Un poeta più vicino alla morte che non alla filosofia, più vicino al dolore che all’intelligenza, più vicino al sangue che all’inchiostro.” Continua così un lettore straordinario come García Lorca, che già nel 1934 aveva descritto perfettamente le qualità peculiari e l’unicità di Neruda: “Un poeta pieno di voci misteriose che per fortuna lui stesso non sa decifrare: un uomo vero che ormai sa che il giunco e la rondine sono più eterni della guancia dura della pietra… In Pablo Neruda crepita la luce ampia, romantica, crudele, esorbitante, misteriosa dell’America”. L’antologia, curata e tradotta da Roberto Paoli, offre una selezione delle più belle poesie di Neruda e ne inquadra criticamente l’intera produzione.
Breve biografia di Pablo Neruda (pseudonimo di Ricardo Eliezer Neftalì Reyes Basoalto) è un poeta cileno, tra le figure più importanti della letteratura sudamericana del Novecento. Il suo pseudonimo fu scelto in onore dello scrittore e poeta cecoslovacco Jan Neruda. Nel 1971 è stato insignito del Premio Nobel per la letteratura.
A soli 19 anni Neruda pubblica il suo primo libro, Crepuscolario, e già nel 1924 riscuote un notevole successo con Venti poesie d’amore e una canzone disperata. A partire dal 1925 dirige la rivista «Caballo de bastos». Nel 1927 intraprende la carriera diplomatica: nel 1933 è console a Buenos Aires, nel 1936, allo scoppio della guerra civile, parteggia per la Repubblica e viene destituito dall’incarico consolare, nel 1939, a Parigi, è console per l’emigrazione dei profughi cileni repubblicani e nel 1940 viene nominato console per il Messico.
È eletto senatore nel 1945 e si iscrive al partito comunista per cui subì censure e persecuzioni politiche, come l’espatrio a causa della sua opposizione al governo autoritario di Gabriel González Videla, la rinuncia alla sua candidatura come Presidente del Cile, e il successivo sostegno al socialista Salvador Allende. A causa dell’espatrio inizia a viaggiare nell’Unione Sovietica, in Polonia, in Ungheria, in Italia (si stabilisce a Capri), in Asia e America Latina. Nel 1966 è oggetto di una violenta polemica da parte di intellettuali cubani per un suo viaggio negli Stati Uniti. Muore in un ospedale di Santiago poco dopo il golpe del generale Augusto Pinochet, ufficialmente di tumore, ma in circostanze ritenute dubbie, mentre stava per partire per un nuovo esilio.
Tra le sue opere ricordiamo, Residenza sulla terra, I versi del Capitano, Cento sonetti d’amore, Canto generale, Odi elementari, Stravagario, Le uve e il vento, il dramma Splendore e morte di Joaquin Murieta e il libro di memorie Confesso che ho vissuto.
Si fa tardi. Vi vedo, veramente
eguali a me nel vizio di passione,
con i cappotti, le carte, le luci
delle salive, i capelli già fragili,
con le parole e gli ammicchi, eccitati
e depressi, sciupati e infanti, rauchi
per la conversazione ininterrotta,
come scendete questa valle grigia,
come la tramortita erba premete
dove la via si perde ormai e la luce.
Le voci odo lontane come i fili
che tramontano tra le pietre e i cavi…
Ogni parola che mi giunge è addio.
E allento il passo e voi seguo nel cuore,
uno qua, uno là, per la discesa.
Certe volte capisco che il mio tono migliore per parlare di queste cose è quello della leggerezza. Se ci ripenso, credo proprio di essere nato ai miei esercizi di poesia per le vie dell’allegrezza. E sì che mi son capitati, forse, più malanni che contenti. Ma sarà per quell’accoglienza che gli faccio, quando il dolore capita, che per modo di dire chiamerò riflessiva, ma riflessiva non è – come sa chi mi conosce – perché per me non consiste che nell’adottare un comportamento, che in questo caso è la pazienza: la pazienza, poi, si fa compagnia col tempo che passa: sarà per questo, dico, che in tale passaggio anche i malanni, le pene, quand’hanno visto che la pazienza va d’accordo col tempo, cominciano a mutare viso.
Per cui mi torna spesso alla mente la frase che scrisse San Paolo ai Corinti, dopo aver recitato le sue infinite tribolazioni: «Se c’è da vantarsi, io vanterò gli atti della mia debolezza». Che stupenda parola! Anzi, proprio, che parola della poesia. Perché i poeti non sono mica degli spiriti forti. Spiriti forti sono quelli che discutono, oggi, l’inconciliabilità delle due culture, umanistica e scientifica, e che essendo sicuri e bastanti a se stessi, non hanno da compiere atti d’adorazione, e quindi son sempre lì, intorno al bindolo a tirar su l’acqua dal pozzo della loro sapienza, che poi, corri corri, finisce per tornare nel pozzo.
Il mio spirito, invece, è certo che non basta a se stesso. Lo vedevo e lo capivo persino in queste faccende della poesia. E fin da quando, – ero giovane – usavo molto la rima. La usavo sospinto da vaghezza di canto, ma poi capitava un furore in cui, il più spesso, la rima scopriva l’aspetto insospettato della sua natura: che era tale da rendere felice il mio spirito assetato di soccorso. Sì, perché la rima, come sa chi l’ha usata ispiratamente non nasce di certo stillandosi il cervello. Nasce remota, oltre ciò che capirebbe il discorso del poeta, a scioglierne il sangue che tanto spesso coagula: la rima è soprattutto un avamposto della poesia.
(da Diario della poesia e della rima)
***
Io un’alba guardai il cielo e vidi
uno spazioso aere sulla terra perduta;
negletta cosa stava tra i suoi lidi,
tra gli spenti smeraldi oscura e muta.
Innumerevoli angioli neri vidi
volanti insieme ad una plaga sconosciuta
recando seco trasparenti e vivi
diamanti d’ombra eternamente muta.
Andava questo furioso stuolo
estenuandosi verso il fil d’occidente
e lo seguia un intenerito volo
di cerulee colombe alte e lente.
E apparvero, con le puntute ali
di bianco fuoco vivo drizzate e ardenti
gli angeli dalle vallate orientali,
le estreme piume rosee e languenti.
In un immenso lago alto e candido
nascean singolari fronde meravigliose,
le rovesce vallate un lume madido
di rugiade correa, fonde e muschiose.
E dentro i nostri cuori era come
dentro valli ripiene di nebbie e di sonno
un lento ascendere dello splendore
che poscia illuminò i monti del mondo.
(da Realtà vince il sogno)
***
Sulla natura dei sogni
Un giovane bruno e uno biondo
abbracciati se ne van danzando
fuor di questo corporal mondo
con un passo soave e blando.
Son essi i miei sogni, essi
i miei veri sogni notturni
che invano inseguo, desti
gli occhi già in sonno taciturni.
E nulla sapendo di queste
creature fuggitive e solenni
ne vedo la turbinosa veste
appena, e gli ombrati capelli.
Pur tanta è la lor potenza
che di essa mi si nutre il cuore
e attende (con mesta pazienza)
a ricordarli per lunghe ore.
Vanno instancabili per vie
stellate, o piene di rotti nuvoli?
son essi insieme, o malinconie
profonde in se stessi gl’isolano?
Io ignoro tutto; ché l’alba
me li rivela uniti insieme
danzanti, e non vuole che sappia
niente del loro profondo seme;
e lascia soltanto ch’io pianga
o rida lunghe giornate
camminando per la mia landa
tra l’altre cose rivelate:
come un oriente che beato
eppur mesto illumina un cielo,
tinge di se stesso il creato
d’un allegro, d’un triste velo.
(da Realtà vince il sogno)
***
Musici, giocolieri, bambini, gioia
Eccoli, dolci bruni di sole
i musicanti di cortile,
con le chitarre, con le viole
fan tutta l’aria risentire.
Questo avveniva nel tempo piano,
bianco, nel mite calor meridiano.
Gemmati, e roridi di colore
i giocolieri di cortile:
di questi salti si vive e muore
chi ci vuol bene sia gentile.
Questo avveniva alla luna calante,
piena l’estate, la spiga fragrante.
Semplici, candidi, fuggitivi,
sui prati morbidi di brine,
danzano, volano giulivi
bambini in bianche mussoline.
Questo avveniva, fiorente aprile
querule l’acque eran, l’erba sottile.
(da Realtà vince il sogno)
***
Vetri
Sei vetri della finestra
nell’angolo della stanza
sono la strada maestra
d’ogni nuvola che avanza.
Io, dal mio angolo pigro
tendo insidiosi agguati,
dai poveri tetti emigro
verso quei correnti prati.
Non sono prati, son lenti
sogni; sogni non è vero,
sono fuggitivi armenti:
e nemmen questo è più vero.
Vedi quell’azzurro. Cielo
è il cielo, bambino mio;
con la nuvola, nel cielo,
va la volontà d’Iddio.
Fumo che te ne vai solo,
spensierato, liberamente,
dal focolare del duolo
al cielo: prendimi la mente.
Sei vetri della finestra
nell’angolo della stanza
sono la strada maestra
della celeste abbondanza.
(da Realtà vince il sogno)
***
Domani
Se saran queste strade di sole
che un giorno (quando avremo ali)
ci porteran lontani;
e non più mireremo dai cari
colli le case gioviali
che c’invitano ai piani:
appena un persuasivo candore
vedremo, delle montagne,
come le vene d’erba,
e il mare, dentro nullo colore,
come un vano occhio che piagne,
come una gemma acerba.
In un aere senza il dolce azzurro
dove il sole è l’etern’onda
andremo via giulivi;
con stupend’ali senza sussurro
verso una riva gioconda,
profondamente vivi.
(da Realtà vince il sogno)
***
Tu hai nel petto un garbuglio di cose che ronzano come un’arnia d’api al lavoro. S’apre uno spiraglio nell’arnia; il capo del verso, come un’ape d’oro, appare, sull’orlo, fremente, sta per spiccare il volo, e sdipanare il garbuglio dello sciame. E a un tratto, in quel deserto, appare un fiore giallo, a sinistra, lontano, poi un altro, ma sembra vicino, ed è rosso, sulla destra. Sono apparizioni che sorprendono il poeta: e che fantasticamente si replicano. Altro rosso, altro giallo, e un violento azzurro punteggiano il deserto: e son parole che contengono un nesso segreto, quasi mostruoso, con quello che vuole il poeta, il suo discorso che ronza, lo sciame che vola. Quello che era intenzione della natura del discorso si eleva ad altra potenza correndo a investire questi suggerimenti di colori ritmati che moltiplicano secondo il bisogno le loro apparizioni, le loro corrispondenze. E il discorso che era tutto dentro l’arnia sta ormai sciamando a precipizio con l’ardente sua fame verso i richiami dei fiori che sbramano la sua passione di impossessarsi di una ragione sconosciuta.
Ogni fiore era una rima, ed ora capisco che ognuno di essi conteneva un potenziale che il poeta non inventava da sé, ma che rispondeva, come predisposto, alla supplica ardente di quella fame compressa. Chi ha assistito a questa vicenda di parole che s’appostano lontano a creare la danza ancora insospettabile della poesia rimata, sa benissimo che da solo non ce l’avrebbe fatta. Una grande carità è scesa verso la fame d’esprimersi che lo divorava.
(da Diario della poesia e della rima)
***
Alla dolorosa Provvidenza
Quando su noi la povertà distende
la mano scarna, e coi dolori inquieti
il quotidiano, piccolo bisogno,
se anche mi sento qual t’avessi in sogno,
o Iddio, pregato, sull’alba che splende,
entra e soccorri a’ miei mali segreti.
Quella che io amo, allora, e il mio figliuolo,
stan muti in casa, mi seguon con gli occhi;
se sembro lieto, ed essi non mi credono,
se rido e canto, il canto non ha suono;
se vo per casa, anche i vecchi balocchi
presi e lasciati, mi lasciano solo.
