Poeta cileno VICENTE HUIDOBRO-Poesia MONUMENTO AL MARE-
VICENTE HUIDOBRO
Vicente García-Huidobro Fernández (Santiago del Cile, 10 gennaio 1893 – Cartagena, 2 gennaio 1948) è stato l’ideatore del “creazionismo poetico” ed è considerato tra i quattro maggiori poeti cileni insieme a Neruda, De Rokha e Mistral.
MONUMENTO AL MARE
Pace sulla costellazione cantante delle acque Scontrate come gli ombri della moltitudine Pace nel mare alle onde di buona volontà Pace sulla lapide dei naufragi Pace sui tamburi dell’orgoglio e le pupille tenebrose E se io sono il traduttore delle onde Pace anche su di me.
Ecco qui lo stampo pieno di frantumi del destino Lo stampo della vendetta Con le sue frasi iraconde che si staccano dalle labbra Ecco qui lo stampo pieno di grazia Quando sei dolce e stai lì ipnotizzato dalle stelle
Ecco qui la morte inesauribile dal principio del mondo Perché un giorno nessuno se ne andrà a spasso per il tempo Nessuno lungo il tempo lastricato di pianeti defunti
Questo è il mare Il mare con le sue onde proprie Con i suoi propri sensi Il mare che cerca di rompere le sue catene Che vuole imitare l’eternità Che vuole essere polmone o nebbiolina di uccelli in pena O il giardino degli astri che pesano nel cielo Sulle tenebre che trasciniamo O che forse ci trascinano Quando volano di repente tutte le colombe della luna E si fa più oscuro dei crocevia della morte
Il mare entra nel carro funebre della notte E si allontana verso il mistero dei suoi paraggi profondi S’ode appena il rumore delle ruote E l’ala degli astri che soffrono nel cielo Questo è il mare Che saluta laggiù lontano l’eternità Che saluta gli astri dimenticati E le stelle conosciute.
Questo è il mare che si desta come il pianto di un bambino Il mare che apre gli occhi e cerca il sole con le piccole mani tremanti Il mare che spinge le onde Le sue onde che mescolano i destini
Alzati e saluta l’amore degli uomini
Ascolta le nostre risa e anche il nostro pianto Ascolta i passi di milioni di schiavi Ascolta la protesta interminabile Di quell’angoscia che si chiama uomo Ascolta il dolore millenario dei petti di carne E la speranza che rinasce dalle proprie ceneri ogni giorno.
Anche noi ti ascoltiamo Rimuginando tanti astri catturati nelle tue reti Rimuginando eternamente i secoli naufragati Anche noi ti ascoltiamo
Quando ti rigiri nel tuo letto di dolore Quando i tuoi gladiatori si battono tra di loro
Quando la tua collera fa esplodere i meridiani Oppure quando ti agiti come un gran mercato in festa Oppure quando maledici gli uomini O fingi di dormire Tremante nella tua grande ragnatela in attesa della preda.
Piangi senza sapere perché piangi E noi piangiamo credendo di sapere perché piangiamo Soffri soffri come soffrono gli uomini Che tu possa ascoltare digrignare i tuoi denti nella notte E rigirarti nel tuo letto Che l’insonnio non ti lasci placare le tue sofferenze Che i bambini prendano a sassate le tue finestre Che ti strappino i capelli Tosse tosse faccia esplodere in sangue i tuoi polmoni Che le tue molle si arrugginiscano E tu venga calpestato come cespuglio di tomba
Però sono vagabondo e ho paura che mi ascolti Ho paura delle tue vendette Dimentica le mie maledizioni e cantiamo insieme stanotte Fatti uomo ti dico come io a volte mi faccio mare Dimentica i presagi funesti Dimentica l’esplosione delle mie praterie Io ti tendo le mani come fiori Facciamo la pace ti dico Tu sei il più potente Che io stringa le tue mani nelle mie E sia la pace tra di noi
Vicino al mio cuore ti sento Quando ascolto il gemito dei tuoi violini Quando stai lì steso come il pianto di un bambino Quando sei pensieroso di fronte al cielo Quando sei dolorante tra le tue lenzuola Quando ti sento piangere dietro la mia finestra Quando piangiamo senza ragione come piangi tu.
Ecco qui il mare Il mare dove viene a scontrarsi l’odore delle città Col suo grembo pieno di barche e pesci e altre cose allegre Quelle barche che pescano sulla riva del cielo Quei pesci che ascoltano ogni raggio di luce Quelle alghe con sonni secolari E quell’onda che canta meglio delle altre
Ecco qui il mare Il mare che si distende e si afferra alle sue rive Il mare che avvolge le stelle nelle sue onde Il mare con la sua pelle martirizzata E i sussulti delle sue vene Con i suoi giorni di pace e le sue notti di isteria
E all’altro lato che c’è all’altro lato Che nascondi mare all’altro lato L’inizio della vita lungo come un serpente O l’inizio della morte più profonda di te stesso E più alta di tutti i monti Che c’è all’altro lato La millenaria volontà di fare una forma e un ritmo O il turbine eterno dei petali troncati
Ecco lì il mare Il mare spalancato Ecco lì il mare spezzato all’improvviso Affinché l’occhio veda l’inizio del mondo Ecco lì il mare Da un’onda all’altra c’è il tempo della vita Dalle sue onde al mio occhio c’è la distanza della morte.
Traduzione di Gianni Darconza per Raffaelli Editore
Breve biografia di Vicente García-Huidobro Fernández (Santiago del Cile, 10 gennaio 1893 – Cartagena, 2 gennaio 1948) è stato l’ideatore del “creazionismo poetico” ed è considerato tra i quattro maggiori poeti cileni insieme a Neruda, De Rokha e Mistral. Il creazionismo vuole fare della poesia uno strumento di creazione assoluta, in modo che i segni linguistici acquistino valore per la loro capacità di esprimere bellezza in sé e non per il loro significato sostanziale. Huidobro stesso descrisse, nella sua raccolta di saggi Manifesti, del 1925, cosa sia una poesia creata: «È una poesia nella quale ogni parte che la costituisce, e tutto l’insieme, mostra un fatto nuovo, indipendente dal mondo esterno, slegato da qualunque altra realtà che non sia la propria, che prende il suo posto nel mondo come fenomeno singolo, a parte, distinto dagli altri. Questa poesia è qualcosa che non può esistere se non nella testa del poeta. E non è bella perché ricorda qualcosa, perché ricorda cose viste, a loro volta belle, né perché descriva cose belle che potremmo anche vedere. È bella in sé e non ammette termini di comparazione. E nemmeno può essere concepita fuori dal libro. Niente le somiglia del mondo esterno; rende reale quel che non esiste, cioè si fa realtà a se stessa. Crea il meraviglioso e gli dà vita propria. Crea situazioni straordinarie che non potranno mai esistere nel mondo oggettivo, per cui dovranno esistere nella poesia perché esistano da qualche parte. Quando scrivo: “L’uccello fa il nido nell’arcobaleno”, si presenta un fatto nuovo, qualcosa che non avevate mai visto, che mai vedrete e che tuttavia vi piacerebbe molto vedere. Il poeta deve dire quelle cose che mai si direbbero senza di lui. Le poesie create acquisiscono proporzioni cosmogoniche; ci danno in ogni momento il vero sublime, quel sublime del quale i testi ci presentano esempi tanto poco convincenti. E non si tratta del sublime eccitante e grandioso, ma di un sublime senza pretese, senza terrore, che non vuole opprimere o schiacciare il lettore: un sublime da taschino. La poesia creazionista si compone di immagine create, di situazioni create, di concetti creati; non stiracchia alcun elemento della poesia tradizionale, salvo che in essa quegli elementi sono integralmente inventati, senza preoccuparsi assolutamente della loro realtà o veridicità precedenti l’atto della realizzazione».
Poesie di MASSIMO LIPPI-Poesie tratte da Nuovi poeti italiani-
MASSIMO LIPPI
Massimo Lippi è nato il 14 Gennaio del 1951 a Ponte a Tressa, vicino a Siena, dove vive e lavora.Sono essenziali alla sua formazione l’apprendistato presso lo zio Olinto, figura di ingegnoso artigiano, e l’insegnamento di Zita Pepi, che gli fa incontrare la poesia.Frequenta l’Istituto d’Arte di Siena avendo fra i suoi insegnanti più cari Virgilio Carmigniani. Inizia a frequentare il maestro Albert Lassuer.Si laurea in Storia dell’Arte con Giuliano Briganti con una tesi sullo scultore Alberto Sani.
Da Non popolo mio, 1976-1981
Increato àugure bene domestico
oscuro dedalo di bisogni
piuma irredenta del mio corpo
orda libertaria filamenti di rammarico
e d’ozono svenano anch’oggi a Pluto
perenne latrocinio di banca
acido monoteista davvero
se la bandiera rossa sterro piccionato
fisima di quando partì co’ gesuiti
in multiple cose si radduce
soffici mimose d’incantatori
doppia fascia da noi ai Capetingi
Boccadoro stese le chiarine
sui muri a Gerico il rematore
in contumacia scagliona le acque sul fiume de’ morti
trovato per caso in tasca di Togliatti
PASSI IL MONDO E VENGA LA GRAZIA
giorno tremendo e amaro sarà Quello
specie pel tordo e la ghiandaia.
* * *
Canto le finezze del boscaiolo e gli amori
dell’orsa che le rame dell’olmo scoscia
e il gracile nibbio che solo per morire
plana vincoli infrange il socio del pilano
in santificazione e scandalo viene con stringhe
sigilla verità in documento quant’è rivelato
puntualmente adora non che ci aspetti lepido
mago al balzello dei tassi granturco che Guidino
scròna ma dolce e festevole pegno che ride.
A che mi valse dunque precorrere il giudizio
se come la lepre ho a debito la vita
patire fiero e austero e inveisce sordo
censura sarchia l’orto e il giardino dell’odalisca
che quando ha figliato per legge non è più schiava
incauto designa i migliori gobboni ne le grotte
d’Altamira quand’era elegante ribellarsi
frasi ellittiche cannonate di segatura
sappiatelo enòrmi fa la Rinuncia
sincretismo scettico odierno al massimo
grado l’eco e il rintrono dell’eco
e il dubbio metodico e il biriuntume dei distinguo
passerà non essendoci più la materia del contendere
difatti deficienza di bene è il male eppure
anch’io ero giovane come l’acqua.
Traluce fin qui Zita Pepi e questo cartoccino
di lievito benevolenza non priva d’assempri manda.
* * *
Ancora una giornata di libeccio!
da dove si scatenerà il vento?
draghi proclivi all’azione in una poderosa
fuga svaporano da mare a mare
tempeste alte anelli rutilanti
e raffiche nei grani verdi e bassi
gualcati da colonne impalpabili d’aria
tenaci fino a quando i fossi rabbrividiscono
nell’ora del tramonto allora dai campi
a schiere, non visti, riescono pattuglie
e singoli Animali grandi Animali
di proiezioni paranoidi e belli più dei soliti
recinti cari a la zoologia una bizzarra indomita
geometria li scova e li compone a sparute
famiglie dal bosco ispido al suono dei Forti,
alzano le imprese filiformi esseri aguzzi
denti, vampe d’occhi sul muso lacerato
da un diadema pensile di penne:
fiat dei giardini cinesi.
Al secondo segnale convenuto
calandosi dai rami nodosi babbuini
con serbatoi di viola e terra d’ombra
e lanceolate eruzioni a limitar del cranio
orrendo e ricadenti in due distinti lobi
spugnosi giravano intanto che altri
a rotelle di cinque o sei tréscano col muso lungo
nel fondone de le Caggiòle podere sfitto
terre sode ormai in mano ai pastori
diresti una teoria spregiosa di quest’italianissima
primavera, tutta boccucce e complimenti per
i meglio equipaggiati; di là il mondo soffre
col suo pietoso e protervo spudorato campionario
di pazzi furiosi che lasciano al monaco
il suo fruire del Padre e del Figlio
e degli Innumeri canti del Santo Spirito
Corona inaspettata di èsili e rimarciti
successi portano da sole a sole il barbaglio
e la clamide di ciò che in solido eravamo
prima di smarrirci in un dedalo
di promesse dannive.
* * *
Da Passi il mondo e venga la Grazia
Da ragazzi in campagna
e da per tutto
quando la fornace del giorno
è spalancata per noi
come un carcere di sterpi
che fiorisca
in un grido salutare
circolano umane parole
ed un silenzio vivace
assottiglia il cuore.
Quell’ora sbrecciata
e festevole e muta
cerco da sempre
come fosse il prencipio
del canto
e di ogni miseria.
Marzo 1991
D’inverno poi era un omone goffo
col male da ragazzi
la moglie lo portava all’aria
per riguardo gli metteva un gavòggiolo
di lana ‘ntorno al collo
la gente lo scansava da lontano.
Avrebbe portato la pappa al diavolo.
Una mattina rideva forte
non chiamò nessuno
perché era fatto strullo
sparì dai vincoli
prese da campione
una spettacolosa morte.
Settembre 1984
L’ANGELO DI GÓRGITI
A Lorenzo Bonechi,
in memoria
I
Se a notte albergando
in piedi
co’ la gòta al vetro
Giovannino di Lorenzo
da viva voce mosso
a indicarci a dito
venisse
con lieve tremito di stupore
venisse a indicare
per via di sangue e Rivelazione
il passaggio del luminoso pellegrino
in pochi allora vedrebbero
levarsi
una caverna di luce
camminante
nel buio ingordo
che quaggiù stringe
a la dimora.
II
A pochi sarebbe dato in sogno
vedere l’Angelo di Górgiti
salire
verso la sua chiamata
al guado
de la terribile volontà
e misericorde
salire frusciando l’alie
sui muri de le case
dove ancora resiste
il lumino a la Madonna.
III
Recide un’altra gioia
lo spasimo d’ombre
che la Fonte salutare
appiana.
Come per noi
come per noi
vedo salire e crescere
il solitario battistrada
fragile ostaggio
del fuoco dell’Amore
muto fiore
che invoca intatto
per dentro l’anima
che geme
dal trasparente
nostro gelo.
IV
Ma non è da morte
il cielo spaventoso de la morte
l’aria che nel giorno brilla
l’aria che d’ineffabile passo
con luce nutriente
sposa
l’aria che di porpora veste
ogni mattino
non è da morte.
L’aria del tuo atroce pianto
l’aria del muto cerchio
del cielo muto
l’aria che l’immane deserto
asciuga
non è da morte.
L’aria del pianto sordo
de la notte scura.
Non è da morte.
V
Vedo che il cielo buio
de la morte
cadrà in cenere
nel lento mormorìo
dell’Angelo
che noi sequestra
o in un tonfo solo
precipite
se ne andrà confusa
perché non è da morte.
VI
Nome per nome
da vero l’Angelo sequestra
ma non è da morte
se chi muore s’addorme
lieve
ne la verzura del candido Giardino.
VII
Verso l’ignoto
oltre i bastioni
invisibili del pianto
ne la Città Celeste
l’Angelo del Mistero
scorta l’anima di Lorenzo
lassù dove soltanto
di luce
risuona
il Verbo dell’Agnello
immacolato.
21 gennaio 1997
Da Dell’invincibile sogno
Che rimbalzo ha nella tempesta fragorosa
il martoriato canto del vostro cuore
eccolo nel mio quartiere acquarteriato
m’arriva
come a notte un lumicino
mi cammina dentro e sale come
vapore turchino che vada in cerca
de la mamma.
Lo sento in me
rugliare in corpo
come per voi
è una sillaba
dolce e asprigna come la mora
che dondola nei rovi
l’occhi acuti del settembre.
Distinguo meglio ora
un’ape da lo sciame
che ronza ammontinato al miele.
Un rusignolo distinguo da un agile pettière
entrambi già nella rosa del piombo fino
due capi salvati in extremis
da un vago moscerino
che fastidia tutto il cacciatore.
Verrò in bicicletta come mio padre
che a Buonconvento in Val d’Arbia
trovò per strada Piero Bargellini
romèo dell’Anno Santo
Giovanni Scheiwiller come
un fanale che ne la notte cerca
tra orti segnalati qualcosa che combini
con lui, un barbaglio di Speranza
da uno strame
folto di verzure e un male
chiuso-bene a ceralacca
dove la voce che trapela
è di suo padre morto
sotto un tranvai
la notte gridolina di Natale.
Poesie tratte da Nuovi poeti italiani, 2 ; a cura di Alfonso Berardinelli ; Torino : G. Einaudi, 1982 · Collezione di poesia ; 179
Massimo Lippi, Passi il mondo e venga la grazia ; prefazione di Giovanni Raboni ; Milano : All’insegna del pesce d’oro, 1999 · Acquario ; 265 · [ISBN] 88-444-1440-6
Massimo Lippi, Dell’ invincibile sogno ; Milano : s.n., 2004 · Stampato per i novant’anni di Paolo Franci ricordando Vanni Scheiwi-
MASSIMO LIPPI
Breve biografia di Massimo Lippi è nato il 14 Gennaio del 1951 a Ponte a Tressa, vicino a Siena, dove vive e lavora.
Sono essenziali alla sua formazione l’apprendistato presso lo zio Olinto, figura di ingegnoso artigiano, e l’insegnamento di Zita Pepi, che gli fa incontrare la poesia.
Frequenta l’Istituto d’Arte di Siena avendo fra i suoi insegnanti più cari Virgilio Carmigniani. Inizia a frequentare il maestro Albert Lassuer.
Si laurea in Storia dell’Arte con Giuliano Briganti con una tesi sullo scultore Alberto Sani.
Enzo Carli accompagna con un importante scritto di presentazione la sua personale a Empoli (1987).
Si sposa con Elisabetta da cui ha quattro figli.
Insegna per 10 anni scultura all’Istituto D’arte di Siena, e quindi all’Accademia di Carrara e Macerata.
Lascia l’insegnamento per dedicarsi interamente all’attività artistica che lo vede presente in Italia, in Europa e nelle Stati Uniti con opere monumentali. Viaggia per motivi di studio e di lavoro negli Stati Uniti, in Russia e Cina. Espone in Italia e all’estero.
