Roma Municipio XIII – Quartiere Casalotti – parrocchia Santa Rita da Cascia
LA CATECHESI DEL CARDINALE ANGELO COMASTRI:
Quaresima con Santa Teresa Di Calcutta-Articolo e foto della Dott.ssa Tatiana CONCAS
Roma Municipio XIII – Sabato 18 marzo 2023, alle ore 17.15, S. Em.COMASTRI Card. Angelo , ha fatto visita alla parrocchia Santa Rita da Cascia, nel quartiere Casalotti, dove ha tenuto la catechesi di “Quaresima con Santa Teresa Di Calcutta”.
Sua Eminenza è stato accolto dal parroco don Lulash Brrakaj, all’interno della chiesa piena di fedeli, venuti per assistere alla Catechesi e alla celebrazione della S. Messa delle ore 18.
Durante la conferenza, il Cardinale Angelo Comastri ha affrontato il tema della felicità, suggerendo quale sia il segreto per raggiungerla, partendo dall’esempio della vita di Santa Teresa di Calcutta.
Em. ha ricordato con commozione le parole pronunciate in diverse occasioni dalla Santa, che aveva conosciuto personalmente quando era ancora in vita e con la quale aveva stretto un bel legame d’amicizia.
Il Cardinale ha presentato Santa Madre Teresa attraverso alcune domande che lui stesso le pose e le risposte da lei fornite, al fine di comprendere quale fosse la sua spiritualità e la sua visione della vita:
Madre qual è per lei il giorno più bello della sua vita?
“Oggi, perché posso ancora riempirlo di bene”
La maggior parte di noi, pensa che la felicità venga dal di fuori (dal denaro, dai successi, dai divertimenti), mentre Madre Teresa aveva capito che in realtà, essa dipende da come siamo dentro.
Madre qual è per lei la persona più importante?
“Quella con cui sto parlando.”
Qual è il suo passatempo preferito?
“Il lavoro, perché mi permette di spendermi per gli altri! E poi, a non fare niente, ci si stanca molto di più”
Ma lei Madre, non fa mai le ferie?
“Non ho bisogno di ferie, perché i miei giorni sono tutti festivi. Fare del bene è una festa!”
Qual è il segreto della felicità?
“La felicità non si trova cercandola! La felicità si riceve in regalo da Dio cercando la felicità degli altri. Per questo gli egoisti sono tutti infelici. Sfido chiunque: non troverete mai un egoista felice.”
Il Cardinale Comastri ha ricordato poi, la domanda che un fotografo un giorno fece a Madre Teresa di Calcutta:
“Madre, mi tolga una curiosità: perché nei suoi occhi brilla tanta felicità?”
La Madre con semplicità rispose:
“I miei occhi sono felici perché le mie mani asciugano tante lacrime!”
Questa meravigliosa risposta, ha commentato S. Eminenza, ci fa comprendere come Madre Teresa fosse felice, perché viveva intensamente la carità. La carità, la santità e la felicità sono la stessa cosa!
Il Cardinale, ha proseguito poi il discorso parlando del Premio Nobel per la Pace, che Santa Teresa di Calcutta ricevette nel 1979.
In quell’occasione la Santa andò a ritirare il premio con la corona del Santo Rosario stretta tra le mani, ma “nessuno osò rimproverarla per il suo affetto verso la Madonna, neppure in una terra rigidamente luterana!”.
Em. durante la Catechesi, ha ricordato anche il viaggio in India, che Pier Paolo Pasolini fece nel 1961, perché invitato insieme ad Alberto Moravia ed Elsa Morante, alle celebrazioni per il centenario del grande poeta nazionale Tagore.
Lo scrittore, quando arrivò a Calcutta, guidato dalla curiosità, volle conoscere questa suora, di cui aveva sentito parlare, sebbene allora avesse solo 50 anni e fosse semplicemente Suor Teresa.
Il ricordo di tale incontro, è riportato da Pasolini nel suo bellissimo libro, intitolato L’odore dell’India, nel quale scrisse:
“Suor Teresa è una donna anziana (in realtà aveva solo 50 anni), bruna di pelle perché è albanese, asciutta, con due mascelle quasi virili, e l’occhio dolce, che dove guarda, vede”
Da quest’ultima osservazione, emerge come Pasolini, grazie alla sua sensibilità di grande scrittore, avesse percepito la capacità di Suor Teresa di comprendere immediatamente, nelle persone il bisogno.
Un’altra importante riflessione su cui si è soffermato il Cardinale Comastri nel corso della conferenza, riguarda il valore della famiglia e degli insegnamenti che i genitori trasmettono ai propri figli.
Madre Teresa diceva: “Le famiglie non finiscono perché non c’è l’amore, ma perché in realtà, non c’è mai stato”.
Per la Santa fu molto importante l’esempio di carità e amore che le trasmisero i suoi genitori e come affermava lei stessa, senza di loro, non ci sarebbe mai stata una Madre Teresa di Calcutta.
Suo papà in particolare, le diceva così: “Figlia mia, non prendere ed accettare mai un boccone se non è diviso con gli altri!”. Oppure: “L’egoismo è una malattia spirituale che ti rende schiavo e non ti permette di vivere o di servire gli altri”.
Oggi purtroppo si è smarrito il senso e l’importanza della famiglia ed i giovani non hanno più modelli di riferimento a cui ispirarsi per le proprie scelte di vita, non hanno più ideali. In questo modo, possono nascere dei giovani vuoti, che non si pongono il problema morale delle loro azioni.
