore di grammatiche più che da esperto di lingue.
Vinse i prelittoriali di poesia con un gruppo di versi giovanili. Nel 1940 ottenne la prima di una lunga serie di supplenze. Il 30 ottobre 1942 si laureò discutendo una tesi su Grazia Deledda, pubblicata poi nel 2015.
Nel febbraio del 1943 fu chiamato alle armi e inviato ad Ascoli Piceno, dove si portò Frontiera di Vittorio Sereni. La manifestazione violenta della pollinosi comportò la sospensione dell’addestramento e l’assegnazione ai servizi non armati. L’8 settembre, alla notizia dell’armistizio, intraprese un avventuroso ritorno a casa. Si nascose sulle colline, ma riuscì anche a impartire lezioni private presso il collegio Balbi Valier di Pieve di Soligo. Nell’inverno cominciò a collaborare con i gruppi partigiani, in cui spiccava la figura non violenta di Antonio Adami. Nella primavera del 1944 si impegnò nella propaganda resistenziale. Il 10 agosto, durante una rappresaglia tedesca contro la piccola repubblica partigiana di Quartier di Piave, perse un amico, Gino Dalla Bortola. Il rastrellamento del 31 agosto mise a ferro e fuoco il paesaggio natio, che aveva protetto il poeta anche dagli orrori della guerra civile. Zanzotto visse alla macchia a fasi alterne, poi fu reclutato per il lavoro coatto, mentre continuavano i massacri. All’inizio del 1945 ritornò sulle colline; il 30 aprile la zona fu liberata. Zanzotto disseppellì i propri scartafacci, interrati un anno prima vicino casa. Riprese i contatti intellettuali con Treviso. Si recò più volte a Milano, dove conobbe Alfonso Gatto e Vittorio Sereni. Nel 1946, per la sua posizione repubblicana, perse una supplenza al Balbi Valier ed emigrò in Svizzera, dove insegnò in un collegio a Villars-sur-Ollon. Pur di non sottostare alle costrizioni dell’istituto, l’anno dopo fece il barista e il cameriere a Losanna. Scrisse o continuò a scrivere prose diaristiche e, alla fine del 1947, fece rientro in Italia.
Nel 1948 chiuse la composizione delle poesie d’esordio, cominciata nel 1940. Tramite Sereni inviò una silloge a Mondadori, che divenne poi suo principale editore, anche se la stampa dell’opera prima di Zanzotto si ebbe un anno dopo la vittoria del premio S. Babila per gli inediti nel 1950, con una giuria in cui figuravano Eugenio Montale, Salvatore Quasimodo, Sereni, Leonardo Sinisgalli e Giuseppe Ungaretti. A Milano incontrò Cesare Musatti, cui espose il proprio disagio psichico. Conobbe Giuseppe Bevilacqua, germanista e traduttore, che lo introdusse alla poesia di Paul Celan.
Dietro il paesaggio (Milano 1951) si presentava come il frutto epigonale di un ermetismo radicalizzato dagli apporti del surrealismo europeo; invece rimase, nella sua ambiguità, fra i titoli più emblematici di uno dei più grandi e ormai proverbiali poeti del paesaggio. La cancellazione della presenza umana, la sostituzione del tempo cronologico con quello stagionale, l’adozione di una grammatica a forte carica astrattiva e il ricorso a una specie di citazionismo araldico sono misure manieristiche di protezione psichica.
Nel 1954 ottenne un posto di insegnante di ruolo presso la scuola media di Conegliano. Partecipò al convegno di San Pellegrino, dove fu presentato da Ungaretti, ed entrò in polemica con Italo Calvino, sostenendo tesi d’impronta esistenzialista. Dal punto di vista politico, Zanzotto fu iscritto al Partito socialista italiano (PSI) fino alla metà degli anni Ottanta. Conobbe a Pordenone Pier Paolo Pasolini. Comparve nell’antologia Quarta generazione. La giovane poesia in Italia (1945-1954) (Varese 1954). Le Edizioni della Meridiana stamparono Elegia e altri versi (Milano 1954) nella collana diretta da Sereni, con una nota di Giuliano Gramigna, che sottolineava permanenze e novità rispetto al libro precedente.
