L’Aquila la mostra fotografica di Ilaria Di Giustili :”La Venere”
L’Aquila la mostra fotograficaLa Venere, di Ilaria Di Giustili: una mostra che si muove tra immagini e poesia, con un contributo di testi di Stefania Macchione e frammenti poetici di Carmela de Felice, con il con il Patrocinio del Comune dell’Aquila.
Il progetto fotografico La Venere, di Ilaria Di Giustili, arriva a L’Aquila dopo una lunga gestazione, che l’ha vista esposta a Roma in una edizione precedente, con altra forma: un percorso di crescita personale oltre che visivo della fotografa l’ha riportata negli anni sul tema della Donna, della sua relazione con sé stessa e con il mondo che la circonda.
Venere, dea dell’amore, è intesa come simbolo di tutte le donne attraverso una serie di scatti che la rappresentano in tutte le sue età e declinazioni spirituali.
La mostra si divide in tre sezioni, la prima dedicata al lato oscuro della Donna archetipo di bellezza e forza, anche – e diremmo soprattutto – quando è fragile e sottoposta a tensioni e violenze fisiche e psicologiche: scatti che vedono i corpi femminili quasi prigionieri delle cornici, allegorie appunto di uno spazio troppo stretto per muoversi nel quale le donne sono rinchiuse, ma non di rado si rinchiudono anche da sole.
La seconda sezione, dal titolo La Venere svelata, vede invece donne immerse in clima di tenerezza e di dolcezza, di relazioni familiari, di complicità, di generazioni che dialogano, da “album di famiglia”
Infine, nella terza sezione, gli abbracci, i baci e la sensualità, con presenze maschili anche nelle fotografie.
Stampe di grandi dimensioni e pannelli con i testi poetici animano il bellissimo sotterraneo del Palazzetto dei Nobili, quasi un labirinto di ambienti misteriosi nei quali l’allestimento guida per mano i visitatori in un viaggio nell’animo della Donna.
Un viaggio che prende maggior valore per essere esposto nel mese di Novembre, ormai dedicato in particolare alla sensibilizzazione contro la violenza sulle donne.
La mostra si propone animata, ogni settimana, da eventi diversi: reading poetici e intermezzi musicali dal vivo più un importante incontro con Salute Donna ODV che si occupa di prevenzione e lotta ai tumori.
· Programma
Opening: sabato 9 novembre ore 17.00
Presentazione con la curatrice Penelope Filacchione presidente dell’Associazione Artsharing Roma – ETS; reading poetico di Carmela de Felice, performance musicale live Dora Ruggiero e Simona Rossi (violino) Clara Gizzi (arpa)
venerdì 15 novembre ore 17:00 Incontro con Salute Donna ODV Associazione per la prevenzione e lotta ai tumori, con la partecipazione dell’Ass. Ersilia Lancia e con visita guidata alla mostra.
venerdì 22 novembre ore 18:00: Serata conclusiva: la poetessa, giornalista, editrice Alessandra Prospero e lo scrittore e regista Federico Del Monaco leggono “Colpa di Alfredo?” di/con Carmela de Felice, performance musicale live Dora Ruggiero e Simona Rossi (violino) Clara Gizzi (arpa), con visita guidata alla mostra.
Marianne Moore (St. Louis, Missouri, 1887 – New York 1972) esordì nel 1921 con Poems, una raccolta di poesie giovanili che H. Doolittle, sua ex compagna al Bryn Mawr College, e R. McAlmon s’incaricarono di pubblicare nel più stretto riserbo. Tra il 1925 e il 1929, dopo un primo successo ottenuto con Observations (1924), diresse la rivista letteraria «The Dial», divenendo uno dei protagonisti del dibattito sulla poesia modernista. Spesso sospesa tra sconfinamenti fantastici e scientifica puntualità d’osservazione (noto l’eclettico bestiario cui M. dà vita nei suoi versi), la sua poesia è siglata da una cifra ironica e da un linguaggio che si fa sempre più rarefatto e compresso. Tra le sue opere più significative: The pangolin and other verse (1936); What are years (1941); Nevertheless (1944); A face (1949); Collected poems (1951 – Premio Pulitzer, National Book Award e Premio Bollingen). Oltre alle raccolte successive (Like a bulwark, 1956, trad. it. 1974; O to be a dragon, 1959; Tell me, tell me: granite, steel, and other topics, 1966), ha lasciato un volume di saggi, Predilections (1955) e un’esemplare traduzione di The fables of La Fontaine (1954). Il Complete poems of MarianneMoore è apparso nel 1967 (trad. it., in 2 voll., 1972-74).
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La poesia
Non piace neanche a me: ci sono cose assai più importanti di simili inezie. Comunque, leggendola con tranquillo disprezzo, uno scopre che in fin dei conti può esserci del genuino. Mani capaci di afferrare, occhi capaci di dilatarsi, capelli all’occorrenza capaci di rizzarsi, sono cose importanti non in virtù delle interpretazioni pompose che possono suggerirvi, ma perchè sono utili. Quando diventano derivate a tal punto da non essere più intellegibili siamo tutti d’accordo: non possiamo ammirare ciò che non riusciamo a capire: il pipistrello appeso a testa in giù o in cerca di qualcosa da mangiare, elefanti che cozzano, un cavallo selvaggio che si rotola, un lupo sotto un albero, instancabile, il critico ottuso che si contrae di scatto la pelle come a un cavallo infastidito da un tafano, il tifoso di base-ball, l’esperto di statistica- e non ha senso neppure svalutare “documenti commerciali e libri scolastici”. Sono importanti anche questi. Però occorre distinguere: se vengono utilizzati a sproposito da poeti di secondo ordine, il risultato non sarà mai poesia. Nè vi sarà poesia finchè i poeti non sapranno essere i “veristi dell’immaginazione” sdegnando banalità e insolenza, e non sottoporranno al vostro esame “giardini immaginari con dentro rospi veri”. Se, comunque, pretendete da un lato il materiale della poesia allo stato grezzo e dall’altro richiedete ciò che è genuino, allora vuol dire che la poesia vi interessa.
Da Unicorni di mare e di terra. Poesie 1935-1951, Rizzoli.
Serpenti, manguste, incantatori di serpenti e simili
Ho un amico che pagherebbe un occhio della testa per quelle lunghe dita tutte uguali –
per quegli orrendi artigli d’uccello, per quell’aspide esotico e la mangusta –
prodotti del paese dove tutto è fatica, il paese del cercatore d’erba,
del portatore di torce, del servo addetto al cane, del portatore messaggero, del santone.
Affascinato da questo esimio verme, selvatico e feroce quasi quanto il giorno della cattura,
lo fissa con occhi sbarrati che sembrano incapaci d’analisi.
«Il serpe sottile che si snoda fulmineo nell’erba,
la tartaruga placida dal dorso variegato,
il camaleonte che passa dalla frasca alla pietra e dalla pietra al ruscello»,
un tempo gli accendevano l’immaginazione;
ora la sua ammirazione è concentrata tutta qui.
Spesso, ma non pesante, si drizza sporgendo dal suo cesello da viaggio,
l’essenzialmente ellenico, il plastico animale tutto d’un pezzo dal naso alla coda;
non si può fare a meno di guardarlo come si è costretti a guardare le ombre delle Alpi
che nelle loro pieghe imprigionano come mosche nell’ambra
i ritmi della pista di pattinaggio.
Questo animale, al quale dalla notte dei tempi
è stata attribuita tanta importanza,
bello, a quanto sostenevano i suoi adoratori – a che scopo fu inventato?
Forse per dimostrare che quando l’intelligenza nella sua forma pura
s’imbarca in un ordine di pensiero improduttivo deve fare marcia indietro?
Chissà; la sola cosa certa al riguardo è la sua forma; ma perché protestare?
La passione di migliorare il prossimo è di per sé una malattia affliggente.
Meglio la repulsione, che non avanza pretese.
Che cosa sono gli anni?
Cos’è la nostra innocenza,
cos’è la nostra colpa?
Tutti sono nudi,
nessuno è salvo.
E da dove viene il coraggio:
la domanda senza risposta,
il dubbio risoluto – che chiama
muto, e sordo ascolta –
che nella sventura,
nella morte stessa
dà coraggio agli altri,
e nella stessa sconfitta induce
l’anima a farsi forte?
Sa vedere nel fondo delle cose ed è lieto
chi accede alla mortalità e nella sua prigione si eleva
al di sopra di se stesso,
come il mare dentro un abisso
lotta invano per liberarsi
e trova nell’arrendersi
il suo perdurare.
Così chi sente fortemente
opera da forte. Anche l’uccello
cresciuto cantando
rinsalda la propria forma e l’innalza.
Benché prigioniero, dice
col suo canto potente
che la soddisfazione è cosa vile,
cosa pura è la gioia.
Questa è la mortalità.
Questa è l’eternità.
A una lumaca
Se «la concisione è la prima grazia dello stile»,
tu la possiedi. La contraibilità è una virtù
come lo è la modestia.
Non è l’acquisizione d’una cosa qualsiasi
capace di adornare,
né la qualità accidentale
che può accompagnarsi a una cosa espressa bene,
che noi apprezziamo nello stile,
ma il principio nascosto:
nell’assenza di piedi, «un metodo conclusivo»;
«una conoscenza dei princìpi»,
nel curioso fenomeno del tuo corno occipitale.