A tal proposito S. Eminenza ha ricordato una tragedia che avvenne nei pressi di Tortona nel 1997, dove un grosso sasso lanciato da tre ragazzi, colpì una giovane sposa in viaggio di nozze, che morì sul colpo.
Il noto psichiatra Andreoli, nel cercare di capire per quale motivo questi tre giovani omicidi, compirono questo gesto così assurdo, trasse queste conclusioni:
“Quei giovani non erano malati, non erano squilibrati, non erano neppure sprovveduti. Erano giovani vuoti, neppure conoscevano la categoria del bene o del male. Per loro esisteva un solo dilemma: mi piace o non mi piace, mi diverte o non mi diverte, mi va o non mi va. Per loro non esisteva il problema morale delle azioni”.
I modelli che offriamo ai nostri giovani sono fondamentali, anche per la nascita di nuove famiglie, futuri “padri” e “madri” che non siano soltanto “mostri di egoismo”.
Senza modelli di generosità ed altruismo alimentiamo solo l’egoismo, che conduce alla violenza e provoca anche l’esplosione delle guerre tra popoli, come quella a cui purtroppo, stiamo assistendo attualmente.
Il cardinale Comastri ci ha invitato inoltre, a riflettere sul fatto che se ognuno di noi, come diceva Madre Teresa, tenesse pulita la propria mattonella, tutto il mondo sarebbe più pulito.
Il segreto per trovare la felicità consiste quindi, nell’uscire dal proprio egoismo e seguire l’esempio di carità e santità trasmessoci da Santa Teresa di Calcutta.
Em. il Cardinale Angelo Comastri infine, ha donato a don Lulash Brrakaj, di origine albanese, una reliquia, consistente in una particella di stoffa bianca, proveniente da una federa usata da Santa Madre Teresa di Calcutta nell’ultimo periodo della sua vita.
Padre Lulash ha ringraziato di cuore S. Em e a sua volta gli ha fatto dono di una bellissima immagine raffigurante la Madonna, come ringraziamento per il Rosario che recitava tutti i giorni, durante la pandemia, in diretta video dalla Basilica di San Pietro, scaldando i cuori di molte persone.
Finita la Catechesi di Quaresima, abbiamo recitato insieme la preghiera scritta sul retro del santino di Santa Teresa di Calcutta, donato da S. Em. a tutti i fedeli presenti.
Dopodiché il Cardinale Angelo Comastri e padre Lulash Brrakaj, hanno celebrato insieme la Santa Messa delle ore 18.00.
Com’è misurato amarsi meno,
è un lavoro sartoriale,
millimetrico,
amicale;
chirurgica la mano che
tutto fa per non sfiorare,
stare
in cabina di controllo
come da tuo protocollo:
nel collo,
la vena giugulare
col suo flusso da invertire;
nel petto,
silenziare
il rumore del rumore.
Che lavoro disamare,
soffocare,
che cesello da artigiana
che ci vuole;
lambiccare che l’amore
riesca a smettere di amare.
Sempre un triste mestiere
seppellire.
*
Ogni volta che tu
aspetti lei e io
ti osservo –
muta, da dietro,
ferita –
aspettarla,
siamo finalmente
uguali.
Aspettiamo
tutt’e due
la persona sbagliata.
*
Ogni volta che suonano alla porta,
sei tu
che non suoni;
le lettere:
tu che non le hai scritte
e datate,
sei tu la firma,
la forma di un altro nome;
sei tu
che non aspetti al palo,
non qui sotto,
non alla fine della strada,
non all’angolo,
non dietro di me,
non al bar:
sei lo sguardo,
la ricerca,
il vuoto;
sei tu
tutti i fattorini,
sei il mazzo di rose non mio;
sei tu che non regali fiori;
è tuo:
il nero dei maglioni;
tuoi:
il ristorante dietro la stazione,
la stazione,
i treni, quelli che arrivano,
ma anche (e soprattutto)
quelli che
se ne vanno,
quelli che
non tornano,
quelli che
non mi dici;
il dodici sul calendario,
le piante,
il mio pianto.
Sono tuoi:
Piero della Francesca,
Alberto Burri,
i carciofini e il vino
e molto altro fra le labbra;
questa poesia,
i secchi bianchi con i bordi blu;
la ruggine è tua.
camminare per strada in centro è tuo,
che sia felice io
è tuo;
la mia infelicità non è tua,
è tuo: il lato sinistro
delle auto bianche,
del letto,
della guancia,
del petto.
* * *
Beatrice Zerbini-La foto di copertina è di Dino Ignani
Beatrice Zerbini (Bologna, 1983), si dedica già dal 1987 allo studio del ritmo e della parola, grazie al celebre coro diretto da Mariele Ventre, di cui ha fatto parte. A otto anni, complice un’infanzia travagliata, inizia a scrivere i primi versi. Nel 2006, apre la pagina online di racconti tragicomici e di poesie “In comode rate”, che darà il nome, nel 2019, alla sua prima silloge, In comode rate. Poesie d’amore (ed. Interno Poesia), giunta in soli due anni alla settima ristampa. Nel 2020, inizia a dedicarsi a un progetto a sostegno delle famiglie dei malati e delle malate di Alzheimer, diventato poi anche uno spettacolo portato in diverse piazze emiliano-romagnole. Nel 2021 pubblica Mezze Stagioni (ed. AnimaMundi), una breve raccolta di suggestioni poetiche. D’Amore è la sua seconda opera poetica, in cui trovano sempre più spazio i temi introspettivi, dell’amore, del lutto e della cura tramite la psicoterapia.