Ma tu che all’alba, o Padre del creato,
mi hai detto: – Figlio, avviati al lavoro –
Tu in cui confido pieno di speranza,
con passo cauto di stanza in istanza
sempre mi segui e se non altro a un duolo
sciogli, più grande, il mai che mi ha legato.
Pianger mi sento e in quel sentir più sale
l’anima al pianto mista co’ miei errori:
che se i miei mali numero, rinumero
insieme le mie colpe, e per ognuno
d’essi e sorge una, una m’assale,
tante che dolgo come tanti cuori.
E forse l’albe infantili mie volgono
verso quest’alba più grande e severa
d’un’altra gioventù, non piena d’angeli,
umana, e sacra ai dolori di tanti
che come me, sulla terra, hanno sera
prima che cali il giorno, o come vogliono
i Tuoi decreti, Provvidenza vera.
(da Altre poesie)
***
Redivivo in Firenze
Mi balzò l’anima
quando vidi i tuoi tetti
diseguali
dopo che il treno una notte
lenta d’avvicinamento
mi lasciò su una piazza desolata.
Due nottambuli parlavano,
eri sola, o Firenze,
e salii nella stanza d’albergo,
dormii nelle tue braccia,
nel tempo, nell’oasi di pietra,
di calce e travature cedevoli,
sotto le stelle supreme,
vivido di battesimi:
e nel mattino
nebbioso dell’inverno
fiorentino, secco di ricordi,
destandomi,
una frattura
solitaria divampò
dalla mia mestizia.
Lasciai l’arte per l’anima,
e al crollo silenzioso
del vivere invisibile
ancora una volta
un toscano senza pianto
s’inoltrò sulla soglia dell’Ade.
(da Tetti toscani)
***
Tetti
Tetti toscani secchi
fulvi di vecchi
tegoli, in cui al tempo che oblia
scotta sempre più mia
l’arsura forte
d’estati morte;
sui colmignoli smagra
il di più, flagra
l’incanto celeste, sdoppia
il miraggio che alloppia,
e seccan vivi
i sogni estivi.
Non so che solitaria
vita per l’aria
vagoli, che par vada e ritorni
da campestri soggiorni;
mi punge il pruno
del suo profumo.
Ma i tetti non han vizi,
a’ bei solstizi
d’estate; e l’anima viaggia,
che dai tetti s’irraggia,
pei cieli asciutti,
chiari per tutti.
(da Tetti toscani)
***
Un dolce pomeriggio d’inverno
Un dolce pomeriggio d’inverno, dolce
perché la luce non era piú che una cosa
immutabile, non alba né tramonto,
i miei pensieri svanirono come molte
farfalle, nei giardini pieni di rose
che vivono di là, fuori del mondo.
Come povere farfalle, come quelle
semplici di primavera che sugli orti
volano innumerevoli gialle e bianche,
ecco se ne andavan via leggiere e belle,
ecco inseguivano i miei occhi assorti,
sempre piú in alto volavano mai stanche.
Tutte le forme diventavan farfalle
intanto, non c’era piú una cosa ferma
intorno a me, una tremolante luce
d’un altro mondo invadeva quella valle
dove io fuggivo, e con la sua voce eterna
cantava l’angelo che a Te mi conduce.
(da Altre poesie)
***
All’amata
I fior d’oscurità, densi, che odorano
dove tu sei, s’aggirano nell’ombra,
un’altra luce sento che m’inonda
queste pupille che l’ombra violano.
Quale tu sei, non so; forse t’adorano
le cose antiche in me, tutto circonda
te in un giardino dove i sensi all’ombra
tornano ad uno ad uno che ti sfiorano.
L’esser più soli, e l’aggirarsi dove
tu non sei più, od in remota stanza
dentro al mio petto, quando lento piove
l’amor di te che oltre di te s’avanza,
forse sarà per questo il dir d’amore
più dolce dell’amore che ci stanca.
(da Altre poesie)
***
Oggi, qualche volta congetturando come mi capita di rado, e spesso dividendo il mio cuore fra i due grandi canoni che possono servire di base alla costruzione della poesia, poesia soggettiva, poesia oggettiva, mi par di capire che la rima è stata il primo grandissimo mezzo per connaturare alla poesia il dono d’una sublime oggettività. La rima è in questo senso tutt’altro che abbandono alla musicalità: è figura dell’oggettività che riflette le grandi e superbamente ordinate costruzioni metafisiche dell’intelletto d’amore. Simula, e riecheggia, nelle sue, le corrispondenze che regolano le grandi forze dell’universo, ed inquadra in esse il discorso fluente e corrusco della vita. […]
Si capisce, e va da sé, che la mia leggerezza non vuole tuttavia dare peso, per i casi miei, a queste vicende che mi capitavano, parallele a tant’altre, come quando, da giovane, la poesia passava come un’allodola per il mio cielo, e la mia crudeltà giovanile le sparava: e mi avveniva, per caso, di non fare cilecca: ma poi era un povero, uno stento pennuto, che raccoglievo. Ebbene, voglio dire che da quei casi pullulanti di parole quasi incomprese nell’atto che le conoscevo, deboli e forti d’amore e di peccati, ho appreso a considerare appunto le parole come un universo di persone straordinariamente libere, e capaci di tutti i tiri.
(da Diario della poesia e della rima)
***
Dai tetti
È un mare fermo, rosso,
un mare cotto, in un’increspatura
di tegole. È un mare di pensieri.
Arido mare. E mi basta vederlo
tra le persiane appena schiuse: e sento
che mi parla. Da una tegola all’altra,
come da bocca a bocca, l’acre
discorso fulmina il mio cuore.
Il suo muto discorso: quel suo esistere
anonimo. Quel provocarmi verso
la molteplice essenza del dolore:
dell’unico dolore:
immerso nel sopore,
unico anch’esso, del cielo. E vi posa
ora una luce come di colomba,
quieta, che vi si spiuma: ed ora l’ira
sterminata, la vampa che rimbalza
d’embrice in embrice. E sempre la stessa
risposta, da mille bocche d’ombra.
– Siamo – dicono al cielo i tetti –
la tua infima progenie. Copriamo
la custodita messe ai tuoi granai.
O come divino spazio su di noi
il tuo occhio, dal senso inafferrabile.
(da L’estate di San Martino)
***
Di questo parlar mio
Di questo parlar mio, che si frantuma,
so così poco come il terrazziere
sa della tazza ritrovata in cocci
entro il suo sterro: e qualche coccio ha un suo
quieto brillare, un poco spento
dalla terra, che ricorda altri giorni,
ed altre forme, anzi l’intera forma,
la genuina e perfetta,
sotto un sole che fu per un momento
al suo apogeo, e brillò sulle labbra
giovanili che bevvero, fresche
come prugne a settembre,
de’ suoi colori, alle soavi nebbie
che li velavano: labbra,
tazza e bevanda ancora vive in questi
pochi frammenti; e il resto è sogno.
(da Diarietto invecchiando)
***
Così, da più oscure latebre
Così, da più oscure latebre, si libera
un io sconosciuto, invecchiando, cui
non badammo da giovani, o che intravisto
tememmo, e parevaci il peggio di noi,
il più abbandonato e senza speranza;
eppure era lui, nella sua essenza precaria
era l’uomo, nella triste sua carne,
e mortale destino, e ivi dentro
il suo amore, melanconico e vorace,
e fatuo, indegno di risposta: e ora che il crudo
suo vero rivelasi, tu, anima, specchio
d’eterno, che cosa farai? Così s’interroga
il vecchio, dondolando la testa, mentre
soffre e dubita.
(da Un passo, un altro passo)
***
Meno che nulla son io
Meno che nulla son io, nella mente
che invecchia e vaga incerta, e male
afferra le idee che vi divagano
fantasticanti: eppure sono ancora
creatura, e non è detto che da me
così squallido, così passivo e inerte,
non emani, come ora che scrivo,
il senso eterno di quell’eterna
povertà che ci è propria, a noi che viviamo
nel tempo, sulla cui nera lavagna
scriviamo col gesso dei giorni parole
che sempre biancheggiano, per Lui che le legge,
pupilla d’aquila, solo compagno sapiente.
(da Poesie del Sabato)
***
Fraterno tetto
Fraterno tetto; cruda città; clamore
e strazio quotidiano; o schiaffeggiante
vita, vita e tormento alla mia anziana
età: guardatemi! sono il più càduco,
tra voi; un rudere pieno di colpe sono…
ma un segno che qualcosa non tramonta
col mio tramonto: resiste la mia pazienza,
è come un orizzonte inconsumabile,
come un curvo pianeta è la mia anima.
(da Ultime)
***
Lo stravedere dei vecchi
Lo stravedere dei vecchi! Guardateli!
Ascoltatene uno, come son io, forse
il più debole! La mente che vacilla,
e l’azzurro che spera, mentre l’ombra
lenta, furtiva, risale i tetti:
alle mie spalle scompaiono ninnoli
e oggetti, caracollano via tavole
e sedie, s’involano alcove, trepide
masserizie amorose svaniscono
via leggere, la mia vita si spoglia,
tutta perduta vibra nell’azzurro.
(da Ultime)
***
Salmo
Quando invecchiamo, fatti più sordi alla rima
ed a quel mitico batter dei ritmi
che amore interno dettava, una cosa
sola, un esister confuso coi freschi
pimenti degli anni giovanili;
allora un ciuffo di pini su un monte,
una gran macchia verde ci commuovono
col silenzio, e siamo come silenzio
che non si perde nel nulla, ma entra
in noi per farsi conoscere, come
vampa di lauro profuma la macchia
nell’alido, col suo sentore amaro:
sì, la vecchiaia è una nuova stagione,
e la morte una stagione più alta, od umile,
di foglia secca per quei tabernacoli della
requie del canto che non serve più.
(da Poesie del Sabato)
***
Rotonda terra…
Rotonda terra; scena che si ripete,
in te, del saluto serale: consuetudine
mia planetaria, di tegola in tegola,
del mio vivere che se ne va col tuo
trapassare, lume diurno, lento,
sul tetto davanti casa; e mio formarsi,
intanto, un petto come di colomba;
e metter piume amorose per la notte
che viene; ravvolgermi unitario
con essa: pigolio interiore; perdita
dell’umano: divenire mio universale.
(da Poesie del Sabato)
Cinque poesie di Carlo Betocchi tradotte in francese da Jean-Charles Vegliante, Premio Betocchi 2018
Ode des oiseaux
Désirable vie
des oiseaux! Eux,
qui réjouissent les ombreux
recoins du bois de leurs doigts d’or!
J’en vis un, passereau
solitaire et lent
remplumé par le vent
délirer pour une aumône;
et j’entendis le chant modulé
intact, que va perdre
entre le ciel profond et l’herbe
une vertigineuse alouette.
Dans la pieuse nuit se tiennent
les rossignols;
rester avec la lune, seuls,
en ramées que le vent malmène!
Et, où les ondes font
un tranquille lac
habite le vol vague
de certains, charme et illusion.
Brûle l’oiseau phénix
de brûler, et ressurgit
l’oiseau phénix ; et nourrit
en soi le cygne un mal qui le mine.
Vivre indéfini
des oiseaux! Ils sont
chantés dans cette ode, messagers
de la vie que nous vivrons:
quand nous remonterons
par des fleuves d’azur
et célestes murmures
vers le vouloir du ciel.
(da Realtà vince il sogno)
Ruines 1947
Ce n’est pas vrai qu’ils ont détruit
les maisons, pas vrai:
seul est vrai dans ce mur en ruines
l’avancement du ciel
à pleines mains, à pleine poitrine,
où inconnus rêvèrent,
ou bien, vivant, crurent rêver,
ceux qui ont disparu…
Maintenant c’est à l’ombre brisée
de jouer comme autrefois,
sur les murs, dans l’aube au soleil,
imiter les aléas…
et dans le vide, à l’hirondelle qui passe.