New York
l’epopea del selvaggio,
cresciuta dove lo spazio ci occorre per i traffici –
il centro del commercio all’ingrosso delle pellicce,
costellato di tende d’ermellino e popolato di volpi,
i lunghi peli che ondeggiano due dita sopra il pellame;
il terreno cosparso di pelli di daino – macchie di bianco su bianco,
«così come un ricamo monocromo su raso può avere una trama varia»;
e vizze piume d’aquila compresse dal vento;
e strisce di pelli di castoro – bianche, sollecite di neve.
Ce ne corre di spazio tra la «regina carica di gioielli»
e il bellimbusto col manicotto,
tra il cocchio dorato a forma di flacone di profumo,
e la confluenza del Monongahela con l’Allegheny
e la filosofia scolastica delle terre selvagge.
Non è la copertina dei romanzetti di frontiera che conta,
le cascate del Niagara, i cavalli pezzati e la canoa da guerra;
non è il dire «la pelliccia se non è più bella delle pellicce delle altre,
è meglio non averla» –
e il cui equivalente in carne cruda e in bacche ci basterebbe
per sfamare l’universo;
non è il clima dell’ingegnosità,
le pelli di lontra, di castoro, di puma
senza armi da fuoco, né cani;
non è il profitto,
ma «la possibilità di accedere all’esperienza».
Una tomba
Uomo che scruti dentro il mare,
impedendo la vista ad altri che come te avrebbero diritto di guardare,
e dell’umana natura porsi nel bel mezzo d’una cosa,
ma in mezzo a questa non ti è possibile stare;
il mare non ha altro da offrire che una tomba ben scavata.
Gli abeti stanno in processione con in cima
una smeraldina zampetta di tacchino,
riservati come i loro profili, non dicono nulla;
non è la repressione, comunque, la più evidente caratteristica del mare;
il mare è un collezionista, pronto a restituire uno sguardo rapace.
Altri, oltre a te, hanno avuto quello sguardo –
e la loro espressione non è più di protesta; i pesci non li esplorano più
poiché le loro ossa non hanno durato;
gli uomini calano le reti, senza sapere che stanno dissacrando una tomba,
e remano via veloci – le pale dei remi
che si muovono insieme come le zampe dei ragni d’acqua
quasi non vi fosse una cosa come la morte.
Le increspature avanzano insieme in una falange –
belle sotto i ricami della spuma,
e svaniscono esauste mentre il mare
penetra mormorando fra le alghe e si ritira;
gli uccelli, attraversano a nuoto l’aria velocissimi, stridendo come sempre –
lo scudo della tartaruga tormenta la base degli scogli muovendosi sotto;
e l’oceano, sotto il pulsare dei fari e il rintocco delle boe,
come al solito avanza, e non sembra neppure
lo stesso oceano in cui le cose, cadendo, sono destinate ad affondare –
quell’oceano in cui, se una cosa si torce o si rigira,
lo fa, semmai, senza volontà né coscienza.
Non c’è cigno più bello
«Non c’è acqua più immobile
delle morte fontane di Versailles.» Non c’è cigno
dal cupo cieco sguardo obliquo
e dalle gambe di gondoliere, bello quanto
il cigno di porcellana
dalle pupille nocciola e dall’aureo collare dentato
che ne attesta l’appartenenza.
Allogato nel candelabro Luigi XV
di boccioli dipinti di celòsie
dalie, ricci di mare e sempreverdi,
se ne sta appollaiato sulla spuma ramificante
di lucidi fiori scolpiti,
alto, a suo agio. Il re è morto.
Che cosa sono gli anni
Che cos’è la nostra innocenza, che cosa la nostra colpa? Tutti sono nudi, nessuno è salvo. E donde viene il coraggio: la domanda senza risposta, l’intrepido dubbio, – che chiama senza voce, ascolta senza udire – che nell’avversità, perfino nella morte, ad altri dà coraggio e nella sua sconfitta sprona
l’anima a farsi forte? Vede profondo ed è contento chi accede alla mortalità e nella sua prigionia ti leva sopra se stesso, come fa il mare dentro una voragine, che combatte per essere libero e benché respinto trova nella sua resa la sua sopravvivenza.
Così colui che sente fortemente si comporta. L’uccello stesso, che è cresciuto cantando, tempra la sua forma e la innalza. È prigioniero, ma il suo cantare vigoroso dice: misera cosa è la soddisfazione, e come pura e nobile è la gioia. Questo è mortalità, questo è eternità.
Da Le poesie, a cura di Lina Angioletti e Gilberto Forti, Adelphi.
In questa età di aspra ambizione giova la noncuranza e
“in verità, non è affare degli dèi cuocere vasi d’argilla”. Non lo fecero in questa circostanza. Alcuni rotarono sull’asse del proprio valore, come se l’eccessiva popolarità potesse essere un vaso;
non si avventurarono in una professione di umiltà. Il cuneo levigato che poteva spaccare il firmamento era ammutolito. Infine si buttò via da se stesso e ricadendo conferì ad un povero sciocco un privilegio.
“Superiore in altezza a tutti gli altri di quanto può esser lunga una conversazione di cinquecento anni”, ci fu uno che raccontava cose che non avrebbero potuto mai essere vere – ed erano migliori le sue storie di tutta l’insocievole, senile
filastrocca che parla di certezza; il suo recitare in sordina era più tremendo, nella sua efficacia,
del più feroce assalto a viso aperto. Il bastone, la sacca, la finta incoerenza dei modi sono i segni che rivelano quell’arma, la salvaguardia di se stessi.
Cogliere e scegliere
La letteratura è un fase della vita. Per chi ne ha paura la situazione è senza rimedio; per chi le si accosta in confidenza non conta quello che se ne può dire. L’opaca allusione, il simulato volo verso l’alto non ottengono nulla. Perché stendere un velo sopra il fatto che Shaw si muove con impaccio sul terreno dei sentimenti ma per il resto è gratificante; che James è tutto quello che di lui si è detto? Non esiste uno Hardy romanziere e uno Hardy poeta, ma un uomo solo che interpreta la vita come emozione. Il critico deve sapere quello che a lui piace: Gordon Craig con il suo “questo sono io” e “questo è mio”, con i suoi tre re magi, i suoi “tristi prati francesi” e il suo “ciliegio cinese”,
Gordon Craig così soggettivo e privo di pudori – un vero critico.
E Burke è uno psicologo, di una curiosità acuta da procione. Summa diligentia; per quell’imbroglione che ha un nome così divertente – molto giovane e molto temerario – Cesare attraversò le Alpi sul sommo di una “diligenza”! Noi non siamo maniaci del significato, ma ci sconcerta la dimestichezza con i significati errati. Noioso calabrone, le candele non sono fatte per l’elettricità. Cagnolino che corri per il prato ad addentare la biancheria
e sostieni di avere preso un tasso, ricorda Senofonte: basta un comportamento elementare per metterci sulla pista. “Una buona salva di latrati”, qualche robusta grinza che increspa la pelle tra le orecchie, è tutto quello che noi pretendiamo.
Nei giorni del colore prismatico
non nei giorni di Adamo ed Eva, ma quando Adamo era ancora solo; quando il fumo non c’era, e il colore era bello, non per l’affinamento di un’arte primitiva, ma per la sua stessa originalità; e nulla c’era a modificarlo se non la nebbia che saliva, e l’obliquo era una variante del perpendicolare, semplice a vedersi e a spiegarsi: non è più così; né la fascia blu-rosso-gialla di incandescenza che era il colore ha serbato il suo schema: è anch’essa una di quelle cose in cui si può immettere e scoprire molto di peculiare; la complessità non è un delitto, ma se la portate fino alla soglia dell’oscurità, più nulla sarà semplice. La complessità, poi, che sia stata affidata alle tenebre, invece di dichiararsi per quella peste che è in realtà, si agita intorno come per confonderci con la tetra illusione che l’insistenza è la misura di ogni risultato e che ogni verità dev’essere caligine. Gutturale com’è principalmente la sofisticazione è quel che è sem- pre stata – agli antipodi delle iniziali grandi verità. “Parte strisciava, parte si accingeva a strisciare, il resto stava torpido nella tana”. Nel procedere lento, sussul- tante, nel gorgogliare e in tutte le minuzie – noi abbiamo la classica moltitudine di piedi. A quale scopo! La verità non è l’Apollo del Belvedere, non è cosa formale. L’onda potrà sommergerla, se vuole. Sappi però che ci sarà se dice: “Ci sarò quando l’onda se n’è andata”.
Da Le poesie, a cura di Lina Angioletti e Gilberto Forti, Adelphi.
«Avamposto»
«Avamposto» è uno spazio di ricerca, articolato in rubriche di approfondimento, che si propone di realizzare un dialogo vivo rivolto allo studio della poesia attraverso un approccio multidisciplinare, nella consapevolezza che una pluralità di prospettive sia maggiormente capace di restituirne la valenza, senza mai sfociare in atteggiamenti statici e gerarchizzanti. Ma «Avamposto» è anche un luogo di riflessione sulla crisi del linguaggio. L’obiettivo è interrogarne le ragioni, opponendo alla tirannia dell’immediatezza – e alla sciatteria con la quale viene spesso liquidata l’esperienza del verso – un’etica dello scavo e dello sforzo (nella parola, per la parola). Tramite l’esaltazione della lentezza e del diritto alla diversità, la rivista intende suggerire un’alternativa al ritmo fagocitante e all’omologazione culturale (e linguistica) del presente, promuovendo la scoperta di autori dimenticati o ritenuti, forse a torto, marginali, provando a rileggere poeti noti (talvolta prigionieri di luoghi comuni) e a vedere cosa si muove al di là della frontiera del già detto, per accogliere voci nuove con la curiosità e l’amore che questo tempo non riesce più a esprimere.