Ci attira sopra ogni cosa
la cosa che più reprimiamo
E, così, l’uomo
divora la donna,
E, così, il popolo
adora il tiranno.
Così vai cercando
l’accento straniero
di quel bel ragazzo
che ti terrorizza,
Ti forzi a far odio
del tuo desiderio;
Ti sembra che io
dica il giusto o il vero?
La tigre e il cervo
La tigre procede a testa alta
nel tropico che la vede padrona
di ogni foglia, di ogni sfumatura.
Non perdona, ma non compie passo falso
di abuso, di violenza verso gli altri,
Nessuna; si compiace, anzi
di essere la sola a poter aiutare.
Non prova amore:
Non ha vera forza
All’infuori del sentirsi superiore.
–
Oltre al confine del tropico
la tigre cercava una preda,
Presa dalla solitudine
di una vittoria ormai invisibile.
Lei desiderava amare,
davvero,
Una creatura migliore,
Senza mai aver imparato ad amare
sé stessa, ciò
che la rendeva uguale.
Ma nella foresta
di forme diverse,
Di diverse leggi,
diverse realtà,
Volere solo vincere
significava reggere
Un metro diverso
dal braccio di ferro.
Chi si misura solo con la forza
non sa mai cosa l’aspetta.
Chi non ha forza
se non nel confronto
Nasconde la più grande debolezza.
Disarmata, ascoltavo morire
anche il grido
Di una grinta spenta in eterno:
Erano le lacrime di una tigre
di fronte alla grazia del cervo.
Non sapro’ mai più
Non ho mai chiesto più
da certi sogni
che mi lasciassero stare.
Quando la guardia è bassa
e non so interpretarli,
le sale buie e accumuli
di oggetti più che inutili.
Non ho mai chiesto più
dalla mia mente
di non caderci ancora.
Se è più facile perdersi,
ben più che ritrovarsi,
Io non saprò mai più dove mi trovo.
Termini
Definisci i Termini
delle mie notti instabili
E di giornate sature,
svuotate in un flacone.
Non c’è altra direzione che
sappia dare ai miei passi,
Tu, strada, Termini nella stazione.
Ragazze, amici, occupazioni e amore
languono sul filo della spada
Che rende ognuno dei miei sogni inerme,
atrofizzato tra le vie di Termini.
Non amare la tigre
nessuno vuole stare
Con qualcuno di così eccezionale
ed egocentrico.
C’è stato un tempo
in cui morivo ogni giorno
di devozione;
Ora un silenzio
in cui ascoltare
cadere la cenere.
Non amare la tigre
la cui rabbia non ama,
Che non ammira e non ha mire
se non quella di
arrivare prima.
Sotto al suo morso muore
la sfida di ogni creatura;
Non amare la tigre
che o ti ama
o ti divora.
A colori
Però l’uomo ha sempre visto a colori,
e uguale è il grido di ognuno che muore.
A cosa, a chi sentirsi superiori?
A ere passate e culture presenti?
Cose superate, o semplicemente
Rotte sconosciute dei venti.
Invece di far luce
sappiamo nascondere
e, invece di conoscere,
soltanto giudicare.
Invece di esplorare
ogni strada in quanto nuova
sappiamo solo chiuderci
a ogni alternativa.
Nei campi urbani
Le porte automatiche dell’Inverno
fuori dalla stazione; ciò che prima
ha condito la mia vita, vita mia
Non ne hai lasciato nulla.
Sarà più Primavera?
Nei campi urbani della Tiburtina
la gente loda il respiro dell’aria
“Finalmente verde”, e i palazzi
sghignazzano a braccetto, in lontananza.
La vittoria del freddo
incalza, noncurante,
E io che vago, senza più una meta,
Scrivo;
Il blu del buio
mi si addensa addosso.
Sfrigolano le logoranti
frustrazioni altrui
ingoiate dalla città, Roma mia,
che ne ridi.
La poesia non cambia nulla / è il nulla che la cambia. La fa possibile.
Storie di pianura Restano i nomi, pronunciati per abitudine
distrattamente, obliqui serbano gli echi dei luoghi,
i riverberi – tre cantoni, feniletto di sotto,
il mulino del conte, la vecchia filanda, la seriola –
o neppure restano per i cascinali rossi
diroccati, nell’alternarsi di muschio e gramigna.
Qualche racconto tramandano i vecchi
sottovoce; se verità o mito
più nessuno sa dirlo:
Zaira verde bendata, passo di riccio,
la più abile a domare le mosche con le mani
o Pietro, pelle tabacco arsa dal sole,
smorfie di sorriso come carezze di vanga
o Diletta immobile nella sua sedia di giunco
o Demetra la bigotta, Nando il pazzo, Vittorio
e lei – per chi sa – nata quella notte, vissuta
nello spazio fra i primi vagiti e il silenzio,
battesimo consumato su occhi di madre, soltanto.
Sono le ferite della terra, appena più profonde
nel reticolo fessurale, nel duro delle zolle.
Le diresti durare, per un’ora più lunga di sole,
le leviga poi un breve scroscio di pioggia.
Sono le storie catturate nei cerchi dei tigli
che le annodano ai tronchi, in riva ai fossi
per preservarle forse…
e mentre sfiorata dal plettro del tempo
più alta ne avvampa la voce
non ho che labbra di sabbia
mani di paglia.
Mazinga e l’Uomo Ragno Passare la domenica allo specchio,
estrarre la sequenza delle rughe
per farne perno, fingersi più vecchio,
rimpiangere il passato fra le fughe
delle piastrelle sorde ad ogni passo.