(da Notizie)
Mais c’est vrai pourtant qu’aux vieux,
dépouillés de la beauté,
reste ce signe, dans l’âme,
de son rapide apparaître
et disparaître, ce sillon de chose
qui a été, qui saigne encore,
lourde, dans la conscience;
mais qui, goutte à goutte, ensuite
va lentement s’enfonçant dans une presque,
dans une presque rancoeur
de blanche innocence…
(da Disperse)
Très ronde terre; scène qui se répète,
en toi, du salut vespéral: habitude mienne
planétaire, avec toi et tes couchants:
brusque sursaut, de tuile en tuile,
de ma vie qui s’en va avec ton
effacement, lumière diurne, lente,
sur le toit devant la maison; et mon apprêt,
cependant, d’un plastron comme de colombe;
et arborer d’amoureuses plumes pour la nuit
qui vient; m’envelopper dans l’union
avec elle: pépiement intérieur; perte
de l’humain : mon devenir universel.
(da Poesie del Sabato)
Dans les champs
Nous un par un
comptons les jours
du blé d’azur
qui se tient droit:
dans l’enfantin
champ le murmure
sans un épi
craint: et s’en va
par le ciel vague
ment tintillant
pleine alouette
de son amour:
nous un par un
comptons les jours,
peines, et dur
espoir qui sait.
(da Poesie, Prime)
Sull’ore prime
Son l’ore prime, le solite, le ore
che la vita me ne ha chieste tante;
l’ora che al già Risorto, che «non è
più qui», tien dietro l’Angelo, distante
e vicino alla vita: che un motore
stacca in fondo alla via la sua fatica,
e parte: e ch’io resto, solo, all’antica
vicissitudine, cui non val arte
di sorta, altro che il principiare, e sia
come sia, con quel gettar di dadi
che è già scontato, che se stesso oblia,
che va crescendo d’effetto per gradi,
vola il colombo, si schiara la via,
o vita, come lenta persuadi.
Al fratello e alla sorella in giorni di dolore
Le foglie luccicano, l’estate
dalla forma crudele di gioia
ai seppelliti nel limbo
delle memorie d’infanzia
non reca che il lampo dei ricordi.
Ma a te dolore, eretto emblema
ch’entro gli sguardi ci precedi,
noi a te, fraterni, porgiamo il volto
lieti che tu ci trovi ancora uniti
oltre la linea delle apparenze,
con te, verso un paese eterno.
Dove non sia più luce sulle fronde
che questa, che dall’anima s’esala,
dove nell’ombra, la nostra mano unita
senta che sola forza al mondo è il cuore.
Una mattina
Ancora una mattina
che non potrei tradirmi
se non, nube su nube,
decidermi a rivivere
tutto nel cielo, al suo
fantastico passaggio
d’occidente in oriente,
da un mare senza mente
a un monte senza peso;
la verità che vive
nei cuori non si scrive
che misteriosamente.
Un passo, un altro passo (7)
Ma anche imparo,
giorno per giorno imparo,
che non c’è cosa in cui sia necessario
più il credere che l’operare; e che tra il fiore
del credere che amo, e il mio esserne degno,
che è il prezzo del mio esistere,
c’è di mezzo quello che ho fatto,
il mio consistere in opere e lavoro:
e ch’ivi è il tutto, tutto ciò che io posso
saper di vero, anche se avvolto nel mistero
della cosa fatta dall’uomo, e che dall’uomo
prega per il di più che non può fare,
e i doni per cui fece, alti, ringrazia.
In piena primavera, pel Corpus Domini (6)
Qui od altrove, a un poeta,
il suo tempo è fulmineo,
cometa che declina e scompare
lungo la chioma della sua pazienza.
E non può dire cose più alte di lui.
La gioventù gli è di lievito,
la vecchiaia di paragone,
e quando l’aria è sgombra di messaggi
incontra creature.
Il bene e il male in eguale misura
a lui non valgon rimpianti,
è come morto fin dalla nascita,
è come vivo dopo la morte.
Messa piana
Quando vado alla messa spesso non prego,
guardo. Sono come un bambino. Guardo,
e credo. E il Signore mi dice
(con povere fiammelle di candela,
mutamente entro me, nel mio guardare),
– Bravo, hai fatto bene a venire. –
E al segreto consenso la coscienza
s’indebita, riconoscente. E mormora:
– Basta, così sian tutti, tutti
oramai, con me. Anche quei pochi
cui ho fatto del bene. E solo mi lascino,
taciti, solo nel mio guardare. –
Messa solenne
Io non so se chiamarla la bellezza
quella che nasce in noi, dal più veridico
senso della nostra miseria. Parte di lì,
sprigiònasi, il capo di quel filo del bisogno
che tanto disegnò della bellezza, nel mondo.
E parve, ed era anche un miracolo: ma era
necessità all’esistere, non già per noi
ma per dire al Signore: – Se Tu esisti
anche noi esistiamo –. E per dirgli ubbidendo:
– Ho ritrovato in Te della bellezza il bandolo
originale, il seme. Ecco, fiorisce nell’umiltà
l’immortale coraggio del Tuo spirito,
la segreta e indicibile Tua gloria. –
Di quando in quando (14)
Se i morti sono veramente morti
allora noi non siamo vivi, ché
della loro già morta vita
andiamo tutti i giorni nutrendoci,
spesso inconsapevolmente, e quasi
dormendo, come bambini alle poppe
materne, a volte assopiti, e come in sogno.
Ché quanto la veglia ci nutre il sogno,
e i morti come la vita ci nutrono, in una
inestinguibile catena di tramonti.
Il vecchio: stravaganze, sventura, destino (5)
Lo stravedere dei vecchi! Guardateli!
Ascoltatene uno, come son io, forse
il più debole! La mente che vacilla,
e l’azzurro che spera, mentre l’ombra
lenta, furtiva, risale i tetti:
alle mie spalle scompaiono ninnoli
e oggetti, caracollano via tavole
e sedie, s’involano alcove, trepide
masserizie amorose svaniscono
via leggere, la mia vita si spoglia,
tutta perduta vibra nell’azzurro.
***
Questo color velenoso, di sera,
questo morir della luce sui vetri,
senza riflessi, che sarà rapido,
quest’ora tarda e mortale,
o tu che invecchi e non sai più se vedi
spettri o figure, credilo! ogni ora
è bambina, e se ne va innocente,
sparisce dal tuo cospetto la vita
ma torna per altri, sempre si rinnova,
la notte è un giardino di giovani tenebre.
***
Il mio cuore è debole, stasera,
come il sole che lento risale
i tetti, e profonde sono le mie colpe;
ahi! l’uomo, come sempre tramonta.
Come sempre, mentre lui tramonta,
resta l’orizzonte ineffabile
e sterminato il destino, a chiunque,
dell’esistere, sterminato!
Ciò che lasciamo indietro
si strascica verso il buio,
ciò che ci attende è incomprensibile
compreso il momento che passa.
Io sono: eccomi! io sono,
solo in quest’ora debole,
ciò che decide: io sono
la linea che divide
il passato dal futuro.
Momento eterno dell’essere
che ti stabilisci nell’attimo,
sei tu la mia grazia, decidi.
Carlo Betocchi nasce a Torino il 23 gennaio 1899 e muore a Bordighera il 25 maggio 1986. Si trasferisce ancora piccolo a Firenze per seguire il padre, impiegato delle Ferrovie dello Stato. Studia all’Istituto Tecnico fiorentino con l’amico Piero Bargellini. Consegue nel 1915 il diploma di perito agrimensore e prende parte, tra il 1917 e il 1918, alla Prima Guerra Mondiale. Inizia poi ad esercitare la professione di geometra nel campo edilizio, lavoro che lo porterà in Francia e in diverse località dell’Italia centro-settentrionale. Nel 1928, insieme a Bargellini, fonda la rivista «Il Frontespizio». Nel 1939 lascia Firenze e si trasferisce a Trieste. Insegna materie letterarie presso il conservatorio musicale di Venezia fino al suo ritorno definitivo a Firenze nel 1953. Numerose sono le sue raccolte poetiche, le più importanti delle quali sono Realtà vince il sogno (1932), L’estate di San Martino (1961), Un passo, un altro passo (1967), Prime e ultimissime (1974), Poesie del sabato (1980).
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Testi selezionati da Tutte le poesie (Mondadori, 1984)
Carlo Betocchi: biografia
Carlo Betocchi nasce a Torino il 23 maggio 1899 da padre ferrarese e madre toscana. Il padre, impiegato nelle Ferrovie dello Stato, nel 1906 viene trasferito con la famiglia a Firenze dove muore nel 1911. Il giovane Carlo, rimasto orfano con i fratelli Giuseppe e Anita, viene educato dalla madre la quale segue con particolare cura la sua formazione spirituale.
Dopo aver studiato all’Istituto Tecnico fiorentino con l’amico Piero Bargellini, consegue nel 1915 il diploma di perito agrimensore.
Nei primi mesi del 1917 è a Parma per frequentare il corso allievi ufficiali. Inviato al fronte qualche settimana prima della ritirata di Caporetto, partecipa alla prima resistenza sul Piave; successivamente è inviato in VaI Camonica e sull’Altopiano di Asiago.
Terminata la guerra, nel dicembre del ‘18 parte volontario per la Libia come ufficiale di guarnigione. Congedato nel ’20, lavora come geometra in Toscana nei cantieri allestiti per la ricostruzione delle case demolite dal terremoto, nelle Alpi francesi per dei lavori di condotte forzate in galleria e quindi nei cantieri stradali in Toscana e nell’Italia centro-settentrionale.
Nel 1923, con Piero Bargellini, Nicola Lisi e l’incisore Pietro Parigi, collabora alla prima rivista di carattere strapaesano «Il calendario dei pensieri e delle pratiche solari», e nel 1929 con gli stessi amici fonda «Il Frontespizio», la rivista d’ispirazione cattolica più nota negli anni del fascismo.
Tra il ’29 e il ’38 si occupa di una rubrica di poesia («Lettura di poeti») e in quegli anni collabora a varie riviste: «L’Orto», «Il Selvaggio», «Circoli», «Primato», «Campo di Marte», «Letteratura». Per le edizioni del «Frontespizio» viene pubblicata la sua prima raccolta di liriche: Realtà vince il sogno (1932). Seguono nel tempo Altre poesie e Notizie di prosa e poesia, comparse rispettivamente nel 1939 e nel 1947 e, in seguito, L’estate di San Martino (1961), Prime e ultimissime (1974) e Poesie del sabato (1980).
Gli impegni di lavoro lo portano nel 1939 a lasciare Firenze per risiedere a Trieste, dove si trasferisce con la famiglia fino al ’40; poi è a Bologna e quindi a Roma.
A seguito di una malattia contratta nei cantieri, nel 1953 è costretto ad abbandonare la professione di geometra. Sin dal 1942 è chiamato alla cattedra di materie letterarie presso il Conservatorio musicale di Venezia. Nel 1955 ricopre lo stesso insegnamento presso il Conservatorio «L. Cherubini» di Firenze dove insegna fino al 1969.
Tornato definitivamente a Firenze nel 1952, gli viene affidata nel ’58 la redazione della trasmissione radiofonica L’Approdo. Collabora a varie riviste, tra cui «La Chimera», «La Fiera letteraria» e «L’Approdo letterario» di cui è redattore fino al dicembre del 1977, anno di cessazione della prestigiosa rivista.
Tra i numerosi riconoscimenti ricevuti: il Premio Feltrinelli per la poesia assegnatogli dall’Accademia dei Lincei, il Premio Viareggio (1955) e l’Elba (1968).
Nel 1981 il presidente della Repubblica Sandro Pertini gli conferisce «La Penna d’oro» per l’opera svolta (tra gli illustri premiati sono presenti Giuseppe Prezzolini e Mario Praz).
Nel 1984, in occasione della pubblicazione di Tutte le poesie (Mondadori), riceve il Premio «E. Montale» (Librex-Guggenheim) per la poesia.