Avamposto
Via Lupardini 4, 89121 Reggio Calabria (c/o Sergio Bertolino)
Nasceva l’11 novembre 1929 Hans Magnum Enzensberger, poeta, traduttore, editore e autore tedesco. Nato in Baviera, aveva solo 15 anni quando il Terzo Reich crollò. Dopo aver studiato letteratura, filosofia e lingua tedesca nelle università di Erlangen, Friburgo e Amburgo, Enzensberger conseguì il dottorato alla Sorbona di Parigi.
Enzensberger scrisse sia in inglese che in tedesco. Oltre ai romanzi, pubblicò più di cinque volumi di poesie, tra cui raccolte per bambini. Il poeta Charles Simic elogiò la vasta portata della scrittura di Enzensberger in questo modo: «Hans Enzensberger ha la più vasta gamma di argomenti, impiega una varietà di stili… quasi tutte le sue poesie, siano esse liriche, drammatiche o narrative, hanno una qualità polemica».
Venne considerato come una delle figure fondanti della letteratura della Repubblica Federale Tedesca e fu uno dei principali autori del Gruppo 47, partecipando, nel 1968, al Movimento studentesco della Germania occidentale. Tra i suoi vari riconoscimenti e onorificenze ricordiamo il Premio Georg Büchner, il Premio Heinrich-Böll e il Premio Principe delle Asturie del 2002. Nel 2009 ricevette il prestigioso premio Griffin Poetry Lifetime Recognition Award.
Enzensberger scrisse molte delle sue poesie in tono sarcastico e ironico. Ne è un esempio, la poesia Middle Class Blues, composta da varie tipicità della vita della classe media, con la frase “non possiamo lamentarci” ripetuta più volte e si conclude con “cosa aspettiamo ancora”.
Qui la poesia in una traduzione di A. M. Giachino:
Non possiamo lamentarci. Abbiamo da fare. Siamo sazi. Mangiamo.
Cresce l’erba, il prodotto sociale, l’unghia delle dita, il passato.
Le strade sono vuote. Le chiusure sono perfette. Le sirene tacciono. Questo passa.
I morti hanno fatto il loro testamento. La pioggia è cessata. La guerra non è stata dichiarata. Questo non è urgente.
Noi mangiamo l’erba. Noi mangiamo il prodotto sociale. Noi mangiamo le unghie. Noi mangiamo il passato.
Non abbiamo nulla da nascondere. Non abbiamo nulla da perdere. Non abbiamo nulla da dire. Abbiamo.
L’orologio è caricato. La vita è regolata. I piatti sono lavati. L’ultimo autobus sta passando.
È vuoto.
Non possiamo lamentarci.
Cosa aspettiamo ancora?
da “Poesia Tedesca del Novecento”, Rizzoli.
Molte delle poesie di Hans Enzensberger presentano questi temi di disordini civili su questioni economiche e di classe.
Ne è un esempio anche Divisione del lavoro:
Che la stragrande maggioranza della stragrande maggioranza non capisca pressoché nulla, per es. poesia, diritti d’opzione, numeri pseudoprimi, e mettici perfino i massimi sistemi – è piú che comprensibile!
La stragrande maggioranza ha tutt’altre preoccupazioni, imperturbabile si tiene ai figli e alle mutue, letto soldi pop sport, a tutto ciò di cui la minima minoranza non vuol sapere nulla.
Dove andremmo a finire coi nostri cervellini se tutti pensassero su tutto?
Solo di quando in quando, in certe interminabili sere, un’occhiata dall’altra parte, alla finestra illuminata dove vivono altri, e la vaga sensazione di essersi persi qualcosa.
da “Piú leggeri dell’aria”, Einaudi. Traduzione di Anna Maria Carpi.
Il lavoro di Enzensberger del 1974 L’industria della coscienza sulla letteratura, la politica e i media diede origine al termine “industria della coscienza”, che identifica i meccanismi attraverso i quali la mente umana è riprodotta come un prodotto sociale. I principali tra questi meccanismi sono le istituzioni di mass media e educazione. Secondo Enzensberger, l’industria della mente non produce nulla di specifico; piuttosto, la sua attività principale è quella di perpetuare l’attuale ordine di dominio dell’uomo sull’uomo. Hans elabora l’industria della coscienza in quanto si applica alle arti in un più ampio sistema di produzione, distribuzione e consumo. Il porta coinvolge specificamente i musei come produttori di percezione estetica che non riconoscono il loro intellettuale, politico e autorità morale: «Piuttosto che sponsorizzare una consapevolezza intelligente e critica, i musei tendono quindi a favorire la pacificazione».
Sebbene principalmente poeta e saggista, Hans Enzensberger si avventurò anche nel teatro, nel cinema, nell’opera, nel dramma radiofonico, nel reportage e nella traduzione. Il suo lavoro fu tradotto in oltre 40 lingue.
Nel 2000 inventò e collaborò alla costruzione di una macchina che compone automaticamente poesie (Der LandsbergerPoesieautomat) Questo dispositivo fu usato durante il Mondiale di calcio del 2006 per commentare i giochi. «Se non sai scrivere poesie meglio della macchina, faresti meglio a lasciar perdere», disse.
First things first
In fondo non abbiamo niente da obiettare a purgatorio, reincarnazione, paradiso. Se cosí dev’essere, prego! Al momento tuttavia abbiamo altre priorità.
Della toilette del gatto, del conto in banca e delle insostenibili condizioni del mondo dobbiamo assolutamente occuparci, già a prescindere da internet e dalle notizie sul livello delle acque.
Certe volte non sappiamo piú dove a forza di problemi sbattere la testa. Intanto c’è sempre qualcuno che muore, e di continuo qualcuno che nasce.
Non si arriva mai sul serio a fare delle riflessioni sulla propria immortalità. Prima bisogna gettare un occhio all’agenda, alle scadenze,
il resto si vedrà.
da “Piú leggeri dell’aria”, Einaudi. Traduzione di Anna Maria Carpi.
Enzensberger Hans Magnus
Hans Magnum Enzensberger, poeta, traduttore, editore e autore tedesco-Scrittore tedesco (Kaufbeuren, Allgäu, 1929 – Monaco di Baviera 2022). Autore anticonformista e versatile (romanziere, autore di testi teatrali, radiofonici ecc.), è stato tra gli animatori del Gruppo 47 ed è una delle figure più interessanti della letteratura tedesca del secondo dopoguerra. I suoi scritti, in particolare i saggi, sono permeati da un profondo pessimismo e denunciano causticamente le storture e le debolezze della società contemporanea.
Opere
Ancora adolescente patì la dura esperienza della guerra a cui partecipò nel 1944-45. La sua poesia (Verteidigung der Wölfe, 1957; Landessprache, 1960; Blindenschrift, 1964; Gedichte 1955-70, 1971; Mausoleum, 1975, trad. it. 1979; Der Untergang der Titanic, 1978, trad. it. 1980), pur risentendo molto dell’insegnamento brechtiano, non vede tuttavia un mezzo di salvezza per l’uomo e si presenta come denuncia spietata di tutte le storture e debolezze della società di oggi. Essa si distingue per l’originalità dell’espressione volutamente antipoetica e provocatoria, ricorrendo sia ai mezzi più facili di rottura (abolizione delle maiuscole, introduzione del gergo commerciale, rottura sintattica, ecc.), sia alla più raffinata demitizzazione della letteratura “bella” nell’uso profanante della citazione. Lo stesso carattere aggressivo e accusatore si rivela nei saggi più strettamente letterari, in cui E., nella ricerca dell'”artista radicale” (Clemens Brentanos Poetik, 1961), denuncia ogni debolezza o inattualità del fenomeno letterario. Molto importante la sua attività giornalistica, sviluppatasi soprattutto su Kursbuch e su Trans-Atlantik, battagliere riviste da lui create rispettivamente nel 1965 e nel 1980, nonché la sua opera saggistica, sempre a contatto con l’attualità senza però mai ridurvisi: Einzelheiten (1962; trad. it. Questioni di dettaglio, 1965); Politik und Verbrechen (1964; trad. it. 1979); Deutschland, Deutschland unter anderem (1967); Das Verhör von Habana (1970; trad. it. 1971); Der kurze Sommer der Anarchie (sotto forma di romanzo, 1972; trad. it. 1973); Palaver. Politische Überlegungen (1974; trad. it. 1976); Ach, Europa! (1987; trad. it. 1989). Del 1995 è la raccolta di poesie Kiosk. Neue Gedichte (trad. it. 2013), mentre sono stati pubblicati nel 1997 ZichZack (trad. it. 1999) e il fortunato Der Zahlenteufel (trad. it. 1997), tra l’apologo e la fiaba, in cui la matematica diventa, per un alunno che non ne è attratto, un mondo quasi magico. Ha poi scritto, tra l’altro: Esterhazy. Eine Hasengeschichte (con I. Dische, 1998; trad. it. 2002); Die Elixiere der Wissenschaft (2002; trad. it. 2004), in cui racconta storie, vere e mitologiche, che orbitano intorno alla scienza; Schreckens Männer. Versuch über den radikalen Verlierer (2006; trad. it. 2007); Josefine und Ich. Eine Erzählung (2006; trad. it. 2010); Hammerstein oder der Eigensinn: eine deutsche Geschichte (2008; trad. it. 2008); la raccolta di poesie Rebus (2009); i saggi Fortuna und Kalkül. Zwei mathematische Belustigungen (2009), Meine Lieblings-Flops, gefolgt von einem Ideen-Magazin (2010; trad. it. 2012) e Sanftes Monster Brüssel oder Die Entmündigung Europas (2011). Tra i suoi lavori più recenti occorre ancora citare Tumult (2014; trad. it. 2016) e Immer das Geld! (2015; trad. it. Parli sempre di soldi!, 2017).