Così si sfoglia l’album di famiglia
convinti che ci possa dar la sveglia
con rapidi rintocchi di memoria,
rivedi poi la maschera di Zorro,
lo scudo di Mazinga, l’uomo ragno
gettare la sua tela in bianco e nero
sul volto imbalsamato di chi resta
e in controluce sai, si fa straniero.
È vita trattenuta sulle labbra,
riavvolta sulla spola il lunedì
nella promessa nuova del mattino,
resistere alle code in tangenziale,
fuggire il cannocchiale del vicino,
indovinare il titolo al giornale
espedienti tutti, e ali di fortuna,
sopravvivenza spiccia, da manuale.
Il cellulare piatto sotto petto,
la giacca abbottonata, la cravatta
fanno scordare l’azzurro del costume,
la chiazza di colore, dozzinale.
È tempo d’oggi, d’attizzare il lume
del quotidiano giogo al carnevale.
da IL SENSO DELLA NEVE
Il senso della neve L’inverno è l’indugiare del pensiero
il perdersi nel vuoto delle stanze
fuggendo l’aria succube nel gelo
raccogliere le gocce della brina
stillarne fiato a pelo delle labbra
e reggere al tranello del già detto
all’esile lusinga del cantabile:
donzelletta passero assiolo, questa
bella d’erbe famiglia e d’animali
nonna Speranza e ogni caro poetico
vecchiume di lune e favole belle
il pio bove, i cipressi del Carducci.
Altro il timbro degno del nostro tempo
col pollice alle nocche un Vanni Fucci
che uncina, che flagella, che dà strazio
Pluto, Minòs ch’avvinghia alla sua coda
Flegiàs, Semiramìs lussurïosa
e serve una parola rattrappita
potata come un pesco di febbraio
quando sferza le guance tramontana.
Serve un torsolo minimo di voce
senza ravvedimenti, mediazione
stanar l’arpeggio nello sciabordio
delle stoviglie, frugare le pieghe
remote della polvere, scoprire
la chiave del durare in ciò che è breve
lo spazio dove resta illeso il bianco
allo svanire certo della neve.
Elettroforesi M’imponi, necessità inalienabile
reverenziale rispetto del verso
come fosse un sacro crisma, un cristallo
da imballare con la dizione fragile,
t’aspetti assoluzione consolante
di rima ritmo luna amore stelle,
per lo meno l’aderenza al canone
in questa incontinenza dell’esistere.
Nella congerie osmotica del secolo
che vede l’uomo al bivio del suo nulla
non serve un trabocchetto, la fasulla
moneta dell’incanto ad ogni costo,
bisogna distillare il sentimento
disporlo in una curva intellegibile
e farne il diagramma degli stimoli
dargli la giusta coppia, potenziale
impulso e carica, elettroforesi.
Il verso va pressato all’essenziale
sforbiciato, sfrondato con tronchesi,
la nostra persistenza ormai è endemica
s’appoggia a pochi esatti gesti certi:
il cambio gomme, la curva glicemica
il piano di raccolta dei rifiuti
l’adeguamento ISTAT, la giusta diùresi
l’IMU e l’alvo regolari, l’afèresi
del poco che vale, dal tutto vile.
A rovescio Talvolta accade che un labbro ti sfiori
dal gelo siderale dell’infanzia
e capriola di respiro solletichi
quell’angolo più in ombra del tuo lobo,
ruzzoli sullo scivolo di vertebre
a dirotto nello scavo del cuore
e senti nostalgia del minuscolo
del farsi più piccino, quasi fumo
svanito al suo destino, a quel tempuscolo
minuta evanescente sulla pagina
e strizzi gli occhi come nel risveglio
dall’incantesimo di un nascondino
dove chi vince è chi
sa più disperdersi, rendersi minimo
rimpicciolire al gioco degli specchi
smagrire anni, retrogradare il passo
affusolarsi come in dissolvenza,
a fuoco sul rovescio d’un binocolo.
da ZERO AL QUOTO
Di certa pruderie che non sospetti La vita non si dice, non significa.
Ci s’avvicina come ad un asintoto
dimostra per assurdo la sua ipotesi.
È soluzione che condensa, satura
soggetta a sedimentazione rapida
per gravità vi bascula, precipita.
La vita non si còmpita, non indica.
Si recita ad accentazione sdrucciola
svicola se si sillaba, vi latita.
Ha persistenza solo per istanti
quel poco che vanifica l’antidoto
– consisterne finché si può, si deve –
e radica negli interstizi atipici
quegli attimi che addensa il temporale
per l’attrazione – nota – delle punte.
Frazione di millesimo che sgretola
residue parte e arte, come una zìqqurat
di sovrapposte, d’avventizie carte.
Fosse poesia Fosse poesia potrei indugiare
su qualche vezzo cromatico, un radere
di luce tra capelli e volto, indulgere
a un virtuosismo lirico, un pacato
trasgredire metrico, i trucchi buoni
che lusingano in una lana di fiato
stemperano la voce che s’aggruma.
Ma questa scena è minima, assoluta
non si concede appello, assoluzione.
Lui siede agli scalini, tra i piccioni
le gambe lacerate dalle piaghe
intruso tra quei cenci, qui recluso
in un rettangolo di cicche, di sputi
lo sguardo arrovesciato su detriti
di storie, ciò che ne resta tra le unghie
sudice, un bicchiere, stente monete.
Chiede nuda evidenza del suo esserci.
E non serve una poesia, un altro alibi.