E’del 1982 l’esordio poetico nell’antologia einaudiana dei Nuovi Poeti Italiani, con prefazione di Alfonso Berardinelli. Escono quindi presso Scheiwiller i suoi primi libri di poesia, Non popolo mio (1981) e Passi il mondo e venga la Grazia (1999, finalista al Premio di Viareggio), autorevolmente prefatti da Franco Fortini e da Giovanni Raboni, che lo segnalano tra i poeti più forti e originali della sua generazione. Seguono altri tre volumi di poesia, Nuziale (Giorgio Lucini,2003), Dell’invincible Sogno (Giorgio Lucini,2004), ed il recente Exilium (Cantagalli, 2008, finalista al Premio Viareggio-Rèpaci 2009).
Nel mese di marzo 2004 è Visiting Professor all’Università S.M.U. di Dallas, Texas.
Debutta come autore di teatro e regista con l’allestimento di una Sacra rappresentazione, Trasfigurazione, per la Chiesa di Abbadia Isola di Monteriggioni (5 Agosto 2006), a cui seguono Il Gommone messo in scena al Teatro dei Rozzi di Siena il 31 ottobre 2007, e ancora per la Chiesa di Abbadia Isola di Monteriggioni l’atto unico Marta e Maria (7 marzo 2008).
E’presente con una scultura in pietra di grandi dimensioni al IV Convegno Ecclesiale di Verona (ottobre 2006).
Tra i suoi lavori di maggior impegno si ricordano Il Presbiterio della Chiesa di S. Francesco a Pienza (2002), Il Portale in Bronzo della Chiesa di SS. Giusto e Donato di Monteroni D’Arbia (2003), della Chiesa di Cristo Redentore di Monsummano Terme (2004) e recentemente della Chiesa di S. Domenico Savio a Vittoria-Ragusa (2010).
Esegue il monumento Il canto del gallo risveglia la Pace tra Forte dei Marmi e Querceto (2008) e la statua in marmo di S. Bernardo Tolomei a Monte Oliveto Maggiore (2009).
Per la città di Siena ha dipinto il Palio del 2 luglio 1993, ha realizzato le sculture per il museo della Nobile Contrada dell’Oca (1995), Il Crocifisso della Madonna del Voto per il Duomo (2003), il ciborio in bronzo per la Basilica di S. Maria di Provenzano (2005), il Gavinone di Piazza del Campo (2006) e il portale bronzeo della Basilica di S. Domenico dedicato a S. Caterina (2000-2006).
Lascia l’insegnamento per dedicarsi interamente all’attività artistica che lo vede presente in Italia, in Europa e nelle Stati Uniti con opere monumentali. Viaggia per motivi di studio e di lavoro negli Stati Uniti, in Russia e Cina. Espone in Italia e all’estero.
E’del 1982 l’esordio poetico nell’antologia einaudiana dei Nuovi Poeti Italiani, con prefazione di Alfonso Berardinelli. Escono quindi presso Scheiwiller i suoi primi libri di poesia, Non popolo mio (1981) e Passi il mondo e venga la Grazia (1999, finalista al Premio di Viareggio), autorevolmente prefatti da Franco Fortini e da Giovanni Raboni, che lo segnalano tra i poeti più forti e originali della sua generazione. Seguono altri tre volumi di poesia, Nuziale (Giorgio Lucini,2003), Dell’invincible Sogno (Giorgio Lucini,2004), ed il recente Exilium (Cantagalli, 2008, finalista al Premio Viareggio-Rèpaci 2009).
Nel mese di marzo 2004 è Visiting Professor all’Università S.M.U. di Dallas, Texas.
Debutta come autore di teatro e regista con l’allestimento di una Sacra rappresentazione, Trasfigurazione, per la Chiesa di Abbadia Isola di Monteriggioni (5 Agosto 2006), a cui seguono Il Gommone messo in scena al Teatro dei Rozzi di Siena il 31 ottobre 2007, e ancora per la Chiesa di Abbadia Isola di Monteriggioni l’atto unico Marta e Maria (7 marzo 2008).
E’presente con una scultura in pietra di grandi dimensioni al IV Convegno Ecclesiale di Verona (ottobre 2006).
Tra i suoi lavori di maggior impegno si ricordano Il Presbiterio della Chiesa di S. Francesco a Pienza (2002), Il Portale in Bronzo della Chiesa di SS. Giusto e Donato di Monteroni D’Arbia (2003), della Chiesa di Cristo Redentore di Monsummano Terme (2004) e recentemente della Chiesa di S. Domenico Savio a Vittoria-Ragusa (2010).
Esegue il monumento Il canto del gallo risveglia la Pace tra Forte dei Marmi e Querceto (2008) e la statua in marmo di S. Bernardo Tolomei a Monte Oliveto Maggiore (2009).
Per la città di Siena ha dipinto il Palio del 2 luglio 1993, ha realizzato le sculture per il museo della Nobile Contrada dell’Oca (1995), Il Crocifisso della Madonna del Voto per il Duomo (2003), il ciborio in bronzo per la Basilica di S. Maria di Provenzano (2005), il Gavinone di Piazza del Campo (2006) e il portale bronzeo della Basilica di S. Domenico dedicato a S. Caterina (2000-2006).
Poesie di Giulia Fuso–Poesie inedite pubblicate dalla Rivista Atelier-
Giulia Fuso ha pubblicato le raccolte poetiche “E dentro luccica” (Miraggi Edizioni, 2016), “Tu non dismetti mai le cose” (Eretica Edizioni, 2018) e “Le rimanenze” (Interno Libri, 2021).
Ricordo l’odore del tuo collo
appena ti ho visto con il naso
ha affittato un piccolo piatto mansardato
nella mia bocca chiusa
joli petit plat
descrivo un suono con il colore che è
che sarebbe, se fosse vincolabile
paragonabile a qualsiasi forma di vita
descritta con aggettivi omologanti
studiati alle scuole primarie
è quindi un suono blu
l’odore del tuo collo
una bacchetta magra di peli
fradicia di sudore e cibo,
la cosa più amata da me
se cosa fosse.
*
Ci vuole un altro volto
essere pesci pacati mio incostante rifugio atomico
per far passare il tempo,
il tempo che fa marachelle
fuori dal mio ombelico
le lucertole dicono sì,
con la testa cotta.
*
Metto i piedi al sole per far festa
per far la festa ai passi, alla strada
che l’unica via aperta è una parola
non stringo che reflusso postprandiale
quando ricordo l’alfabeto emozionale
e collego a ad amore, b a balneare t a tram delle diciotto con la morte sotto;
sarò crosta, peduncolo mortale.
Breve biografia –Giulia Fuso ha pubblicato le raccolte poetiche “E dentro luccica” (Miraggi Edizioni, 2016), “Tu non dismetti mai le cose” (Eretica Edizioni, 2018) e “Le rimanenze” (Interno Libri, 2021).
La rivista «Atelier»ha periodicità trimestrale (marzo, giugno, settembre, dicembre) e si occupa di letteratura contemporanea. Ha due redazioni: una che lavora per la rivista cartacea trimestrale e una che cura il sito Online e i suoi contenuti. Il nome (in origine “laboratorio dove si lavora il legno”) allude a un luogo di confronto e impegno operativo, aperto alla realtà. Si è distinta in questi anni, conquistandosi un posto preminente fra i periodici militanti, per il rigore critico e l’accurato scandaglio delle voci contemporanee. In particolare, si è resa levatrice di una generazione di poeti (si veda, per esempio, la pubblicazione dell’antologia L’Opera comune, la prima antologia dedicata ai poeti nati negli anni Settanta, cui hanno fatto seguito molte pubblicazioni analoghe). Si ricordano anche diversi numeri monografici: un Omaggio alla poesia contemporanea con i poeti italiani delle ultime generazioni (n. 10), gli atti di un convegno che ha radunato “la generazione dei nati negli anni Settanta” (La responsabilità della poesia, n. 24), un omaggio alla poesia europea con testi di poeti giovani e interventi di autori già affermati (Giovane poesia europea, n. 30), un’antologia di racconti di scrittori italiani emergenti (Racconti italiani, n. 38), un numero dedicato al tema “Poesia e conoscenza” (Che ne sanno i poeti?, n. 50).
Direttore responsabile: Giuliano Ladolfi Coordinatore delle redazioni: Luca Ariano
Redazione Online Direttori: Eleonora Rimolo, Giovanni Ibello Caporedattore: Carlo Ragliani Redazione: Mario Famularo, Michele Bordoni, Gerardo Masuccio, Paola Mancinelli, Matteo Pupillo, Antonio Fiori, Giulio Maffii, Giovanna Rosadini, Carlo Ragliani, Daniele Costantini, Francesca Coppola.
Redazione Cartaceo Direttore: Giovanna Rosadini Redazione: Mario Famularo, Giulio Greco, Alessio Zanichelli, Mattia Tarantino, Giuseppe Carracchia, Carlo Ragliani.
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La rivista «Atelier» ha periodicità trimestrale e si occupa di letteratura contemporanea.
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L’inventore di libri Aldo Manuzio, Venezia e il suo tempo-Articolo di Alessandro Marzo Magno
L’inventore di libri Aldo Manuzio-Forse non lo sapete, ma il piccolo oggetto che avete in mano – così maneggevole, chiaramente stampato, dai caratteri eleganti, corredato da un frontespizio e da un indice – deve quasi tutto al genio di Aldo Manuzio, che cinque secoli fa ha rivoluzionato il modo di realizzare i libri e ha reso possibile il piacere di leggere. Benvenuti nel mondo del primo editore della storia.
Il libro – così come lo conosciamo ancora oggi – nasce a Venezia tra la fine del Quattrocento e i primi anni del Cinquecento. Padre di questa invenzione è Aldo Manuzio. Nato a nel Lazio, transitato per Ferrara e per Carpi, dov’era docente dei principi Pio, approda ormai quarantenne a Venezia. La città in quegli anni è l’indiscussa capitale europea della stampa e così il precettore si trasforma in editore. Pubblica inizialmente grammatiche e testi in greco necessari per apprendere la lingua classica. Poi i suoi orizzonti si allargano: nel 1501 dà vita a una vera e propria rivoluzione, quella del libro tascabile. Se prima si leggeva per necessità (e lo si faceva a voce alta), da quel momento leggere diventa un piacere a cui dedicarsi nel silenzio dell’intimità. E non finisce qui. Manuzio, con il suo amico Pietro Bembo, importa nel volgare italiano i segni di interpunzione che erano utilizzati soltanto nel greco antico: accenti, apostrofi, virgole uncinate e punto e virgola. Quando muore, nel 1515, il mondo del libro è definitivamente cambiato. Alessandro Marzo Magno ricostruisce le tappe di una straordinaria carriera, nell’unico posto al mondo dove sarebbe stata possibile: Venezia.
L’autore è Alessandro Marzo Magno,veneziano per nascita e milanese per lavoro, si è laureato in Storia all’Università di Venezia Ca’ Foscari. Giornalista, dopo essere stato per quasi dieci anni responsabile degli esteri del settimanale “Diario”, dirige il semestrale “Ligabue Magazine” e scrive nella pagina culturale del “Gazzettino”. Ha pubblicato libri di argomento storico, tra i quali L’alba dei libri. Quando Venezia ha fatto leggere il mondo (Garzanti 2012, più volte ristampato e tradotto in inglese, spagnolo, giapponese, coreano e cinese) e Missione grande bellezza. Gli eroi e le eroine che salvarono i capolavori italiani saccheggiati da Napoleone e da Hitler (Garzanti 2017). Per Laterza è autore di L’inventore di libri. Aldo Manuzio, Venezia e il suo tempo (2020).
Edizione: 2020, III rist. 2021 Pagine: 224, ril. Collana: i Robinson / Letture ISBN carta: 9788858141601 ISBN digitale: 9788858143636
L’inventore di libri Aldo Manuzio
Erasmo su Aldo-A chi con i libri lavora, di libri vive, i libri ama.
«È un’impresa erculea, per Ercole!»
Arthur Schopenhauer:”I libri sono compagni, insegnanti, maghi, banchieri dei tesori del mondo,i libri sono l’umanità stampata”.
Aldo Manuzio,L’inventore di libri
1.
Aldo è tra noi
Considerate quello che state facendo in questo preciso momento: avete in mano un libro e lo leggete. Con ogni probabilità siete seduti o distesi, e certamente in silenzio, ovvero non state compitando le parole a voce alta, come quando la maestra a scuola vi chiedeva di leggere per il resto della classe. State svolgendo quest’attività (leggere) perché vi dà piacere, oltre che accrescere il vostro patrimonio di conoscenze; anzi, è molto probabile che se non vi appagasse, trascurereste anche l’incremento del sapere.
L’oggetto che sta occupando la vostra attenzione è un parallelepipedo di carta del peso di qualche ettogrammo, maneggevole, dalle pagine stampate in un carattere elegante e chiaro, dove ogni tanto compare qua e là qualche parola in corsivo (per esempio i titoli dei libri, o le parole straniere). Il testo è reso più comprensibile da una serie di segni che chiamiamo di interpunzione: punti e virgola, virgole uncinate, apostrofi, accenti. Tali segni ci guidano nella lettura, ci indicano le pause nonché la loro gerarchia (il punto e virgola «vale» più della virgola), fondono tra loro due parole in modo da semplificarne la lettura, o indicano dove accentare la pronuncia, ancora una volta per facilitarci il compito.
È molto probabile che, una volta notato questo volume nello scaffale o sul bancone di una libreria, lo abbiate preso in mano sollevandone la copertina al fine di poterne guardare il frontespizio, leggerne titolo e sottotitolo e capire chi siano autore ed editore. Poi, se il titolo vi ha solleticato, avete girato qualche pagina per scorrerne l’indice e coglierne meglio il contenuto. Al che avete preso la decisione se riporlo o comprarlo, ma, visto che lo state leggendo, il libro deve aver superato l’esame e vi siete quindi avviati alla cassa.
Benvenuti nel mondo di Aldo, il primo editore della storia. Tutto quello che avete letto nelle righe appena scorse lo dovete a lui. In precedenza chi imprimeva libri era un semplice tipografo: sceglieva le opere da stampare sulla base del loro potenziale di vendita, ma senza un preciso progetto editoriale. L’attenzione alla qualità era minima, il numero dei refusi negli incunaboli – i «libri in culla», cioè stampati entro la fine del 1499 – ci parla ancor oggi di scarsa accuratezza, di composizioni tirate via, di bozze riviste senza troppo impegno. Con Manuzio cambia tutto: Aldo è davvero «l’inventore della professione dell’editore moderno, colui cioè che si avvicina ai libri avendo in mente un preciso e coerente programma culturale», come osserva Mario Infelise, storico dell’editoria e del libro all’università di Venezia, Ca’ Foscari. Manuzio ha fatto del libro «il più efficiente strumento per l’accumulo e la trasmissione delle conoscenze umane degli ultimi cinque secoli».
Lodovico Guicciardini è un nobile fiorentino che vive ad Anversa, discendente del più noto Francesco. Nel 1567 pubblica la Descrittione di tutti i Paesi Bassi, nella quale, nonostante fosse scomparso ormai da un cinquantennio, si ritrova a parlare di Aldo Manuzio, «il quale a giudizio d’ognuno […] ridusse veramente la stampa a perfettione, talché non si diceva, ne cercava altro, che la stampa d’Aldo perché era tanto pura e netta. Innanzi a Aldo […] non si trovava che grosse, goffe e scorrette impressioni senza vista e senza grazia, ma egli non perdonando nulla con ingegno, e con giuditio la polì, facilitò e ridusse (come io dico) a ordine e regola perfetta».
Aldo è un uomo colto, coltissimo: conversa fluentemente in greco antico, traduce a vista dal greco al latino e viceversa, ha studiato l’ebraico. Ha in mente un ben preciso progetto editoriale: stampare i classici greci in greco. Successivamente estenderà il suo programma ai classici in latino e ai testi in volgare. La più efficace enunciazione del programma aldino è quella di un umanesimo senza confini che, anni più tardi, farà dire ad Erasmo: «Anche se la sua biblioteca è chiusa dalle anguste pareti della casa, Aldo ha intenzione di costituire una biblioteca la quale non abbia altro confine che il mondo stesso».
Aldo si era dato un piano che definire ambizioso è riduttivo: «Verrà pubblicato tutto ciò che merita d’esser letto». Non si esaurisce qui, però: Manuzio è anche un attento, attentissimo, imprenditore. Sarebbe esagerato dire che si metta a stampare per i soldi, ma di sicuro con la stampa guadagna denaro: riesce a garantire una discreta agiatezza a sé e ai suoi eredi. È il primo a unire i due aspetti che dovrebbero caratterizzare un editore anche ai giorni nostri: la conoscenza culturale e la capacità imprenditoriale. Prima dell’inizio della sua attività non ci sono notizie di rapporti tra eruditi e stampatori che fossero diversi da quelli commerciali.
Manuzio, in quanto studioso che già godeva di solida fama tra i dotti, ha fatto sì che si superassero pregiudizi e incomprensioni tra gli uomini di lettere e quelli d’affari: questo ha reso possibile la rivoluzione che ha investito il mondo della tipografia e quello della cultura.
Aldo Manuzio,L’inventore di libri
La nascita del libro
Ora facciamo un viaggio nel tempo e immaginiamo di essere in una bottega libraria del 1493, ovvero l’anno prima che Manuzio cominci a stampare: vedremmo libri privi di quasi tutte le caratteristiche che ci sono tanto familiari – le abbiamo elencate all’inizio – se non quella di essere costituiti da carta stampata con l’inchiostro. Se invece entrassimo in quella medesima bottega una ventina di anni più tardi, ad esempio nel 1515, ovvero quando Aldo Manuzio muore, ci ritroveremmo ad avere a che fare con un oggetto riconoscibile: un libro maneggevole e stampato in modo da essere leggibile ed elegante.
Al di là di carta e inchiostro, tutto quello che caratterizza un libro come lo conosciamo noi oggi lo dobbiamo ad Aldo Manuzio. Questo signore colto e raffinato ha messo in mano ai suoi contemporanei di mezzo millennio fa un oggetto che usiamo sostanzialmente immutato ancora ai nostri giorni. E la locuzione «mettere in mano», come vedremo nel capitolo sui libri tascabili, va intesa in senso letterale.