Fonte- Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani
Descrizione del libro di Michela Monferrini-Dalla parte di Alba-Un’anziana scrittrice riceve nel suo appartamento parigino una studentessa di Lettere e nel dialogo con lei riaccende le stanze dell’infanzia, le avventure della giovinezza, le pagine della maturità. Figlia di un diplomatico cubano e di un’ammirata donna della borghesia romana, Alba de Céspedes ha trascorso una vita in bilico tra continenti e rivoluzioni, all’inseguimento dei suoi genitori, alla ricerca dei suoi personaggi, alla conquista di una stanza tutta per sé per dedicarsi a ciò a cui si sentiva destinata fin da bambina: scrivere, scrivere, scrivere. Carica di storia ― il nonno, poeta e combattente, è stato il primo presidente in armi di Cuba ― ha attraversato il Novecento in prima persona, prestando la voce alla Resistenza e il cuore a uomini che non potevano capirla fino in fondo. Intrecciati a zie e maggiordomi, amanti e conoscenti, amici e cartomanti, fanno la loro comparsa tra le righe Natalia Ginzburg e Simone de Beauvoir, Thomas Mann e Fidel Castro, Benedetto Croce e Italo Calvino, ma soprattutto le ombre letterarie dei suoi personaggi femminili. Alba de Céspedes diventa qui a sua volta protagonista di un romanzo che è anche una riflessione sul senso della scrittura come eredità di una vita.
Michela Monferrini (Roma, 1986)è autrice di due guide letterarie dedicate alla Napoli di Raffaele La Capria (Conosco un altro mare, Perrone 2012) e al Portogallo di Antonio Tabucchi (Cercando Tabucchi, Postcart 2016), e del ritratto Grazia Cherchi (Ali&No, 2015). Ha pubblicato il romanzo Chiamami anche se è notte (Mondadori 2014, finalista Calvino 2012 e Zocca 2015) e, per ragazzi: L’altra notte ha tremato Google Maps (Rrose Sélavy 2016, Premio Simpatia per l’impegno nel sociale 2017 e finalista Gigante delle Langhe 2018) e Charlotte Brontë, tre di sei (rueBallu, 2018). Il suo ultimo libro è Muri maestri (La nave di Teseo, 2018). È stata finalista al Premio Subway Poesia 2005 e Campiello Giovani 2008. Ha curato la biografia del critico Walter Mauro, La letteratura è un cortile (Perrone, 2011) e la miscellanea di scritti su Antonio Debenedetti Quasi un racconto (Edilet, 2009). Autrice della guida letteraria Conosco un altro mare. La Napoli e il Golfo di Raffaele La Capria (Perrone 2012), il suo romanzo d’esordio è uscito per Mondadori nel 2014: Chiamami anche se è notte, finalista Premio Calvino 2012 e finalista Premio Zocca Giovani 2015.
Post scritto da Mario Grasso:”Scrittrice raffinata e intensa, Rosetta Loy nasce a Roma il 15 maggio 1931. Scoperta da Natalia Ginzburg, il suo esordio letterario si registra nel 1974 con ‘La bicicletta’. Ha fatto parte della cosiddetta “generazione degli anni Trenta”, un nutrito gruppo di autori italiani comprendente anche Umberto Eco, Gesualdo Bufalino, Carmelo Samonà, Gina Lagorio e molte altre penne. Tra le sue opere più importanti si ricorda “Le strade di polvere” del 1987 – con il quale vince il Premio Viareggio e il Premio Campiello – un romanzo a sfondo storico e memorialistico tradotto in numerose lingue. Negli anni successivi scrive “Cioccolata da Hanselmann”, “Le strade della polvere, “Sogni d’inverno”, “La prima mano” e “Gli anni tra cane e lupo”. Alle pagine di “La parola ebreo” affida nel 1997 la sua dolorosa riflessione sulle radici ebraiche e sul segno delle leggi razziali nella sua infanzia. I temi preferiti delle sue opere sono l’amore, la morte, la guerra, i bambini. Il suo ultimo romanzo, “Cesare”, scritto nel 2018 all’età di 87 anni, è dedicato alla figura del critico letterario Cesare Garboli, con il quale ebbe una lunga e, a tratti, travagliata storia d’amore fino alla morte di lui, avvenuta nel 2004. Nel 2017 è stata insignita del premio Campiello alla carriera. A causa di un infarto, si spegne a Roma il 2 ottobre 2022.Di sé diceva: “Nella mia vita ho amato due uomini e la letteratura”.
Biografia di Rosetta Loy-Scrittrice italiana (Roma 1931 – ivi 2022); ha esordito con il romanzo La bicicletta (1974), vincitore del premio Viareggio. Nelle opere successive Le strade della polvere (1987), Sogni d’inverno (1992), Cioccolata da Hanselmann (1995), Nero è l’albero dei ricordi, azzurra l’aria (2004), La prima mano (2009), una scrittura limpida, essenziale, concreta le consente di riscoprire ogni volta i temi preferiti: l’amore, la morte, la guerra, i bambini. Ne La parola ebreo (1997) racconta la storia della sua famiglia, cattolica, e di una certa borghesia italiana che, anche se non apertamente schierate con il fascismo, accettarono le leggi razziali senza avere coscienza della tragedia che si stava compiendo: memoria individuale e memoria collettiva si sovrappongono, sottolineando il peso di una responsabilità storica e morale. In Cuori infranti (2010), nelle due favole nere che compongono il volume, la scrittrice racconta gli omicidi di Novi Ligure e di Erba. Nel 2013 ha pubblicato Gli anni fra cane e lupo, racconto che ripercorre la storia d’Italia dal 1969 al 1994, mentre è stato edito nel 2016 il testo autobiografico Forse, e nel 2018 Cesare, biografia del critico letterario C. Garboli. Nel 2017 la scrittrice è stata insignita del premio Campiello alla carriera.
Descrizione-poesie di Idea Vilariño «Non so cosa sia per me la poesia. È un modo di essere, del mio essere. Tutto il resto della mia vita è fatto di casualità. La poesia non è stata casuale. La mia poesia sono io.»
«Una celebrazione simultanea dell’ebrezza e della disgrazia, senza compiacimenti, senza vie di mezzo, con una capacità di illuminazione e brivido che probabilmente non si può raggiungere senza rinunciare alla vergogna, e che forse si trova allo stato puro soltanto in alcune forme di canzone popolare, nel bolero e nel tango. È questo il mondo in cui si resta intrappolati come in una tagliola leggendo le poesie di Idea Vilariño» – Antonio Muñoz Molina
Una poesia di vibrante sensualità commista a toni di dolente pessimismo, intima e notturna: sono questi i termini entro i quali si dispiega l’opera poetica di Idea Vilariño. Uruguaiana, fu parte integrante di quel gruppo di intellettuali denominato Generación del 45, assieme a Mario Benedetti, Ida Vitale e Juan Carlos Onetti, una delle principali esperienze letterarie novecentesche dell’America Latina. Molta della sua poesia ha come temi l’amore – in particolare quello tormentato con lo stesso Onetti, probabilmente la più famosa relazione della letteratura sudamericana –, la solitudine e soprattutto la morte, lucidamente contemplati a partire da una disincantata consapevolezza dell’insensatezza del vivere.
Vederti ridere toccarti con le mani
vivere con te un giorno un anno tre settimane
dividere vita seria vita quieta con te
trovarti nel letto
nella stanza che ti vesti
che sai di vino che fumi
d’estate che sudi
o nell’amore quando chiudi
gli occhi assenti.
I
A Manuel Claps
Ciò che provo per te è così difficile.
Non è di rose che si aprono nell’aria,
è di rose che si aprono nell’acqua.
Ciò che provo per te. Che prende slancio
o si spezza con tanti tuoi gesti
o con le tue parole fatte a pezzi
e che poi riprendi in un gesto
e mi invade nelle ore gialle
e mi lascia una sete dolce e domata.
Ciò che provo per te, così doloroso
come la povera luce delle stelle
che ci arriva dolorante, affaticata.
Ciò che provo per te, che a volte tuttavia
fa tanta strada senza poi sfiorarti.
1942
—
L’OBLIO
Quando una dolce bocca bacia una bocca addormentata
come se ne morisse,
a volte, quando giunge oltre le labbra
e le palpebre si chiudono colme di desiderio
silenziosamente quanto lo permette l’aria,
la pelle col suo tepore setoso chiede notti
e anche la bocca baciata
nel suo indicibile piacere chiede notti.