*
E ripetevi non ancora, non
adesso – e intendevi una desinenza
nuova, tu che temevi i congiuntivi
quel loro vivere solo d’ipotesi,
e il futuro, buono come esercizio
scolastico, a rinviare sempre a un dopo.
I verbi e quel loro vizio: alterare
le radici, sovvertire grammatiche
quel poco che trattiene a terra certa.
Preferivi gli avverbi – non ancora
non adesso – Schietti. Immodificabili.
Ti sentirai a casa
dove il tempo non ha coniugazione.
da ENIAC
*
Si richiede zelo d’amanuense
nella perforazione delle schede
arbitrio fra materia e nulla. Fori
come suture, istmo fra due linguaggi:
l’uomo, la macchina.
Alfabeto di sottrazione.
Arte del togliere.
Parlo un idioma ruvido
dialetto dell’origine.
La punzonatrice scheda ed ordina
plasma la cera
d’una sapienza antica. Cuneiforme.
*
Elettroni come api operaie, abili
a permutare cifre
incasellare numeri.
Trarre ordine dal caos, assertivo
calcolo da precarie
equazioni d’onda, nubi stocastiche.
Noi intenti a celare
l’alone di sudore sul colletto
bianco, ma occhio vigile sullo schermo
mani tese a cogliere il dato esatto.
Iloti. Obbedienti cani di Pàvlov
a fiutare la scia d’uno sparo.
*
Calcoli balistici, traiettorie
missilistiche, l’ordigno ad idrogeno.
Ma anche previsioni meteorologiche
ricerca scientifica, censimenti.
Alibi d’impiego a scopo civile.
Non m’assolvono. Ammettono
il concorso di colpa.
(La stampante campiva tabulati
col suo ciglio di grandine…)
da NOTIZIE DA PATMOS
Geografia di confine Avevi la passione dei confini
tracciare fronti di demarcazione,
la loro geografia compiuta. Solida.
Per questo t’affidavi alle cartine
quella certezza di valichi e passi,
ciò che serve a dare ordine alle vite,
fosse anche un limbo nel deserto, un muro
una zona demilitarizzata.
A noi non è servito confinarci
ciascuno in un cordone sanitario
perché c’è sempre una metà che manca,
l’amore che rimane impronunciato.
C’è bastato credere
franca una terra di nessuno, noi
intatti territori d’oltremare,
colonie di un’uguale solitudine.
Istruzioni alchemiche per il compostaggio Raccogliere e impilare sfalci d’erba,
gusci di noci, fondi di caffè
filtri del tè, ossa, altre immondizie buone.
Rivoltare due o tre volte l’anno, piano
per riattivare il ciclo del silenzio.
Di quando in quando innaffiare, aggiungere
qualche altra scoria, emersa da uno specchio
dimenticato. Pressare a dovere
come a reprimere un singhiozzo buio,
un ricordo di frodo.
Poi maturare a fondo, concedere
varco al tempo, alla sua lama gentile.
Talvolta – dopo un terremoto d’anni –
vi affiora una poesia.
Comuni divergenze A unirci certi strani tarli, il debole
comune del piccolo artigianato,
altre stregonerie minime.
Tu amavi fabbricarti le cartucce
con antica perizia di speziale.
La polvere da sparo, il cartoncino
borre di feltro, pallini di piombo
il dischetto di sughero, orlare
infine il bossolo. Tutto dosato
negli accenti debiti, rudimenti
di metrica tascabile. Ricetta
per il bersaglio esatto.
Io invece preferisco la poesia,
la scienza bellicosa del disarmo.
Quel suo sparare a salve
per non fallire un colpo.
INGLESE
*
I wish it was snow this gap
a stainless white
and flowers skimming the evening.
I carry light suitcases, you said
I close the door slowly, I save
an unexpected glimmer out of it,
those soles of wind.
I speak the rifting blue, I watch over
the ring where the hands pray
the bleeding voice.
I stay here, hanging in this chrism
of silence. Steps that get lost
in a breath, the footprint that blakens the nails.
*
You remember them by disjointed
associations, heart drifts.
Like a flower bandana while
you set the table, or a snake
ring while you water
the garden or while dozing.
Or again, you remember a pedalo ride
you do not know when, and the sharp light. False.
Someone waving from the shore.
Deprived symbols, atoms
of dull stuff. Nothing noble
– perhaps we live on our losses –
nothing useful or just understandable.
However writing of it.
The art of forgetting. (Translated by Elena Cattaneo)
TEDESCO
*
Die Häuser nehmen uns nicht auf. Sie verleugnen
die Schritte, die sie verloren, die Hände,
die die Mauern gravierten, nach und nach
mit dem unbeherrschten Wachsen der Kinder
und den von einem minimalen leuchtenden Alphabet
gezähmten Gesichter an den Fenstern.
Sie behalten von uns den Abzug,
den zweideutige Stempel unserer Diaspora.
Sie behalten die Nacktheit der Nadel,
geschwärzten Siluetten von Bildern und Möbeln
Wracks von Spielzeugen. So
vergessen die Körper
Ihre Missachtung.
*
Du hast Recht, Piero, wir sind Bäume,
wir stechen das Frucht hervor, von Wurzeln
die uns nicht gehören oder, noch weniger,
aus saprophytischen Pflanzen, die wie Rindenspreißeln
in einem grünen Nadelöhr innen leben
und, wie du sagst, Dichtung ist dieses
Handgeben, dieses Vertrauen an das nächste Wachwechsel
und weiter rennen, der Staffel vorbei gehen
und schon wissen, dass das Ziel unerreichbar und
dass das Wort zerbrechlich sind, weil das einzige Ewige,
das immer bleibt, das Unmögliche ist.