Con Manuzio nasce un libro nuovo e diverso in tutto; la sua pagina a stampa appare ai contemporanei talmente perfetta da non far più rimpiangere gli antichi codici manoscritti. I «buoni libri» di Aldo Manuzio decretano la fine dei codici: erano trascorsi oltre mille anni dal IV secolo d.C., da quando cioè i fogli rettangolari di pergamena legati fra loro avevano preso il posto dapprima appartenuto ai rotoli di papiro.
Vedremo più avanti come Aldo introduca il bisogno di leggere e la lettura per passatempo, ma diciamo subito che a tutto questo si accompagna pure l’idea dell’interpretazione del testo, del libero arbitrio, della libertà di opinione. Elementi che oggi ci appaiono scontati: si legge un libro e lo si giudica, si decreta se sia piaciuto o meno, se sia scorrevole, noioso, piacevole, avvincente e via così. Nel XV secolo, invece, le cose stavano assai diversamente. Gli scritti erano pubblicati assieme a tutto l’apparato dei commenti, dagli antichi ai moderni, gli stampatori si sforzavano di dare sempre almeno tre-quattro commenti, intrecciati tra loro a mosaico nei margini di grandi libri in formato in folio (ovvero i volumi nei quali i fogli di carta venivano piegati solo una volta, le cui dimensioni si aggiravano almeno sui 40×26 centimetri).
Si trattava quindi di una sorta di testo accompagnato da ipertesto che di fatto impediva di elaborare un giudizio: tutto quello che ci sarebbe stato da dire era già stato detto in precedenza dagli antichi sapienti; e chi mai avrebbe osato contraddirli. Aldo fa una scelta radicale: spoglia il testo, lo pubblica integrale, nudo, senza commenti che lo circondino e lo soffochino. Ognuno sarà libero di interpretarlo come preferisce. Manuzio mette definitivamente fine alla moda del testo incorniciato dalle spiegazioni.
La novità dev’essere prorompente agli occhi dei contemporanei, un po’ come – spostandoci nell’architettura – succederà una quarantina d’anni più tardi, quando Andrea Palladio al posto di edifici di mattoni rossi, pieni di pinnacoli e arzigogoli, comincerà a costruire fabbricati di pietra bianca, lisci e squadrati. La nudità dei testi imposta da Aldo doveva provocare un effetto simile a quello ispirato dall’essenzialità degli edifici voluta da Palladio. Già fermandosi qua sarebbe evidente la portata della rivoluzione aldina. Eppure c’è dell’altro. E che altro.
Aldo Manuzio,L’inventore di libri
Il marketing
Aldo Manuzio ha avuto l’accortezza di intuire il potere della promozione commerciale e, se non si temesse di esagerare nel dipingerlo a colori troppo brillanti, si potrebbe anche dire che è stato un autentico genio della vendita di se stesso e dei propri prodotti. Ha utilizzato i mezzi che aveva a disposizione, in particolare le dediche e le prefazioni. Ai nostri occhi la dedica di un libro può apparire superflua perché alla fin fine il libro di per sé – al di là del contenuto – oggi è un prodotto comune; entriamo in una libreria e vediamo volumi a migliaia, a decine di migliaia qualora la libreria sia grande; in una biblioteca ce ne possono addirittura essere milioni, svariati milioni in alcuni casi: la biblioteca del Congresso, a Washington DC, la maggiore del mondo, possiede 28 milioni di volumi. In tante case almeno una parete è ricoperta di libri e il costo di ogni singolo testo è, nella media, abbastanza contenuto e affrontabile dalla stragrande maggioranza della popolazione.
Alla fine del Quattrocento, però, non era così: il libro a stampa era stato inventato una quarantina di anni prima, si trattava di una novità preziosa e ricercata, gli esemplari in circolazione erano pochi e costosi, se non costosissimi. Le dediche, quindi, servono ad Aldo per stabilire una relazione con i potenti ed è bravissimo a ottenere il risultato: nessun altro editore riuscirà a tessere una tela di rapporti a livello tanto alto: l’imperatore Massimiliano I d’Asburgo arriva a definire l’editore «familiare nostro»; Lucrezia Borgia sarà nominata sua esecutrice testamentaria e lo accoglierà a Ferrara durante la guerra di Cambrai; Isabella d’Aragona, moglie di Gian Galeazzo Sforza, riceve un salterio greco con dedica. Il record delle dediche spetta ad Alberto Pio, principe di Carpi: Manuzio gli destina ben dodici edizioni (avremo modo di approfondire nelle pagine che seguono la lunga relazione tra i due).
Alla vigilia dell’erompere della guerra di Cambrai, che contrappone a Venezia una coalizione di potenze europee, quando ormai già si udivano tintinnare le spade, Manuzio intitola edizioni a importanti esponenti di entrambe le parti che si stavano per affrontare. Nel marzo 1509, due mesi prima della fatale – per i veneziani – battaglia di Agnadello, dedica un Plutarco a Jacopo Antiquari, già uomo di fiducia degli Sforza, e un Orazio a Jeffroy Charles, nobile francese originario di Saluzzo nonché presidente del senato milanese (salvo un’eccezione nel 1503, queste sono le uniche dediche aldine che riguardino Milano). Un mese dopo, nell’aprile 1509, a guerra ormai dichiarata, destina Sallustio a Bartolomeo d’Alviano, vicecomandante generale delle truppe veneziane: la sola volta, questa, che indirizza un’opera a un uomo d’arme. È evidente il desiderio di costruirsi benemerenze sui due fronti; utilizzando un linguaggio odierno le si potrebbe definire dediche bipartisan, senza pensare a termini più grevi.
Aldo Manuzio,L’inventore di libri
Il ruolo delle prefazioni
Le prefazioni costituiscono il testo più importante che Aldo ci abbia lasciato; quello dove, come qualcuno ha scritto, «alterna toni gravi ad altri ironici, sfodera qualche aneddoto e battuta, lancia strali ed elogi, riflette su di sé e sul mondo, e in tal modo ci cattura». Gli esordi diventano il mezzo per comunicare con i lettori, per ingraziarseli: «Sii clemente quando trovi qualche sbaglio», oppure «Per ora, mancando vasi d’oro e d’argento, accontentiamoci, come suol dirsi, di quelli di coccio». Le prefazioni costituiscono il manifesto ideologico aldino, il luogo dove Manuzio proclama la propria idea di conoscenza come bene comune: «Si impicchino» quelli che tengono i libri nascosti a casa, «d’animo così basso da affliggersi per un bene fornito a tutti». Aldo è un precursore: il concetto che la cultura debba essere a disposizione di chiunque si farà strada soltanto ai tempi della rivoluzione francese.
L’editore usa le prefazioni anche per creare l’effetto attesa: «Pubblicheremo altresì tutti i matematici» (1497), «Aspettatevi in breve un Dante» (1501). Inventa un modello di prologo affettuoso e diretto, dove affiora il valore dell’amicizia umana: «Il grande affetto che ti porto», scrive a Girolamo Aleandro (1504), cardinale e umanista originario di Motta di Livenza, nel Trevigiano. «Io vorrei poter sempre stare con te, vivere con te», dice a Marin Sanudo (1502), patrizio e autore dei Diarii. Si tratta di una cronaca giornaliera di Venezia cominciata nel 1496 e terminata nel 1533, tre anni prima della morte: 58 volumi in 37 anni, la più importante fonte storica della Venezia di fine XV e inizio XVI secolo. Lo incontreremo ancora, Sanudo, perché amico di Aldo e anche in quanto proprietario di una delle più importanti biblioteche cittadine dell’epoca.
La fama delle raccolte librarie veneziane del tempo è tale da richiamare visitatori di grande prestigio: nel 1490 arriva a Venezia Giano Lascaris, a caccia di codici greci per conto di Lorenzo de’ Medici. Lascaris visita le biblioteche di Ermolao Barbaro, erede dell’umanesimo avviato dal Petrarca e maestro della generazione di Erasmo; di Alessandro Benedetti, professore a Padova, che aveva trascorso quindici anni in Grecia, acquistandovi manoscritti di pregio; e pure quella di Gioachino Torriano, priore del convento domenicano dei santi Giovanni e Paolo (lo stesso dove vive Francesco Colonna, il frate ritenuto autore dell’Hypnerotomachia Poliphili, di cui diremo ampiamente), che aveva acquistato manoscritti provenienti dalla biblioteca di Mattia Corvino, il sovrano ungherese morto nel 1490. Anche i codici di Bessarione vengono dal 1494 provvisoriamente depositati a San Zanipòlo, come i veneziani chiamano i santi Giovanni e Paolo, e Torriano sarebbe stato molto contento di trasformare da temporaneo a definitivo il deposito del fondo nella propria biblioteca. Il cardinale Bessarione è il dotto umanista greco che nel 1468, quattro anni prima della morte, dona alla repubblica di Venezia i manoscritti bizantini che costituiscono il nucleo fondativo dell’attuale Biblioteca nazionale Marciana.
Aldo Manuzio,L’inventore di libri
Il catalogo
Oggi ci appare tutto sommato ovvio consultare il catalogo di una casa editrice, ma anche di questo dobbiamo essere grati a Manuzio. Aldo pubblica il primo elenco di edizioni nel 1498 e vi enumera soltanto le opere greche – in quel momento evidentemente costituivano quel che davvero gli interessasse – salvo sporadiche eccezioni, tra le quali il De Aetna che con ogni probabilità aveva stampato per amicizia e gratitudine verso l’autore, Pietro Bembo, o le composizioni latine di un altro amico, Angelo Poliziano, impresse in un massiccio in folio che riunisce gli scritti inediti dell’umanista fiorentino. Sono presenti quindici titoli ripartiti in otto sezioni tematiche; la più affollata è quella delle grammatiche, con cinque opere.
Il secondo catalogo, del giugno 1503, distingue tra libri greci, latini e «portatili in forma di enchiridio», ossia i tascabili (che vedremo più avanti); il terzo e ultimo risale al novembre 1513 e non contiene, come invece i precedenti, l’annuncio di futuri libri. I primi due cataloghi riportano anche i prezzi minimi: non sappiamo se i cartolai – i rivenditori di libri – li rispettassero o se invece vendessero i volumi più cari. Un indizio tuttavia ci arriva da Siviglia, grazie alla biblioteca di Fernando Colombo, figlio di Cristoforo, diventata una delle più importanti della prima metà del XVI secolo in virtù dei 15 mila libri che conteneva.
Colombo junior doveva essere pignolo, infatti per la maggior parte delle opere ha annotato data, luogo e prezzo dell’acquisto, con il costo sempre convertito in moneta spagnola, cosa che ci rende possibili i raffronti. Delle ventisei aldine comperate in luoghi diversi, quattordici registrano il medesimo costo annotato nei cataloghi manuziani, di dieci conosciamo soltanto il prezzo pagato da Colombo, di due non abbiamo informazioni.
Un’ulteriore idea ce la possiamo fare anche utilizzando il Zornale di Francesco de Madiis, ovvero il resoconto quotidiano della vendita in una bottega veneziana di 25 mila libri tra il maggio 1484 e il gennaio 1488, ognuno registrato con titolo e prezzo. Il manoscritto, un documento di eccezionale valore, è conservato nella biblioteca Marciana. L’elenco termina sei anni prima che Manuzio cominci a stampare e si riferisce a volumi molto diversi fra loro, ma gli studiosi di storia del libro hanno calcolato il costo per singolo foglio stampato in modo da ottenere un valore coerente.
Visto che in quei tempi i prezzi avevano andamenti piuttosto stabili, è possibile effettuare un comparazione tra il costo per foglio delle aldine e delle edizioni del Zornale. Quest’ultimo oscilla tra i 5 e i 10 denari, con punte più alte in caso di formati che utilizzano carta più pregiata. Il costo per foglio delle aldine di grande formato è simile; aumenta invece vertiginosamente nel caso dei tascabili: quelli stampati in greco sono ovviamente più cari e vanno dai 20 agli oltre 30 denari a foglio, mentre nel caso del latino e del volgare italiano si va dagli 11 agli oltre 13 denari a foglio. Questo smentisce una volta per tutte il mito – più volte ripetuto in vari studi del passato – che i tascabili di Aldo fossero a buon mercato, anche se, ovviamente, un volumetto di qualche decina di fogli aveva un costo unitario di molto inferiore rispetto a un volumone composto da centinaia di carte. In ogni caso possiamo concludere che Manuzio sapeva fare assai bene i conti e che le sue edizioni mantenevano una buona valutazione, anche a distanza di anni dall’uscita, cosa non sempre riscontrabile con le opere stampate da altri editori.
L’indice
Ora veniamo a un’ulteriore eredità aldina, a un altro elemento che ai nostri giorni appare connaturato al libro stesso, ma che nei tempi in cui stava nascendo l’editoria moderna non lo era affatto: l’indice. Gli incunaboli non l’avevano e neppure avevano le pagine numerate; al massimo, ma non sempre, erano numerate le carte, o fogli, tanto che oggi per orizzontarci siamo costretti a distinguerle in r (recto) e v (verso). Ci si arrangiava con il fai da te: ognuno, qualora ne sentisse il bisogno, apponeva a mano i numeri ai fogli e si autocompilava un indice di ciò che lo interessava. Poliziano, tanto per fare un nome significativo, era uno di quelli che si facevano gli indici da soli.
Manuzio – mai dimenticarlo – era un maestro e per chi insegna è importante poter individuare un punto preciso all’interno della massa del testo. La stampa, poi, introduce nuove e sconosciute problematiche: gli errori di stampa, tanto per dirne una. Lo sbaglio nella trascrizione commesso da un copista veniva perpetuato nei manoscritti successivi, spesso senza possibilità di riscontro. Un refuso, invece, si moltiplica subito per le centinaia di copie della tiratura. Gli stampatori del rinascimento, quando scoprivano errori in fase di stampa, invece di correggere i fogli difettosi – la carta era costosa – si accontentavano di ritoccare gli esemplari successivi, con il risultato che le copie differiscono in numerosi particolari. In qualche caso l’omissione di parole poteva essere sanata con una correzione a mano in ciascuna copia: alcuni volumi dei Salmi, editi attorno al 1498 sono stati corretti così, probabilmente dallo stesso Aldo. Più in generale interviene una nuova esigenza: fornire una lista di errata con le relative correzioni, nonché con l’esatto punto del libro in cui inserirle; e l’indice, ovviamente, aiuta.
Comprensibile, quindi, quale importanza avessero le errata, e Aldo già nel primo volume che stampa, una grammatica greca (Erotemata, 1495), aggiunge alla fine un foglio di errata. Si capisce subito dove voglia andare a parare: inizia ora una serie di tentativi, di esperimenti di indicizzazione che proseguiranno per tutto il ventennio di attività.
L’indicazione di Manuzio contiene una novità rispetto alle errata che l’avevano preceduta: rinvia alla riga precisa dove apporre la correzione. Il sistema di rimandi risulta in ogni caso complicato perché le pagine sono prive di numero. Ed ecco che nel 1499 Aldo, per la prima volta, inserisce una rivoluzionaria numerazione per pagina. Per pagina, non per carte: in questo modo ogni singola facciata del foglio porta il numero che la contraddistingue. L’innovazione riguarda un enorme in folio di 642 pagine, non a caso un repertorio della lingua latina (Cornucopiae, di Niccolò Perotti). Manuzio aggiunge anche una numerazione riga per riga, cosicché nell’indice riporta due numeri: il primo rimanda alla pagina, il secondo alla riga. Un sistema molto più efficace e preciso rispetto a quello che utilizziamo noi oggi, anche se ovviamente più macchinoso (e costoso).
Aldo si rende ben conto dell’enorme portata del mutamento e infatti lo annuncia orgogliosamente nel frontespizio, chiamandolo «indice abbondantissimo». Grazie a tale sistema si riesce a individuare con un semplice sguardo il punto cercato, non occorre contare una per una né le pagine né le righe. L’editore fornisce anche le istruzioni: «Abbiamo fatto allestire l’indice unendo insieme il greco e il latino. Ma non ti sfugga, lettore carissimo, che puoi separare del tutto agevolmente il latino dal greco a tuo piacimento».
La novità, tuttavia, non viene usata in maniera continuativa, per esempio le prime edizioni tascabili non presentano le pagine numerate, tanto che parecchie copie giunte fino a noi riportano i numeri aggiunti a mano dai rispettivi proprietari. Aldo numera più spesso le edizioni greche rispetto a quelle latine o volgari, talvolta usa cifre arabe, talaltra romane; in alcuni casi elabora indici assai macchinosi, come quello degli Adagia di Erasmo che l’autore ritiene necessario riformulare e semplificare nelle edizioni successive, stampate a Basilea. Soltanto dal 1509 la numerazione per pagina viene inserita con regolarità, anche nei tascabili, sebbene alcune edizioni continuino a essere numerate soltanto per carta. Quello che per Aldo resta un continuo sperimentare, per i successori diventa una regola da seguire fedelmente: in tal modo è stato compiuto un ulteriore, decisivo, passo verso il libro moderno. Anche il frontespizio, sperimentato a Venezia dal tipografo tedesco Erhard Ratdolt, diventa una presenza regolare nei libri impressi nell’officina aldina.
A questo punto dovrebbe essere chiara la portata della rivoluzione manuziana e quale sia stata la sua impronta in grado di segnare per sempre il mondo del libro. In qualche modo siamo tutti figli di Aldo, anche se spesso a nostra insaputa. Nei prossimi capitoli entreremo maggiormente nei dettagli di questa rivoluzione, ma prima dobbiamo renderci conto che un cambiamento di tale portata sarebbe potuto avvenire nell’Europa del rinascimento soltanto in un luogo: Venezia.