Si spegne a Bordighera, all’età di ottantasette anni, il 25 maggio del 1986.
Il “Centro Studi e Ricerche Carlo Betocchi” svolge un’attività di promozione, conoscenza e divulgazione dell’opera del poeta. In particolare si propone i seguenti obiettivi:
– Organizzare ogni anno il “Premio Letterario Internazionale Carlo Betocchi-Città di Firenze”.
– Favorire indagini e ricerche sull’opera di Carlo Betocchi e su aspetti della poesia contemporanea a lui riferibili.
– Promuovere incontri di studio, letture e iniziative volte a diffondere e valorizzare la poesia in tutti i suoi aspetti.
– Svolgere attività editoriale finalizzata alla pubblicazione di testi di e su Carlo Betocchi.
La presidenza del Centro Studi è attualmente ricoperta da Marco Marchi.
La giuria del “Premio Letterario Internazionale Carlo Betocchi-Città di Firenze” è presieduta da Marco Marchi e composta da Sauro Albisani, Anna Dolfi, Antonia Ida Fontana, Francesco Gurrieri, Gloria Manghetti e Maria Carla Papini.
Si segnala che l’Archivio e la Biblioteca privata di Carlo Betocchi sono conservati presso l’“Archivio Contemporaneo A. Bonsanti” del “Gabinetto Scientifico-Letterario G. P. Vieusseux” di Firenze, in via Maggio n. 42.
Salvatore Quasimodo,Premio Nobel 1959, le 5 poesie più belle
Ed è subito sera
Ognuno sta solo sul cuor della terra trafitto da un raggio di sole: ed è subito sera
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Ora che sale il giorno
Finita è la notte e la luna si scioglie lenta nel sereno, tramonta nei canali.
È così vivo settembre in questa terra di pianura, i prati sono verdi come nelle valli del sud a primavera. Ho lasciato i compagni, ho nascosto il cuore dentro le vecchi mura, per restare solo a ricordarti.
Come sei più lontana della luna, ora che sale il giorno e sulle pietre bette il piede dei cavalli!
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Già la pioggia è con noi
Già la pioggia è con noi, scuote l’aria silenziosa. Le rondini sfiorano le acque spente presso i laghetti lombardi, volano come gabbiani sui piccoli pesci; il fieno odora oltre i recinti degli orti.
Ancora un anno è bruciato, senza un lamento, senza un grido levato a vincere d’improvviso un giorno.
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Fresche di fiumi in sonno
Ti trovo nei felici approdi, della notte consorte, ora dissepolta quasi tepore d’una nuova gioia, grazia amara del viver senza foce.
Vergini strade oscillano fresche di fiumi in sonno:
E ancora sono il prodigo che ascolta dal silenzio il suo nome quando chiamano i morti.
Ed è morte uno spazio nel cuore.
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Imitazione della gioia
Dove gli alberi ancora abbandonata più fanno la sera, come indolente è svanito l’ultimo tuo passo che appare appena il fiore sui tigli e insiste alla sua sorte.
Una ragione cerchi agli affetti, provi il silenzio nella tua vita.
Altra ventura a me rivela il tempo specchiato. Addolora come la morte, bellezza ormai in altri volti fulminea. Perduto ho ogni cosa innocente, anche in questa voce, superstite a imitare la gioia.
Biografia di Salvatore Quasimodo
Salvatore Quasimodo nasce a Modica nel 1901. Il padre è capostazione, e da piccolo Salvatore viaggia molto; anche la sua adolescenza trascorre serena, all’insegna degli spostamenti in diversi paesi siciliani per via del lavoro paterno.
Eclettico per natura, Quasimodo si stanca subito delle attività cui si dedica. Nel corso dell’età adulta si destreggia con vari mestieri, fra cui il commesso, il disegnatore tecnico, il contabile, l’impiegato al genio civile… tutte mansioni che può svolgere grazie al suo diploma da geometra. Ma ciò che non lo stanca mai è lo studio delle lettere, a cui si dedica parallelamente alle attività saltuarie. Si appassiona così tanto ai classici e all’arte della scrittura che ben presto comincia a scrivere.
Intanto, a Milano ottiene una cattedra per l’insegnamento della letteratura. Il cognato Elio Vittorini ha un grande ruolo nella carriera di Salvatore Quasimodo: è proprio lui che presenta lo scrittore agli intellettuali legati alla rivista letteraria Solaria, dove vengono pubblicate le prime poesie dell’autore.
Presto, Quasimodo si lega ai poeti ermetici e fa dell’ermetismo la sua cifra poetica. Le sue raccolte affrontano i temi più disparati ma, soprattutto dopo la conclusione del secondo conflitto mondiale, larga parte della sua produzione è dedicata esclusivamente alla tematica bellica e all’impegno civile. Nel 1959 gli viene conferito il Premio Nobel per la Letteratura. Muore improvvisamente a Napoli, nel 1968.
Antonia Pozzi-DOMANI- Poesia scritta a Milano 27 marzo 1931
DOMANI
Se chiudo gli occhi a pensare
quale sarà il mio domani,
vedo una larga strada che sale
dal cuore d’una città sconosciuta
verso gli alberi alti
d’un antico giardino.
Sole, sole violento
e in fondo
le ombrelle nere dei pini
che macchiano l’azzurro.
S’agita nella strada
una folla d’ignoti passanti:
ma nessuno mi guarda,
nessuno mi chiede
di me,
del mio pianto,
di tutto il pianto
che fu versato
quando dovetti lasciare
il mio paese lontano.
Oggi io cammino
senza piangere più
e non m’importa, non m’importa
che l’anima non abbia nulla di suo,
nemmeno più il dolore:
oggi tutta la vita
mi pulsa nel palmo d’una mano,
mi trema in cima alle dita
che serrano teneramente
la manina della mia creatura.
Oh bimbo, bimbo mio non nato,
la tua mamma non sa
che viso avrai,
ma la tua manina la sente
per ogni sua vena
leggera
come un piccolo fiore senza peso.
La mamma oggi è venuta
a prenderti alla scuola
(da così pochi giorni ci vai!
ancora, la mattina,
quando resti là solo,
fai con la bocca un po’ di mestolino);
la mamma oggi è venuta
a prenderti all’uscita
ed ora si ritorna a casa insieme,
adagio,
per non stancare
le tue gambine corte.
Vedi, piccolo: bisogna che saliamo
tutta questa lunga strada.
Quando saremo in cima,
entreremo nel vecchio giardino,
sotto gli alberi neri neri;
lo traverseremo tutto;
usciremo dal piccolo cancello
in fondo all’ultimo viale:
fuori,
sul ciglio del primo prato,
c’è la nostra casa.
Bambino, quando saremo giunti
alla nostra casa,
dopo tanto salire,
io ti solleverò alto da terra,
ti metterò nelle braccia
di chi è lassù ad aspettare,
gli dirò: Vedi,
vedi che cosa ti ho portato?
E l’anima,
donato il suo ultimo dono,
resterà nuda e povera
come la spiga vuota.
Ma tu, tu, creatura,
nelle piccole mani porterai,
fiore della rinuncia mia,
tesoro di tutti gli umani,
una speranza di Bene.
Milano, 27 marzo 1931
Biografia di ANTONIA POZZI (Milano 1912-1938)-Quando Antonia Pozzi nasce è martedì 13 febbraio 1912: bionda, minuta, delicatissima, tanto da rischiare di non farcela a durare sulla scena del mondo; ma la vita ha le sue rivincite e … … Antonia cresce: è una bella bambina, come la ritraggono molte fotografie, dalle quali sembra trasudare tutto l’amore e la gioia dei genitori, l’avvocato Roberto Pozzi, originario di Laveno, e la contessa Lina, figlia del conte Antonio Cavagna Sangiuliani di Gualdana e di Maria Gramignola, proprietari di una vasta tenuta terriera, detta La Zelata, a, Bereguardo. Il 3 marzo la piccola viene battezzata in San Babila ed eredita il nome del nonno, primo di una serie di nomi parentali (Rosa, Elisa, Maria,Giovanna, Emma), che indicherà per sempre la sua identità. Antonia cresce, dunque, in un ambiente colto e raffinato: il padre avvocato, già noto a Milano; la madre, educata nel Collegio Bianconi di Monza, conosce bene il francese e l’inglese e legge molto, soprattutto autori stranieri, suona il pianoforte e ama la musica classica, frequenta la Scala, dove poi la seguirà anche Antonia; ha mani particolarmente abili al disegno e al ricamo. Il nonno Antonio è persona coltissima, storico noto e apprezzato del Pavese, amante dell’arte, versato nel disegno e nell’acquerello. La nonna, Maria, vivacissima e sensibilissima, figlia di Elisa Grossi, a sua volta figlia del più famoso Tommaso, che Antonia chiamerà “Nena” e con la quale avrà fin da bambina un rapporto di tenerissimo affetto e di profonda intesa. Bisogna, poi, aggiungere la zia Ida, sorella del padre, maestra, che sarà la compagna di Antonia in molti suoi viaggi; le tre zie materne, presso le quali Antonia trascorrerà brevi periodi di vacanza tra l’infanzia e la prima adolescenza; la nonna paterna, Rosa, anch’essa maestra, che muore però quando Antonia è ancora bambina. Nel 1917 inizia per Antonia l’esperienza scolastica: l’assenza, tra i documenti, della pagella della prima elementare, fa supporre che la bimba frequenti come uditrice, non avendo ancora compiuto i sei anni, la scuola delle Suore Marcelline, di Piazzale Tommaseo, o venga preparata privatamente per essere poi ammessa alla seconda classe nella stessa scuola, come attesta la pagella; dalla terza elementare, invece, fino alla quinta frequenta una scuola statale di Via Ruffini. Si trova, così, nel 1922, non ancora undicenne, ad affrontare il ginnasio, presso il Liceo-ginnasio “Manzoni”, da dove, nel 1930, esce diplomata per avventurarsi negli studi universitari, alla Statale di Milano.
Gli anni del liceo segnano per sempre la vita di Antonia: in questi anni stringe intense e profonde relazioni amicali con Lucia Bozzied Elvira Gandini, le sorelle elettive, già in terza liceo quando lei si affaccia alla prima; incomincia a dedicarsi con assiduità alla poesia, ma, soprattutto, fa l’esperienza esaltante e al tempo stesso dolorosa dell’amore. È il 1927: Antonia frequenta la prima liceo ed è subito affascinata dal professore di greco e latino, Antonio Maria Cervi; non dal suo aspetto fisico, ché nulla ha di appariscente, ma dalla cultura eccezionale, dalla passione con cui insegna, dalla moralità che traspare dalle sue parole e dai suoi atti, dalla dedizione con cui segue i suoi allievi, per i quali non risparmia tempo ed ai quali elargisce libri perché possano ampliare e approfondire la loro cultura. La giovanissima allieva non fatica a scoprire dietro l’ardore e la serietà, nonché la severità del docente, molte affinità: l’amore per il sapere, per l’arte, per la cultura, per la poesia, per il bello, per il bene, è il suo stesso ideale; inoltre il professore, ha qualcosa negli occhi che parla di dolore profondo, anche se cerca di nasconderlo, e Antonia ha un animo troppo sensibile per non coglierlo: il fascino diventa ben presto amore e sarà un amore tanto intenso quanto tragico, perché ostacolato con tutti i mezzi dal padre e che vedrà la rinuncia alla “vita sognata” nel 1933, “non secondo il cuore, ma secondo il bene”, scriverà Antonia, riferendosi ad essa. In realtà questo amore resterà incancellabile dalla sua anima anche quando, forse per colmare il terribile vuoto, si illuderà di altri amori, di altri progetti , nella sua breve e tormentata vita.