Perfektes Sich-nicht-jemandem-hingeben.
Es bleiben abgekratzte Hände, zerbrochener Atem,
Rände der Dunkelheit, die unseres Gesicht
gepflügt hat.
(Übersetzungen von Enrica Santoni Rothfuß)
Biografia di Fabrizio Bregoliè nato a Leno (Brescia) nel 1972, vive in Brianza e lavora nel settore delle telecomunicazioni. Ha pubblicato i libri di poesia: la plaquette Grandi poeti (Pulcinoelefante, 2012), le sillogi Baedeker. Libro di viaggi (Montedit, 2014), Cronache Provvisorie (VJ Edizioni, 2015), Il senso della neve (puntoacapo, 2016), Zero al quoto (puntoacapo, 2018), il poemetto ENIAC incluso in iPoet 2017 – Lunario in versi (Lietocolle, 2018), Onora il padre (Serégn de la memoria, 2019), Notizie da Patmos (La Vita Felice, 2019). È incluso in numerose antologie e presente con i suoi testi sui principali blog di poesia.
RIETI-Presentato il libro “Il resto è silenzio” di Chiara Ingrao.
L’autrice è stata ospite del Seminario dialogante sulla Costituzione promosso dalle associazioni NOME Officina Politica, il Sorriso di Filippo e Raggi di Speranza.
Rieti- 3 marzo 2023-Un libro che ritorna, perché ritorna la guerra, ciclicamente, nella storia degli uomini e delle donne. Un libro ispirato alle vicende di un’altra tragica guerra europea, quella nei Balcani, pubblicato nel 2007 e che oggi torna in libreria, mentre infuria un’altra guerra in Europa.”Il resto è silenzio” è il titolo di questo romanzo di Chiara Ingrao, che cita una celebre battuta dell’Amleto. Ieri l’autrice è stata ospite protagonista nell’ambito del Seminario dialogante sulla Costituzione promosso dalle associazioni NOME Officina Politica, il Sorriso di Filippo e Raggi di Speranza.
Rispondendo alle domande della giornalista Paola Rita Nives Cuzzocrea e colloquiando con il numeroso pubblico, Chiara Ingrao ci ha fornito la sua chiave di lettura sulla guerra, una lettura personale e arricchita dalle esperienze che la stessa autrice ha vissuto nell’ambito delle iniziative solidali verso popoli colpiti dai conflitti. «Ho sempre sentito, in questo mio vissuto, la difficoltà che abbiamo di misurarci con il dolore delle vittime. La tragedia della guerra è troppo grande. La mente rifugge di fronte all’orrore. Tentiamo di idealizzare, di categorizzare, di semplificare, di mantenere un distacco», ha detto la scrittrice. «Ed è invece solo la relazione con l’altro, vera e profonda, che può consentirci di rispecchiarci nella nostra comune umanità. Le vittime sono persone come noi. Ma spesso il linguaggio alza muri, anche le parole e la comunicazione della solidarietà, paradossalmente, lo fanno quando collocano il bisognoso di aiuto (sia esso profugo, migrante, richiedente asilo) in una condizione di subalternità e dipendenza da chi quell’aiuto può offrire». L’intervista ha consentito, da queste premesse, di ragionare intorno alle lacerazioni delle comunità che soffrono le guerre: «I conflitti non sono tra i popoli, ma tra i potenti», ha sottolineato Chiara Ingrao. La guerra dissipa e annienta la ricchezza sociale che nasce dalla contaminazione, dalla mescolanza, dal multiculturalismo. Pone quelli che prima erano fratelli su fronti opposti, pronti a uccidersi.
Il romanzo narra di tre coppie di sorelle, a Roma, a Sarajevo, e nella Tebe del Mito, in bilico fra quotidianità e tragedia, dolore e speranza. La nuova edizione è integrata da nuovi contenuti, fra cui una postfazione di Raffaella Chiodo Karpinsky sui nessi fra la guerra di oggi e quella di allora. In copertina, la foto di una ragazza che corre, nelle strade di Sarajevo, per sfuggire alle bombe. Una immagine colta dal vivo, dal fotografo Mario Boccia, cui il libro è dedicato, che quella guerra documentò e che ebbe la ventura, anni dopo, di ritrovare ancora in vita alcuni soggetti dei suoi scatti come, appunto, la donna ritratta nella foto “La ragazza che corre”. Chiara Ingrao racconta il momento di quell’incontro: al fotografo la donna disse solo «per fortuna, sono sopravvissuta». Una frase che, per l’appunto, lascia tutto il resto, tutte le sofferenze e tutto l’orrore, nel silenzio.
il libro “Il resto è silenzio” di Chiara Ingrao.
DESCRIZIONE
La guerra. La guerra che dopo il 24 febbraio 2022 pare rimbombare ovunque, nelle televisioni e sui giornali e sui social, e qualche mese dopo invece scompare, inghiottita dall’assuefazione e menzionata quasi solo come minaccia alle nostre bollette del gas. La guerra in Europa, che potrebbe farsi totale e travolgerci tutti ma rimane lo stesso guerra degli altri, come tutte le altre in ogni parte del mondo: non sono mai nostre, le carni che morde e la sofferenza di chi fugge. Anche se ci sfidano nel profondo dell’anima, come racconta Raffaella Chiodo Karpinsky nella Postfazione a questo volume. La guerra. Cosa succede, quando una degli «altri» scappa, e ce la troviamo accanto ogni giorno? Trent’anni fa, sfidando i commenti sarcastici di sua sorella, Sara ha ospitato in casa Musnida, fuggita da una guerra ai nostri confini. Anche Musnida, come Sara, aveva una sorella ingombrante: un’eroina, uccisa mentre tentava di recuperare il corpo di un fratello nemico. L’Antigone di Sarajevo, come nell’antico mito tebano i cui echi risuonano sulle pagine con la voce dolente di Ismene, la sorella opaca. Nell’alternarsi di banalità quotidiane e tragedia, fra queste tre coppie di sorelle (a Roma, a Sarajevo e a Tebe) rimbalzano come in un gioco di specchi gli interrogativi dell’oggi: i conflitti, le barriere che frantumano la verità e la vita, la paura dell’Altro che fa da scudo alla paura di ascoltare noi stessi.