La capitale del libro
Aldo Manuzio si trasferisce a Venezia e a Venezia comincia a stampare. Non conosciamo le ragioni che lo abbiano spinto né all’una né all’altra scelta, ma sappiamo benissimo che soltanto lì sarebbe potuto diventare il primo editore della storia. La Serenissima signoria è una repubblica e quindi Venezia è l’unica capitale europea priva di una corte, con tutte le sue limitazioni; inoltre è la città che trasforma il sapere in un prodotto commerciale non diverso da un sacco di pepe, come rileva acidamente un umanista che certo non la amava.
Prima della fine del XV secolo nella Dominante – così veniva chiamata la capitale dello stato veneziano – sono attivi dai 150 ai 200 torchi che stampano in quel periodo il 15 per cento dei titoli impressi nell’intera Europa (4500 su 30 mila), con tirature che variano da un centinaio alle duemila copie. La percentuale sarà destinata a salire fino ad arrivare a quasi la metà dei titoli europei. Nel sessantennio che trascorre dal 1465, anno dell’introduzione in Italia della stampa a caratteri mobili, al 1525, a Venezia si stampa la metà dei libri italiani; dal 1525 al 1550 si arriva ai tre quarti, dal 1550 al 1575 a due terzi. La crescita è talmente impetuosa da far dire a Erasmo che è più facile diventare stampatore che fornaio, ma non può mancare pure il solito lamentoso, un tipografo che se la prende per «la perfida rabia de la concorrentia consueta fra questa miserabil arte».
Vittore Branca, filologo e per tanti anni docente di letteratura italiana a Padova, scriveva che «le tipografie rendono Venezia il carrefour della cultura umanistica europea e le fanno aprire la prodigiosa “via del libro”, quasi a sostituire – almeno in parte – la ormai disastrata “via delle spezie” (fra il 1469 e il 1501 vengono impressi circa due milioni di volumi, soprattutto riguardanti le umanità)». Le quattromila edizioni di incunaboli che vedono la luce a Venezia entro la fine del XV secolo sono il doppio di quelle parigine; nel biennio 1495-1497 – ovvero quando Aldo aveva già aperto la propria tipografia – si stampano in Europa 1821 opere: 447 provengono da Venezia, mentre solo 181 da Parigi, che si colloca in questa classifica al secondo posto.
A permettere l’esplosione dell’attività editoriale è paradossalmente proprio la morte di chi ha introdotto nel 1469 la stampa a Venezia, ovvero il tedesco Giovanni da Spira (o meglio, se vogliamo rendere onore ai suoi natali, Johannes von Speyer). Un anno dopo aver stampato il secondo libro, Plinio, e mentre sta preparando il terzo, sant’Agostino, muore. Il lavoro viene terminato dal fratello Vindelino, ma scomparso Giovanni non è più valido il privilegio che gli accordava il monopolio dell’esercizio della tipografia: da quel momento in poi chiunque lo voglia può mettersi a stampare. Così accade.
Nella prima metà del Cinquecento la Dominante è sì l’indiscussa capitale europea della produzione editoriale, ma contemporaneamente anche un primario centro di consumo: possiedono libri il 15 per cento dei nuclei familiari, i due terzi del clero, il 40 per cento dei borghesi, il 23 per cento dei nobili, il 5 per cento dei popolani; vi si ritrovano alcune delle biblioteche più importanti dell’epoca: il cardinale Domenico Grimani possiede 15 mila volumi, Marin Sanudo 6500; Ermolao Barbaro, bandito da Venezia nel 1491 dopo aver accettato il patriarcato di Aquileia e morto nel 1493, aveva radunato la più ricca tra le numerose biblioteche greche. Non basta: nel 1537 Jacopo Sansovino comincia i lavori per realizzare la Pubblica libreria, ovvero la prima biblioteca statale pubblica (nel senso che viene concepita non come raccolta riservata, ma per essere usufruita dal pubblico), destinata a diventare l’attuale Marciana.
Questa esplosione dell’editoria avviene per un insieme di motivi che vanno dall’ampia liquidità finanziaria a coraggiose scelte commerciali, dalla libertà di stampa a quello che oggi chiameremmo «risorse umane». Nella seconda metà del XV secolo si liberano capitali: i patrizi smettono di investire nel commercio internazionale e si rivolgono altrove, in primo luogo all’acquisto di appezzamenti agricoli nella neoacquisita terraferma veneta, ma non disdegnano di finanziare attività produttive, e fra queste si ritrova anche l’editoria.
Stampare libri è un’impresa ad alta intensità di capitale, soprattutto a causa del notevole costo dei metalli necessari a realizzare i punzoni (acciaio) e i caratteri (lega di piombo, stagno e antimonio). I libri sono beni che viaggiano assieme agli altri lungo le direttrici commerciali che la repubblica aveva già da tempo stabilito e quei traffici sono molto intensi poiché a Venezia si stampa in una molteplicità di lingue.
Approfittando del contrasto tra la Serenissima e il pontefice, e dell’assenza per alcuni decenni dell’Inquisizione romana, le tipografie della Dominante imprimono anche libri – in anni successivi al capostipite dei Manuzio – invisi alle gerarchie ecclesiastiche: testi dei riformati tedeschi e boemi, il primo libro pornografico della storia (Pietro Aretino, Sonetti lussuriosi, 1527), il Talmud che, non a caso, sarà protagonista del primo grande rogo di libri in piazza San Marco, nell’ottobre 1553, comunicato in tempo reale a papa Giulio III dal nunzio apostolico, Lodovico Beccadelli: «Questa mattina s’è fatto un buon fuoco su la piazza di San Marco». A Venezia, infine, si ritrova al completo tutta quella che oggi si definirebbe «filiera del libro»: incisori, rilegatori, inchiostratori, torcolieri, studenti dell’università di Padova disponibili a correggere bozze e, soprattutto, si ha grande disponibilità di carta.
Per produrre carta c’è bisogno di tanta acqua dolce, corrente e pulita (altrimenti la carta vien fuori giallastra), e ovviamente non la si poteva fabbricare in città, ma lo si faceva nello stato da tera: lungo i fiumi Brenta e Piave, nonché sul lago di Garda, e quegli stessi fiumi venivano anche utilizzati come arterie di trasporto per trasferire la medesima carta che avevano contribuito a generare.
A determinare l’alta domanda di libri contribuiscono in maniera decisiva il vicino ateneo di Padova, dove i sudditi della Serenissima sono obbligati a studiare qualora vogliano laurearsi, e le due scuole pubbliche veneziane, dove si formano i giovani destinati all’amministrazione dello Stato, siano patrizi oppure appartenenti all’ordine intermedio dei cittadini, che forniva la burocrazia statale. Si tratta della scuola di San Marco, dove si approfondiscono gli studi umanistici e morali, e della scuola di Rialto, di indirizzo filosofico, naturalistico e matematico.
Gli stranieri
Nel Quattrocento il centro della vendita dei manoscritti era stato Firenze. La città toscana era anche il cuore finanziario dell’Italia rinascimentale, quindi, in teoria, ci sarebbe dovuta essere più disponibilità di capitali in riva all’Arno che sulle sponde del Canal Grande. Ma Firenze era sempre rimasta una città di fiorentini, al massimo di toscani. Venezia invece era da tempo diventata una città di stranieri. A parte i patrizi, che per forza di cose erano locali, la Dominante ospitava un gran numero di immigrati. Non a caso Girolamo Priuli, cronista dei primi anni del Cinquecento, scriveva che in piazza San Marco si vedevano i nobili incaricati del governo, mentre «tuto il resto herano forestieri et pochissimi venetiani». Persino in un mestiere tradizionale come quello del gondoliere, i veneziani assommavano appena alla metà dei nomi presenti in un elenco di fine XV secolo: gli altri barcaioli provenivano dalla terraferma (molti dalla sponda bresciana del lago di Garda) o dalla Dalmazia.
Il settore editoriale non fa eccezione: quasi tutti gli stampatori, in questo periodo, sono immigrati, sia dall’Italia – Aldo Manuzio tra loro – sia dall’estero, come il già nominato tedesco Giovanni da Spira o il francese Nicolas Jenson, che gli succede. Tra l’altro, a conferma del prestigio e dell’agiatezza che dà la professione di stampatore, Giovanni da Spira sposa madonna Paola, figlia di Antonello da Messina, che era uno dei pittori più affermati e famosi dell’epoca.
In città sono presenti comunità strutturate, alcune di queste lo sono ancora ai nostri giorni, con propri luoghi di culto e confraternite: greci, armeni, ebrei, tedeschi, dalmati. Questo significa che nella Venezia quattro-cinquecentesca si possono trovare colti madrelingua in grado di comporre e correggere testi in quasi tutti gli idiomi all’epoca più diffusi, e questo spiega perché qui si stampi il primo libro in greco (1486), in armeno (1512), in cirillico bosniaco (1512), il secondo in glagolitico, l’antico alfabeto croato (1491), il terzo libro in ceco (1506). Dai torchi veneziani escono inoltre la prima Bibbia in volgare italiano (1471), la prima Bibbia rabbinica (1517), il primo Corano in arabo (1538), la prima traduzione del Corano in italiano (1547). La città rimane per secoli il centro mondiale della stampa greca, ebraica, serba, caramanlidica (lingua turca scritta con caratteri greci, oggi scomparsa), nonché armena, in quest’ultimo caso addirittura fino alla dissoluzione dell’Unione Sovietica e all’indipendenza della repubblica d’Armenia, nel 1990.
Questa è la Venezia dove approda Aldo Manuzio prima di iniziare la sua avventura di stampatore. Ha scritto Cesare De Michelis, editore veneziano scomparso nel 2018: «Accadde come nei grandi romanzi d’amore: erano fatti l’uno per l’altra e si incontrarono, anche se la storia del loro rapporto è tutt’altro che idillica, anzi appassionante e ricca di colpi di scena, esaltata e disperante, in perenne tensione».
Ora facciamo gli indiscreti, e andiamo a scoprirla, quella storia d’amore.
2.
La formazione di un umanista
Bassiano è uno splendido borgo medievale del Lazio, sui monti Lepini, a un’ottantina di chilometri a sud di Roma. In quella zona transita la via Appia e oggi Bassiano si trova in provincia di Latina. Nel passato faceva però parte del ducato di Sermoneta, retto dai Caetani; Roffredo, l’ultimo discendente di quel ramo della nobile famiglia, è morto nel 1961. Bonifacio VIII, il papa scaraventato all’inferno da Dante Alighieri, era un Caetani.
Il castello dei duchi è a Sermoneta, ma d’estate i Caetani, che di loro sarebbero stati principi, se ne andavano in quel di Bassiano, e il perché è presto detto: il paese si trova a 560 metri di altitudine, tutto circondato da alture; la sera si gode un bel fresco, ma, soprattutto, sta fuori dal raggio di azione delle pericolose zanzare anofeli, portatrici di malaria. I principi non vivevano proprio in un castello, ma in un massiccio palazzone, che faceva comunque una gran figura, e oggi è sede del municipio. Proprio negli anni in cui il suo figlio più illustre, Aldo Manuzio, faceva l’editore a Venezia, Bassiano passa sotto il controllo dei Borgia per un quinquennio, dal 1499 al 1504, ma poi tornano i Caetani, che lo governano ininterrottamente fino a inizio Ottocento.
Sermoneta è pure un bel posto, la sua cattedrale romanica costituisce un autentico gioiello, ma si trova più in basso rispetto a Bassiano, 230 metri sul livello del mare, e si affaccia direttamente sulla pianura pontina. Oggi lo sguardo arriva ad abbracciare il mare, giù fino ad Anzio e Nettuno, e qualche anziano si ricorda ancora la luminosa e tersa giornata del 22 gennaio 1944, quando la superficie marina spumeggiava per le scie dei mezzi da sbarco alleati. Per secoli, però, quella piana era stata tutta palude, e d’estate le anofeli potevano raggiungere anche la coreografica Sermoneta, mentre Bassiano ne rimaneva esente.
Un tempo il portone di Palazzo Caetani costituiva l’unico accesso all’abitato di Bassiano, interamente circondato da mura trecentesche sorvegliate da dieci torrioni. Mura che sono state forate in tempi più recenti per fare spazio a tre porte cittadine. Le strade, selciate in porfido, hanno un andamento a spirale, gli edifici, oggi purtroppo in gran parte abbandonati, conservano quasi tutti l’originario aspetto medievale; alcuni stretti vicoli – il più angusto di tutti si chiama Baciadonne, un nome un programma – tagliano longitudinalmente l’abitato congiungendone i vari livelli. Da Bassiano non si scorge la pianura, mentre un fianco dell’abitato è dominato dal monte Semprevisa che, con i suoi 1536 metri, è il più alto dei Lepini.
Qui, attorno al 1450, nasce Aldo Manuzio. Una lapide indica oggi la sua casa. Peccato che sia un «tarocco»: l’edificio risale al Sei-Settecento e quindi di sicuro il futuro editore non può essere nato lì. La casa dei Manuzio quasi certamente esiste ancora, poiché il borgo è sopravvissuto intatto, ma non abbiamo idea di quale possa essere.
Sappiamo pochissimo della famiglia di Aldo e niente della sua infanzia. Un atto rogato dal notaio Antonio Tuzi il 30 dicembre 1449 ci dice che tal Paolo di Manduzio di Bassiano vende un appezzamento di terra all’ebreo Abramo di Mosè. Nel più antico manoscritto aldino che ci sia pervenuto, un documento redatto tra il 1480 e il 1486, conservato nella biblioteca Querini Stampalia di Venezia, compare la firma Aldus Manducius (nella forma al genitivo Alti Manducii). Nessun dubbio, quindi, che proprio quello fosse il cognome originario dell’umanista, che in seguito si firmerà Mannuccius, quindi Manucius (dal 1493) e infine Manutius (dal 1497). Il padre di Aldo si chiamava Antonio e aveva alcune sorelle, ma altro non ci è dato conoscere.
A Roma
Si può presumere che la famiglia fosse relativamente benestante, se aveva terreni da vendere, ma non possiamo sapere se potesse anche permettersi di mantenere agli studi un figlio a Roma, o se invece siano stati i Caetani a prendersi cura del giovane Manuzio. Il nipote Aldo junior, un secolo più tardi, ricorderà i rapporti di deferenza che legavano il nonno alla famiglia principesca e d’altra parte non era poi inusuale che i signori di un determinato luogo facessero studiare a proprie spese i ragazzini più svegli.
Sicuro, invece, che Aldo studiasse a Roma all’inizio degli anni Settanta del Quattrocento, poiché il suo insegnante Gaspare da Verona, docente di retorica alla Sapienza, si trasferisce a Viterbo nel 1474. Un altro suo maestro – è Aldo a rivelarlo in una delle prefazioni – è l’umanista Domizio Calderini, nativo di Torri del Benaco, segretario di papa Sisto IV. Curioso che entrambi i maestri romani di Aldo fossero originari del Veronese.
Calderini fa parte della cerchia del già citato cardinale Bessarione e lo accompagna in un viaggio in Francia, proprio mentre il prelato sta lavorando a un’edizione che sarà pubblicata postuma da Arnold Pannartz e Conrad Sweinheim. Due nomi celebri, questi, poiché appartengono ai chierici tedeschi – Pannartz era un praghese di lingua tedesca, Sweinheim proveniva dall’Assia – che nel 1465 avevano importato la stampa a caratteri mobili in Italia, impiantando una tipografia nel monastero benedettino di Santa Scolastica, a Subiaco, vicino a Roma. Anche Gaspare da Verona conosce l’attività dei due tipografi, visto che li nomina già nel 1467, ovvero quando erano arrivati a Subiaco da due anni soltanto.
L’introduzione della stampa in Italia faceva parlare di sé ed è probabile che a Roma la nuova attività costituisse oggetto d’attenzione e di meraviglia, ma non si sa se già in questi anni Manuzio fosse entrato in contatto con il mondo della tipografia, se avesse avuto modo di osservare le neonate edizioni a stampa, o se il suo sia stato invece un innamoramento tardivo. Aldo per molti anni rimane prima di tutto un maestro e solo in un secondo tempo diventa uno stampatore, quando, ormai quarantenne, concepisce l’attività di tipografo come mezzo per darsi i migliori strumenti di insegnamento del greco: grammatiche e testi di lettura. Non possiamo davvero capire se già una ventina di anni prima avesse intuito le potenzialità della stampa.
Non è certo nemmeno se, dopo aver appreso il latino, a Roma cominci da subito a studiare anche il greco antico, lingua che in seguito apprenderà benissimo, tanto da poterla parlare e tradurre a vista, come abbiamo già ricordato. Certamente nella città papale Manuzio stringe amicizia con l’umanista pistoiese Scipione Forteguerri, detto il Carteromaco, che diventerà un suo stretto collaboratore e al quale dedicherà un’edizione nel 1501. Lo ritroveremo, anche perché sarà uno dei fondatori dell’Accademia aldina.
Il periodo romano di Manuzio rimane molto oscuro, così come quello della sua infanzia e adolescenza. L’unica cosa certa è che dopo pochi anni se ne va. Non conosciamo esattamente né quando né perché, qualcuno ipotizza che possa aver abbandonato Roma a causa della peste del 1478, ma non c’è alcun indizio in grado di trasformare l’illazione in affermazione.
A Ferrara
In realtà Aldo si trova a Ferrara già dal 1475, ma non è possibile stabilire se si fosse trasferito o se si trattasse di una pausa temporanea dal soggiorno romano. Nella città di Ercole I d’Este, umanista e munifico mecenate del rinascimento, Manuzio apprende, o approfondisce, il greco antico con Battista Guarino, figlio di quel Guarino Veronese (ecco che torna ancora una volta Verona) che aveva imparato il greco a Costantinopoli prima della conquista ottomana del 1453 ed era stato precettore alla corte estense. L’incontro con Battista Guarino è senz’altro importante, visto che Aldo nel 1495 dedicherà l’edizione di Teocrito al suo maestro di una ventina d’anni prima. Se Manuzio fosse arrivato a Ferrara conoscendo o meno il greco rimane oggetto di disputa tra gli studiosi, mentre è sicuro che quando se ne va lo parla e lo legge fluentemente.
