Poesie di Stig Dagerman -Breve è la vita di tutto quel che arde
Traduzione di: Fulvio Ferrari-IPERBOREA casa editrice indipendente fondata da Emilia Lodigiani
DESCRIZIONE-Per la prima volta tradotta in italiano, un’antologia che dà conto di circa dieci anni di attività poetica di Stig Dagerman.
«Un giorno all’anno si dovrebbe immaginare / la morte chiusa in una scatoletta bianca. / A nessuna illusione si dovrebbe rinunciare, / nessuno morrebbe per quattro dollari in banca. // (…) Nessuno vien bruciato all’improvviso / e nessuno per strada ha da crepare. / Certo, è menzogna, son del vostro avviso. / Dico soltanto: Possiamo immaginare.» Stig Dagerman espresse anche in versi la vicinanza agli ultimi e l’umanesimo dolente che in una continua tensione tra speranza e disincanto attraversano la sua multiforme opera in prosa. Negli anni 1944-47 e 1950-54, fino al giorno prima di morire, scrisse per il giornale anarchico Arbetaren oltre 1300 dagsedlar, poesie satiriche a commento della cronaca politica e sociale che con il loro tono diretto contribuirono a fare di Dagerman un riferimento identitario per i giovani libertari della sua generazione. Il metro è per lo più tradizionale, quasi da filastrocca, ma la giocosità della rima e del ritmo potenzia per contrasto la durezza dei contenuti: gli accordi della «democratica» Svezia con la Spagna di Franco, i senzatetto di Stoccolma lasciati al freddo, i bambini armati per combattere le guerre dei grandi. Ai brevi componimenti di denuncia, questo volume affianca una scelta di versi in cui la forma irregolare insieme alla riflessione sulla condizione umana, pur sempre intrecciata all’impegno politico, avvicina l’autore alle avanguardie internazionali e ben accoglie simboli e metafore della sua narrativa. Una lettura toccante che aggiunge un tassello significativo al ritratto di uno sperimentatore instancabile al quale ancora oggi s’ispirano scrittori, giornalisti e musicisti di tutta Europa.
Stig Dagerman
Stig Dagerman
Stig Dagerman
Approfondimento
«Abbattete i poveri». E Dagerman si spense
Data: 1 Dicembre 2022
Recensione di Angelo Ferracuti a «Breve è la vita di tutto quel che arde» di Stig Dagerman, apparsa su La Lettura il 6 novembre 2022
Tutta la letteratura di Stig Dagerman è fortemente permeata di esistenzialismo politico e coerenza tematica, ma anche da un contrasto molto forte tra io e mondo, istinto di libertà, desiderio di giustizia sociale contrapposti alla brutalità del potere. Come la sua cristallina postura di autore è segnata da una combattività angosciata e a volte disperata, che pendolareggia tra sogno utopico e disincanto, speranza e disillusione, e da una militanza totale nel movimento libertario svedese vissuta a microfono aperto nella sua breve vita, iniziata nel 1923 e finita a soli 31 anni nel 1954 quando morì suicida al culmine del successo editoriale.
In poche stagioni ci ha lasciato alcuni libri di rara forza espressiva, valore letterario e trasporto emotivo, la passione e la purezza delle raccolte di racconti, romanzi come «Bambino bruciato», «I giochi della notte», «Il serpente», l’esordio del «1945», il lancinante «Il nostro bisogno di consolazione», un breve ma intensissimo monologo filosofico sulla tensione dell’uomo verso la felicità, il bisogno di libertà e lo schiacciante sistema di dominio sociale, che può reputarsi il suo testamento intellettuale; i reportage lirici di «Autunno tedesco», quando fu inviato da l’«Expressen» nel 1946 in Germania fra le macerie di Amburgo, Berlino, Colonia, a raccontare il Paese sconfitto, tutti libri fedelmente editi da Iperborea.
Un’altra componente di Dagerman e della sua letteratura è la ricerca ossessiva della coerenza visionaria attraverso quella che ha definito «La politica dell’impossibile», nella letteratura e nella vita, titolo di un libro di saggi, avversa a quella «Realpolitik», la politica concreta, pragmatica, dello status quo, dei compromessi e della rinuncia al cambiamento, schiacciata dal giogo economico.