Vocativo (Milano 1957) parve a Giorgio Caproni «uno dei libri più belli del dopoguerra, riconoscibilmente nuovo» (G. Caproni, «Vocativo» di Z., in Id., Prose critiche, a cura di R. Scarpa, II, 1954-1958, Torino 2012, p. 925) e già Sereni lo riteneva secondo solo a La bufera e altro. Pasolini non esitò a definirlo come un libro di «piena crisi» (P.P. Pasolini, Principio di un «engagement», in Id., Saggi sulla letteratura e sull’arte, a cura di W. Siti – S. De Laude, Milano 1999, I, p. 1207), perché Zanzotto oggettivizza, problematizzandoli, i presupposti di ogni poesia soggettiva, a partire dall’io, ridotto alla sua «miseria di fatto “grammaticale”» (Profili dei libri e note alle poesie, a cura di S. Dal Bianco, in A. Zanzotto, Le poesie e prose scelte, 1999, p. 1435), come recita il risvolto di copertina, anonimo ma di mano dell’autore.
Alla problematizzazione dell’io, in senso psichico, linguistico e storico-letterario, si uniscono quella del colloquio, ridotto alla pura vocatività, e della lingua, avvertita come transeunte. Michel David parlò poi di «inconsapevole lacanismo» (v. A. Zanzotto, Nei paraggi di Lacan, ibid., p. 1211) per il grammaticalismo di questo ‘secondo’ Zanzotto, che irrompe anche come poeta del linguaggio.
Nel 1959 Zanzotto si unì in matrimonio con Marisa Micheli, da cui ebbe Giovanni nel 1960 (a pochi giorni dalla morte del padre) e Fabio nel 1961. Per il periodico riacutizzarsi dell’insonnia e degli stati ansiosi, si sottopose a un’analisi freudiana a Padova. Pur continuando a insegnare, svolse anche le funzioni di preside nella scuola media di Col San Martino.
IX Ecloghe (Milano 1962) inaugurò la collana Il Tornasole, diretta da Niccolò Gallo e Sereni per Mondadori.
Secondo Franco Fortini, che aveva già trovato bellissime alcune poesie di Vocativo, il libro giungeva a risultati ineguagliati negli anni più recenti, anche per l’immissione di linguaggi allotri sotto la grande ombra di Virgilio e, in particolare, per la capacità di trasformare in rapporto con la storia il rapporto con il proprio inconscio.
Nel 1963 ottenne il trasferimento alla scuola media di Pieve di Soligo, dove insegnò fino al 1971. Si stabilì con la famiglia nella nuova casa di via Garibaldi (poi Mazzini). Per Neri Pozza pubblicò Sull’Altopiano. Racconti e prose: 1942-1954 (Vicenza 1964), riproposto e accresciuto in nuove edizioni a partire dagli anni Novanta. Nel 1966 tradusse Età d’uomo (Milano 1966) di Michel Leiris. Altre traduzioni seguirono negli anni Settanta da Georges Bataille, Pierre Francastel e Honoré de Balzac. Partecipò alla conferenza tenuta a Milano da Jacques Lacan per l’uscita degli Écrits. Si sottopose alla cosiddetta terapia del sonno. Nel 1967 si recò a Praga con Sereni, Fortini e Giovanni Giudici, per un incontro di poesia: uno dei non frequenti ma significativi spostamenti europei di questo appartatissimo poeta.
La Beltà (Milano 1968) fa «esplodere la “lingua”», come recita l’anonimo risvolto di copertina. Il volume fu presentato a Roma da Pasolini e, in modo piuttosto drammatico, a Milano da Fortini, che vi aveva individuato la «testimonianza […] di un accurato cerimoniale di autodistruzione» (R. Cicala, Zanzotto «in su la cima». Sulle lettere editoriali degli esordi in Mondadori e del rapporto con Sereni, in Andrea Zanzotto. La natura, l’idioma, a cura di F. Carbognin, Treviso 2018, p. 167, con stralcio d’archivio), oltre che un ammicco allo strutturalismo ormai imperante.
Secondo Montale, autore di un’importante recensione, la coltissima nevrosi di Zanzotto problematizzava in modo estremamente contemporaneo il rapporto fra poeta e mondo, creando un cortocircuito sostanzialmente tragico fra espressione di secondo grado e pre-espressione, in una percussività da batticuore. Il libro, forse il più importante del Novecento poetico italiano dopo Le Occasioni di Montale, si presenta come le stazioni di un Calvario psicoanalitico che non abbia perso la propria laica spinta pasquale (donde un certo dantismo paradisiaco) e, insieme, come una strada senza uscita.