Nel 1930 Antonia entra all’Università nella facoltà di lettere e filosofia; vi trova maestri illustri e nuove grandi amicizie: Vittorio Sereni, Remo Cantoni, Dino Formaggio, per citarne alcune; frequentando il Corso di Estetica, tenuto da Antonio Banfi, decide di laurearsi con lui e prepara la tesi sulla formazione letteraria di Flaubert, laureandosi con lode il 19 novembre 1935. In tutti questi anni di liceo e di università Antonia sembra condurre una vita normalissima, almeno per una giovane come lei, di rango alto-borghese, colta, piena di curiosità intelligente, desta ad ogni emozione che il bello o il tragico o l’umile suscitano nel suo spirito: l’amore per la montagna, coltivato fin dal 1918, quando ha incominciato a trascorrere le vacanze a Pasturo, paesino ai piedi della Grigna, la conduce spesso sulle rocce alpine, dove si avventura in molte passeggiate e anche in qualche scalata, vivendo esperienze intensissime, che si traducono in poesia o in pagine di prosa che mettono i brividi, per lo splendore della narrazione e delle immagini; nel 1931 è in Inghilterra, ufficialmente per apprendere bene l’inglese, mentre, vi è stata quasi costretta dal padre, che intendeva così allontanarla da Cervi; nel 1934 compie una crociera, visitando la Sicilia, la Grecia, l’Africa mediterranea e scoprendo, così, da vicino, quel mondo di civiltà tanto amato e studiato dal suo professore e il mondo ancora non condizionato dalla civiltà europea, dove la primitività fa rima, per lei, con umanità; fra il 1935 e il 1937 è in Austria e in Germania, per approfondire la conoscenza della lingua e della letteratura tedesca, che ha imparato ad amare all’Università, seguendo le lezioni di Vincenzo Errante, lingua che tanto l’affascina e che la porta a tradurre in italiano alcuni capitoli di “Lampioon”, di M. Hausmann. Intanto è divenuta “maestra” in fotografia: non tanto per un desiderio di apprenderne la tecnica, aridamente, quanto perché le cose, le persone, la natura hanno un loro sentimento nascosto che l’obiettivo deve cercare di cogliere, per dar loro quell’eternità che la realtà effimera del tempo non lascia neppure intravedere. Si vanno così componendo i suoi album, vere pagine di poesia in immagini. Questa normalità, si diceva, è, però, solamente parvenza. In realtà Antonia Pozzi vive dentro di sé un incessante dramma esistenziale, che nessuna attività riesce a placare: né l’insegnamento presso l’Istituto Tecnico Schiaparelli, iniziato nel ‘37 e ripreso nel ’38; né l’impegno sociale a favore dei poveri, in compagnia dell’amica Lucia; né il progetto di un romanzo sulla storia della Lombardia a partire dalla seconda metà dell’Ottocento; né la poesia, che rimane, con la fotografia, il luogo più vero della sua vocazione artistica. La mancanza di una fede, rispetto alla quale Antonia, pur avendo uno spirito profondamente religioso, rimase sempre sulla soglia, contribuisce all’epilogo: è il 3 dicembre del 1938.
Lo sguardo di Antonia Pozzi, che si era allargato quasi all’infinito, per cogliere l’essenza del mondo e della vita, si spegne per sempre mentre cala la notte con le sue ombre viola.
Onorina Dino
Biografia tratta da Antonia Pozzi. Nelle immagini l’anima: antologia fotografica, a cura di Ludovica Pellegatta e Onorina Dino, Ancora, Milano 2007
CASTELNUOVO& CORONAVIRUS-:Il dialogo, la parola, la convivenza e il Club Mefistofele di Castelnuovo-MURALES CASTELNUOVESI-
Castelnuovo di Farfa -Comunicare dalla quarantena non è sempre facile, e non solo perché siamo costretti a farlo virtualmente (ormai ci siamo quasi abituati) ma perché ,mai come in questo momento, i nostri ritmi divergono in modo così macroscopico. Anche in questo periodo che precede il Natale dobbiamo trovare il modo giusto di comunicare. Questi sono giorni degli abbracci vietati, dei baci dimenticati, dell’esilio domestico, delle relazioni fisiche interrotte, spezzate . In questo periodo riscopriamo la parola, il dono prezioso della parola . E’ un filo insostituibile che serve a ritessere la rete di rapporti umani e sociali che questo maledetto Coronavirus punta sistematicamente a distruggere. La parola , il linguaggio. Una facoltà che abbiamo ricevuto gratuitamente sin dalla nascita. Ed è per questo , forse, che finiamo molto spesso per sciuparla. A Castelnuovo sarebbe bello , proficuo, tornare a dare spazio ai ricordi, ai racconti che, a mio avviso, sono doni preziosi che non debbono essere dispersi perché hanno la capacità di farci riconoscere nell’anima e nell’orgoglio di essere castelnuovesi. I racconti castelnuovesi sono , se così si possono definire, fili intrecciati di un arazzo che è Castelnuovo stesso e questi fili , di tutti i colori, sono la narrazione e strumento di questa identità castelnuovese. Nel mio lavoro “Murales Castelnuovesi” ho tracciato e disegnato con le parole , in forma di poesia, storie e le vibrazioni che hanno segnano, inciso, le anime dei castelnuovesi che hanno navigato Dedalo-Castelnuovo.Ho scritto molto su Castelnuovo come ad esempio articoli , ma non ho comunicato con pubblicazioni organiche(organizzate) i miei lavori ad eccezione delle mie raccolte di Poesie . Castelnuovo è stato tiranno nei miei confronti e di altri castelnuovesi il perché è semplice l’era del “Club di Mefistofele” ancora, ahimè, non è terminata.Per Il Club Mefistofele sono stato , da sempre, una “molla antagonista” dato in pasto alla massa con l’etichetta “diverso” . Per anni ho subito il rancoroso bile degli avversari politici, degli affaristi del cemento castelnuovese. Ho subito l’espulsione dalla mia area politica, ma nessuno mai mi ha tacitato , mai ridotto ad elemosinare l’ingresso nei circoli del “potere castelnuovese”. Essere un castelnuovese e non avere accesso a nulla, come ad esempio all’Archivio storico è avvilente. Non permettono di abitare ed essere là dove non possiamo più essere. Dai racconti castelnuovesi emerge quella narrazione che non si riesce con i “politici” castelnuovesi a intavolare, non si riesce ad avere in dialogo perché essi sono, i “politici” castelnuovesi, la sommatoria dell’antidemocrazia, sono il carburante della negazione , sono sotto panza teleguidati da capibastone padroni di pacchetti di voti. Questi politici castelnuovesi sono il prodotto dell’opportunismo e dell’interesse piccolo , ma piccolissimo borghese. Il Club Mefistofele di Castelnuovo ha prodotto “espatriati ed esuli” . L’esperienza di esule nasce lasciando il proprio paese per approdare in nuovi spazi e in nuovi pensieri. Dal lager sito ai margini di Castelnuovo ho elaborato un «Il lessico dell’esilio». Il grande sforzo che a mio avviso si deve fare a Castelnuovo, sforzo che deve essere messo in campo da tutte le parti, è ritrovare quel filo che sia capace di “rammendare” le relazioni. Quel filo capace di “riparare” la comunità castelnuovese ferita ed emarginata, ricucire e riavvicinare le persone lontane . L’umile arte del “riparare con la parola ” credo, spero, che a Castelnuovo questa virtù non sia andata perduta. Quando scrivo un racconto,una poesia o un articolo di giornale cerco di raccogliere i frammenti , attimi di vita, di incontri che non sono mai andati perduti. Quando scrivo recupero questi frammenti , provo a metterli insieme li intreccio , come la trama di una stoffa, e mi appare una realtà che altrimenti andava perduta. Scrivere e descrivere Castelnuovo è come lavorare al montaggio di un film . Quando scrivo di Castelnuovo cerco di farlo con onestà , con coerenza ed è proprio questo il momento della narrazione in cui la verità entra in gioco.Chi scrive sa perfettamente che si ha di fronte sempre un interlocutore anche se in astratto. Le storie castelnuovesi , i Murales castelnuovesi hanno per me un effetto catartico, mi permette, questo tipo di scrittura, di tirare fuori quello che è in me , che abita dentro di me, e non mi sento giudicato.I racconti castelnuovesi hanno, evidentemente solo per me, un potere enorme perché riescono a creare e ricreare realtà che non esistono più. Personaggi veri che diventano eroi o vittime del Club Mefistofele castelnuovese. I racconti sono potenti perché non più individuali, ma è anche e possono diventare l’identità di una comunità e della sua cultura. La quarantena e i racconti castelnuovesi sembra un titolo coniato da P.P.Pasolini. Vediamo cosa ne viene fuori.( scritto 20 novembre 2020)
Castelnuovo :La pandemia Covid19.
Dio è forse invecchiato ?
Perché ci sta regalando un futuro
nel tunnel della pandemia.
Noi tutti berremo, per dissetarci ,
le lacrime raccolte lungo le strade, nelle case,
negli ospedali e nei cimiteri.
Ci aspettano, forse, lunghe notti
quando, noi tutti, perderemo pezzi di vita
e ci scopriremo logorati di tristezza e rassegnazione.
Sarà solo un ricordo
il verso della poesia, modellato e cantato
dalla voce semplice dei bambini castelnuovesi
mentre giocano all’ombra degli ulivi.
Castelnuovo, donaci ancora la tua poesia
e i tuoi versi soffici e sottili,
come il vento che gioca con le foglie
e si trasforma in fruscio accarezzando i petali dei fiori.
Castelnuovo, prega Dio con i tuoi versi
e con la tua voce, che si traduce sempre in suoni e vibrazioni
di canzoni cantate dagli occhi delle nostre madri.
Castelnuovo, troveremo i semi della nostra vita
logorati dal triste tempo che ci aspetta?
Questi versi, frammenti d’ispirazione,
navigheranno nella sofferenza
per attraversare l’oceano dei ricordi.
Castelnuovo, ma noi riusciremo ancora
a percepire la Natura come Leopardi?
Castelnuovo, cosa racconteremo ai nostri morti?
Come racconteremo questa storia ?
Noi porteremo, ancora una volta, una rosa liberatoria ai piedi
dell’altare, con la presunzione di avere l’attenzione di Dio?
Noi, che abbiamo distrutto il cielo e la Valle del Farfa,
possiamo ancora avere e ritrovare la poesia di Castelnuovo
Il sentiero dei nidi di ragnoè il primo romanzo di Italo Calvino. Pubblicato nel 1947 da Einaudi, è ambientato in Liguria all’epoca della seconda guerra mondiale e della Resistenza partigiana. Nonostante una certa propensione per la dimensione fantastica, determinata dal fatto che gli eventi vengono narrati attraverso il punto di vista di un bambino, può ascriversi, assieme alla raccolta Ultimo viene il corvo (1949), alla corrente neorealista.
Trama
Italia, periodo della Resistenza, dopo l’8 settembre 1943. In una cittadina ligure della Riviera di Ponente, Sanremo, tra valli, boschi e luoghi impervi dove la lotta partigiana è più forte, Pin è un bambino ligure di circa dieci anni, orfano di madre e con il padre marinaio irreperibile, abbandonato a se stesso e in perenne ricerca di amicizie tra gli adulti del vicolo dove vive, e dell’osteria che frequenta dove viene preso in giro da tutti: Pin è canzonato a causa delle relazioni sessuali che la sorella prostituta ,che si intrattiene coi militari tedeschi; provocato dagli adulti a provare la sua fedeltà, Pin sottrae a Frick, un marinaio tedesco amante della donna, la pistola di servizio, una P38, e la sotterra in campagna, nel luogo, sconosciuto a tutti, in cui è solito rifugiarsi, dove i ragni fanno il nido. Il furto sarà poi causa del suo arresto e dell’internamento in prigione. Qui entra a contatto con la durezza della vita di carcerato e con la violenza perpetrata da uomini su altri uomini. In prigione incontra Pietromagro, il ciabattino di cui era garzone, ma specialmente Lupo Rosso, un giovane e coraggioso partigiano, che in prigione subiva interrogatori e violenze da parte dei fascisti. Lupo Rosso aiuta Pin ad evadere dal carcere, ma una volta fuori, per cause indipendenti dalla sua volontà abbandona Pin a se stesso, a girovagare nel bosco da solo, finché non incontra Cugino, un partigiano solitario alto, grosso e dall’aria mite. Questi lo condurrà sulle montagne, al gruppo segreto di militanti partigiani a cui appartiene, il distaccamento del Dritto. Qui Pin entra in contatto con una folta casistica umana di antifascisti, dalla dubbia eroicità e caratterizzati dai più comuni difetti umani: Dritto il comandante, Pelle, Carabiniere, Mancino il cuciniere, Giglia la moglie di Mancino, Zena il lungo detto Berretta-di-Legno o Labbra di Bue e così si sistema presso di loro.