Adesso esce il libro delle sue poesie politiche, «Breve è la vita di tutto quel che arde» (Iperborea) tradotto e curato con rigore e passione da Fulvio Ferrari, professore ordinario di Filologia germanica all’università di Trento, ma soprattutto grande conoscitore e divulgatore delle letterature scandinave. Si tratta di una scelta del suo corpus poetico che mette insieme testi sparsi ai «dagsedlar», dispacci quotidiani spesso scritti in rima affidati al giornale anarchico «Arbetaren» («L’operaio»), di cui era redattore, che però nel linguaggio corrente significa anche «ceffoni» per la loro immediatezza e vicinanza ai fatti di cronaca.
Insieme agli accadimenti storici c’è anche la vena esistenzialistica e romantica dello scrittore svedese: l’incrocio di questi due elementi è la sua cifra, il suo conio profondo che percorre tutta la sua opera, dentro quell’angoscia e paura prodotte dalla Seconda guerra mondiale che ne è il tellurico fondale storico.
Nel libro si alternano differenti stili compositivi, riflessioni intimistiche sulla condizione umana e il senso della vita, così come testi di impegno sociale come l’intenso «No pasarán» dove commemora l’epica tragica della guerra di Spagna con tutta la sua verve antifranchista, un inno alla lotta, alla resistenza.
La poesia di Dagerman ha una urgenza politica, ma soprattutto esistenziale, stilistica, la forma è il suo fuoco, la forma che incrocia gli ideali dei «Cuori ardenti» di cui parla in un saggio, anche per questo lo sentiamo contemporaneo e fratello, la sua letteratura è viva. I «dagsedlar», scritti con caustica ironia, hanno spesso l’andamento di una filastrocca, un gusto agrodolce, nel senso che ibridano lo stile cantilenante del verso con contenuti di dura crudezza, spietati, del palcoscenico impazzito del mondo, e nascono sempre da una notizia di cronaca.
I temi sono l’antimilitarismo, la bomba atomica, la condizione umana degli ultimi, la violenza sui bambini, un argomento molto caro a Dagerman, siano essi i senzatetto svedesi o gli africani dannati della Terra, i neri americani condannati a morte e portati al patibolo, come in «Due volte morto»: «Tutti quanti abbiamo da imparare,/ ci si allena ore e ore per fare il boia./ Che importa come un negro può campare,/ Quello che conta è che un negro muoia».
L’anarchico ribelle, quello che dice di voler opporre il potere delle sue parole «a quello del mondo, perché chi costruisce prigioni s’esprime meno bene di chi costruisce la libertà», è anche al fianco dei lavoratori insorti in Germania dell’Est contro il regime comunista: «Quante volte il popolo avete chiamato./ Ora rispondiamo: Siam qui, siamo arrivati./ Fatevi avanti, popolari signori/ – e se vi è possibile, disarmati!».
L’ultima poesia scritta da Dagerman si intitola «Attenti al cane!», pubblicata il 5 novembre 1954, e nasce dopo avere letto la dichiarazione di un responsabile della Previdenza sociale di Värmland, una contea che si trova nella parte occidentale del Paese: «Certo è deplorevole che gente che vive di sussidi tenga poi un cane» fu l’affermazione indignata di una persona probabilmente appartenente alla ricca borghesia svedese.
Stig Dagerman il ribelle, lo scrittore nato nel cuore del proletariato e figlio di un operaio artificiere poverissimo e di una telefonista, quello posseduto dal radicalismo che giovanissimo diresse «Storm», il giornale della gioventù anarchica, reagisce a queste parole scrivendo versi venati di ironica indignazione, descrive la gente dei bassifondi come quelli che «stanno in stanzette strette e fosche/ con i loro bastardi costosi», poi la denuncia arriva con un’invettiva provocatoriamente sarcastica: «Ora è il momento di esser risoluti:/ Abbattere i cani! Non è buona cosa?/ E siano poi anche i poveri abbattuti,/ così il Comune risparmia qualcosa».
La poesia fu pubblicata il giorno dopo la sua morte, l’aveva scritta ventiquattr’ore prima di uccidersi con il gas di scarico della sua automobile.
Dopo una serie di tentativi di suicidio non riusciti, sprofondato in una cupa depressione, questa volta aveva organizzato tutto, scrivendo persino l’epitaffio per la sua lapide: «Qui riposa/ uno scrittore svedese/ caduto per niente/ sua colpa fu l’innocenza/ dimenticatelo spesso».