Ho scelto l’amore più semplice,
quello ricambiato.
Irrefrenabile il bisogno di averle accanto,
aver vicino la tenera coerenza
quella chiara logica che ne fa la loro essenza.
Sono le creature della natura
a muovere i miei sentimenti,
sono innocenza pura,
sono essere, semplicemente.
Sembrano non aver dubbi sulla vita,
la vivono come vien servita,
senza pensieri o rimpianti
con accettazione e affanni.
Affascinanti nei diversi modi di amare,
si rendono vulnerabili nel chiedere affetto.
Una zampa nella mano, un muso da toccare,
possono farsi domare
o nell’indole più selvaggia lasciarsi ammirare.
Un accordo che richiede un prezzo,
occhi che non a tutti è concesso guardare,
se vuoi paghi in rispetto.
Fiducia, cauti nel concederla,
può sembrare crudele indifferenza
ma non è altro che loro difesa
e un premio, per chi sa ottenerla.
Erica Ercoli, Poetessa di Rieti-Scrittrice e Poetessa, Erica Ercoli è nata nel 1988 a Rieti, dove si è diplomata in Socio-psico-pedagogia. Durante il liceo ha partecipato ad alcuni concorsi letterari, risultando seconda classificata al XXII Concorso Nazionale di Poesia “Mons. Francesco Maiolo” e rientrando fra le prime dieci classificate al Premio Letterario Internazionale “Arché” potendo, così, pubblicare la sua opera nell’antologia.
Prenderò forse un giorno questo treno
su cui, da molto tempo,
non sarò più salito. Sempre
lo stesso viaggio, i monti da una parte
di là il mare. Non mi starai aspettando
a Pietrasanta dove ti vedevo
dallo scompartimento che fumavi.
Di solito però il treno era un altro
dalla stazione a casa
la camminata breve, il carico
leggero. Era Firenze
e i muri così grigi, e i tetti così chiusi
e l’Arno aperto. Sono in ritardo mangio
Il pranzo riscaldato chiacchieriamo,
e ogni parola tace
più di quanto non dice
costretta nello sforzo di coprire
la cadenza romana
che a Roma, spesso, accentuo,
la domenica guardiamo la partita
la vedo, normalmente,
sdraiato sul mio letto o sul divano
senza di te, lontano.
Il desiderio di essere a tua immagine
e somiglianza
l’amore, a volte l’odio la paura
d’esserti figlio sotto condizioni
riceverò il tuo affetto solamente
se ti sarò piaciuto.
Per te, forse, lo stesso.
Mi venivi a trovare da bambino:
era il giorno del primo dei ricordi,
siamo andati allo zoo, ridevi
e mi sporgevi verso
La vasca degli orsi polari –
qualcuno ci ha fatto una foto.
Con te portavi doni
giochi pupazzi e qualche scatto d’ira
che più tardi ho imitato. Noi a Firenze
ancora e adesso è notte, la cucina
la scopa a nove carte, tradizione
di famiglia giocasti
col nonno che ho conosciuto appena
la notte prima dell’operazione.
Parli della tua vita, va il mio sguardo
sulla tovaglia a quadri azzurri
e bianchi, ascolto la tua voce
che mi racconta storie, padre a figlio.
*
Per mia madre
Tu sai che morirai
prima di me, è giusto,
e anch’io non voglio darti
il dolore di sopravvivermi.
E quando morirai sarò al tuo fianco,
spero, pronto a donare e avere,
ogni parola e abbraccio, fino
all’ultimo dei giorni
con te vicina prima
di un addio che certo
non capirò da subito
essere tale, un distacco
che non saprò pensare
di cui non saprò dare conto.
Che sia il figlio a restare è naturale.
ma non so
chi ci sarà a lenire il mio dolore
nei pensieri notturni o intento
a fare l’inventario dei tuoi scritti.
*
UNO SCONTRO
Di solito un tragitto familiare
non crea stupori passa
rapidamente e lascia
chi lo percorre
Agli usi consueti della meta.
Eppure c’è stata una notte
quando col corpo mi hai spezzato il vetro
e sulla strada poco illuminata
pezzi di ferro,
ma soprattutto plastica
brandelli di lamiera.
La ragnatela sotto
i due tergicristalli
allude, forse, al mio destino,
trappola al volo ignaro
di una mosca (ricordo
che, prima, il parabrezza
era intatto). Sento le tue domande
da terra il ginocchio spezzato.
“Perché proprio quel luogo, quella strada?
perché non prima o dopo?”
È il prezzo da pagare
per tutte quelle volte che non c’ero
e sei sopravvissuto
senza che ce ne siamo resi conto,
per quelle volte che non sono morto.