C’è dell’altro, in ogni caso: a Ferrara incontra un compagno di studi che gli cambierà la vita: Giovanni Pico della Mirandola. Il nobiluomo umanista, evidentemente aiutato dalla sua proverbiale memoria, padroneggia sei lingue, tra antiche e moderne, e ora si sta dedicando a perfezionare il greco. Sua sorella Caterina è moglie – e dal 1477 vedova – del signore di Carpi; nel 1484 sposerà Rodolfo Gonzaga, signore di Luzzara e figlio del marchese di Mantova (i Gonzaga diventeranno duchi soltanto nel 1530).
Ora una piccola digressione: in quest’area tra Emilia e Lombardia e nel periodo a cavallo tra XV e XVI secolo si ritrovano alcune corti medie o piccole che intrattengono relazioni strette l’una con l’altra. I Gonzaga di Mantova, i Pio di Carpi, i Pico di Mirandola, gli Este di Ferrara si imparentano fra loro e sfruttano quelle che oggi si chiamerebbero economie di scala, facendo arrivare artisti, musicisti, precettori che si spostano da una città all’altra. Aggiungiamo che Carpi e Mirandola sono signorie troppo piccole per potersi considerare del tutto sicure dalle mire dei vicini e quindi cercano di appoggiarsi agli stati più potenti e influenti.
Negli anni di cui ci stiamo occupando la potenza che stende sull’area l’ombra della propria egemonia, quella che suscita timori e apprensioni, e di conseguenza la potenza da battere, è senza dubbio la repubblica di Venezia. Non a caso, quando sarà sconfitta, il principe Alberto Pio si rivolgerà sia all’impero, sia alla Francia, sia al papato, finendo per rimetterci il trono in un gioco triangolare più grande di lui. Aldo Manuzio – lo vedremo – si muove all’interno di quest’ambito, concedendosi tutt’al più un paio di digressioni verso Milano. Di certo sviluppa una sorta di rapporto d’affetto con Ferrara (trasporto che invece mai proverà per Venezia), visto che nel suo primo testamento consiglia la giovane moglie, sposata appena un anno prima, di trovarsi un nuovo marito nella città degli Este, qualora non dovesse tornare dal viaggio. Tutto questo ci racconta tra l’altro quanto al tempo fossero considerati pericolosi i viaggi: così tanto da indurre a far testamento prima di partire.
Aggiungiamo un ulteriore elemento per comprendere meglio gli intrecci di questa zona dell’Italia rinascimentale: Alberto Pio sposa prima una Gonzaga e poi una Orsini; dalla seconda moglie ha due figlie, una delle quali, di nome Caterina come la nonna, si coniuga con un Caetani. Questo indizio ci permette di ipotizzare che sussistesse un qualche nesso tra i duchi di Sermoneta e i signori di Carpi e che, quindi, il legame di Aldo Manuzio con la piccola corte emiliana possa essere passato anche attraverso i Caetani. Non lo sappiamo, ma le relazioni tra le famiglie esistevano e quindi l’eventualità è quantomeno verosimile.
A Carpi
Caterina Pico è una donna di notevole cultura: nel corredo per le nozze con Lionello I Pio di Savoia sono presenti, oltre ai consueti gioielli, argenti e biancheria, anche codici manoscritti e testi di autori classici, come Virgilio e le epistole di Cicerone (queste ultime sono pure il primo testo stampato a Venezia, nel 1469, da Giovanni da Spira: tutto si tiene in questo scorcio del rinascimento).
Quando il principe di Carpi muore, lascia alla vedova una notevole somma affinché realizzi una biblioteca. È proprio Caterina, con ogni probabilità su consiglio del fratello Giovanni, a chiamare Aldo Manuzio perché faccia da precettore ai due figli, Alberto e Lionello, di cinque e tre anni. Un atto notarile conservato negli archivi carpigiani ci dice che l’8 marzo 1480 Aldo ottiene l’incarico di insegnamento a corte, nonché la cittadinanza con esenzione fiscale. Pochi mesi dopo, il 5 agosto, il «magistro Aldo Manutio de Bassiano» risulta proprietario di «unum caxamentum» che affaccia sull’attuale corso Cabassi (identificato nell’unico edificio gotico ancora esistente nella via, ma non si sa se in effetti sia proprio quello). In quanto precettore dei principini Aldo abita a palazzo, quindi è possibile che questa casa e un altro paio che gli sono intestate costituiscano un emolumento, sotto forma di riscossione degli affitti. Vengono assegnati a Manuzio anche alcuni campi coltivabili che andranno in eredità al figlio Paolo e saranno amministrati da Lionello Pio.
Tra Aldo e Alberto si instaura una relazione ben più solida di quella tra maestro e allievo che, lo vedremo, perdurerà fino alla scomparsa dell’editore, nel 1515. Nel primo dei cinque volumi di Aristotele che l’editore bassianese dedica al principe di Carpi (1495) fornisce al «dotto giovinetto» una sorta di vademecum: «A te infatti non manca nulla: non il talento, che possiedi in abbondanza; non l’eloquenza, di cui sei ben dotato; non i libri, né di cultura latina, né greca, né ebraica, di cui vai in cerca con una solerzia senza pari; non gli insegnanti più preparati, che tu hai assoldato senza badare a spese. Continua dunque a dedicarti, come stai facendo, alle nobili discipline: io certo, per quel che posso, non ti farò mai mancare la mia presenza».
Tali righe ci restituiscono un Manuzio attento, paterno, benevolo. È solo da dettagli come questi che possiamo cercare di ricostruire e immaginare il carattere di quest’uomo straordinario. Infatti, la rielaborazione della sua biografia, lacunosa per alcune parti della sua vita e della sua attività, è addirittura oscura per quanto riguarda gli aspetti personali. Vedremo che Erasmo ci descrive paturnie e spilorcerie del suocero, Andrea Torresani (o Torresano), ma di lui, a parte che era maniaco delle grammatiche, non ci dice nulla.
I tanti studiosi che si sono dedicati al primo editore della storia hanno provato ad azzardare qualche ipotesi, sulla base degli elementi conosciuti. Per esempio si sa dei molti amici, ai diversi livelli della scala sociale, mentre non si conoscono nemici, se non rivali editoriali, quindi si può pensare che fosse cordiale, una persona con la quale passare un po’ di tempo in piacevole compagnia. Era capace di lavorare per molte ore di seguito, applicandosi con attenzione a quel che stava facendo, probabilmente era pignolo, attento, e abile. Amava il lavoro di squadra e cercava di sollecitare in tutti i modi la collaborazione tra gli studiosi; quel che chiedeva in cambio erano manoscritti da poter stampare.
Non c’è dubbio che avesse il bernoccolo degli affari e che utilizzasse tribunali e amicizie per far valere i propri diritti, ma mai in modo violento e prevaricatore, in un’epoca che violenta e prevaricatrice lo era parecchio. Non manifesta mai l’aggressività tipica dei suoi contemporanei, anzi appare schivo e talvolta imbarazzato per la celebrità. Ci sono tuttavia da registrare alcuni litigi per questioni di denaro con collaboratori che a causa di tali liti lo abbandoneranno. Viene quindi da domandarsi se Aldo condividesse almeno in parte l’estrema taccagneria del suocero.
Andare oltre queste deduzioni, però, appare difficile. Com’era il suo rapporto con la moglie, così tanto più giovane di lui? E con i figli? Nell’ultimo testamento lascerà alle due figlie la facoltà di scegliere se maritarsi o monacarsi, ed era una concessione molto avanzata in quei tempi, ma, al di là di questo, altro non sappiamo.
Durante gli anni di Carpi Aldo Manuzio con ogni probabilità ancora non pensa alla stampa e si dedica al mestiere di precettore, che si presume gli riesca piuttosto bene: Alberto e Lionello Pio non saranno gli unici allievi con cui conserverà rapporti di affetto. Dev’essere comunque un’attività molto impegnativa, infatti si lamenta che, oppresso da incombenze di ogni genere, gli restano soltanto quattro ore al giorno per scrivere un trattato grammaticale a beneficio dei suoi allievi. Non specifica però quali siano gli altri suoi compiti, oltre all’insegnamento vero e proprio.
Uno dei pochi punti certi del soggiorno di Aldo a Carpi è che trascorre il suo tempo quasi sempre assieme ai principini e li accompagna prima a Ferrara (1481) e poi a Mirandola dallo zio Pico (1482), dopo che Venezia dichiara guerra agli Este. Conosciamo questo soggiorno, durato qualche mese, grazie a una lettera del Poliziano: Angelo Ambrogini – questo il suo nome – era il più importante grecista dell’epoca e diventerà molto amico di Manuzio; i due si scambiano una fitta corrispondenza, ma si incontreranno di persona soltanto una volta, a Venezia. È a Mirandola che Aldo rimane colpito dal greco raffinatissimo del fiorentino Poliziano, in una sua lettera che legge in compagnia dell’umanista cretese Manuel Adramitteno.
Giovanni Pico in quegli anni sta cercando di trasformare Mirandola in un centro culturale di prima grandezza e potrebbe essere che Aldo si imbatta proprio qui nell’idea di un’accademia che possa diventare luogo di scambio e discussione tra dotti conoscitori della cultura greca.
Si può presumere che Aldo abbia approfondito la propria abilità a esprimersi in greco antico nei ritrovi che i grecisti tenevano nella villa di Pico. Il tono delle sue lettere del periodo è tuttavia quello di un giovane che si sforza di ben figurare nel mondo intellettuale che lo circonda. È sopravvissuta un’unica lettera di Pico ad Aldo, in cui il signore di Mirandola esorta l’umanista a proseguire nell’indagine filosofica. Evidentemente Manuzio era anche un suo compagno di studi, oltre che un protetto.
Incerto, invece, è un possibile viaggio a Venezia di Aldo assieme ai giovani Pio (nel 1487), che potrebbe essere stato il primo contatto del futuro editore con la Serenissima. Tre anni prima Caterina si era risposata con Rodolfo Gonzaga e si ritiene che il ruolo di Aldo a corte fosse diventato con il tempo più influente rispetto a quello di semplice maestro e precettore dei figli di primo letto. Caterina avrà altri sei figli da Rodolfo. Questi rimarrà ucciso nel luglio 1495 nella battaglia di Fornovo, mentre la donna morirà nel dicembre 1501, avvelenata da una damigella che sembra si fosse innamorata di lei senza esserne corrisposta. Amore e morte in una corte del rinascimento.
Il soggiorno di Manuzio a Carpi termina tra l’autunno e l’inverno del 1489: un rogito notarile di ottobre dove Aldo di Sermoneta è indicato come precettore del principe Alberto costituisce l’ultimo atto ufficiale che ne registri la presenza.
Il rapporto con i Pio, come detto, continuerà: Aldo entra a far parte della famiglia, dal 1503 adotta il cognome Pio e dal 1506 lo userà per firmarsi. Delle dodici dediche ad Alberto abbiamo già detto, e si presume che da Carpi gli siano anche regolarmente arrivati finanziamenti. Atti ufficiali e lettere registrano le relazioni tra l’editore e Alberto III fino al 1509, ovvero fino a quando il principe si schiera con i nemici di Venezia, mentre i legami con Lionello II proseguono fino alla morte di Aldo.
Il tenore della corrispondenza dei fratelli Pio con Manuzio diverge già dal 1498: Alberto gli scrive in tono affettuoso e intimo riguardo a libri, a comuni frequentazioni culturali, a questioni che Aldo intrattiene a Carpi. Lionello, che talvolta si firma filius, si occupa invece del lato pratico dei rapporti, e risponde alle richieste di Aldo di gestire gli interessi nelle terre emiliane, come, per esempio, nel luglio 1508, quando informa l’editore di «aver avuto cura del raccolto delle sue terre e di averglielo fatto accreditare». D’altra parte Lionello ha sposato una nobile veneziana, Maria Martinengo, e quindi le connessioni tra il castello di Novi, dove la coppia risiede, e la Dominante rimangono intense. Un atto notarile del marzo 1508 registra il mandato di Lionello Pio a Manuzio per ottenere una condotta militare dalla Serenissima (condotta che però non verrà concessa).
Aldo è legalmente un membro a tutti gli effetti della famiglia Pio e ha intestate a sé numerose terre che, almeno in parte, risulteranno proprietà degli eredi ancora nel 1556. Lionello nel settembre 1498 scrive a Manuzio affermando che manterrà fede alla promessa del fratello Alberto di donargli altre terre e un castello dove installare una stamperia e l’accademia. Non è quindi casuale che Aldo scriva che userà il «bel castello» per «insediarvi un’accademia nella quale, posta fine alla barbarie, si coltivino con impegno le belle lettere e le belle arti».
La donazione del castello, tuttavia, non diventerà mai effettiva, mentre Aldo nei momenti di difficoltà, nel 1506 e nel 1510, lo reclama per potersi trasferire con famiglia e stamperia. Sono entrambi anni nei quali Manuzio è assente da Venezia; i motivi li vedremo meglio più avanti.
Il castello è stato identificato con quello di Novi dove, come detto, risiedono Lionello e la moglie e dove effettivamente viene installata una tipografia che stampa una sola edizione. Secondo una fonte settecentesca e non verificabile, Alberto III avrebbe invitato Manuzio ad allestire una tipografia, ma questi ormai si era trasferito a Venezia e avrebbe quindi declinato la richiesta del principe. Quel che è certo, invece, è che il carpigiano Benedetto Dolcibelli (o Dolcibello) del Manzo – il soprannome viene dal fatto che proveniva da una famiglia di macellai – impianta una stamperia a Carpi prima in città (1506) e poi nel castello di Novi (1508), dove stampa la suddetta unica edizione, e quindi si trasferisce a Ferrara.
Dolcibelli aveva lavorato – assieme a Giovanni Bissolo, pure lui di Carpi, e a Gabriele Braccio, di Brisighella – a Venezia nell’officina di Aldo, dove aveva imparato il mestiere. Si era però ritrovato coinvolto in una brutta storia di contraffazione dei caratteri greci aldini, che vedremo meglio nel capitolo sui falsi, e se n’era andato da Venezia assieme ai due complici continuando a stampare, dapprima a Milano e poi altrove. I documenti sopravvissuti riguardo a questa vicenda sono molto pochi e quindi la conosciamo solo a tratti. Di conseguenza non possiamo neanche sapere se nel 1506, quando Aldo va a Milano e a Mantova, ci siano stati o meno contatti tra lui e il suo ex lavorante, che in quel momento faceva il tipografo nella città dei Pio. Questo fatto comunque dimostra che Aldo si avvale della collaborazione di alcuni carpigiani al momento di aprire la sua tipografia a Venezia.
La presenza di Aldo a Carpi è eternata da un affresco nella cappella di Palazzo Pio. Molto ben conservato, opera del pittore Bernardino Loschi, sulla parete di destra raffigura una specie di gruppo di famiglia dei Pio: in primo piano il trentenne Alberto III, dalle fluenti chiome bionde, con un copricapo nero; alle spalle il padre Lionello I, che quando l’affresco viene dipinto (inizio Cinquecento) è ormai defunto da una ventina d’anni. In secondo piano il fratello più giovane, Lionello II. Davanti al principe Alberto stanno due figure vestite con un lungo abito nero e berretto dello stesso colore. Una delle due, quella più arretrata, è identificata con Aldo Manuzio, poiché si tratta di un uomo di una cinquantina d’anni, che era proprio l’età di Aldo quando l’opera è stata eseguita.
Il personaggio che è ritratto davanti, più giovane, potrebbe essere o il filosofo mantovano Pietro Pomponazzi o l’umanista cretese Marco Musuro; entrambi si trovavano a Carpi assieme a Manuzio ed erano più giovani di lui, il primo di una decina d’anni, il secondo di una ventina. Musuro, colto filologo, lo ritroveremo perché diventerà uno dei più stretti collaboratori di Aldo. L’affresco si è conservato perché dopo l’esautorazione dei Pio e il passaggio di Carpi agli Este è stato semplicemente coperto con una tenda e non distrutto, come spesso accadeva quando si voleva rimuovere la memoria dei signori spodestati.
Adesso lasciamo l’emiliana Carpi e seguiamo finalmente Aldo nella città dove cambierà la storia del libro: Venezia.
3.
Come si diventa editore
Aldo Manuzio si trasferisce a Venezia tra il 1489 e il 1490. Con ogni probabilità la sua intenzione era di continuare a insegnare, e nulla di quel che sappiamo (poco) del suo primissimo periodo nella Dominante lascia presagire che stesse già pensando di mettersi a stampare. Di conseguenza non abbiamo idea se e quanto abbia contato sulla sua scelta di spostarsi il fatto che la città all’epoca fosse l’indiscussa capitale dell’editoria. Forse quel che davvero lo attirava di Venezia era la presenza di tanti dotti umanisti, in particolar modo greci: «Venezia, città che possiamo definire la nuova Atene del nostro tempo per la presenza di moltissimi uomini dotati di eccezionale cultura», scriverà Aldo anni più tardi.
Comunque non amerà mai a fondo la città che lo ospitava, non si sentirà mai veneziano, non sarà mai animato da particolare trasporto per il luogo dove era forse arrivato perché non poteva farne a meno, e dove si è fermato perché soltanto lì poteva mettere in pratica il suo progetto editoriale. I suoi primi tempi veneziani sono contrassegnati dalla continuità dei legami con Carpi, sia per quel che fa, sia per i collaboratori che si sceglie (abbiamo già detto, e vedremo ancora, che nell’appena aperta tipografia lavorano alcuni carpigiani).
Poco dopo l’arrivo nella Serenissima signoria Aldo pubblica la sua prima opera, il Panegirico delle muse (Musarum Panegyris), un lavoro in latino che costituisce un po’ il manifesto del suo metodo di insegnamento. Per farlo si rivolge allo stampatore Battista Torti, un calabrese di Nicastro, che nel 1489 imprime il testo – più un opuscolo che un libro – formato da due componimenti in rima dedicati ad Alberto Pio nonché da una parte centrale costituita da una lettera a sua madre Caterina. Ce ne sono giunte soltanto sette copie, in Italia se ne trovano due: a Bologna e a Napoli.