Stig Dagerman
Stig Dagerman
Stig Dagerman
Stig Dagerman
PAOLO RUFFILI-LE POESIE DI DAGERMAN- Fonte sito www.italian-poetry.org
Stig Dagerman (1923-1954), svedese, è uno di quei talenti precoci che compiono tutto quello che li riguarda creativamente parlando entro i trent’anni, indipendentemente dal fatto che si sia deliberatamente tolto la vita al compimento dei 31 anni. Del resto aveva tentato di farlo qualche altra volta già prima e, a spiegarne almeno in parte la prospettiva autodistruttiva, c’è la sua vicenda biografica, anche se l’autore più tardi ha descritto l’infanzia come l’epoca forse più felice della sua vita. Ma, in seguito all’abbandono da parte della madre nei primissimi mesi dopo la nascita e per la difficoltà del padre minatore di garantire le condizioni essenziali alla crescita, il piccolo Stig fu ospitato e cresciuto dai nonni paterni. Nei nonni, similmente a quanto accadde allo scrittore austriaco Thomas Bernhard (con il quale c’è più qualche altra somiglianza sul piano della scrittura), trovò delle figure vivaci, rassicuranti ed intellettualmente stimolanti, dunque le prime condizioni per il futuro percorso intellettuale. L’uccisione del nonno nel 1940 da parte di uno squilibrato e, poco tempo dopo, la perdita della nonna colpita da una emorragia cerebrale, portarono Dagerman a commettere il primo di una serie di tentati suicidi. Trasferito a Stoccolma dal padre, a soli tredici anni poté avvicinarsi all’anarchismo e al sindacalismo e iniziò precocemente l’attività di scrittore in seno all’Unione Sindacale Giovanile, per poi diventare redattore del giornale Storm (La tempesta), per passare più avanti ad occuparsi di fatti di cronaca, nel combattivo giornale anarcosindacalista Arbetaren (L’operaio). La sua produzione ebbe un’accelerazione legata a un’energia esplosiva incontenibile: drammi teatrali, racconti, saggi e reportage, scritti satirici, poesie, romanzi. Divenne un originale esponente della letteratura quarantista, capitanata da Karl Vennberg e Erik Lindegren, e resta a tutt’oggi una figura mitica della letteratura svedese. Iperborea, che ha pubblicato romanzi e racconti, manda in libreria di Dagerman, Breve è la vita di tutto quel che arde (traduzione e cura di Fulvio Ferrari), poesie esistenziali, vivide e tormentate nei loro affondi dentro i labirinti della psiche, e poesie satiriche, a commento potente della cronaca politica e sociale del suo tempo. Sono versi sempre intensi, scritti in uno stile che attraverso l’ossessione, l’analisi impietosa, la satira amara, mira a mettere in scacco tutte le maschere di comodo dell’esistenza svelandone la realtà di tragedia e di farsa.
L’Autore
Stig Dagerman
Stig Dagerman –Anarchico lucido e appassionato incapace di accontentarsi di verità ricevute, militante sempre in difesa degli umiliati, degli offesi e dell’inviolabilità dell’individuo, Dagerman appartiene alla famiglia dei Kafka e dei Camus e resta nella letteratura svedese una figura culto che non si smette mai di rileggere e riscoprire. Segnato da una drammatica infanzia, intraprende molto giovane una folgorante carriera letteraria bruscamente interrotta dalla tragica morte, lasciando quattro romanzi, quattro drammi, poesie, racconti e articoli che continuano a essere tradotti e ristampati. Iperborea ha pubblicato Il nostro bisogno di consolazione, Il viaggiatore, Bambino bruciato, I giochi della notte, Perché i bambini devono ubbidire?, La politica dell’impossibile, Autunno tedesco e Il serpente.
casa editrice Iperborea- Chi siamo
Iperborea è una casa editrice indipendente fondata da Emilia Lodigiani nel 1987 per far conoscere la letteratura dell’area nord-europea in Italia.Primi a esplorarla in maniera sistematica, si è potuto farlo con vasta libertà di scelta e una produzione di altissima qualità, che spazia dai classici e premi Nobel, inediti o riproposti in nuove traduzioni, alle voci di punta della narrativa contemporanea.
Oltre ai paesi scandinavi (Svezia, Danimarca, Norvegia e Finlandia), Iperborea pubblica letteratura baltica, nederlandese, tedesca, canadese, islandese (incluse le antiche saghe medioevali), una collana di narrativa per l’infanzia (I Miniborei) e una serie dedicata alle strisce dei Mumin di Tove Jansson.
Dal 2018 lancia la serie The Passenger, un libro-magazine che raccoglie inchieste, reportage letterari e saggi narrativi che formano il ritratto della vita contemporanea di un paese o una città (non solo del Nord Europa) e dei loro abitanti. Dal 2020 The Passenger è tradotto anche in inglese, pubblicato e distribuito in tutto il mondo in coedizione con Europa Editions.