Nel 1969 Zanzotto partecipò al festival di Spoleto, dove ebbe modo di incontrare Ezra Pound. Stampò semiclandestinamente Gli Sguardi i Fatti e Senhal (Pieve di Soligo e s.l. 1969; Milano 1990), un poemetto sull’allunaggio come ferimento del mito lunare. Iniziò gli Appunti e abbozzi per un’ecloga in dialetto sulla fine del dialetto, pubblicati in rivista nel 2001 e in volume nel 2019. Nel 1970 acquistò un piccolo appartamento a Milano. Dal 1971 al 1975 fu distaccato come formatore nelle scuole della provincia di Treviso. Nel 1973 morì la madre.
La fortunata antologia Poesie (1938-1972) (Milano 1973) fu curata da Stefano Agosti, che, da principale critico di Zanzotto, ne metteva in relazione la poesia con la nozione di arbitrarietà del segno postulata da Ferdinand de Saussure e con la priorità del significante sul significato elaborata da Jacques Lacan. Pasque (Milano 1973), libro dei passaggi rituali, anche pedagogici, che coinvolgono una comunità e dei passaggi psichici dell’individuo, chiuso in un’ambigua privatizzazione, fu recensito, fra gli altri, da Pasolini, che vide ne La Pasqua a Pieve di Soligo la «poesia più importante scritta in Italia in questi ultimi anni; forse, addirittura, dagli anni Cinquanta» (cfr. P.P. Pasolini, Andrea Zanzotto, «Pasque», in Id., Saggi sulla letteratura e sull’arte, cit., II, p. 2019).
Nel 1975 uscì la prima traduzione in volume della poesia di Zanzotto, avviando l’internazionalizzazione della sua fortuna. Nel 1976 collaborò a Casanova di Federico Fellini, con testi in dialetto poi ricompresi in Filò (Venezia 1976; Roma 1981; Milano 1988) insieme con altri materiali e soprattutto col poemetto omonimo, civile tentativo di rifondazione del rapporto fra natura, uomini e linguaggio, in aperto confronto con La ginestra o Il fiore del deserto, di Giacomo Leopardi. Altre importanti collaborazioni cinematografiche seguirono negli anni successivi. Uscì intanto un’edizione petrarchesca con un memorabile contributo di Zanzotto.
Il Galateo in Bosco (Milano 1978 e 1996) è aperto da una prefazione di Gianfranco Contini, che indica in Zanzotto «il più importante poeta italiano dopo Montale» (p. 5).
Il libro avvia una «pseudo-trilogia» (v. A. Zanzotto, Note a «Idioma», in Id., Le poesie e prose scelte, cit., p. 811). La partizione va intesa in senso topografico, con la collocazione del Galateo nel Montello e di Fosfeni (Milano 1983) sulle Dolomiti, rispettivamente a sud e a nord di Pieve di Soligo, centro di Idioma (Milano 1986), ma è anche tematica, stilistica e tonale, come mostrano l’inselvamento del Galateo, la rarefazione quasi noumenica di Fosfeni e la quotidianità comunitaria di Idioma. Al centro del volume fa spicco l’Ipersonetto, che sembrò quasi autorizzare il ritorno alle forme chiuse degli anni Ottanta. A dispetto di consensi come il premio Viareggio del 1979, anno in cui usciva anche la prima monografia dedicata al poeta, l’autore temeva che fosse stato frainteso il senso profondo del libro e, quindi, disatteso il suo invito a una ripartenza da zero.
Entrando nella cosiddetta terza età, subì una grave depressione. Intanto venne insignito del premio Librex-Montale con Fosfeni, per cui Parise notava come la grandezza, anche ‘geologica’, di Zanzotto fosse di gran lunga superiore alla sua leggibilità. Nel 1987 l’Accademia nazionale dei Lincei conferì a Zanzotto il premio Feltrinelli. Numerosi anche i riconoscimenti internazionali, fino all’assegnazione del premio Hölderlin nel 2005. L’inizio degli anni Novanta, segnato dalla morte del fratello Ettore, vide l’uscita di Fantasie di avvicinamento (Milano 1991) e Aure e disincanti del Novecento letterario (Milano 1994), poi raccolti, per le cure di Gian Mario Villalta, in Scritti sulla letteratura (I-II, Milano 2001), volumi che fanno di Zanzotto un grande poeta-critico.
Meteo (Roma 1996), con disegni di Giosetta Fioroni, inaugurò la collana poetica di Donzelli come un’anticipazione di lavori in corso. Si apriva un’altra fase della poesia di Zanzotto, con una nuova posizione del soggetto e del linguaggio, oltre che un diverso trattamento del paesaggio. Le poesie e prose scelte (Milano 1999) uscì ne I Meridiani, vincendo poi il premio Bagutta. In Sovrimpressioni (Milano 2001) la deriva anche testuale, non priva di esiti indimenticabili, ruota attorno alla distruzione del paesaggio e alla trasformazione della nozione stessa di natura, come avverte l’anonimo risvolto di copertina.