Una sera Dritto appicca inavvertitamente il fuoco all’accampamento perché avvinto in un gioco di sguardi con Giglia, la moglie di Mancino; questa sua imprudenza costringe i compagni partigiani a fuggire e ad insediarsi in un vecchio casolare dal tetto sfondato. Un litigio col capo brigata irrita Pelle a tal punto da spingerlo al tradimento dei suoi compagni: parte per il villaggio e rivela ai tedeschi l’insediamento partigiano. In seguito la Resistenza provvederà a freddarlo in un gap. Il giorno seguente i comandanti partigiani, Kim e Ferriera, fanno sopralluogo nel distaccamento del Dritto e gli impartiscono le istruzioni per l’imminente battaglia. Al momento di partire però il Dritto, ormai ridotto all’ombra di se stesso, si rifiuta di scendere in battaglia e decide di restare con Giglia. Con loro resterà solo Pin che sin dall’incendio aveva compreso l’interesse dei due e li sorprenderà, una volta partiti tutti, a consumare il loro sesso adulterino. Il Dritto d’altronde sa di aver segnato il suo destino.
La battaglia si risolve con una ritirata strategica. Il bilancio è di un solo morto e di un ferito. Poiché l’accampamento non è più sicuro come prima, i partigiani si mettono in cammino e raggiungono la postazione di altre brigate partigiane. Presto la discussione si accende quando Pin comincia a rivelare la tresca amorosa tra il Dritto e la Giglia scoperta il mattino: il Dritto tenta allora di zittire il bambino, malmenandolo, tanto che Pin gli morde la mano. Con quel gesto rabbioso esce dal casolare e scappa via di corsa. Incontra di tanto in tanto dei tedeschi e dopo alcuni giorni di marcia, arriva al suo paesino o almeno quello che ne resta dopo il rastrellamento dei nazisti. Ancora una volta si rifugia nel suo luogo segreto, ma vi trova tutta la terra rimossa e la pistola scomparsa: è quasi sicuro che sia stato Pelle.
Sconvolto, si reca dalla sorella, ormai in combutta con i tedeschi ma suo unico contatto con il mondo, la quale è molto sorpresa di vederlo. Mentre conversa, viene a sapere che lei possiede una pistola datale da un giovane delle brigate nere, sempre raffreddato. Pin capisce che si tratta di Pelle e che la pistola è proprio la P38 che lui aveva sottratto al tedesco e che aveva sotterrato al sentiero dei nidi di ragno. Se la riprende con rabbia e, gridando contro la sorella, va via di casa. Si sente ancora più solo, fugge verso il sentiero dei nidi di ragno, dove incontra nuovamente Cugino. Durante la conversazione che intrattengono, Pin si rende conto che proprio Cugino è l’unico vero amico, un adulto che si interessa persino ai nidi di ragno scoperti da Pin. Ma Cugino dice a Pin che vorrebbe andare con una donna, dopo tanti mesi passati in montagna. Pin rimane male, proprio Cugino che era sempre stato così ferocemente critico verso le donne. Anche lui, pensa Pin, è come tutti gli altri adulti. Parlano della sorella prostituta, Cugino è interessato e si fa indicare la sua abitazione. Si allontana lasciando a Pin il suo mitra e portandosi dietro proprio la pistola del bambino, dicendo che aveva paura di incontrare dei tedeschi. Dopo pochi minuti Pin sente degli spari venire dalla città vecchia. Ma ecco, invece, che ricompare Cugino: troppo presto rispetto a quello che aveva detto di voler fare con la prostituta. Il bambino è felice: Cugino gli dice che ci ha ripensato, che non ha voglia di andare con una donna, che le donne gli fanno schifo. È probabile che abbia provveduto ad uccidere la sorella di Pin perché complice delle truppe tedesche, ma questo fatto rimane incerto, non detto, e Pin non collega gli spari sentiti alla rapidità del ritorno di Cugino. Nessuna consapevolezza o sospetto c’è da parte di Pin: è felice di aver ritrovato una figura di adulto che lo protegga e lo capisca. I due si tengono per mano e si allontanano, di notte, in mezzo alle lucciole.
Luoghi
Il romanzo è ambientato nei comuni montuosi dell’Estremo Ponente ligure, specie la parte collinare di Sanremo – città natale della famiglia dell’autore – dove esiste ancora oggi, nel centro storico detto “la Pigna”, un viottolo chiamato “Carruggio Lungo”, vicolo stretto ma carrabile: stradicciola tipica dei centri storici liguri, massime quello ben noto della città di Genova. Le azioni narrate sono proprio quelle, brulicanti di tedeschi, prima come alleati dell’Italia poi come nemici inferociti dall’armistizio di Cassibile (8 settembre ’43), dove si svolsero sanguinosissimi combattimenti tra partigiani e nazifascisti.
Qui si svolge la prima parte del libro, in cui Pin si trova ancora dalla sorella: la locanda degli adulti del vicolo, la casa di Pin, il luogo in cui lavora e le abitazioni di tutti gli altri personaggi del romanzo. Alla carcerazione del protagonista, la scena si sposta fuori dal “Carruggio Lungo”, così dalla prigione, fino al distaccamento del Dritto, insediato tra i boschi delle montagne liguri; tra i luoghi citati in questa parte c’è lo storico Passo della Mezzaluna[2]. Se il paese natale di Pin è sinonimo di consuetudine all’esclusione, ma punto di riferimento per il piccolo, il bosco e il distaccamento partigiano significherà disorientamento e precarietà. Esiste un ulteriore luogo, di decisiva rilevanza all’interno della trama, ovvero il sentiero dei nidi di ragno, uno spazio quasi surreale, dove la natura è complice di Pin, custode e sicura. Per il protagonista rappresenta l’Arcadia, l’ambiente quasi idilliaco e immaginifico dove Pin esprime unico la sua puerilità. Essendo questo posto anche conosciuto dal solo Pin, lo spinge ad escludere chiunque dal godimento di tal luogo, se non all’amico vero che lui per tutto il romanzo cerca velatamente.
Lessico e stile
Questo primo libro di Italo Calvino, scritto subito dopo la fine della guerra, è molto scorrevole, i dialoghi, scritti con un linguaggio quotidiano spesso scurrile, si alternano a descrizioni minuziose dell’animo dei personaggi principali (come quello di Lupo Rosso, o come il ritratto di Kim nel IX capitolo, infatti questo capitolo si distacca dal tono degli altri perché attraverso Kim il narratore può esprimere i suoi giudizi) e dei luoghi dove si svolgono le azioni di guerra.
Il narratore del libro è esterno e il libro è narrato in terza persona. Calvino sceglie di raccontare e descrivere i fatti e le paure di una guerra visti dal “basso”, da chi non può nulla nei conflitti eppure è costretto a farvi parte: l’ottica è quella di un bambino. Dietro lo sguardo un po’ spaesato di Pin c’è la vicenda biografica di Italo Calvino che, giovane universitario di estrazione borghese, lascia gli studi ed entra nella Resistenza, in clandestinità vive a contatto di operai, gente semplice, condividendo la vita partigiana ma facendo parte inesorabilmente di un altro mondo.
Nel testo sono riportati alcuni termini militari e partigiani che affascinano il protagonista come del resto tutto il mondo dei grandi, ad esempio gap che indica un’organizzazione partigiana, come un’altra parola “misteriosa” sim. Alcune parole di uso tipicamente militare sono sten e P38, che sono rispettivamente la pistola mitragliatrice di fabbricazione Inglese in uso durante la Seconda guerra mondiale e la pistola semiautomatica di fabbricazione tedesca in dotazione all’esercito nazista.
È frequente l’uso di figure retoriche da parte di Italo Calvino, come le similitudini per rendere il testo di più facile comprensione al lettore (es.con ansia un po’ voluta: a toccare la fondina ha un senso di commozione dolce, come da piccolo a un giocattolo sotto il guanciale.). I termini usati sono facili e non si presentano quasi arcaismi, solo qualche termine come “chetare” invece che calmare, oggi più usato.
Frequenti sono i riferimenti lessicali al dialetto, riconoscibili sulla bocca di alcuni personaggi, in altre opere più mature quest’esigenza di una lingua viva troverà sbocco nella vivacità di una lingua italiana nutrita di linfa anche dialettale e popolare. Il tempo della narrazione è il presente. Questa scelta stilistica dà al testo un ritmo veloce, rendendo il testo moderno e “nervoso”.
Tutto il racconto sottende una dimensione fiabesca, come notò per primo Cesare Pavese,[3] anticipando uno dei grandi temi della riflessione e della successiva produzione di Italo Calvino.
Personaggi
Pin
È il protagonista del racconto. È un bambino di bassa estrazione sociale, spesso maleducato, ribelle, pagliaccio e menefreghista. I suoi genitori sono scomparsi quando lui era ancora piccolo. Fin da allora ha cercato spazio nel mondo dei grandi pur non comprendendo il loro strano modo di ragionare, infatti durante la giornata cerca clienti per sua sorella, una prostituta conosciuta in tutto il paese come la Nera di Carrugio Lungo. Non gioca con i suoi coetanei, ma al contrario ha sempre cercato la stima degli adulti, che cercava di far ridere cantando canzoni su cose volgari e da grandi, per le quali manca di consapevolezza (come il sesso, la guerra e la prigione).
Nonostante la sua tenera età, Pin ha vissuto esperienze da adulto: lavorava in una bottega come calzolaio per il padrone Pietromagro e faceva “pubblicità” alla sorella, ma questo non ha cambiato il suo modo di ragionare e di sognare, tipico di un bambino, tanto che non riesce a distinguere il bene dal male a causa della superficialità con cui supera le difficoltà. Frequenta un’osteria dove si ritrovano gli adulti che con lui parlano molto, ma lo usano per calmare i momenti di tensione con le filastrocche cantate o per scopi personali, come quando gli ordinano di prendere una pistola.
Pin non ripone fiducia in quelle persone così diverse da lui, infatti non rivela a nessuno di loro il suo posto magico e segreto, il sentiero dove fanno il nido i ragni. È un personaggio sospeso tra il mondo dei grandi, nel quale cerca di entrare, e il mondo al quale appartiene, ma nel quale non ha mai voluto identificarsi. Pensa che nel mondo dei grandi lui possa trovare un grande amico sincero al quale confidare il suo segreto.
In questa strana ricerca Pin si fa più saggio, perché vive nuove esperienze con la guerra, ma le idee che si farà lo porteranno ad essere ancora più solo. Diventa crudele con la natura forse per sfogarsi, forse per vedere cosa provano gli uomini quando vogliono uccidere loro simili, così si chiede che cosa succederebbe a sparare ad una rana, infilza ragni, seppellisce freddamente il falchetto morto.
Alla fine del romanzo Pin rincontrerà Cugino e capirà di aver trovato un vero amico, a cui possa svelare dove si celano i nidi dei ragni.
Cugino
Il personaggio è descritto come di stazza imponente, un omone possente che assomiglia ad un orco, con baffi spioventi e rossicci, alto, curvo su sé stesso e vestito sempre con una mantellina e un berretto di lana. Il carattere si rivela però buono e caloroso. In seguito ai ripetuti tradimenti della moglie durante la sua missione di guerra, e una faccenda avvenuta con una sua amante poco prima, sviluppa una profonda avversione per le donne, che lo porterà a maturare la concezione che la causa delle tragedie accadute e della guerra siano proprio le donne.