Aldo osserva che latino e greco vanno insegnati assieme e non separatamente, prima il latino e poi il greco, come si usava al tempo, e insiste nel sottolineare il valore educativo della lettura dei classici in originale. Fino a quel momento era stato possibile conoscere l’antichità ellenica soltanto attraverso le traduzioni latine. Certamente si era in tal modo potuto entrare in contatto con un mondo che sarebbe stato altrimenti destinato a rimanere sconosciuto, ma nel contempo le traduzioni lo avevano alterato, distorcendolo attraverso le lenti del latino. Aldo quindi ritiene che sia necessario tornare alla fonte e leggere le opere greche direttamente in greco (pure questa una concezione sorprendentemente moderna, come si vede).
Manuzio porta con sé a Venezia il manoscritto del Panegirico: con ogni probabilità gli serviva per promuoversi e farsi conoscere come insegnante. Se era stato precettore dei principini di Carpi poteva ben diventarlo dei figli di qualche patrizio della città di San Marco. E infatti viene assunto da Pierfrancesco Barbarigo con il compito di far da maestro a Santo, suo figlio naturale. Difficilmente sarebbe potuta andargli meglio: il doge in carica, Agostino Barbarigo, è zio di Pierfrancesco, il precedente, Marco, era suo padre, e per di più il patrizio entrerà in società con Manuzio quando deciderà di aprire la stamperia.
Non dobbiamo commettere l’errore di ritenere che Aldo, maestro prima ed editore poi, pensasse a un’istruzione allargata al popolo, che immaginasse i suoi libri in mano a schiere di giovani animati dalla voglia d’imparare. Proprio no: si rivolge ai figli dei ricchi e dei molto ricchi – cioè a una fascia di popolazione che al massimo arriva al 5 per cento – e la sua idea è quella di istruire la futura classe dirigente attraverso lo studio di una lingua morta: il greco antico. Una lingua che non è possibile imparare da soli per la semplice ragione che nessuno la parla, quindi la si può apprendere soltanto a scuola. Il tutto ha poco a che fare con il valore intrinseco della letteratura classica, quanto piuttosto con un metodo: i ragazzini che crescono studiando sui medesimi libri, da adulti si capiranno meglio. Ai nostri giorni si direbbe networking, assomiglia un po’ alla «rete dei vecchi compagni di scuola» che ancora oggi unisce in Gran Bretagna la classe dirigente che ha frequentato Eton e poche altre public schools.
Addio a Paolo Manazza, pittore e giornalista, fondatore di ArtsLife-
Si è spento a Milano all’età di 65 anni, dopo una malattia, il pittore e giornalista Paolo Manazza, figura di spicco del panorama culturale italiano: artista astratto, giornalista specializzato in economia dell’arte, Manazza è stato il fondatore di ArtsLife, una delle riviste d’arte online più seguite in Italia, ed era inoltre una delle principali firme della pagina culturale del Corriere della Sera.
Nato a Milano nel 1959, Paolo Manazza si è laureato in Filosofia Teoretica presso l’Università Statale di Milano. Nel corso della sua carriera ha collaborato con alcune delle testate giornalistiche più prestigiose del Paese, tra cui L’Espresso, La Stampa, Repubblica e Capital prima di approdare al Corriere della Sera e, successivamente, fondare e dirigere ArtsLife, aperto nel 2004 come strumento di lavoro per la cattedra di Teoria e pratica della multimedialità nell’arte all’Accademia di Belle Arti di Brera a Milano, dove Manazza ha insegnato per qualche anno, e poi registrato nel 2008 come testata giornalistica al Tribunale di Milano. Manazza è stato per molti anni anche direttore di ArtsLife, prima di cedere il timone della testata a Luca Zuccala, che da gennaio 2025 è andato a dirigere Il Giornale dell’Arte. Inoltre, nel 2016, Manazza aveva fondato la fiera d’arte WopArt di Lugano, interamente dedicata all’arte su carta.
L’impegno formativo di Manazza è stato anch’esso significativo. Ha insegnato presso l’Accademia di Brera di Milano, dove ha tenuto corsi su temi innovativi come “Teoria e pratica del Mercato Multimediale dell’Arte” e “Editoria dell’Arte”, contribuendo alla preparazione di una nuova generazione di artisti e professionisti del settore. Nel 2005, il suo contributo alla cultura è stato riconosciuto con l’onorificenza di “Ufficiale al Merito della Repubblica Italiana”, conferitagli dall’allora Presidente Carlo Azeglio Ciampi.
Il 2008 segna un momento cruciale nella sua carriera: dopo anni di pittura in silenzio, Manazza espone per la prima volta le sue opere al pubblico con la mostra personale ViceVersa: i quadri di un critico presentati dagli artisti, tenutasi presso la Fondazione Maimeri di Milano. L’evento si è distinta per il suo approccio ironico e provocatorio, coinvolgendo artisti contemporanei come critici delle sue stesse opere, e ponendosi come un manifesto di sostegno ai giovani talenti: il ricavato delle vendite veniva infatti interamente devoluto all’acquisto di materiali artistici, poi distribuiti gratuitamente ai giovani creativi. Manazza era stato anche uno dei primi artisti a interessarsi agli NFT: in particolare, aveva fatto discutere nel 2024 la trasformazione di un suo dipinto in NFT visibile in tre dimensioni.
Paolo Manazza
Come pittore, Paolo Manazza attingeva ispirazione dall’astrattismo informale americano, in particolare dall’opera di Willem de Kooning. Nei suoi lavori si intrecciano influenze italiane, francesi e statunitensi, in un linguaggio visivo che supera i confini tra figurazione e astrazione. “Non esiste la figurazione. Non esiste l’astratto. Esiste solo la pittura”, affermava Manazza, in linea con la filosofia della scuola americana degli anni Cinquanta. Le sue tele esprimono una ricerca dell’essenza pura del colore e della forma, evocando emozioni e significati che vanno oltre il visibile. Le sue opere hanno trovato spazio in mostre personali e collettive in Italia e all’estero, toccando mete come Francia, Stati Uniti, Corea del Sud, Cina, Egitto e Moldavia.
Con Paolo Manazza, il giornalismo d’arte online italiano perde uno dei suoi pionieri.
Dylan Marlais Thomas nasce il 27 ottobre 1914 in Galles, a Swansea, secondo figlio di Florence e David John, docente della Grammar School. Trascorre l’infanzia tra la città natale e il Carmarthenshire, dove passa le estati nella fattoria gestita dalla zia Ann (i cui ricordi saranno traslati nella poesia del 1945 “Fern Hill”): la sua salute è però cagionevole, a causa di asma e bronchite, malattie con le quali dovrà fare i conti per tutta la sua vita.
Elegia
Troppo orgoglioso per morire, morì debole e cieco
Nel più oscuro dei modi, e non indietreggiò,
Un uomo freddo; e gentile, coraggioso nel suo angusto amor
proprio!
Nel più oscuro dei giorni. Oh, possa egli per sempre
Riposare sereno, finalmente, sull’estrema collina
Delle croci, sotto l’erba, in amore, e qui tra i lunghi
Stormi ringiovanire, e mai giacere smarrito
O inerte i giorni innumerevoli della sua morte,
Benché sopra ogni cosa desiderasse il seno di sua madre.
Che era polvere e sonno, e nella terra cortese
La nera giustizia della morte, cieca e sconsacrata.
Che non trovi mai requie ma sia generato e mantenuto,
Pregai nella stanza accovacciante, presso il suo cieco letto,
Nella casa attutita, qualche secondo prima
Di mezzogiorno, e col buio, e alla luce. Il fiume dei morti
Gli venava la povera mano che stringevo, e io vedevo
Attraverso i suoi occhi senza lume le radici del mare.
Questo pane che spezzo
Questo pane che spezzo un tempo era frumento,
questo vino su un albero straniero
nei suoi frutti era immerso;
l’uomo di giorno o il vento nella notte
piegò a terra le messi, spezzò la gioia dell’uva.
In questo vino, un tempo, il sangue dell’estate
batteva nella carne che vestiva la vite;
un tempo, in questo pane,
il frumento era allegro in mezzo al vento;
l’uomo ha spezzato il sole e ha rovesciato il vento.
Questa carne che spezzi, questo sangue a cui lasci
devastare le vene, erano un tempo
frumento ed uva, nati
da radice e linfa sensuali.
E’ il mio vino che bevi, è il mio pane che addenti.
E morte non avrà dominio
E morte non avrà dominio.
E i morti nudi saranno uno
Con l’uomo nel vento e la luna occidentale;
Quando le loro ossa saranno scarnificate e dissolte,
Avranno stelle ai gomiti e ai piedi;
Per quanto impazziti saranno savi,
Per quanto affondino nel mare torneranno a risorgere;
Per quanto gli amanti si perdano amore resterà;
E morte non avrà dominio.
E morte non avrà dominio.
Sotto i gorghi del mare
Giacendo a lungo non moriranno nel vento;
Torcendosi ai tormenti al cedere dei tèndini,
Legati a una ruota, pur non si romperanno;
Si spaccherà la fede in quelle mani,
E l’unicorno del peccato li passerà da parte a parte;
Strappati da ogni lato non si spaccheranno
E morte non avrà dominio.
E morte non avrà dominio.
Mai più possano i gabbiani gridargli agli orecchi
Né onde frangersi furiose sulle rive;
Dove fiore sbocciò possa fiore mai più
Sollevare il capo agli scrosci della pioggia;
Per quanto impazzite e morte come chiodi,
Le teste di quei tali martellano fra le margherite;
Irromperanno nel sole fin che il sole cadrà,
E morte non avrà dominio.
Non andartene docile in quella buona notte
Non andartene docile in quella buona notte,
I vecchi dovrebbero bruciare e delirare al serrarsi del giorno;
Infuria, infuria, contro il morire della luce.
Benché i saggi conoscano alla fine che la tenebra è giusta
Perchè dalle loro parole non diramarono fulmini
Non se ne vanno docili in quella buona notte,
I probi, con l’ultima onda, gridando quanto splendide
Le loro deboli gesta danzerebbero in una verde baia,
S’infuriano, s’infuriano contro il morire della luce.
Gli impulsivi che il sole presero al volo e cantarono,
Troppo tardi imparando d’averne afflitto il cammino,
Non se ne vanno docili in quella buona notte.
Gli austeri, prossimi alla morte, con cieca vista accorgendosi
Che occhi spenti potevano brillare come meteore e gioire,
S’infuriano, s’infuriano contro il morire della luce.
E tu, padre mio, là sulla triste altura maledicimi,
Benedicimi, ora, con le tue lacrime furiose, te ne prego.
Non andartene docile in quella buona notte.
Infuriati, infuriati contro il morire della luce.
Biografia di Dylan Marlais Thomas( 1914-1953)-
Dylan Marlais Thomas, poeta gallese
Dylan Marlais Thomas nasce il 27 ottobre 1914 in Galles, a Swansea,secondo figlio di Florence e David John, docente della Grammar School. Trascorre l’infanzia tra la città natale e il Carmarthenshire, dove passa le estati nella fattoria gestita dalla zia Ann (i cui ricordi saranno traslati nella poesia del 1945 “Fern Hill”): la sua salute è però cagionevole, a causa di asma e bronchite, malattie con le quali dovrà fare i conti per tutta la sua vita.
Appassionatosi alla poesia fin da piccolo, scrive i primi componimenti già a undici anni sul giornalino della scuola, arrivando a pubblicare “Diciotto poesie”, la sua prima raccolta, nel 1934. Il debutto è clamoroso, e suscita scalpore nei salotti letterari di Londra. La lirica più nota è “And death shall have no dominion”: la morte è, insieme all’amore e alla natura, uno dei temi più importanti delle sue opere, incentrate sull’unità drammatica ed estatica del creato. Nel 1936 Dylan Thomas pubblica “Venticinque poesie” e sposa Caitlin MacNamara, ballerina che gli darà tre figli (tra i quali Aeronwy, futura scrittrice).
Trasferitosi in una casa sul mare a Laugharne, nella cosiddetta Boathouse, scrive molte poesie nella solitudine di quello che in “The writing shed” descrive come il suo capanno verde. A Laugharne è ispirata anche Llareggub, località immaginaria che farà da sfondo al dramma “Under milk wood”. Nel 1939 Thomas pubblica “Il mondo che respiro” e “La mappa dell’amore”, cui fa seguito, nel 1940, una raccolta di storie dall’evidente matrice autobiografica, intitolata “Ritratto dell’artista da cucciolo”.
Nel febbraio del 1941, Swansea viene bombardata dalla Luftwaffe: subito dopo i raid, il poeta gallese scrive un dramma radiofonico, “Return journey home”, che descrive il Kardomah Cafè della città come raso al suolo. A maggio, Thomas e la moglie si trasferiscono a Londra: qui egli spera di trovare lavoro nell’industria del cinema, e si rivolge al direttore della divisione film del Ministero dell’Informazione. Non avendo ricevuto risposta, ottiene comunque un impiego presso la Strand Films, per la quale sceneggia cinque pellicole: “This is colour”, “New towns for old”, “These are the men”, “Conquest of a germ” e “Our country”.
Nel 1943 intraprende una relazione con Pamela Glendower: solo una delle tante scappatelle che hanno contraddistinto e contraddistingueranno il suo matrimonio. Nel frattempo, la vita del letterato si caratterizza anche per vizi ed eccessi, sperpero di denaro e alcolismo: un’abitudine che conduce la sua famiglia sino alle soglie della povertà. E così, mentre nel 1946 viene edito “Death and entrances”, il libro che costituisce la sua consacrazione definitiva, Dylan Thomas deve fare i conti con i debiti e la dipendenza dall’alcol, nonostante i quali ottiene comunque la solidarietà del mondo intellettuale, che lo assiste moralmente ed economicamente.
Nel 1950 intraprende un tour di tre mesi a New York, su invito di John Brinnin. Nel corso del viaggio in America, il poeta gallese viene invitato a numerose feste e celebrazioni, e non di rado si ubriaca, diventando molesto e rivelandosi un ospite difficile da gestire e scandaloso. Non solo: spesso beve anche prima delle letture che deve tenere, al punto da far sì che la scrittrice Elizabeth Hardwick si chieda se arriverà un momento in cui Thomas crollerà sul palco. Tornato in Europa, egli inizia a lavorare a “In the white giant’s thigh”, che ha modo di leggere nel settembre del 1950 in televisione; comincia a scrivere anche “In country heaven”, che però non viene mai completato.
Dopo un viaggio in Iran effettuato per la lavorazione di un film della Anglo-Iranian Oil Company che poi non vedrà mai la luce, lo scrittore fa ritorno in Galles per scrivere due poesie: “Lament” e “Do not go gentle into that good night”, un’ode dedicata al padre morente. Nonostante le numerose personalità che gli offrono un sostegno economico (la Principessa Margherita Caetani, Margaret Taylor e Marged Howard-Stepney), egli si trova sempre a corto di soldi, così che si risolve a scrivere diverse lettere di richieste di aiuto a importanti esponenti della letteratura del tempo, tra cui T.S. Eliot.
Confidando nella possibilità di ottenere altri lavori negli Stati Uniti, compra a casa a Londra, a Camden Town, al 54 di Delancey Street, per poi attraversare nuovamente l’Oceano Atlantico nel 1952, insieme con Caitlin (che vuole seguirlo dopo avere scoperto che nel viaggio americano precedente lui l’aveva tradita). I due continuano a bere, e Dylan Thomas diventa sempre più sofferente a causa di problemi ai polmoni, complice il tour de force americano che lo porta ad accettare quasi cinquanta impegni.
E’, questo, il secondo dei quattro tour nella Grande Mela. Il terzo va in scena nell’aprile del 1953, quando Dylan declama una versione non definitiva di “Under milk wood” all’Università di Harward e al Poetry Centre di New York. La realizzazione del componimento, per altro, è piuttosto turbolenta, e viene completata solo grazie all’assistente di Brinnin, Liz Reitell, che chiude a chiave in una camera Thomas per costringerlo a lavorare. Con la stessa Reitell egli passa gli ultimi dieci giorni del suo terzo viaggio newyorchese, per una breve ma passionale relazione amorosa.
Tornato in Gran Bretagna non prima di essersi rotto un braccio cadendo dalle scale mentre era ubriaco, Thomas è sempre più malato. Nell’ottobre del 1953 si reca a New York per un altro tour di letture delle sue opere e conferenze: afflitto da problemi respiratori e dalla gotta (per le quali in Gran Bretagna non si era mai curato), affronta il viaggio nonostante le sue difficoltà di salute e portando con sé un inalatore per respirare meglio. In America, festeggia il sue trentanovesimo compleanno, anche se deve abbandonare la festa organizzata in suo onore a causa dei soliti malanni.
Il clima e l’inquinamento della Grande Mela si rivelano letali per la salute già precaria dello scrittore (che tra l’altro continua a bere alcol). Ricoverato al St. Vincent’s Hospital in stato di coma etilico dopo essersi ubriacato, Dylan Thomas muore a mezzogiorno del 9 novembre 1953, ufficialmente per le conseguenze di una polmonite. Oltre a “Under milk wood”, verranno pubblicati postumi anche “Adventures in the skin trade”, “Quite eraly one morning”, “Vernon Watkins” e le lettere scelte “Selected letters”.
– Anna Maria ORTESE– Poesie da “Terra oltre il mare”
Copia anastatica da NUOVI ARGOMENTI-numero dicembre 1974
Rivista diretta da
ALBERTO MORAVIA-PIER PAOLO PASOLINI-ENZO SICILIANO
Anna Maria ORTESE nasce a Roma il 13 giugno da una famiglia numerosa e molto povera, che si trasferisce in diverse città prima di stabilirsi nel 1928 a Napoli.Quasi autodidatta – la formazione scolastica costituita solo dalle scuole elementari e da un anno di una scuola commerciale – Anna Maria Ortese si cimenta nel disegno e nello studio del pianoforte, ma infine si appassiona alla letteratura e scopre la propria vocazione di scrittrice. La mancata formazione scolastica fa risaltare ancor più la perfezione stilistica della sua opera, e lo stupore e la meraviglia che essa suscita, in chi vi si accosta, sono se possibile amplificati da questo dato. Nel 1933 il fratello marinaio Manuele muore al largo dell’isola di Martinica; l’eco della tragedia, velata di rimpianto e ricordo, ricorrerà in tutta l’opera della scrittrice. Il 1933 è anche l’anno del debutto con la pubblicazione di tre poesie su «La Fiera Letteraria», tra cui una intitolata Manuele: «(…)Tutto/ che ci rimane ormai di te, Manuele, è un nome solo; e dentro al petto un male/ che a questo nome si confonde» (La Luna che trascorre, ed. Empiria). Anche un altro fratello marinaio, Antonio, da lì a poco morirà al largo delle coste dell’Albania e dal 1952, a seguito della morte di entrambi i genitori, il nucleo familiare della scrittrice si ridurrà alla sorella Maria, con la quale Anna Maria vivrà tutta la vita.