Ah, notti silenziose, di lune dolci e oscure,
notti lunghe, sontuose, attraversate da colombe,
in un’aria che si fa mani, amore, tenerezza data,
notti come navi…
È allora, nella passione profonda, quando colui che bacia
sa ah, troppo, senza tregua, e vede che ormai
il mondo diventa per un lui un lontano miracolo,
che le labbra gli aprono ancora più fonde estati,
che la sua coscienza abdica,
e infine anche di se stesso si dimentica nel bacio
e un vento appassionato gli denuda le tempie,
è allora, nel bacio, che le palpebre si chiudono,
e trema l’aria con un sapore di vita
e insieme trema
tutto ciò che non è aria, il fascio ardente dei capelli,
il velluto ora della voce, e, a volte,
l’illusione già piena di morti in sospeso.
1944
—
TORNARE
Vorrei essere a casa
con i miei libri
la mia aria le mie pareti le mie finestre
i miei vecchi tappeti
le mie tende mezze rotte
mangiare sul tavolinetto di bronzo
ascoltare la radio
dormire tra le mie lenzuola.
Vorrei stare addormentata nella terra
no non addormentata
morta e senza parole
no non morta
non essere
ecco cosa vorrei
ancor più che arrivare a casa.
Ancor più che arrivare a casa
e vedere la mia lampada
e il mio letto e la mia sedia e il mio armadio
con l’odore dei miei vestiti
e dormire sotto il peso familiare
delle mie vecchie coperte.
Più che arrivare a casa uno di questi giorni
e dormire nel mio letto.
1954
—
DI NUOVO
Di nuovo la morte
mi gira intorno e come prima
scrupolosamente
mi toglie ogni sostegno
mi vuole fedele e libera
mi separa dagli altri
mi segna
mi definisce
per cancellarmi meglio.
1950
—
POVERO MONDO
Lo distruggeranno
salterà in aria
alla fine scoppierà come una bolla
o esploderà glorioso
come una santabarbara
o più semplicemente
verrà cancellato come
se una spugna bagnata
cancellasse il suo posto nello spazio.
Forse non ci riusciranno
forse lo ripuliranno.
Gli cadrà la vita di dosso come i capelli
e continuerà a girare
come una sfera pura
sterile e mortale
o meno bellamente
vagherà per i cieli
marcendo lentamente
tutto una ferita
come un morto.
Las Toscas, 1962
EPPURE
*
Prendo il tuo amore
eppure
ti do il mio amore
eppure
avremo sere notti
ebbrezze
estati
tutto il piacere
la felicità
la tenerezza.
Eppure.
Ci mancherà sempre
l’infinita bugia
il sempre.
1961
[Traduzione di Laura Pugno]
Breve Biografia di Idea Vilariñonacque a Montevideo nel 1920, dove morì nel 2009. Proveniente da una colta famiglia borghese, cominciò a scrivere poesie prima dei vent’anni, esordendo nel 1945. Professoressa di letteratura fino al colpo di stato del 1973 e poi di nuovo a partire dal 1985, fu anche apprezzata traduttrice. Figura centrale del panorama letterario sudamericano, ricevette nel 1987 il Premio Municipal de Literatura, il più prestigioso riconoscimento del suo paese, e nel 2004 il Premio Konex mercosur a las Letras dell’argentina Konex Foundation.
Breve biografia di Amelia Rosselli (Parigi, 28 marzo 1930 – Roma,11 febbraio 1996), poetessa, nacque in Francia dall’esule antifascista Carlo Rosselli, ucciso nel 1937 dalle milizie fasciste. Perse anche la madre prematuramente nel 1949, rimanendo orfana giovanissima e soffrendo poi a lungo di esaurimenti nervosi e depressione. Visse e studiò in Svizzera e negli Stati Uniti, poi si trasferì in Inghilterra fino al 1946, anno in cui tornò in Italia. Cominciò a lavorare nell’editoria nel 1948, come traduttrice. Fece parte della neoavanguardia letteraria Gruppo 63 e nel 1964 pubblicò la sua prima raccolta di poesie, Variazioni belliche, poi nel 1966 pubblicò una seconda raccolta intitolata Serie ospedaliera. Ma il suo stile è noto principalmente per il plurilinguismo, evidente in raccolte come Sonno-Sleep (1953-1966) e Sleep. Poesie in inglese (1992). Muore suicida l’11 febbraio del 1996, stessa data della morte nel 1963 della poetessa Sylvia Plath, che tradusse e di cui amò profondamente la poetica.
Poesie da “Variazioni belliche” (1959)
la mia fresca urina spargo
tuoi piedi e il sole danza! danza! danza! – fuori
la finestra mai vorrà
chiudersi per chi non ha il ventre piatto. Sorridente l’analisi
si congiungerà – ma io danzo! danzo! – incolume perché
‘l sole danza, perché vita è muliebre sulle piantagioni
incolte se lo sai. Un ebete ebano si muoveva molto
cupido nella sua
fermezza: giro! giro! come tre grazie attorno al suo punto
d’oblio!
*
sereno il suolo mi rendeva
ogni cupidigia, serena la luna mi porgeva
le sue ansie tributarie. Ma se sereno il sole mi porgeva
la sua candela flaccida, allora sereno mi si porgevano
le ali del
nero vasomotorio dubbio del leone che tanto ingrandì che non più la
sua cellula potè fermarlo.
Poesia da “Variazioni” (1960-61)
L’inferno della luce era l’amore. L’inferno dell’amore
era il sesso. L’inferno del mondo era l’oblio delle
semplici regole della vita: carta bollata ed un semplice
protocollo. Quattro lenti bocconi sul letto quattro
amici morti con la pistola in mano quattro stecche
del pianoforte che ridanno da sperare.
Poesia da “Serie ospedaliera” (1963-65)
Primavera, primavera in abbondanza
i tuoi canali storti, le tue pinete
sognano d’altre avventure, tu non hai
mica la paura che io tengo, dell’inverno
quando abbrividisce il vento.
Strappi rami agli orticoltori, semini
disagi nella mia anima (la quale bella
se ne sta in ginocchio), provi a me
stessa che tutto ciò che ha un fine
non ha fine.
Oppure credi di dileguarti, sorniona
nascosta da una nuvola di piogge
carica sino all’inverosimile.
Ma il mio pianto, o piuttosto una stanchezza
che non può riportarsi nel rifugio
strapazza le foglie, che ieri
mi sembravano voglie, tenerezze anche
ed ora sperdono la mia brama.
Di vivere avrei bisogno, di decantare
anche queste spiagge, o monti, o rivoletti
ma non so come: hai ucciso il tuo grano
nella mia gola.
Assomigli a me: che tra una morte
e l’altra, tiro un sospiro di sollievo
ma non mi turbo; o mi turbo? del tuo
sembrare agonizzante mentre ridi.
E bestemmia la gente: è più fiera
di te che dello spazio che ti strugge
portandoti fra le mie braccia. E io
stringo una pallida mummia che non
odora affatto: escono semi dai suoi
occhi, pianti, virgole, medicinali
e tu non porti il monte nella casa
e tu non puoi fruttificare, queste
sorelle che ti vegliano.
Sembri infatti un morto nella cassa
e non ho altro da fare che di battere
i chiodi nella faccia.
Poesia da “Documento” (1966-73)
Se non è noia è amore. L’intero mondo carpiva da me i suoi
sensi cari. Se per la notte che mi porta il tuo oblio
io dimentico di frenarmi, se per le tue evanescenti braccia
io cerco un’altra foresta, un parco, o una avventura: –
se per le strade che conducono al paradiso io perdo la
tua bellezza: se per i canili ed i vescovadi del prato
della grande città io cerco la tua ombra: – se per tutto
questo io cerco ancora e ancora: – non è per la tua fierezza,
non è per la mia povertà: – è per il tuo sorriso obliquo
è per la tua maniera di amare. Entro della grande città
cadevano oblique ancora e ancora le maniere di amare
le delusioni amare.
Questa notte con spavaldo desiderio scesi per le praterie d’un lungo fiume impermeato d’antiche abitudini ch’al dunque ad un segnale indicavano melma, e fiato. Solo sporcizia sì, vidi dall’ultimo ponte, dubitando d’una mia vita ancora rimasta al sole, non per l’arrosto ma per il fuoco è buona: se a tutti divenne già prima ch’io nascessi – indifferente la mia buona o cattiva sorte, dall’altr’angolo che non da questa visione crematorizzata dalla mia e vostra vita terrorizzata se resistere dipende dal cuore piuttosto dalle sottane s’arrota la Mistinguette, la vita sberciata per un attimo ancora, se sesso è così rotativo da apparire poi vano a questo recitativo che mi faceva passare per pazza quando arroteandomi dietro ad ogni scrivania sorvegliavo i vostri desideri d’essere lontani dalla mia, rotativa nella notte specchiata nel lucido del vetro che copre le vostre indifferenze alla mia stralunante morte.