Nel 2001 Zanzotto firmò un significativo contributo su Hölderlin e il crescente interesse nei suoi confronti lo spinse a pubblicare, a partire dagli eventi per il suo ottantesimo compleanno, conversazioni, scritti sul cinema e qualche altro saggio.Nel 2005 subì ulteriori restrizioni alla propria mobilità per la rottura di un femore.
Conglomerati (Milano 2009) chiude in modo testamentario l’opera in versi di Zanzotto. Non mancarono, però, pubblicazioni successive, come la plaquette Il Vero Tema (Milano 2011).
In Conglomerati si mette in discussione l’idea stessa di definitività: la poesia è ormai sostituita dalle sue varianti, in una virtualizzazione che assume in sé anche la testualità, pur nella sua materica stratificazione. Stefano Dal Bianco, in particolare, presenta Conglomerati come una Commedia contemporanea e la chiusura di una «trilogia dell’oltremondo» (in A. Zanzotto, Tutte le poesie, 2011, p. LXXIII).
Morì a Conegliano, il 18 ottobre 2011, in seguito a complicazioni respiratorie.
Opere. Le poesie e prose scelte, a cura di S. Dal Bianco – G.M. Villalta, con due saggi di S. Agosti – F. Bandini, Milano 1999; Tutte le poesie, a cura di S. Dal Bianco, Milano 2011, e relativa bibliografia, cui si aggiungano almeno: Il Vero Tema, Milano 2011; In nessuna lingua in nessun luogo. Le poesie in dialetto 1938-2009, nota introduttiva di G. Agamben, prefazione di S. Dal Bianco, Macerata 2019; Haiku. For a Season. Per una stagione, a cura di A. Secco – P. Barron, con una nota di M. Breda, Milano 2019. Per la prosa si vedano: Ascoltando dal prato. Divagazioni e ricordi, a cura di G. Ioli, Novara 2011; Luoghi e paesaggi, a cura di M. Giancotti, Milano 2013; L’arte di Grazia Deledda, prefazione di A Balduino e introduzione di E. Zinato, Padova 2015.
Fonti e Bibl.: Tra gli studi monografici: P. Steffan, Un «giardino di crode disperse». Uno studio di «Addio a Ligonàs» di A. Z., Roma 2012; Il sacro e altro nella poesia di A. Z., a cura di M. Richter – M.L. Daniele Toffanin, Pisa 2013; “Dirti Z.”: Z. e Bologna (1983-2011), a cura di N. Lorenzini – F. Carbognin, Varese 2013; C. Cardolini Rizzo, Dai versi giovanili al vocativo. Semiologia poetica nel primo Z., Taranto 2013; Hommage à A. Z., textes réunis par D. Favaretto – L. Toppan, Paris 2014; N. Lorenzini, Dire il silenzio: la poesia di A. Z., Roma 2014; S. Agosti, Una lunga complicità. Scritti su A. Z., Milano 2015; «A foglia ed a gemma». Letture dall’opera poetica di A. Z., a cura di M. Natale – G. Sandrini, Roma 2016; M. Natale, Il sorriso di lei. Studi su Z., Verona 2016; L. Stefanelli, Il divenire di una poetica. Il «logos veniente» di A. Z. dalla «Beltà» a «Conglomerati», Milano-Udine 2016; F. Venturi, Genesi e storia della «trilogia» di A. Z., Pisa 2016; S. Sferruzza, Vocativo. A. Z. sul margine. Introduzione e commento alle poesie, Ospedaletto 2017; A. Z., la natura, l’idioma, a cura di F. Carbognin, Treviso 2018; Nel melograno di lingue. Plurilinguismo e traduzione in A. Z., a cura di G. Bongiorno – L. Toppan, Firenze 2018; S. Bubola, Dietro il paesaggio. Friedrich Hölderlin nell’opera di A. Z., Udine 2018; A. Russo Previtali, Il destinatario nascosto. Lettore e paratesto nell’opera di A. Z., Firenze 2018; A. Russo Previtali, Z./Lacan. L’impossibile e il dire, Milano-Udine 2019; C. Cardolini Rizzo, La poesia pastorale nell’età moderna. Le «IX Ecloghe» di A. Z., Avellino 2019.
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