Cugino fa la conoscenza di Pin dopo l’evasione dal carcere, proprio lui lo accompagna al distaccamento del Dritto, il gruppo dei partigiani di cui faceva parte, anche se solitamente preferisce agire da solo. Qui i due approfondiscono la loro conoscenza e Pin inizia a provare un sentimento di amicizia nei suoi confronti. Quest’uomo possente infatti nasconde in sé una dolcezza e una semplicità di sentimenti che lo portano ad essere un grande-piccolo, ma fermo negli ideali, proprio la persona che Pin il “bambino-vecchio”, stava cercando. Infatti Cugino pare non voler fare parte del mondo dei grandi con donne e guerra ma sembra interessato a discorsi infantili, ma in qualche modo ricchi di speranza, come quelli riguardanti i nidi di ragno.
Kim
È il dedicatario dell’opera, oltre ad essere il personaggio di spicco per un intero capitolo, in cui la storia principale resta per un po’ da parte. Il suo ritratto caratteriale rispecchia subito fedelmente la sua storia biografica: come studente universitario in medicina e futuro psichiatra, è un rigoroso e scrupoloso ricercatore di certezze. Da questa peculiarità nasce il discorso serio sulla ragione del furore dell’uomo. Sul rapporto tra storia e senso della storia. Nella trama il personaggio si dimostra profondamente convinto del suo importante ruolo di comandante delle truppe partigiane. Appare tardi sulla scena, infatti arriva la notte prima della battaglia e porta dentro la freddezza della guerra il bisogno di riflettere sulle motivazioni profonde che animano partigiani e repubblichini. Egli riconosce che entrambi gli schieramenti credono di essere nel giusto, ma che solo i partigiani lo sono. Sa che c’è bisogno di certezze, ma non può rinunciare alle domande, soprattutto a quelli più radicali.
Il personaggio di Kim (il nome di battaglia deriva dal Kim del romanzo di Rudyard Kipling) è ispirato al capo partigiano Ivar Oddone (che sarà un famoso medico del lavoro nel dopoguerra) conosciuto da Calvino durante il suo impegno nella Resistenza, e le sue argomentazioni nel suo discorso con Ferriera (che non lo capisce) e nel successivo monologo sono un sunto dei ragionamenti che Calvino e lui facevano fra loro, in quanto unici intellettuali in una brigata composta per lo più di operai e contadini.[4]
Alberto Asor Rosa riconosce in Kim Calvino stesso, che affida al suo alter ego l’unico momento di riflessione teorica presente nel romanzo.[5]
Ferriera
Egli entra in scena nel libro quando deve annunciare la battaglia insieme al commissario Kim. I due partigiani, come ci viene descritto nel capitolo IX, “sono di poche parole: Ferriera è tarchiato con la barbetta bionda e il cappello alpino, ha due grandi occhi chiari e freddi che alza sempre a mezzo guardando di sottecchi…”. Ferriera è un operaio nato in montagna e per questo il suo modo di fare è sempre schietto e limpido, a volte un po’ freddo come quello di tutti i montanari. È sempre disposto ad ascoltare tutti, ma dietro al suo sorriso di convenienza si nascondono le sue vere intenzioni e decisioni: come dovrà schierarsi la brigata, quando dovranno entrare in azione… Avendo sempre lavorato per anni in una fabbrica, è convinto che tutto debba muoversi con perfezione e regolarità, come in una macchina. Ecco perché la sua visione della guerra partigiana è perfetta come una macchina; è l’aspirazione rivoluzionaria cresciutagli nelle officine. A differenza del commissario Kim, il comandante Ferriera sostiene che nello squadrone del Dritto siano stati raggruppati gli uomini che valgono meno e per questo vorrebbe dividerlo. Durante la narrazione, il comandante ci spiega che non bisogna aspettarsi nulla dagli eserciti alleati, sostenendo l’idea che i partigiani da soli riusciranno a tener testa ai nemici. Dopo la scoperta del tradimento di Pelle e il dialogo avuto con il Dritto, Kim e Ferriera si allontanano, ma durante la camminata i due si confrontano. Secondo il comandante, l’idea di Kim era sbagliata, “È stata un’idea sbagliata la tua, di fare un distaccamento tutto di uomini poco fidati, con un comandante meno fidato ancora. Vedi quello che rendono. Se li dividevamo un po’ qua un po’ là in mezzo ai buoni era più facile che rigirassero dritti”. Ma Kim non è dello stesso parere. Secondo lui infatti, quel distaccamento era uno dei migliori, uno dei quali era più contento. Questa opinione suscita in Ferriera una reazione scontrosa. Emerge particolarmente in questo passaggio la diversa formazione educativa dei due personaggi: da una parte abbiamo Kim, studioso e logico; dall’altro Ferriera particolarmente pragmatico. “Non è un laboratorio d’esperimenti” afferma Ferriera, “capisco che avrai le tue soddisfazioni scientifiche a controllare le reazioni di questi uomini, tutti in ordine come li hai voluti mettere, proletario da una parte, contadini dall’altra (…). Il lavoro politico che dovresti fare, mi sembra, sarebbe di metterli tutti mischiati e dare coscienza di classe a chi non l’ha e raggiungere questa benedetta unità… senza contare il rendimento militare poi.” Kim si trova in difficoltà di fronte ai discorsi di Ferriera, ma in un secondo momento afferma che tutti gli uomini combattono nello stesso modo, ognuno con il proprio furore. Nell’analizzare le situazioni Kim è terribilmente chiaro e dialettico, nel parlare schietto e diretto “c’è da farsi venire le vertigini”! Al contrario il suo comandante vede le cose molto più chiaramente.
Il personaggio di Ferriera è ispirato al partigiano Giuseppe Vittorio Guglielmo conosciuto da Calvino durante il suo impegno nella Resistenza[6]
Lupo Rosso
È un sedicenne grande e grosso, con la faccia livida e i capelli rasi sotto un cappello a visiera alla russa. Ha scelto il suo nome durante un discorso con il commissario politico della Brigata. Dice di volersi chiamare come un animale forte (precedentemente era noto come Ghepeù fra gli operai suoi colleghi di lavoro, a causa delle sue continue citazioni di Lenin e della sua ammirazione per l’Unione sovietica, ma il nome non è stato considerato adatto), quindi il commissario gli ha suggerito di chiamarsi Lupo. Lupo Rosso sostiene che Lupo è un animale considerato fascista quindi aggiungono la parola rosso al fine di dare al suo nome di battaglia una sfumatura comunista. Dichiaratamente leninista e dal carattere impetuoso e deciso, è un grande appassionato di armi da fuoco, con cui ha preso particolare confidenza lavorando come meccanico alla Organizzazione Todt. Fa conoscenza con Pin in carcere, avvicinando per la prima volta il bambino alla Resistenza. È tisico, sputa spesso sangue in seguito alle percosse ricevute con frequenza disumana dalle squadracce. Da qui alcuni disturbi legati all’alimentazione, in quanto afferma che non può mangiare e dà a Pin la sua porzione di minestra. Possiede molta fama fra i partigiani e sono tanti a stimarlo per le sue azioni di guerra. Scappa dalla prigione con Pin per vedere con lui il posto magico del bambino e prendere la pistola P.38, ma durante il tragitto si perdono e si separano, a causa dei tedeschi. L’abbandono per Pin significa una dura delusione, Pin infatti vede Lupo Rosso come uno dei pochi esempi di coerenza e di fermezza, uno dei pochi disinteressati alle donne. Pin lo rivede poco tempo dopo, durante un incontro del distaccamento del Dritto con quello del Biondo, del quale Lupo Rosso fa parte. Successivamente Lupo Rosso partecipa all’azione punitiva contro i fascisti e contro Pelle, il partigiano traditore, e recupera molte delle armi collezionate da quest’ultimo.
Il personaggio di Lupo Rosso è ispirato al partigiano Sergio Grignolio (nome di battaglia Ghepeù), conosciuto da Calvino durante il suo impegno nella Resistenza.[6]
Il Dritto
È il comandante del gruppo partigiano a cui appartiene Cugino. Per tutta la durata del libro rimane un comandante forte, che sa guidare i suoi uomini in battaglia e sa farsi rispettare da loro, fino a quando per via dell’amore che prova per la Giglia, la moglie di Mancino, si distrae e lascia bruciare il capanno in cui risiedeva tutta la brigata. Quel gesto di incapacità attira i tedeschi nel luogo in cui erano nascoste tutte le brigate e lo porterà ad essere fucilato alla fine del libro. Il commissario Kim gli fa capire che se andrà in battaglia in prima linea contro i tedeschi potrà riscattarsi e salvarsi, ma lui non va per stare con Giglia (mentre tutti gli altri sono in combattimento), e alla fine – poco dopo la fuga di Pin – viene così arrestato da due partigiani mandati dal comando, per essere fucilato per insubordinazione, mentre il distaccamento verrà sciolto e gli uomini divisi in altri gruppi.
Pelle
Pelle è poco più di un ragazzo, sempre raffreddato e molto irascibile. Infatti, durante una lite col Dritto, si infuria al tal punto da tradire i partigiani. Pelle si occupa di procurare l’armamento ai partigiani (rubandolo) e per esso nutre una vera passione. Dopo una scommessa fatta con Pin, va in cerca della P38 che il ragazzino aveva nascosto nel sentiero dei nidi di ragno, la trova e la lascia in regalo alla sorella di Pin, perché resti in famiglia. Verso la fine del romanzo Lupo Rosso racconta la fucilazione di Pelle e la confisca di tutte le sue armi, tra cui, per l’appunto, si trova un’immensa varietà di fucili e pistole, ma non una P38.
Altri personaggi
Miscel il Francese, Gian l’Autista, Giraffa: uomini che si ritrovano con Pin all’osteria; finiranno a combattere chi con le brigate nere, chi con i partigiani.
Rina detta la Nera di Carrugio Lungo: sorella di Pin, prostituta che frequenta tedeschi e fascisti
Frick: marinaio tedesco, amante della sorella di Pin, a cui il ragazzino ruba la pistola; viene descritto come non molto sveglio e nostalgico della sua famiglia ad Amburgo
Mancino: cuoco del distaccamento del Dritto, comunista convinto e considerato estremista anche da Lupo Rosso, anche se evita spesso di andare in battaglia con varie scuse; ha un falchetto chiamato Babeuf, ma poi lo uccide su insistenza degli altri perché starnazzando attira i nazisti all’accampamento
Giglia: moglie di Mancino, amante del Dritto
Zena il Lungo detto Berretta-di-legno: partigiano genovese, non è comunista anche se sta con i garibaldini
Carabiniere: un carabiniere che ha disertato per combattere i fascisti
Duca, Conte, Marchese, Barone: quattro cognati calabresi
Pietromagro: ciabattino e piccolo truffatore, padrone della bottega dove lavora Pin
La Prefazione del 1964
Nel giugno del 1964 l’editore Einaudi propone una nuova edizione del “Il sentiero dei nidi di ragno”, riveduta e corretta, a cui Calvino scrive una lunga prefazione. La Prefazione o Presentazione diverrà subito un testo fondamentale, in cui Calvino esprime delle riflessioni sulla propria opera.[7] Calvino descrive le ragioni che l’hanno portato a scrivere il libro e parla della responsabilità che ha avvertito, come testimone e protagonista della Resistenza, a perpetuarne la memoria.[8] Avvertendo il tema come troppo impegnativo e solenne, decide di affrontarlo di scorcio, trattandolo cogli occhi di un bambino[3] e per andar contro la «rispettabilità ben pensante», sceglie non di rappresentare i migliori partigiani, ma i peggiori possibili. Ciononostante – dice – loro sono stati uomini migliori di coloro che sono rimasti al sicuro nelle città e nelle campagne, perché spinti da un’elementare voglia di riscatto sono diventati forze storiche attive.[3] Questa idea è riportata nel romanzo per bocca di Kim, il commissario politico.