Carlo Carabba, La prima parte, Marsilio, 2021
Carlo Carabba è nato nel 1980 a Roma, dove si è laureato in Filosofia e dove ha vinto una borsa di studio per un dottorato in Storia della filosofia moderna. Ha pubblicato le raccolte di poesia Gli anni della pioggia (peQuod 2008, premio Mondello opera prima), Canti dell’abbandono (Mondadori 2011, premio Palmi e premio Carducci) e il memoir Come un giovane uomo (Marsilio 2018, selezionato nella dozzina del premio Strega). Vari suoi interventi sono apparsi sulla rivista Nuovi Argomenti, di cui è stato caporedattore. Lavora nell’editoria.
Lawrence FERLINGHETTI(1919-2021)-Poeta ed editore statunitense. Nel 1955 fondò la “City lights rocket bookshop” a San Francisco che divenne il centro culturale del movimento “Beat”. Parte della sua poesia è di protesta politica e si pone in opposizione alla violenza. La sua opera, pur lirica, è caratterizzata da un vivo senso dello humour e della satira.
le dita di qualcun altro, si intrecceranno tra i tuoi capelli
con le mie dita, chilometri lontane …
Cristallo-
Da tempo non ci vediamo e sento
come pian – piano ti dimentico
come muore il tuo ricordo in me
come muoiono i capelli e ogni cosa.
Adesso cerco in giù e in su
un posto dove lasciarti
una strofa o una nota, oppure un brillante
dove posarti, baciarti, vederti.
E se nessuna tomba ti accetterà
troverò una pianura o un oasi di fiori
dove posarti dolcemente come polena
ovunque, ovunque ti dispenso..
Ingannandoti, ma forse così
potrei baciarti andandomene senza ritorno
e non si saprà mai né da noi né da altri
se la dimenticanza è questa oppure no.
Tu piangesti-
Tu piangesti e a bassa voce dicesti
Che io ti tratto come fossi una prostituta.
A quel tempo non feci caso al tuo pianto
Ti amavo senza sapere di amarti.
Solo una mattina, all’improvviso mi svegliai
Senza te e il mondo mi sembrò vuoto,
Allora capii ciò che avevo perso
E capii altrettanto che cosa guadagnai.
Brillava su di me come un smeraldo tedioso
E la felicità si rabbuiò come il crepuscolo dietro le nubi
Non sapevo scegliere tra le due
Una più bella dell’altra mi sembrava.
Perché dev’essere così questa collezione di gioielli
Cui la luce e l’orrore la illuminavano allo stesso modo,
Che nel moltiplicare la brama la vita si accentuava
Ma anche la morte altrettanto evocava.
Breve biograia di Ismail Kadaré è nato nel 1936 ad Argirocastro, nell’Albania meridionale, si è laureato in filologia a Tirana e ha proseguito gli studi a Mosca. Tornato in patria, inizia la sua carriera come giornalista e divenne direttore di “Les lettres albanaises”. La poesia è stata la sua prima passione: Ispirazioni giovanili (1956), Il mio secolo (1961). E alla poesia è sempre tornato regolarmente: Perché pensano queste montagne (1964), Motivi di sole (1968), Il tempo (1976), Gocce di pioggia caddero sul vetro (2003).
Nel 1963 pubblicò il primo romanzo, Il generale dell’armata morta, e da allora si è dedicato intensamente alla narrativa. Ha pubblicato una cinquantina di volumi fra romanzi, racconti e saggi. Nel 1990 ha chiesto e ottenuto asilo politico in Francia, dove è membro onorario dell’Accademia. Nel 1992 ha ottenuto il Premio Grinzane Cavour per la narrativa straniera; nel 2005 l’International Booker Prize; nel 2009 il Premio Principe delle Asturie per la Letteratura. Sempre nel 2009 gli è stato conferito la Laurea Honoris Causa in Scienze della Comunicazione dall’Università di Palermo, riconoscimento voluto fortemente dagli “arberesge” di Piana degli Albanesi. Il Premio LericiPea “alla Carriera” nel 2010 è stato conferito a Kadaré, un poeta la cui voce magistrale è estremamente riconoscibile e si snoda in un vero e proprio “Universo Kadaré”, che dalla poesia al racconto e al romanzo si dilata in una dimensione storica e geografica dal passato al presente, collegando la letteratura albanese alle radici stesse della cultura europea. Kadaré costruisce un ponte tra la sua terra e i paesi che la circondano, trattando i caratteri specifici della storia e della cultura di quel paese, ridotto per lunghi periodi al silenzio, e gli aspetti generali che strutturano la vita di tutti i popoli, violenza e menzogna del potere, dedizione al dovere e varchi di libertà.
Con l’inedito Anche se è Aprile, da cui il titolo del volume che il LericiPea dedicò al poeta premiato, è giunta a noi in quest’occasione una perla, che ancora una volta dispiega l’opera di Kadaré nell’alveo di quella ribadita “unica Letteratura europea da Proust a Tolstoj”, che si evidenzia nel riallacciare la sua poesia, come scrive Marina Giaveri, “non solo ai grandi poeti russi del Novecento, ma ad un conosciuto e praticato panorama europeo”.
La sua opera ha ampia diffusione in Italia, dove sono usciti fra gli altri: Il mostro (Fandango 2010). L’incidente (Longanesi 2010), Il crepuscolo degli dei della steppa (Fandango 2009), Il generale dell’armata morta (Longanesi 2010), Aprile spezzato (ivi 2008), Dante l’inevitabile (Fandango 2008), Il successore (Longanesi 2008), La figlia di Agamennone (ivi 2007). Un invito a cena di troppo (ivi 2012), La bambola (La Nave di Teseo, 2017).
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