Nel 2021 è arrivata la serie Cose Spiegate bene, in collaborazione con il Post: ogni numero è dedicato all’approfondimento di un tema, attraverso articoli, infografiche e illustrazioni originali.
Inoltre, dal 2015, Iperborea organizza a Milano e in varie città d’Italia il festival I Boreali, dedicato alla cultura nordica.
Enrico Marià (Novi Ligure, 1977)ha pubblicato le raccolte: Enrico Marià (Annexia 2004); Rivendicando disperatamente la vita (Annexia 2006); Precipita con me (Editrice Zona 2007); Fino a qui (puntoacapo 2010); Cosa resta (puntoacapo 2015), I figli dei cani (puntoacapo 2019). Ha preso parte alle antologie: Genovainedita (Galata 2007); Atti della II Fiera dell’Editoria di Poesia. Pozzolo Formigarogiugno 2008 (puntoacapo 2008); Dolce Natura, almeno tu non menti (Zona 2009); La giusta collera (CFR 2011); Oltre le nazioni (CFR 2011); Poesia in Piemonte e Valled’Aosta (puntoacapo 2012); Il ricatto del pane (CFR 2013); Poeti di Corrente (Le Voci della Luna 2013); Cronache da Rapa Nui (CFR 2013); La festa e la protesta. Atti della XVI Biennale di Poesia di Alessandria (puntoacapo 2013); Poesia in provincia di Alessandria (puntoacapo 2014); Comunità nomadi (deComporre 2014); Bukowski. Inediti di ordinaria follia (Giovane Holden 2014); Ad limina mentis (deComporre 2014), Il Fiore della Poesia Italiana (puntoacapo 2016). È tradotto in lingua inglese e spagnola.
Enrico Marià -Poesie
Per i dimenticati
Dormire con la luce accesa
alla tosse dei ragni
la sensazione che quasi tutto si fermi
prima dell’inutile provarci
che i bambini lo sanno
come in carcere
i nuovi arrivati.
*
Eco del mio sangue
tu, giostra incarnazione
la lacrima candela
padre patria
l’angelo profano.
*
La carne degli affetti
una sfera che si schiude
quando scarcerato dal corpo
il cielo ulteriore.
*
Sembrano un parto
i monconi felici
a morirsi ali di fionda
questa luna tagliata
gli argini impotenti
dell’abbandonare
l’impossibile
cancro delle rose.
*
Il sacro amore
di chi non può il toccare
che con la cinghia degli occhi
tavola bianca
le vostre mani.
*
Ci sono di nuovo
i servizi del Diurno
docce e guardaroba
che non m’interessa
la prevenzione dal contagio
spiegami la morte
il fare da madre
alle macchie sul lenzuolo
lo stato brado
di un ragazzo lupo.
*
Che cos’è il mio vuoto
un vangelo di orchidee
le rose sdentate
la sacra luce
del cielo spaventato.
*
Tu dentro il cielo
un’ansia di neve
che impara l’estate.
*
Nel cognome di mia madre
sono iridi pozzi gli zigomi
l’armistizio dei suoi occhi
l’astinenza dal morire.
*
Dimmi il valere
ancora il qualcosa
l’essere assolto
abitando cani carezze
le palpebre del costato.
*
Dentro i lupi
la lobotomia
degli angeli
l’allearsi a morire
con le siepi del vetro.
*
Restami incrollata
tu ti prego
nebulosa e netta
seno di foglia.
“Terrore di amarti in un posto così fragile come il mondo / pena di amarti in questo luogo di imperfezione / dove tutto ci spezza e ammutolisce / dove tutto ci mente e ci separa.”