Anna Maria ORTESE
Tra il 1945 e il 1950 comincia a collaborare con la rivista «Sud», il che non le impedirà di trasferirsi da una città all’altra inseguendo un lavoro che le permetta di sopravvivere, quasi sempre accompagnata dalla sorella. Il rapporto sororale, essenziale nella vita della Ortese, sarà per lei anche fonte di perenne rimorso per la vita sacrificata della sorella. Infatti Maria non si sposerà per rimanerle accanto e il suo lavoro, e successivamente la pensione (da impiegata alle poste), saranno quasi le sole fonti di sostentamento per entrambe, essendo i ricavi delle pubblicazioni sempre molto modesti. La sorella Maria, così come gli altri componenti della famiglia, prenderà corpo trasfigurandosi in alcuni personaggi dolorosi, eterei e senza tempo, fondamentali nell’opera della scrittrice (uno su tutti, Juana de Il Porto di Toledo). La stessa Ortese, forse, si trasporrà nell’iguana dell’opera omonima: in un’isola perduta nell’Oceano, una piccola iguana, fatta serva da una famiglia di miseri antichi nobili spagnoli, parla e si veste come una donna e si innamora di un uomo, un nobile milanese venuto a comprare l’isola per farne un paradiso per ricchi; presto saprà quanto è crudele il mondo degli uomini, di chi si ritiene arbitro di tutto e tutti. L’iguana e le altre creature della Natura hanno sempre tratti “umani” (Il Cardillo Addolorato, il puma di Alonso e i visionari) mentre i rari umani nell’opera della Ortese sono angelici e bestiali (il monaciello, le persone incontrate in Silenzio a Milano o nei reportage giornalistici di «La Lente Oscura»).
Anna Maria ORTESE
Tra una città e l’altra, Ortese comincia a pubblicare alcune opere che non avranno mai un vero successo di vendite, solo qualche «eco di polemica», come avrà modo di ricordare in Corpo Celeste, ultima opera, anzi opera-testamento che condensa lucidamente il pensiero e la vita della scrittrice: «[…]E penso di non essere un vero scrittore se, finora, non mi è riuscito di dire neppure lontanamente in quale terrore economico – e quindi impossibilità di scrivere – viva, in Italia, uno scrittore che non prenda gli Ordini. E che non abbia avuto, nascendo, nulla di suo, neppure un tetto». Poco successo di pubblico e scarsa attenzione da parte della critica non le impediranno di avere però dei sostenitori nel mondo letterario, uno fra tutti Pietro Citati che la definirà “la zingara sognante”, cogliendo l’essenza stessa della Ortese: «Malgrado la mia vita non sia ciò che si dice una vita realizzata, devo considerarmi fortunata perché, su un totale di almeno cinquant’anni di vita adulta, riuscii qualche volta ad accostare questa riva luminosa – io che mi considero un eterno naufrago – dell’espressione o espressività che avevano per scopo questo eterno interesse: cogliere e fissare… il meraviglioso fenomeno del vivere e del sentire[…].Tale sentimento può essere meglio definito dalle parole: estasi, estatico, fuggente, insondabile.» (Corpo Celeste). Quella descritta da Ortese è l’esperienza della realtà in cui non è possibile separare la veglia dal sogno. «[…]questo, donna, è il mondo: una cosa fatta di vento e voci – fatta di attese e rimpianto di apparizioni, fatta di cose che non sono il mondo» ( In Sonno e In Veglia) È la “stranezza” continua che suscita l’esperienza della vita stessa, che in Ortese non è mai egocentrata, ma sempre “cosmica”, una viva relazione fra tutte le creature viventi, da cui non è esclusa la pietra (e dunque la terra e i suoi abitanti come “corpo celeste”, mai separato dall’universo): la scrittura può raccogliere e restituire questa relazione solo assecondandone il movimento, quindi operando nello stesso senso della vita e della natura, per somiglianze, per spostamenti, per metafore.
Anna Maria ORTESE
«Potrei ricominciare da capo, se volessi, aggiungendo tante altre cose che mi sono sfuggite. Ma tutto quello ch’è passato davanti ai miei occhi, in tutti questi anni, si stende già in un solo tono uniforme, in un solo colore azzurro, dove questo o quel particolare non hanno più importanza di un vago arricciarsi di spume o brillare di pagliuzze d’argento. Il mare! Ecco cos’è una vita quando gli anni si mettono a correre tra noi e la riva diafana sulla quale siamo apparsi la prima volta: assopito, remoto, mormorante mare» (Il Porto di Toledo). Sarà il mare e il movimento marino, che tanto ricorda il flusso di coscienza di Virginia Woolf e le intermittenze del cuore di Proust, ad avere un ruolo centrale nell’opera della Ortese, indubbiamente per il segno portato nella biografia dalla morte dei fratelli e il pensarsi “naufraga” o per le città marine che sceglierà; in secondo luogo come analogo del Tempo, “insondabile” e insieme superficie e sostanza sempre identica e sempre diversa; e inoltre come figura analoga al lavoro della sua scrittura, sulla quale pensieri, ricordi, percezioni, agiscono con un moto continuo, modellando, aggiungendo, levigando la frase, nella struttura e nella sostanza, fino a farne una concrezione mirabile in cui sembra impossibile distinguere i singoli elementi.
Anna Maria ORTESE
Con Il Mare Non Bagna Napoli, nel 1953, arriverà una labile notorietà, non scevra da forti polemiche per via delle critiche mosse nel libro al gruppo di intellettuali napoletani che si raccoglie intorno alla rivista «Sud»; la scrittrice mai rinuncerà a posizioni critiche nei confronti del mondo letterario dal quale si sente ingiustamente respinta e a cui sente di appartenere a tutti gli effetti. Dalle lettere agli amici, dalle rare interviste concesse, il desiderio di essere riconosciuta come “scrittrice”, come “narratrice”, sarà sempre un punto dolente nella vita di Ortese. Dagli intensi scambi epistolari fra la scrittrice e amici, quali Citati e Dario Bellezza, si possono cogliere momenti intimi e aneddoti, di alcuni dei quali è possibile trovare un’eco nell’opera della Ortese. Sarà Bellezza a raccontare, con discrezione, l’amore per Marcello Venturi, «una delusione d’amore» come avrà modo di dirgli la stessa Ortese (che la farà apparire agli occhi del poeta, nell’occasione del loro primo incontro, con un aspetto “monacale”, “senile”, sebbene non lo fosse). Sarà ancora Bellezza nel 1986 a promuovere la raccolta di firme fra amici e intellettuali affinché le venga assegnata la pensione prevista dalla legge Bacchelli. La scrittrice confessò, in una lettera al poeta-amico, di essere stata sfrattata dalla casa di Rapallo, città scelta come ultimo porto. Bellezza rese pubblico quanto successo e avviò la petizione. Solo in tarda età, esattamente nel 1993 a 79 anni, la Ortese riuscirà ad avere un maggior successo di pubblico con Il Cardillo Addolorato, edito da Adelphi, casa editrice che già dal 1986 cominciò a ristampare tutte le sue opere (in collaborazione con l’autrice stessa) in modo da formare un corpus rivisitato e organico. La Ortese muore il 9 marzo nel 1998, tre anni dopo la sorella Maria.
Biografia scritta da Emanuele Pozzi-Da tempo immemorabile studente fuori corso di Storia all’università Stataledi Milano, è appassionato di letteratura femminile e di storia del pensierofemminile. Melomane, jazzofilo e amante dei viaggi in Oriente.Nessun merito accademico, forse un giorno nell’età senile si metterà astudiare seriamente tutto quello che in corso di laurea si deve studiare enon solo quello che gli piace. Ha una nipote bellissima, Sofia.
FONTE -Enciclopedia delle donne-
Fonti, risorse bibliografiche, siti
Referenze iconografiche: Ritratto di Anna Maria Ortese, Creative Commons CC0 1.0 Universal Public Domain Dedication.
Anna Maria ORTESE-Terra oltre il mareAnna Maria ORTESE-Terra oltre il mareAnna Maria ORTESE-Terra oltre il mareAnna Maria ORTESE-Terra oltre il mareAnna Maria ORTESE-Terra oltre il mareAnna Maria ORTESE-Terra oltre il mareAnna Maria ORTESE-Terra oltre il mare
Biografia di Anna Maria Ortese
scritta da Emanuele Pozzi- FONTE -Enciclopedia delle donne
Anna Maria Ortese
Anna Maria ORTESEAnna Maria ORTESEAnna Maria OrteseAnna Maria ORTESE
Anna Maria ORTESEAnna Maria ORTESE
Anna Maria ORTESEAnna Maria OrteseAnna Maria ORTESEAnna Maria ORTESE
Emily Dickinson – Ho trovato le parole per ogni pensiero-a cura di Franco Lonati-illustrazioni di Maria Lojacono
Presentazione del libro della celebre scrittrice Emily Dickinson con Sara Bignotti, curatrice della collana “Parola dell’Arte”, Franco Lonati, curatore del libro, Maria Lojacono, illustratrice del libro e Massimo Tedeschi, presidente dell’AAB.Mercoledì –
Brescia 29 gennaio 2025, ore 18, presso la Sala del Romanino, all’interno della sede di AAB – Associazione Artisti Bresciani, sita in Vicolo delle Stelle 4, Brescia, si terrà la presentazione del libro di poesie: “HO TROVATO LE PAROLE PER OGNI PENSIERO” di Emily Dickinson, il libro contiene una raccolta di poesie e lettere curata da Franco Lonati e arricchita dalle tavole a colori di Maria Lojacono.Durante la serata intervengono Sara Bignotti, curatrice della collana “Parola dell’Arte”, Franco Lonati, curatore del libro, Maria Lojacono, illustratrice del libro e Massimo Tedeschi, presidente dell’AAB.
Emily Dickinson è una poetessa di livello internazionale fortemente riconosciuta dal pubblico e dalla critica. La sua originalità consiste nella capacità di ripensare ogni cosa per se stessa: “riconcettualizzarla” in poesia. È il filo rosso che guida questa raccolta di poesie e lettere, tradotte e curate da Franco Lonati, resa unica dal contributo artistico di Maria Lojacono, autrice di tavole a colori con le quali interpreta la sfida visionaria dickinsoniana: ripensare il mondo attraverso le immagini. I versi sono dedicati a Natura e Bellezza; Morte e Immortalità; Amore e Dolore; Fama e Successo; Poesia e Sensibilità.
Emily Dickinson (USA 1830 – 1886) è considerata tra le più importanti poetesse in lingua inglese.
Franco Lonati insegna Letteratura inglese presso l’Università Cattolica di Brescia. Ha tradotto e curato edizioni di autori di lingua inglese.
Maria Lojacono è diplomata alla scuola Internazionale Comics, ha illustrato molti volumi.
Altiero Spinelli e l’Europa-MANIFESTO di VENTOTENE-
Il 23 maggio 1986 moriva a Roma Altiero Spinelli, tra i padri dell’Unione Europea. Nato a Roma nel 1907, militante comunista, viene arrestato dalla polizia fascista e condannato a 16 anni di reclusione. Durante la detenzione matura il suo distacco dal Pci e dopo il carcere, confinato a Ventotene, scrive, fra il 1941 e il 1942, in collaborazione con Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni, il Manifesto per un’Europa libera e unita.
Noto come il Manifesto di Ventotene, considerato il documento di base del federalismo europeo.
Caduto il fascismo, liberato il 19 agosto 1943, dieci giorni dopo Spinelli fonda a Milano, insieme a una trentina di reduci dal confino, dal carcere e dall’esilio, il Movimento Federalista Europeo. Nel luglio del 1980 promuove l’iniziativa che porterà al trattato di Unione Europea, approvato a larghissima maggioranza dal Parlamento Europeo il 14 febbraio 1984.
Altiero Spinelli è stato un politico anomalo, ricorda in Altiero Spinelli, lo storico Pietro Graglia: «prima giovane militante comunista, poi, durante la Resistenza e dopo la guerra, profeta dell’unità federale dell’Europa. Combattente indomito, quasi sempre controcorrente, oggi egli appare sempre più una delle figure di rilievo assoluto del Novecento europeo. Della sua vita privata e pubblica Spinelli ha lasciato testimonianze numerose: le memorie, i diari (tutti pubblicati dal Mulino), un ricchissimo archivio».
Sulla base di questi documenti e grazie a una paziente ricerca condotta in archivi europei e americani, Graglia con questo volume ha tracciato per la prima volta un profilo completo della vita e dell’azione politica di Spinelli, soffermandosi in maniera speciale sui decenni dell’impegno federalista e del lavoro nelle istituzioni europee. Minuziosa e appassionata, questa biografia ci porta a contatto diretto con una vicenda umana e politica fuori dal comune e ne conferma a un tempo l’importanza e il fascino.
Un altro libro dopo oltre un settantennio dalla fine della Seconda guerra mondiale e dall’avvio della storia repubblicana: L’Italia e l’Europa di un pessimista attivo – Stati Uniti d’Europa e altri scritti sparsi (1930-1976), edito da Il Mulino, è «il pensiero di uomini e donne del nostro antifascismo, come i valori e le battaglie di quelle generazioni, che costituiscono un patrimonio comune della nostra recente storia democratica ed europea», una fonte d’ispirazione per riflettere sulla condizione presente.
Sono gli scritti di Mario Alberto Rollier raccolti in questo volume, redatti fra gli anni Trenta e Settanta del secolo scorso e affrontano con sorprendente attualità alcune questioni centrali del Novecento che ancora oggi si pongono alla nostra attenzione: l’ecumenismo cristiano e il desiderio di rinnovamento evangelico, l’antifascismo e la Resistenza, la difesa della laicità dello Stato e l’esperienza costituente, il federalismo interno e sovranazionale, il sogno degli Stati Uniti d’Europa, fino alle problematiche di carattere scientifico sull’impiego civile dell’energia nucleare.
La vita di Rollier traccia, con una prospettiva inedita, il quadro di un’epoca della storia europea caratterizzata dalla profonda crisi dei valori cristiani, sopraffatta dagli egoismi nazionali e dalla ferocia dei totalitarismi, ma anche carica di forti tensioni morali, di attese, di entusiasmi e di impegno civile e politico.
Mario Alberto Rollier (1909-1980) nasce a Milano in una famiglia valdese aperta alla cultura liberale europea. Influenzato da Karl Barth e dal movimento ecumenico, partecipa alla stagione di rinnovamento dell’evangelismo italiano. Antifascista, azionista ed europeista è tra i fondatori del Movimento federalista europeo con Ernesto Rossi e Altiero Spinelli e tra gli estensori della Carta di Chivasso insieme a Émile Chanoux. Chimico di fama nazionale, è stato direttore del Centro sperimentale Lena di Pavia che ha ospitato il primo reattore nucleare italiano.
FONTE-Il quotidiano on-line delle chiese evangeliche battiste, metodiste e valdesi in Italia.
Altiero Spinelli
Biografia di Altiero SPINELLI-Uomo politico italiano, nato a Roma il 31 agosto 1907, morto ivi il 23 maggio 1986. È stato il massimo sostenitore dell’ideale europeista nell’Italia del secondo dopoguerra. Aderì giovanissimo al Partito comunista e partecipò all’attività clandestina antifascista. Nel 1927 fu arrestato a Milano e condannato a sedici anni di carcere. Nella primavera del 1937 fu inviato al confino di Ponza e, nel luglio 1939, a quello di Ventotene. Nel frattempo, nel 1937, a causa degli orrori della politica staliniana, aveva abbandonato il partito. A Ventotene si convertì al federalismo e scrisse, insieme a E. Rossi, Per una Europa libera e unita. Progetto d’un manifesto (1941), noto anche come Manifesto di Ventotene, da cui emergeva come la migliore organizzazione politica per l’Europa democratica che stava per nascere dalla guerra fosse l’unità federale dei suoi popoli liberi. Liberato nell’agosto 1943, fondò a Milano il Movimento federalista europeo, di cui fu segretario generale dal 1947 al 1963. Nel 1945-46 entrò nella segreteria politica del Partito d’Azione, che lasciò nel febbraio 1946 quando, insieme a U. La Malfa e a F. Parri, costituì il Movimento della Democrazia Repubblicana (MDR). Abbandonato anche questo raggruppamento politico, si dedicò esclusivamente all’impegno del Movimento federalista, e dopo la mancata ratifica, da parte dell’Assemblea nazionale francese, della CED (Comunità Europea di Difesa) che avrebbe costretto gli stati nazionali ad avere un esercito comune e quindi, in prospettiva, una politica comune (1954), si convinse che non si sarebbe mai raggiunto l’obiettivo di un’Europa federale se non si fosse passati da una politica di vertice a un’azione di mobilitazione popolare. Nel 1965 fondò a Roma l’Istituto di affari internazionali, un centro che doveva favorire, attraverso la conoscenza dei problemi della politica internazionale, un’evoluzione di tutti i paesi del mondo verso forme di organizzazione sovranazionale. Dal 1970 al 1976 fu nominato membro della Commissione esecutiva della Comunità europea, e nel giugno 1976 fu eletto deputato come indipendente nelle liste del PCI. Nello stesso anno divenne deputato europeo, poi confermato nelle elezioni del 1979 e del 1983. Nel 1983 scrisse il ”Trattato di Unione europea”, poi fatto proprio dal Parlamento europeo.