Breve biografia di Amelia Rosselli (Parigi, 28 marzo 1930 – Roma,11 febbraio 1996), poetessa, nacque in Francia dall’esule antifascista Carlo Rosselli, ucciso nel 1937 dalle milizie fasciste.Perse anche la madre prematuramente nel 1949, rimanendo orfana giovanissima e soffrendo poi a lungo di esaurimenti nervosi e depressione. Visse e studiò in Svizzera e negli Stati Uniti, poi si trasferì in Inghilterra fino al 1946, anno in cui tornò in Italia. Cominciò a lavorare nell’editoria nel 1948, come traduttrice. Fece parte della neoavanguardia letteraria Gruppo 63 e nel 1964 pubblicò la sua prima raccolta di poesie, Variazioni belliche, poi nel 1966 pubblicò una seconda raccolta intitolata Serie ospedaliera. Ma il suo stile è noto principalmente per il plurilinguismo, evidente in raccolte come Sonno-Sleep (1953-1966) e Sleep. Poesie in inglese (1992). Muore suicida l’11 febbraio del 1996, stessa data della morte nel 1963 della poetessa Sylvia Plath, che tradusse e di cui amò profondamente la poetica.
GHIANNIS RITSOS: POETA DELLA RESISTENZA E DELL’IMPEGNO SOCIALE
Poesie da:”Molto tardi nella notte”-
traduzione italiana di Nicola Crocetti, Crocetti, 2020. Selezione a cura di Dario Bertini.
Ghiannis Ritsos, Poeta greco (Monemvasìa 1909 – Atene 1990). La sua vita, segnata da lutti e da miserie, fu animata da un’incrollabile fede negli ideali marxisti, oltre che nelle virtù catartiche della poesia. La sofferta visione decadente caratterizza costantemente la sua poetica, articolandosi di volta in volta su temi quali la memoria, il fascino delle opere e delle cose, la rivoluzione etica e sociale.
Ghiannis Ritsos-dieci poesie
Da Molto tardi nella notte, traduzione italiana di Nicola Crocetti, Crocetti, 2020. Selezione a cura di Dario Bertini.
Insuccesso
Vecchi giornali gettati in cortile. Sempre le stesse cose.
Malversazioni, delitti, guerre. Che cosa leggere?
Cade la sera rugginosa. Luci gialle.
E quelli che un tempo avevano creduto nell’eterno sono invecchiati.
Dalla stanza vicina giunge il vapore del silenzio. Le lumache
salgono sul muro. Scarafaggi zampettano
nelle scatole quadrate di latta dei biscotti.
Si ode il rombo del vuoto. E una grossa mano deforme
tappa la bocca triste e gentile di quell’Uomo
che ancora una volta provava a dire: fiore.
Karlòvasi, 4.VII.87
Senza riscontro
Grandi camion stracarichi, coperti di tele cerate,
attraversano le strade tutta la notte. Il rumore delle acque
luride
si ode nelle fogne oscure, misteriose
sotto il sonno dei prigionieri. Non è venuto nessuno.
Invano aspettammo tanti anni. La strada punteggiata
di stazioni di servizio e alberelli stenti. Nel cortile della prigione
ciotole vuote di yogurt e certe piume di uccelli. La prima
stella
gridò: “Coraggio, Ghiorghis”, poi tacque. E Petros,
irriducibile sempre, disse: “In materia di musica
prendi esempio dalla diligenza delle piccole rondini”.
Karlòvasi, 5.VII.87
All’ospedale
Pomeriggio tranquillo. Una ciminiera, i tetti, la linea del
colle,
una nube minuscola. Con quanto amore
guardi dalla finestra aperta il cielo
come se gli dicessi addio. E anch’esso ti guarda. Davvero,
che cos’hai preso? che cos’hai donato? Non hai tempo di
calcolare.
La tua prima parola e l’ultima
l’hanno detta l’amore e la rivoluzione.
Tutto il tuo silenzio l’ha detto la poesia. Come si spetalano
in fretta
le rose. Perciò partirai anche tu
in compagnia della piccola orsa ritta
che tiene una grande rosa di plastica tra le zampe anteriori.
Karlòvasi, 5.VII.87
Elusione
Parlava. Parlava molto. Non tralasciava niente
senza che la sua voce lo soppesasse. Quante e quante notti
in bianco
ad ascoltare i treni, le navi o le stelle,
a calcolare la materia e il colore di un suono,
a dare nomi a ombre e nubi. Ora,
quest’uomo cordiale e loquace sta in silenzio,
forse perché sul fondo ha intravisto i fanali spenti, e si rifiuta
di articolare la parola unica ed estrema: “nero”.
Karlòvasi, 7.VII.87
Questo solo
È un uomo ostinato. A dispetto del tempo afferma:
“amore, poesia, luce”. Costruisce su un fiammifero
una città con case, alberi, statue, piazze,
con belle vetrine, con balconi, sedie, chitarre,
con abitanti veri e vigili gentili. I treni
arrivano in orario. L’ultimo scarica
tavolini di marmo per un locale in riva al mare
dove rematori sudati con belle ragazze
bevono limonate diacce guardando le navi.
Questo solo ho voluto dire, se non mi credono fa niente.
Karlòvasi, 7.VII.87
Ricerca vana
La bella donna dai capelli malinconici e i braccialetti nascosti
ora dorme nella stanza di sopra. Non conosce
i nostri vecchi sospetti (benché una volta confessati)
né il nostro attuale oblio. Io scenderò nel seminterrato,
accenderò una candela per cercare qualcosa
che mi avevano tenuto nascosto a lungo. Poi
salirò di sopra e cercherò di svegliare la donna,
quella dai capelli malinconici. Non spegnerò la candela.
Karlòvasi, 18.VII.87
Imbarazzo
Uno salì la scala ansimando. L’altro
uscì in corridoio indifferente. Il terzo
non sa come reggere questo fiore. Ha paura
che lo vedano, che gli chiedano spiegazioni. Perciò
se ne sta alla finestra col pretesto di ascoltare le cicale,
butta via il fiore di nascosto e si accende una sigaretta.
Così, nessuno può essermi d’impiccio.
Karlòvasi, 21.VII.87
Lentezza
Mezzanotte passata. Dove vuoi andare a quest’ora?
I bar del porto sono chiusi. I marinai
si sono tolti le divise bianche. Forse dormiranno. Alcune
chiatte,
pesanti come fossero gravide, cariche di legname,
navigano lente sull’acqua scura con i vetri rotti
della povera luna. L’una e mezzo, le due, le tre e un quarto.
Le ore si trascinano,
e l’odore del legno appena tagliato, umido,
non cancella l’enorme ombra che sta in agguato davanti
alla dogana,
là dove, appena ieri, bei giovani pescatori subacquei
sbattevano sugli scogli i robusti polpi
tra un liquido bianco denso come sperma.
Karlòvasi, 16.VIII.87
Si è fatta notte
La festa di stasera rimandata.
E non sapevamo affatto
cosa avrebbero pianto o festeggiato.
A un tratto le luci si accesero e si spensero.
Dalla finestra vedemmo i musicanti;
attraversarono il viale in silenzio
con in spalla
enormi strumenti di rame.
Rimani qui, dunque,
fuma la sigaretta
in questa grande quiete,
in questo miracolo-niente.
Le statue sordomute.
Anche le poesie sordomute. Si è fatta notte.
Atene, 1.I.88
Qualcosa resta
Dopo tanti bombardamenti a tappeto
rimase intatto soltanto un muro della grande chiesa
con l’alta finestra; intatta anche
la bella vetrata della finestra
con colori viola, arancioni, azzurri, rossi
e raffigurazioni di fiori, uccelli e santi.
Perciò confido ancora nella poesia.
Atene, 2.II.88
GHIANNIS RITSOS: POETA DELLA RESISTENZA E DELL’IMPEGNO SOCIALE
Oggi parliamo di uno dei più grandi poeti greci del ’900, impegnato anche politicamente e socialmente.
La sua vita – ricordiamo la sua nascita a Monemvasia nel Peloponneso il 1º maggio 1909 e la sua morte ad Atene nel 1990- ha attraversato tutte le guerre e i drammi del secolo scorso.
Ma non l’ha fatto certamente da “neutrale”: come ricorda la biografia della Treccani “entrato nelle file della sinistra dopo un’infanzia e una prima giovinezza segnate da gravi lutti familiari e dalla malattia, partecipò alla lotta di resistenza contro i nazisti e poi alla guerra civile, e subì le persecuzioni dei governi dittatoriali o reazionari succedutisi in Grecia tra il 1936 e il 1970”.
La Grecia dei colonnelli
In particolare vogliamo ricordare ai più giovani lettori il fatto che, nella Grecia “culla della democrazia”, il 21 aprile del 1967 un gruppo di ufficiali dell’esercito greco guidò un colpo di stato contro il governo greco democraticamente eletto. Nella notte, carri armati e soldati occuparono tutti i luoghi più importanti della capitale Atene, arrestarono il comandante in capo delle forze armate e tutti i più importanti politici del paese; poi costrinsero il re ad appoggiare il golpe e diedero iniziò a un regime brutale che sarebbe durato per gli otto anni successivi.
Il golpe fu organizzato da una serie di ufficiali di grado intermedio, anche contro le esitazioni dei comandanti in capo, che anzi furono arrestati nelle prime ore del golpe. Per questa ragione il colpo di stato fu soprannominato “dei colonnelli”, e la giunta militare venne ribattezzata “regime dei colonnelli” (“kathestós ton Syntagmatarchón”).