Tuttavia esprime un senso di delusione: il suo libro, a suo dire, non è riuscito a rappresentare la Resistenza in modo pieno, cosa riuscita soltanto a Beppe Fenoglio in Una questione privata, capace di serbare per tanti anni limpidamente la memoria fedele e a rappresentarne i valori.[3] Scrivere Il Sentiero dei nidi di ragno conclude ha bruciato la sua memoria, ha cancellato i ricordi di
«quell’esperienza che custodita per gli anni della vita […] sarebbe forse servita a scrivere l’ultimo libro, e non […] è bastata che a scrivere il primo»
(Italo Calvino, 1964.)
Premi e riconoscimenti
Nel 1947 il libro presentato al Premio Mondadori viene scartato. Lo stesso anno vince la prima edizione del Premio Riccione.
Influenza culturale
Il contenuto del libro è stato ripreso nel 2005 dai Modena City Ramblers nella canzone Il Sentiero contenuta nell’album Appunti Partigiani.[9]
Edizioni
Il sentiero dei nidi di ragno, Collana I Coralli n.11, Torino, Einaudi, ottobre 1947.
Il sentiero dei nidi di ragno, Nota introduttiva dell’Autore, Collana Piccola Biblioteca Scientifico-letteraria n.63, Torino, Einaudi, 1954. [edizione con testo modificato]
Il sentiero dei nidi di ragno, Con una prefazione dell’Autore, Collana I Coralli, Torino, Einaudi, 1964. [edizione definitiva con testo ancora riveduto, appare in anticipo presso il Club degli Editori]
Il sentiero dei nidi di ragno, Collana Nuovi Coralli n.16, Torino, Einaudi, 1972-1991. – Collana Einaudi Tascabili, 2002.
Il sentiero dei nidi di ragno, Collana Gli elefanti, Milano, Garzanti, 1987-1992.
Il sentiero dei nidi di ragno, Collana Oscar Opere di Italo Calvino, Milano, Mondadori, settembre 1993. – Con uno scritto di Cesare Pavese, Collana Oscar, Mondadori, 2011; Collana Oscar Moderni n.55, Mondadori, 2016-2019.
Una Poesia di Antonia Pozzi scritta nel luglio del 1938
Mattino
In riva al lago azzurro della vita
son corpi le nuvole bianche
dei figli carnosi del sole:
già l’ombra è alle spalle, catena
di monti sommersi.
E a noi petali freschi di rosa
infioran la mensa e son boschi
interi e verdi di castani smossi
nel vento delle chiome:
odi giunger gli uccelli?
Essi non hanno paura
dei nostri volti e delle nostre vesti
perché come polpa di frutto
siamo nati dall’umida terra.
Antonia Pozzi, luglio 1938
Biografia di ANTONIA POZZI (Milano 1912-1938)-Quando Antonia Pozzi nasce è martedì 13 febbraio 1912: bionda, minuta, delicatissima, tanto da rischiare di non farcela a durare sulla scena del mondo; ma la vita ha le sue rivincite e … … Antonia cresce: è una bella bambina, come la ritraggono molte fotografie, dalle quali sembra trasudare tutto l’amore e la gioia dei genitori, l’avvocato Roberto Pozzi, originario di Laveno, e la contessa Lina, figlia del conte Antonio Cavagna Sangiuliani di Gualdana e di Maria Gramignola, proprietari di una vasta tenuta terriera, detta La Zelata, a, Bereguardo. Il 3 marzo la piccola viene battezzata in San Babila ed eredita il nome del nonno, primo di una serie di nomi parentali (Rosa, Elisa, Maria,Giovanna, Emma), che indicherà per sempre la sua identità. Antonia cresce, dunque, in un ambiente colto e raffinato: il padre avvocato, già noto a Milano; la madre, educata nel Collegio Bianconi di Monza, conosce bene il francese e l’inglese e legge molto, soprattutto autori stranieri, suona il pianoforte e ama la musica classica, frequenta la Scala, dove poi la seguirà anche Antonia; ha mani particolarmente abili al disegno e al ricamo. Il nonno Antonio è persona coltissima, storico noto e apprezzato del Pavese, amante dell’arte, versato nel disegno e nell’acquerello. La nonna, Maria, vivacissima e sensibilissima, figlia di Elisa Grossi, a sua volta figlia del più famoso Tommaso, che Antonia chiamerà “Nena” e con la quale avrà fin da bambina un rapporto di tenerissimo affetto e di profonda intesa. Bisogna, poi, aggiungere la zia Ida, sorella del padre, maestra, che sarà la compagna di Antonia in molti suoi viaggi; le tre zie materne, presso le quali Antonia trascorrerà brevi periodi di vacanza tra l’infanzia e la prima adolescenza; la nonna paterna, Rosa, anch’essa maestra, che muore però quando Antonia è ancora bambina. Nel 1917 inizia per Antonia l’esperienza scolastica: l’assenza, tra i documenti, della pagella della prima elementare, fa supporre che la bimba frequenti come uditrice, non avendo ancora compiuto i sei anni, la scuola delle Suore Marcelline, di Piazzale Tommaseo, o venga preparata privatamente per essere poi ammessa alla seconda classe nella stessa scuola, come attesta la pagella; dalla terza elementare, invece, fino alla quinta frequenta una scuola statale di Via Ruffini. Si trova, così, nel 1922, non ancora undicenne, ad affrontare il ginnasio, presso il Liceo-ginnasio “Manzoni”, da dove, nel 1930, esce diplomata per avventurarsi negli studi universitari, alla Statale di Milano.
Gli anni del liceo segnano per sempre la vita di Antonia: in questi anni stringe intense e profonde relazioni amicali con Lucia Bozzied Elvira Gandini, le sorelle elettive, già in terza liceo quando lei si affaccia alla prima; incomincia a dedicarsi con assiduità alla poesia, ma, soprattutto, fa l’esperienza esaltante e al tempo stesso dolorosa dell’amore. È il 1927: Antonia frequenta la prima liceo ed è subito affascinata dal professore di greco e latino, Antonio Maria Cervi; non dal suo aspetto fisico, ché nulla ha di appariscente, ma dalla cultura eccezionale, dalla passione con cui insegna, dalla moralità che traspare dalle sue parole e dai suoi atti, dalla dedizione con cui segue i suoi allievi, per i quali non risparmia tempo ed ai quali elargisce libri perché possano ampliare e approfondire la loro cultura. La giovanissima allieva non fatica a scoprire dietro l’ardore e la serietà, nonché la severità del docente, molte affinità: l’amore per il sapere, per l’arte, per la cultura, per la poesia, per il bello, per il bene, è il suo stesso ideale; inoltre il professore, ha qualcosa negli occhi che parla di dolore profondo, anche se cerca di nasconderlo, e Antonia ha un animo troppo sensibile per non coglierlo: il fascino diventa ben presto amore e sarà un amore tanto intenso quanto tragico, perché ostacolato con tutti i mezzi dal padre e che vedrà la rinuncia alla “vita sognata” nel 1933, “non secondo il cuore, ma secondo il bene”, scriverà Antonia, riferendosi ad essa. In realtà questo amore resterà incancellabile dalla sua anima anche quando, forse per colmare il terribile vuoto, si illuderà di altri amori, di altri progetti , nella sua breve e tormentata vita.
Nel 1930 Antonia entra all’Università nella facoltà di lettere e filosofia; vi trova maestri illustri e nuove grandi amicizie: Vittorio Sereni, Remo Cantoni, Dino Formaggio, per citarne alcune; frequentando il Corso di Estetica, tenuto da Antonio Banfi, decide di laurearsi con lui e prepara la tesi sulla formazione letteraria di Flaubert, laureandosi con lode il 19 novembre 1935. In tutti questi anni di liceo e di università Antonia sembra condurre una vita normalissima, almeno per una giovane come lei, di rango alto-borghese, colta, piena di curiosità intelligente, desta ad ogni emozione che il bello o il tragico o l’umile suscitano nel suo spirito: l’amore per la montagna, coltivato fin dal 1918, quando ha incominciato a trascorrere le vacanze a Pasturo, paesino ai piedi della Grigna, la conduce spesso sulle rocce alpine, dove si avventura in molte passeggiate e anche in qualche scalata, vivendo esperienze intensissime, che si traducono in poesia o in pagine di prosa che mettono i brividi, per lo splendore della narrazione e delle immagini; nel 1931 è in Inghilterra, ufficialmente per apprendere bene l’inglese, mentre, vi è stata quasi costretta dal padre, che intendeva così allontanarla da Cervi; nel 1934 compie una crociera, visitando la Sicilia, la Grecia, l’Africa mediterranea e scoprendo, così, da vicino, quel mondo di civiltà tanto amato e studiato dal suo professore e il mondo ancora non condizionato dalla civiltà europea, dove la primitività fa rima, per lei, con umanità; fra il 1935 e il 1937 è in Austria e in Germania, per approfondire la conoscenza della lingua e della letteratura tedesca, che ha imparato ad amare all’Università, seguendo le lezioni di Vincenzo Errante, lingua che tanto l’affascina e che la porta a tradurre in italiano alcuni capitoli di “Lampioon”, di M. Hausmann. Intanto è divenuta “maestra” in fotografia: non tanto per un desiderio di apprenderne la tecnica, aridamente, quanto perché le cose, le persone, la natura hanno un loro sentimento nascosto che l’obiettivo deve cercare di cogliere, per dar loro quell’eternità che la realtà effimera del tempo non lascia neppure intravedere. Si vanno così componendo i suoi album, vere pagine di poesia in immagini. Questa normalità, si diceva, è, però, solamente parvenza. In realtà Antonia Pozzi vive dentro di sé un incessante dramma esistenziale, che nessuna attività riesce a placare: né l’insegnamento presso l’Istituto Tecnico Schiaparelli, iniziato nel ‘37 e ripreso nel ’38; né l’impegno sociale a favore dei poveri, in compagnia dell’amica Lucia; né il progetto di un romanzo sulla storia della Lombardia a partire dalla seconda metà dell’Ottocento; né la poesia, che rimane, con la fotografia, il luogo più vero della sua vocazione artistica. La mancanza di una fede, rispetto alla quale Antonia, pur avendo uno spirito profondamente religioso, rimase sempre sulla soglia, contribuisce all’epilogo: è il 3 dicembre del 1938.
Lo sguardo di Antonia Pozzi, che si era allargato quasi all’infinito, per cogliere l’essenza del mondo e della vita, si spegne per sempre mentre cala la notte con le sue ombre viola.
Onorina Dino
Biografia tratta da Antonia Pozzi. Nelle immagini l’anima: antologia fotografica, a cura di Ludovica Pellegatta e Onorina Dino, Ancora, Milano 2007
Rivodutri(Rieti)- Spighe Verdi 2023 per il quarto anno consecutivo
Rivodutri 26 luglio 2023-Sono state annunciate le Spighe Verdi 2023: Rivodutri, unico comune della Provincia di Rieti, è tra i 72 Comuni che in Italia hanno ricevuto questo prestigioso riconoscimento, che equivale alla “bandiera blu” delle migliori località marine.
Durante la conferenza nazionale di premiazione si è ribadito come Spighe Verdi sia un premio che riconosce (mediante un sistema di certificazioni internazionali) le azioni mirate e concrete di amministrazioni, imprese e cittadini che concorrono a una gestione virtuosa accertata e condivisa.
Con Spighe Verdi, infatti, si premiano quei comuni rurali che sanno porre al centro sfide importanti: dalla gestione ambientale al turismo, dall’agricoltura – cui sono fortemente vocati – alla cultura e all’enogastronomia, dalla mobilità sostenibile alla protezione e valorizzazione del paesaggio.
Per Rivodutri una conferma che emoziona e che sprona, ancora di più, a impegnarsi e a fare per il futuro.
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