Tra i suoi scritti citiamo: L’avventura europea (1972); Come ho tentato di diventare saggio. 1. Io, Ulisse; 2. La goccia e la roccia (1984); Il progetto europeo (1985); Discorsi al Parlamento europeo 1976-1978 (1986); Diario europeo (1989).
Bibl.: E. Paolini, Altiero Spinelli. Appunti per una biografia, Bologna 1987; Altiero Spinelli and federalism in Europe and in the world, a cura di L. Levi, Milano 1990.
FONTE-Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani-
Poesie scelte di Emanuel Carnevali–un poeta all’inferno-
ADELPHI EDIZIONI
Emanuel Carnevali
Risvolto-Descrizione del libro di Emanuel Carnevali-un poeta all’inferno-ADELPHI EDIZIONI-Come Dino Campana, Emanuel Carnevali ha avuto il destino di un ‘poète maudit’: nato a Bologna nel 1897, partì da ragazzo per gli Stati Uniti, che dovevano diventare, per lui, il luogo simbolico della vita e della letteratura. Passò attraverso numerosi e umili mestieri («raccogliere cicche per strada non fu certo la cosa più spregevole a cui mi ridussi») finché lo incontriamo nella cerchia degli scrittori americani di punta in quegli anni. Ezra Pound, William Carlos Williams, Sherwood Anderson, Robert McAlmon lo accolsero come uno dei loro, con ammirazione e insieme sconcerto dinanzi a questo difficile e imprendibile personaggio, e inclusero subito testi suoi nelle loro celebri antologie e riviste. Carnevali scriveva in inglese, la sua unica lingua era quella dell’esilio, e portava così nella poesia americana un soffio selvatico, di cui fu avvertita la novità. Il suo destino era tragico: nel 1922 fu colpito da encefalite e dovette tornare in Italia. Trascorse in un ospedale vicino a Bologna gli ultimi anni della sua vita, e lì ancora lo raggiungevano le lettere dei suoi amici americani. In questo volume abbiamo voluto raccogliere le parti più significative della sua opera, finora inedita in italiano. Innanzitutto il romanzo Il primo dio, una prosa di febbrile intensità, carica di immagini, di sogni, di angosce, di camere mobiliate, l’autoritratto di un nomade, braccato dalla vita, che ci lascia sbalorditi per la modernità del suo accento. Poi una scelta dalle sue poesie: anche queste ‘eccentriche’, rispetto all’America e tanto più rispetto all’Italia, scritte in una lingua reinventata con felicità e uno strano candore, leggere e disperate. Infine alcune prose critiche, da cui apparirà l’ottica singolare di questo ‘poeta maledetto’, insofferente delle raffinatezze formali e compositive dei suoi amici americani, lui che si sentiva preso in un terribile risucchio verso la morte. Nel loro disordine e nella loro amarezza, i testi di Carnevali hanno un suono ‘giusto’ che percepiamo solo oggi, come quello di chi poteva essere uno dei grandi scrittori italiani di questo secolo e invece giunge filtrato da un’altra lingua, da un’altra storia, e pur sempre come un’emozionante scoperta.
Emanuel Carnevali
3 poesie di Emanuel Carnevali
Menzogne colorate
I
Le case in lunga schiera
hanno rosse facce arse dal vento.
Queste bare d’aria immobile
con sguardo ottuso e stupido
se l’intendono con i venti che soffiano
un bell’insulto sulle loro facce-
vecchie zitelle
ingoiano con dignità l’odio
verso il passo vanitoso
di alte ragazzine dalle gonne ondeggianti.
Hanno rosse facce arse dal vento.
Tentano con dignità
di sorridere
una rossa menzogna
per un momento
in lunga schiera
mentre soffiano i venti.
II
Uomini vestiti di blu, nero e grigio
questi sono i tre colori del cielo.
Odio, amore e bontà pigiati nello spazio
di una giacca mal abbottonata.
Poiché il cielo
guardando giù
tanto dolcemente
chiederà a questi uomini la ragione,
queste piccole, indaffarate cose sotto la giacca
nasconderanno il disagio,
e strisceranno via
in abiti blu, nero e grigio-
tre colori di menzogna
per tradire
lo sguardo gentile del grande cielo innocuo…
Oh l’intrusione
confonderebbe
lo stomaco degli uomini,
striscerebbero via
armati di bugie nere blu e grigie.
(Gennaio 1918)
*
Quando è passato
L’amore lo pensavo come un lungo giro in battello
su un lago tranquillo: intorno
i salici lasciavano cadere le loro fronde
in acqua;
e tra quelle fronde, i raggi
che il sole dimenticava andandosene
erano tutto un indaco-rosa-viola-blu.
Ma ora che è finito so che era una corrente
impetuosa, e ruggendo distruggeva tutto, tutto.
Nell’anima mia, mi resta soltanto un cespuglio
che oscilla e ondeggia nel vento come la chioma di una strega.
Sibila e bestemmia il vento come il braccio tremendo di una strega:
la memoria.
(Marzo 1918)
*
Ai poeti
Essenze di ogni bellezza popolare
violini dalle corde vibranti
lunghe, soffici, delicate armonie-
anche se sfiorati dalle ruvide dita del mondo,
anche se sfiorati dalle fredde dita del dolore-
pensate al giorno in cui, dormendo nelle vostre tombe,
sarete svegliati dal tuono delle vostre voci
e dal vento forte e gelido della vostra musica:
poiché nel suolo fertile degli anni
le vostre voci fioriranno mutando in tuono,
la vostra musica muterà in vento che monda e genera.
(Marzo 1918)
Emanuel Carnevali
BIOGRAFIA di Manuel Federico Carlo Carnevali nacque a Firenze il 4 dicembre 1897 in via Montebello 11, da Tullio Carnevali (Lugo di Romagna, 1869), ragioniere-capo di prefettura, e da Matilde Piano (Torino, 1873). Emanuel, Em o Manolo, come veniva alternativamente chiamato, venne al mondo dopo che i genitori si erano separati; dopo l’infanzia trascorsa tra Pistoia, Biella e Cossato e dopo la morte della madre (1908), venne messo in collegio dal padre che, risposatosi, volle che raggiungesse la nuova famiglia a Bologna. Nel 1911 Emanuel vinse una borsa di studio del Collegio Marco Foscarini di Venezia e vi trascorse quasi due anni, prima di esserne espulso. Nel 1913 fece il suo ingresso nell’Istituto Tecnico “Pier Crescenzi” di Bologna, dove fu allievo del critico letterario e narratore Adolfo Albertazzi. Questo rapporto col maestro, non del tutto pacifico, rappresenterà per Carnevali un’iniziale conferma della sua vocazione letteraria.
Come racconta lui stesso nel suo romanzo Il primo dio, scritto in inglese e tradotto in italiano dalla sorellastra Maria Pia (figlia di suo padre e della nuova moglie) per i continui litigi con il padre che lui considerava autoritario e troppo reazionario, decise di emigrare negli Stati Uniti nel 1914, a soli 16 anni. Emanuel partì da Genova sul Caserta il 17 marzo 1914 e arrivò a New York il 5 aprile.
Visse quindi fino al 1922 tra New York e Chicago, all’inizio senza conoscere una sola parola d’inglese ed esercitando lavori saltuari: lavapiatti, garzone di drogheria, cameriere, pulitore di pavimenti, spalatore di neve ecc., e soffrendo fame, abietta miseria e privazioni di ogni sorta. Col tempo imparò la lingua (leggendo le insegne commerciali di New York), cominciò a scrivere e ad inviare i suoi versi a tutte le riviste che conosceva. Inizialmente rifiutate, le sue poesie cominciarono man mano ad essere pubblicate ed Emanuel a farsi conoscere nell’ambiente letterario, diventando amico di diversi poeti, tra cui Max Eastman (1883-1969), Ezra Pound, Robert McAlmon (1896-1956), e William Carlos Williams (che lo nomina nella sua Autobiography del 1951).
Dimenticato dalla critica e dal pubblico, ha lasciato un piccolo, ma tagliente e forte segno nella letteratura americana del Novecento. Pur vivendo quasi in miseria, passando da un lavoro all’altro, e da un amore all’altro, frequentando prostitute e teppistelli, riuscì a partecipare, da straniero, al rinnovamento dell’avanguardia letteraria americana dell’epoca.
Sherwood Anderson si ispira a lui quando scrive il racconto Italian Poet in America (1941). Le sue poesie vengono pubblicate dalla rivista “Poetry Magazine”, fondata nel 1912 e diretta da Harriet Monroe (1860-1936) e di cui diventa lui stesso, per un breve periodo, vicedirettore.
Fu autore dei racconti Tales of an hurried man (1925), poi lasciò New York ed Emilia Valenza, la ragazza d’origine piemontese che aveva sposato nel 1917 e che viveva con lui nell’allora malfamato “East Side” di Manhattan, per andarsene a Chicago, dove visse ancora in stenti traducendo e collaborando a «Others».
Le sue lettere a Benedetto Croce e a Giovanni Papini verranno poi pubblicate col titolo Voglio disturbare l’America (1980), a cura di Gabriel Cacho Millet, il quale ha anche raccolto i Saggi e recensioni e il Diario bazzanese.
Colpito da una malattia nervosa, l’encefalite letargica, nel 1922 ritornò in Italia, dove visse gli ultimi vent’anni fra l’ospedale e varie pensioni di Bazzano, il Policlinico di Roma e la clinica bolognese Villa Baruzziana, e dove continuò a scrivere, come sempre, in lingua inglese.
Placca in memoria di Emanuel Carnevali nel Chiostro delle Madonne della Certosa di Bologna.
Morì l’11 gennaio 1942 nella Clinica Neurologica di Bologna, soffocato da un boccone di pane. Due giorni dopo venne sepolto a Bologna nel cimitero della Certosa.
Opera
Durante la sua vita è stata pubblicata solo la raccolta di racconti Tales of an Hurried Man nel Contact Editions di Robert McAlmon, Paris 1925, di cui è uscita solo nel 2005 una versione italiana col titolo Racconti di un uomo che ha fretta.
Il romanzo autobiografico Il primo dio è stato pubblicato postumo nel 1978, a cura di Maria Pia Carnevali e ha vinto il Premio Brancati.[1]
Riconoscimenti
A lui è dedicata la canzone Il Primo Dio[2] dei Massimo Volume (contenuta nel loro disco Lungo i bordi), ed una sua poesia (Almost a God) è stata musicata dalla band Movie Star Junkies.
Il Comune di Bazzano, la Fondazione Rocca dei Bentivoglio di Bazzano e l’Archivio storico comunale di Bazzano hanno pubblicato Sono un vagabondo e semino parole da un buco della tasca, a cura di Aurelia Casagrande, Bazzano: Quaderni della Rocca, 2008. Presso il Comune di Bazzano è conservato l’archivio delle carte dello scrittore Carnevali acquisite dalla famiglia da parte del Comune di Bazzano e ora conservate nell’archivio comunale.
Il gruppo musicale Acustimantico ha pubblicato un cd che si chiama “Santa Isabel” con la canzone Em, ovvero Emanuel Carnevali va in America (I Palombari, 2004).
Il cantautore Bobo Rondelli nell’album “Come i carnevali” (Picicca Dischi / The Cage marzo 2014) apre la raccolta con la canzone “Carnevali” che, nella terza di copertina, è spiegato essere “ispirata e dedicata a Emanuel Carnevali (Semino parole da un buco della tasca…)”
Tra le folle di migranti che agli inizi del secolo scorso sbarcarono a Ellis Island, si nascondeva un grande poeta proveniente dall’Emilia.
Emanuel Carnevali lascia Bologna e sbarca a New York il 5 aprile 1914 per sfuggire a un padre autoritario che “nasconde un cuore nero”. Cacciato dal collegio in cui studiava a Venezia e rimproverato dal genitore per le assenze dalla scuola di Bologna, “Manolo” arriva in America a soli 16 anni, come Rimbaud all’epoca delle prime fughe a Parigi. A New York il ragazzo di Bologna non conosce nessuno, se non il fratello che lo raggiunge due settimane dopo e con il quale litiga subito. Comincia un’esistenza di lavori saltuari e camere ammobiliate: fa il cameriere, il lavapiatti, il garzone di drogheria, lo spalatore di neve, e impara l’inglese in strada decifrando le insegne pubblicitarie. Nel 1917 legge avidamente i poeti francesi e scrive il suo primo verso in inglese: Love is a mine hidden in the mountain of our old age. Manda le sue prime poesie alle riviste, regolarmente rifiutate, e cambia lavoro in continuazione vivendo di espedienti. Fa amicizia con un francese, aspirante scrittore, Louis Grudin, che lo introduce alla letteratura americana e con il quale visita alcuni importanti scrittori americani come Max Eastman e Louis Untermeyer. A settembre The Seven Arts gli pubblica un paio di poesie.
Il mese dopo Carnevali conosce una sua vicina di camera, una piccola piemontese emigrata, e la sposa. Per la prima volta ha una casa, anche se nel malfamato East Side. Nel marzo 1918 la prestigiosa rivista Poetry diretta da Harriet Monroe lo premia per una serie di poesie, grazie alle quali entra in contatto con i grandi intellettuali del tempo: William Ca
rlos Williams, che gli dedica l’intero ultimo numero della rivista Others (luglio 1919), Ezra Pound, Edgar Lee Masters, Carl Sandburg, Sherwood Anderson.
Carnevali traduce in inglese Croce, Papini e i nuovi poeti italiani, pubblica un saggio su Rimbaud, collabora a riviste, ma rimane uno sradicato, un nomade braccato dalla vita, un poeta maledetto. Febbrile, selvatico, con una certa affinità di stile ed esistenziale con Dino Campana, tradisce la moglie con avventure occasionali, la abbandona a New York – e non la rivedrà mai più – per trasferirsi a Chicago, chiamato da Harriet Monroe come vicedirettore di Poetry. Fa q
ualche lavoretto per campare, senza mai riuscire a liberarsi della sua congenita instabilità. Si innamora di una ragazza ebrea, e quando questa nel febbraio 1920 lo lascia per trasferirsi a New York, anche lui abbandona il poco che aveva conquistato, come l’incarico alla rivista, e vaga di notte per le strade di Chicago facendosi mantenere dalle prostitute.
Cominciano le prime crisi di nervi. Ricoverato per sospetta sifilide nel reparto psicopatici del St. Luke’s Hospital, grazie all’aiuto di un gruppo di amici viene trasferito in una clinica privata. Dimesso, gli trovano un posto di giardiniere al Lincoln Park, che deve abbandonare per la sua debolezza. Chiede allora di essere mandato alle dune dell’Indiana: lì – scrive – “la solitudine era tutto ciò che possedevo”. Passata l’estate del 1920, torna a Chicago dove vive chiedendo l’elemosina. A Milwaukee, invitato per una lettura delle sue poesie, si ferma e va a dormire all’ospedale. Ricacciato a Chicago dalle autorità, trova altri effimeri lavori. Scrive a Williams: “Caro Bill, ora sono una miseria ambulante”. Nel giugno 1921 riparte per le dune del lago Michigan, dove si costruisce una capanna e vive quasi da selvaggio. Poi fa di nuovo rotta a Chicago, mendicante tra i mendicanti. Nel gennaio 1922 è ancora in ospedale: trema tutto, non riesce a fissare l’attenzione su niente. La diagnosi sarà terribile: encefalite letargica. L’ultimo suo lavoro è quello di trasportare sacchi di tappi di sughero da una parte all’altra di Chicago. Dopo, si abbandonerà completamente alla malattia.
A New York, Grudin lo aspetta al porto per salutarlo. Emanuel torna in Italia grazie al viaggio pagato dal padre: “piegato su se stesso, calmo, tremante, incapace di accendersi una sigaretta” – racconta l’amico. La sera dell’11 settembre 1922 è a Bologna. Il padre, commissario prefettizio a Bazzano, lo fa ricoverare all’ospedale di questa cittadina a 30 km da Bologna. Nel 1923 Em, come lo chiamavano in America, riceve in dono dai suoi amici d’Oltreoceano una macchina da scrivere, e l’anno seguente lo scrittore ed editore Robert McAlmon gli paga un anno di soggiorno a Villa Baruzziana a Bologna. Nel ’25 McAlmon, raccogliendo gli scritti di Carnevali sparsi per le riviste americane, pubblica A Hurried Man. Tra il ’26 e il ’36 Carnevali è sistemato in due pensioni di Bazzano (nel ’28 scrive A History, un diario bazzanese). Gli amici americani non lo dimenticano: in molti vengono a trovarlo a Bazzano, tra cui Ernest Walsh nel ’24, la Monroe nel ’29 e Pound, che nel ’36 gli porta in dono una radio. Ridotto in condizioni pietose da anni di malattia, Carnevali muore nella Clinica Neurologica di Bologna nel 1942, soffocato da un pezzo di pane. L’editore Adelphi nel 1978 fa uscire Il primo dio, che comprende l’omonimo romanzo autobiografico, una scelta di poesie, alcuni racconti, scritti critici e testimonianze. Quel che colpisce, è la ventata di novità, l’urgenza e la selvatichezza che Carnevali introduce nella poesia americana. Scrive in inglese, la lingua dell’esilio, spinto dall’entusiasmo barbarico di chi arriva dalla periferia. Lui, il “poeta delle camere ammobiliate”, è riconosciuto da Williams come “il poeta nero, l’uomo vuoto, la New York che non esiste”. Con la sua lingua raccolta per strada, costringe gli anziani poeti a liberarsi della tecnica, a uscire allo scoperto nella vita, come un topo che scivoli fuori dalle immondizie di New York. Disceso all’inferno, Em, il “miserabile ragazzo sperduto nel sudiciume” che ha scoperto la poesia nei retrocucina dei ristoranti (“Quante volte nelle strade di Manhattan / ho scagliato il mio odio!”), ne riemerge come lo sciamano che ha visto la morte e riconosciuto dio.
Se la malattia, il tremore incessante in tutto il corpo, non l’avesse messo fuori campo a soli 25 anni, costringendolo a giocare di rimessa con le parole e con le sue intemperanze, la Certosa di Bologna custodirebbe oggi i resti di uno dei più grandi scrittori del Novecento.
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