La resistenza “intellettuale”
Appena insediata, la giunta dichiarò decaduti gli articoli della Costituzione che proteggevano la libertà di espressione e quella personale. Tutti i partiti politici furono sciolti e migliaia di politici, attivisti e intellettuali di sinistra furono arrestati e centinaia furono torturati nelle carceri speciali della polizia militare. L’ideologia del regime era basata sul nazionalismo, su un duro anticomunismo e sull’idea che tutte le forze di sinistra, comprese le più moderate, fossero in realtà sostenitrici di una cospirazione comunista. Tra gli intellettuali arrestati, oltre a Ghiannis Ritsos, ricordiamo anche il compositore Mikis Theodorakis, autore di famose colonne sonore come quella del film Zorba il Greco e Z – L’orgia del potere, di Costa-Gavras, in cui viene raccontata la nascita del regime greco (Theodorakis, anche per pressioni internazionali, fu scarcerato e fuggì dalla Grecia, non ritornando fino al termine della dittatura).
La poesia di Ritsos
Per introdurre i lettori alla poesia di Ghiannis Ritsos utilizzeremo un suo libro – Pietre, Ripetizioni, Sbarre, Feltrinelli, 1978 -Edizione italiana tradotta e curata da Nicola Crocetti-.
Le poesie furono scritte negli anni ‘68/’69, durante il periodo del suo internamento. Faremo precedere la nostra proposta di lettura da una introduzione preparata, per una successiva ediziona italiana, da Nicola Crocetti, che non fu solo un suo traduttore ed editore, ma anche amico fraterno, tra i pochi cui riuscì di superare le “sbarre” per andarlo a trovare in prigionia.
L’introduzione di Crocetti
Le poesie di Pietre Ripetizioni Sbarre sono state composte tra il 1968 e il 1969, negli anni in cui Ghiannis Ritsos era confinato nei campi di concentramento sulle isole di Ghiaros e Leros, e poi soggetto a domicilio coatto a Karlòvasi, sull’isola di Samo. Nel suo consueto dialogo con il mito e con la storia, Ritsos racconta la memoria che resiste e che parla attraverso le pietre delle statue e delle colonne spezzate, anche quando gli eroi sono ormai “passati di moda”.
Nei gesti che si ripetono da sempre, incessantemente, gli echi del tempo che è stato diventano immagini di un presente fatto di sbarre, di ricerca della libertà vissuta come un’“immensa, estatica orfanezza”. Nella sua solitudine, destino di tutti gli eroi, il poeta conserva integra la sua dignità e la speranza nell’uomo, e afferma la sua fede nella rinascita e nel potere di redenzione della poesia.
Nel 1969 Ritsos riesce a eludere la censura e a inviare il manoscritto di Pietre Ripetizioni Sbarre a Parigi, dove la raccolta viene pubblicata due anni dopo da Gallimard. Nella prefazione, Louis Aragon definisce Ritsos “il più grande poeta vivente di questo tempo che è il nostro”.
Nicola Crocetti
Da “Pietre ripetizioni sbarre”
Dissoluzione
Forme mobili, dissolute; – l’inquietudine molteplice
e la fluidità insidiosa – udire il rumore dell’acqua tutt’intorno
imponderabile, profondo, incontrollabile; e tu stesso incontrollabile,
quasi libero.
Donne stupite giunsero poco dopo
assieme a certi vecchi, con brocche, pentole, bidoni,
attinsero acqua per le necessità domestiche. L’acqua prese forma.
Il fiume tacque come se si fosse svuotato. Faceva notte. Si chiusero le porte.
Solo una donna, senza brocca, rimase fuori, nel giardino,
diafana, liquida al chiar di luna, con un fiore nei capelli.
15 maggio 1968
A posteriori
Da come sono andate le cose, nessuno, secondo noi, ha colpa. Uno è partito
l’altro è stato ucciso; gli altri – ma è inutile rivangare adesso.
Le stagioni si alternano regolarmente. Fioriscono gli oleandri.
L’ombra fa il giro intorno all’albero. La brocca immobile,
rimasta sotto il sole, è asciutta; l’acqua è finita. Eppure
potevamo, dice, spostare più in qua o più in là la brocca
a seconda dell’ora e dell’ombra, intorno all’albero,
girando fino a trovare il ritmo, ballando, dimenticando
la brocca, l’acqua, la sete – senza avere più sete, ballando.
20 maggio 1968
Mezzanotte
Leggera, vestita di nero, – non s’udì affatto il suo passo.
Attraversò la galleria. Il semaforo spento. Mentre saliva
la scala di pietra le gridarono “Alt”. Il suo volto
vaporava bianchissimo nel buio. Sotto il grembiule
teneva nascosto il violino. “Chi va là?”- Non rispose.
Rimase immobile; le mani in alto; tenendo stretto
Il violino tra le ginocchia. Sorrideva.
15 giugno 1968
Notte
Alto eucalipto e ampia luna.
Una stella trasale nell’acqua.
Cielo bianco, argentato.
Pietre, pietre scorticate fino in cima.
Accanto, nel basso fondale, s’udì
il secondo, il terzo salto d’un pesce.
Immensa, estatica orfanezza – libertà.
21 ottobre 1968 Campo dei deportati politici di Partheni, isola di Leros
Rinascita
Da anni più nessuno si è occupato del giardino.
Eppure
quest’anno – maggio, giugno – è rifiorito da solo,
è divampato tutto fino all’inferriata – mille rose,
mille garofani, mille gerani, mille piselli odorosi –
viola, arancione, verde, rosso e giallo,
colori… tanto che la donna uscì
di nuovo
a dare l’acqua col suo vecchio annaffiatoio
di nuovo bella,
serena, con una convinzione indefinibile.
E il giardino
la nascose fino alle spalle, l’abbracciò,
la conquistò tutta;
la sollevò tra le sue braccia. E allora, a mezzogiorno
in punto, vedemmo
il giardino e la donna con l’annaffiatoio
ascendere al cielo
e mentre guardavamo in alto, alcune gocce
dell’annaffiatoio
ci caddero dolcemente sulle guance, sul mento,
sulle labbra.
Fonte –Blog di Antonio Vargiu
Di che colore è l’amore?
Il tuo corpo tagliato da una lama di luce – per metà carne, per metà ricordo.
Illuminazione obliqua, il grande letto intero, il tepore lontano, e la coperta rossa.
Chiudo la porta, chiudo le finestre. Vento con vento. Unione inespugnabile.
Con la bocca piena di un boccone di notte. Ahi, l’amore.
Ghiannis Ritsos, da AA.VV. Nuove poesie d’amore, Crocetti Editore, traduzione di Nicola Crocetti
La poesia qui sotto mi trasmette, ogni volta che la leggo, una dolcezza infinita
(forse più di tre bignè al cioccolato… che dici, sto esagerando?)
Le poesie che ho vissuto tacendo sul tuo corpo mi chiederanno la loro voce un giorno, quando te ne andrai. Ma io non avrò più voce per ridirle, allora. Perché tu eri solita camminare scalza per le stanze, e poi ti rannicchiavi sul letto, gomitolo di piume, seta e fiamma selvaggia. Incrociavi le mani sulle ginocchia, mettendo in mostra provocante i piedi rosa impolverati. Devi ricordarmi così – dicevi; ricordarmi così, coi piedi sporchi; coi capelli che mi coprono gli occhi – perché così ti vedo più profondamente. Dunque, come potrò più avere voce. La Poesia non ha mai camminato così sotto i bianchissimi meli in fiore di nessun Paradiso.
Ghiannis Ritsos, da Erotica, Crocetti, 2008, traduzione di Nicola Crocetti
Biografia di Ghiannis Ritsos
(in greco: Γιάννης Ρίτσος; Monemvasia, 1º maggio 1909 – Atene, 11 novembre 1990)
Ghiannis Ritsos, Poeta greco (Monemvasìa 1909 – Atene 1990). La sua vita, segnata da lutti e da miserie, fu animata da un’incrollabile fede negli ideali marxisti, oltre che nelle virtù catartiche della poesia. La sofferta visione decadente caratterizza costantemente la sua poetica, articolandosi di volta in volta su temi quali la memoria, il fascino delle opere e delle cose, la rivoluzione etica e sociale.
Vita
Entrato nelle file della sinistra dopo un’infanzia e una prima giovinezza segnate da gravi lutti familiari e dalla malattia, partecipò alla lotta di resistenza contro i nazisti e poi alla guerra civile, e subì le persecuzioni dei governi dittatoriali o reazionari succedutisi in Grecia tra il 1936 e il 1970.
Opere
Dopo le prime raccolte (Τρακτέρ “Trattore”, 1934; Πυραμίδες “Piramidi”, 1935), influenzate dal crepuscolarismo di K. Karyotakis, s’ispirò alla tradizione demotica nei decapentasillabi rimati di ῾Επιτάϕιος (“Epitaffio”, 1936), compianto di una madre per il figlio ucciso dalla polizia durante uno sciopero, cui seguì Τὸ τραγούδι τῆς ἀδελϕῆς μου (“La canzone di mia sorella”, 1937), di schietta intonazione elegiaca. Ma già nelle tre poesie pubblicate con lo pseudonimo di K. Eleftheríu sulla rivista Τὰ νέα γράμματα (“Lettere nuove”) nel 1936, si avverte il tentativo di aderire alla lirica pura, mentre un esito delle ricerche precedenti è rappresentato dalla raccolta Δοκιμασία (“Prova”, 1943), che incorse nella censura tedesca. Nel caso di ῾Αγρύπνια (“Veglia, 1954), pubblicata dopo l’esperienza della deportazione nelle isole dell’Egeo, è invece la fiducia nella vita che rinasce ad essere cantata. Le prove poetiche successive, numerosissime, inclinano talvolta all’enfasi e fanno posto a simbolismi non privi di fumosità: fra queste, anche la celebre Σονάτα τοῦ σεληνόϕωτος (“Sonata al chiaro di luna”, 1956), che inaugurò la serie dei monologhi drammatici nella quale figurano alcuni poemetti ispirati a personaggi mitici assunti a prototipo dell’umanità sofferente (Φιλοκτήτης “Filottete”, ῾Ορέστης “Oreste”, ῾Ελένη “Elena”, Χρυσόϑεμις “Crisotemi”, compresi, insieme con altri, nel vol. Τέταρτη διάσταση “Quarta dimensione”, 1985). Più persuasive, sul piano concettuale e stilistico, opere come ᾿Ανυπόταχτη πολιτεία (“Indomabile città”, 1958), Μαρτυρίες (“Testimonianze”, 1963 e 1966), Δεκαοχτὼ λιανοτράγουδα τῆς πικρῆς πατρίδας (“Diciotto canzonette della patria amara”, 1973), Χάρτινα (“Carta”, 1974), ῾Ιταλικὸ τρίπτυχο (“Trittico italiano”, 1982). Traduttore di poeti stranieri, studioso di Majakovskij, R. ha scritto anche opere drammatiche (Μιὰ γυναίκα πλάϊ στὴ ϑάλασσα “Una donna accanto al mare”, 1959), e si è cimentato con la prosa e con il romanzo (il ciclo Εἰκονοστάσιο ᾿Ανωνύμων ῾Αγίων “Iconostasi di Santi Anonimi”, 1982-86; ῎Οχι μονάχα γιὰ σένα “Non soltanto per te”, 1985). La sua opera poetica, riunita in Ποιήματα (“Poesie”, 10 voll., 1961-89), è stata tradotta in italiano e in altre lingue.
Vivian Lamarque è stata ospite al festival Mare di Libri nell’edizione 2013.
MAI L’INVERNO
Mai l’inverno con la primavera
– e lei è l’inverno e Ics la primavera –
(be’ non esageriamo e Ics l’estate, be’
non esageriamo, la fine estate, quasi autunno)
fuor di metafora mai un uomo giovane
(be’ non esageriamo semi-giovane, insomma
di mezza età) torniamo alle stagioni, mai
un bell’albero in fiore una fogliolina gialla guarderà
(anzi, ben lo sappiamo cosa combina d’autunno
un albero alle foglie).
LUGETE O VENERES
Lugete o Veneres Cupidinesque
e anime gentili, infelice nella sua gabbia
piegato sotto l’ala lo spiumato capino
sta l’amore suo che si era immaginato.
Oh l’immaginazione non riesce più a immaginare
ora procede per una strada oscura che fare?
Inventa ancora un poco ti prego che ci credo.
Bucami iniezione d’illusione, che due
più due non faccia quell’esiguo totale
che in gabbia non stia già cadendo dal suo filo
quel press’a poco amare, sosia dell’amare.
JANE
Ne faceva l’appello nome
per nome, e ogni tanto
se li contava i fiori del balcone.
Un inverno apparve un Elleboro
e spuntò una bacca all’Agrifoglio
che non ne faceva mai e spuntò
un fiore strano, mai visto, di chissà
quale nome.
Con i prediletti usava dei nickname
per esempio una violetta la chiamava
come la Austen –
Jane.
CARTA DA RICALCO
Sul vetro terso della finestra con carta-ricalco
e affilata matita di ricalcare lei tenta della vita
ogni singolo giorno non manchi un’alba all’appello
né un mezzogiorno.
Ben tesa la carta? Combaciano disegno
e contorno? Oh, che non manchi quel minuto
quell’ora, che non ne manchi nessuna, che nel ricalco
non si sposti la luna.
Che non si perda neppure lo spuntare del tram
da lontano, quel volo da quel ramo a quel
ramo, con le dita conto e riconto che non si perda
un secondo del mondo.
E con l’udito ricalca pompieri ambulanze sirene
e del merlo il fischiare e di Guappo giù in strada
l’educato sottovoce abbaiare
e il sottile righìo che sul vetro fa la matita
il dolce rumore, caro Sandro Penna, della vita.
COME NEL FILM «OGNI COSA È ILLUMINATA» (2005)
Come nel film “Ogni cosa è illuminata” che la guida ucraina Alex traducendo parla una lingua stranita lungo i fianchi della memoria tra gli sterminati di Trochenbrod nel cominciamento di una rigida ricerca (e c’è anche un cameo con Foer vero, che soffia via le foglie del cimitero)
Così stranisce la lingua poesia e quando ti parla saltano
i tempi verbali e ritorna di tutto anche ritornano
parole che erano morte e le bianche lenzuola del film
ed è tutto un andare venire
come il cane Sem nel finale che dalla tomba del vecchio
padrone corre al sentiero poi alla tomba poi al sentiero,
ma infine non sceglie la tomba, fugge via, via, sceglie la vita,
così anche noi, la vita.
ESERCITO
Al bisogno faccio l’appello
le nomino le convoco e loro accorrono
in punta di gambette, di curve,
di occhielli, loro le lettere
a formare parole, le rifiutate
si ritirano mogie con la coda
tra le gambe, le prescelte si allineano
lì dove le metto, anzi non lì, là, anzi
qua, in riga! attente! riposo! a capo!
ordino al mio esercito fidato.
Per ora fidato.
(non lasciarmi mai, Alfabeto)
Biografia di Vivian Lamarque nata a Tesero nel 1946, piccolo comune di montagna della provincia di Trento, viene data in adozione all’età di nove mesi ad una famiglia milanese perché figlia illegittima. Dopo la precoce perdita del padre adottivo scopre a dieci anni di avere due madri, nello stesso anno inizia a scrivere le prime poesie.
È cresciuta a Milano dove tuttora lavora e vive con la figlia e i nipoti.
Le prime pubblicazioni avvengono grazie al poeta Giovanni Raboni, che inserisce le poesie della Lamarque in alcune riviste letterarie.
Il suo primo libro, Teresino, vince il Premio Viareggio Opera Prima nel 1981, primo di una lunga serie di riconoscimenti: Premio Montale, Premio Camajore, Premio Elsa Morante e Premio Rodari.
Nel campo della letteratura per ragazzi, Vivian Lamarque si è dedicata alla scrittura di molte fiabe originali, oltre che alla traduzione di molte della tradizione classica. Per la sua trascrizione per ragazzi de Il flauto magico, riceve il Premio Andersen nel 2010.
Ha fatto l’insegnante di italiano e lettere, da molti anni collabora con Il Corriere della Sera.
Vivian Lamarque è stata ospite al festival Mare di Libri nell’edizione 2013.
Mariangela Gualtieri- L’ incanto fonico. L’arte di dire la poesia
Giulio Einaudi editore
Descrizione del libro di Mariangela Gualtieri «Lei, essa poesia, ha ritmica, ha melodia, timbro. Musica è. Tutti i poteri della musica. Tutti li ha». «Ogni poesia implora un respiro che la dica». Dire la poesia non avviene sempre. Eppure anche nel dire la poesia consiste, da sempre, la poesia. Lo sapeva Carmelo Bene con il suo personalissimo teatro della crudeltà, lo sapevano i Romantici e i Surrealisti, lo sapeva García Lorca, quando trovava il suo duende nella musica, nella danza e, appunto, nella poesia a viva voce (hablada), arti tutt’e tre, sosteneva, che hanno bisogno di un corpo vivo che le interpreti. Lo sa bene, benissimo, Mariangela Gualtieri, che da quarant’anni «dice la poesia in pubblico», avvolgendo chi la ascolta in un «mondo orale aurale» che non ha uguali. Sí perché «spesso», come dice Gualtieri, i professionisti, gli attori, leggono il verso puntando «sulla sua componente razionale e di significato, trascurando tutto il resto». Nella sua «arte di dire la poesia», Gualtieri ci parla invece solo del resto. E per farlo trova un linguaggio nuovo e sorprendente: non un discorso sul dire la poesia ma una scrittura con il dire la poesia. Non concetti astratti, ma figure, immagini, sensazioni fisiche, echi. E analogie, fino a costruire un libro di poesia saggistica, a opporre visione a discorso, a parlarci vicino e alto, lontani dalla chiacchiera. E così: «Formule magiche schiacciate nei libri – solo al pronunciarle si fanno efficaci. E formule mantriche, solo in voce trovano compimento. E spartiti di musica, tutti, chiedono fiato, gole, dita per farsi forma sonora. Così ogni verso. Ogni poesia implora un respiro che la dica. Essere detta. Detta per bene in sua ritmica e melodia e timbrica e interni silenzi».
Breve biografia di Mariangela Gualtieriè nata a Cesena nel 1951 ed è una delle voci poetiche piú apprezzate della scena contemporanea. Nel 1983 ha fondato insieme a Cesare Ronconi il Teatro Valdoca. Da Einaudi ha pubblicato le poesie di Fuoco centrale e altre poesie per il teatro (2003), Senza polvere senza peso (2006), Bestia di gioia (2010), Le giovani parole (2015), Quando non morivo (2019). E, per il teatro, Caino (2011) e Paesaggio con fratello rotto (2021). Per Einaudi ha inoltre pubblicato L’incanto fonico. L’arte di dire la poesia (2022).
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