Il mondo come luogo fragile, imperfetto, manchevole dove tutto frana e immobilizza, dove il sentimento più alto trema come un astro, già nel suo dirsi, traccia l’anatomia del distacco. In esergo le parole della poetessa portoghese Sophia de Mello Breyner Andresen come manifesto per questa raccolta di amara bellezza di Enrico Marià La direzione del sole, per la Collana “i Venti”, La Nave di Teseo, 2022 con una luminosa prefazione dei fratelli D’Innocenzo: “Sentiamo che Marià, quando mise il primo misero piede in quel mistero non interessante che era l’infanzia, per prima cosa abbia avuto il coraggio e l’infamia di prendere un pezzo di carta e mettersi a scrivere. […] la sua poesia è un inferno strabico […] Uno così non viene perdonato”. Gli afflitti, i diseredati, i dimenticati, tutte le categorie degli ultimi trovano qui il loro spazio, fulgore dei vinti e dei martirizzati. Nella crepa che fa il mondo, quel dirsi umani più del vetro, fallaci, fallibili, in una disperata ricerca di riscatto, incontra un cielo strappato che mendica l’azzurro innocente dell’infanzia, terreno onirico e ancestrale per eccellenza. Sull’orlo dell’abisso che si mostra in tutto il suo indicibile oltraggio, ad elevare il canto è il corpo “fratturato”, un dolore denso e bianco di linfa, ammutolito e immobilizzato in un silenzio di neve “Le brusche fratture / d’ogni impulso d’amore / che ci spaesano saliva / aghi di pioggia / gli oceani cani”. L’innocenza spalancata di fronte alla pungente celebrazione della sua fine, la cruda cessazione dell’ingenuo “l’eterna vergogna / di noi scimmie bambine”, e al contempo un tenace “addestramento alla purezza”. Versi che incidono la pagina con il bisturi della parola, una parola asciutta, furibonda, efferata. Una favola nera dell’infanzia, nella quale riverbera l’eco del sangue, uno struggente spaccato dell’anima che come un ritratto caravaggesco mostra le sue zone lacerate di ombra e di luce agognata. Un furore di tenebra che scrive con il fuoco e con un grido acuto, soffocato, lontanissimo “Margini muti d’attrito / la presa spalancata bocca / papà, tu il mio grido / i globuli della luce nera”.
L’abuso del corpo “bersaglio” e dell’anima straziata, dopo l’incestuosa e dolente conquista di quella regione profonda del cuore, scardinata dalla colpa di un altro “Dopo il mondo sarà d’amore / la colpa di essere vivi / e non la luce che non scrive / ma l’alba, le sillabe del fuoco”. Tutta la tragicità del mondo si rivela nella essenzialità dei componimenti, in alcuni casi veri e propri frammenti, uno stile netto con picchi metaforici di nostalgica memoria, una scelta lessicale che scoperchia ogni lemma e fredda il lettore con il bagliore di una lama silenziosa, facendo sanguinare l’urlo più coriaceo e antico, “l’orfano remoto”. L’abuso, la violenza, il carcere, la psicosi, la droga, una notte nera e infinita che stenta a lasciar intravedere una scheggia di luce nel corpo trafitto, esposto come un sacrificio “Di un bianco sacrificio agnello”. Marià fa cadere ogni orpello, ogni eccesso interpretativo, ogni artificio a favore di una lingua che non conosce tregua né compromesso, una fibra nervosa impastata di natura materica e celeste, sviscerata e profetica, sempre in punta di perdono “La carne degli affetti / una sfera che si schiude / quando scarcerato dal corpo / il cielo ulteriore”.
La sua architettura di significati è un terreno di fantasmi dal quale la scrittura, con la sua potenza di memoria, morte e redenzione, tenta disperatamente di raschiare via la più piccola particella di abominio. La parola poetica si fa perla e fluorescenza, lo spettro visibile di una regione del cuore segregata che riflette le miserie dell’esistenza nel suo pronunciare tutti i toni del vero “Coni di luce contrapposti / noi i disabbracciati / a cicatrice dei nomi”. E su questo scenario di macerie e tirannie, su questi “cani crocifissi” una presenza materna e connaturale alla terra sembra muoversi a passi lenti nello spazio del racconto, gravida di carezze mancate, implorate e negate dall’eterno coro dei “bambini spalancati” “Una grondaia d’ali / e strati di foglie, / come una delicatezza di cani / la mia fredda pancia di madre”. Marià ci fa entrare in zone oscure del vivere per poi risalire dal fondo nero del paesaggio, brandendo il candore di un’ala angelicata, il soffio fugace di farfalla, la spina dolorosa, il fiore trafitto dell’innocenza, il bocciolo perduto, mentre l’ombra del sopruso, della barbarie, della fragilità offesa e vituperata sembra cannibalizzare l’intera scena. Creature antichissime popolano la scena, oniriche presenze quasi a voler testimoniare le miserie della creaturalità tutta “I delfini madre e le foglie / che al seno degli alberi / si issano gusci i tossici / quando in branco di latte / corrono neve vergine / “la rotta dei suicidi”.”
E in chiusura di prefazione i fratelli D’Innocenzo, nel riportare un passo di Antonio Moresco “E vorrei una lettura che non lasci residuo, come la fiamma brucia tutto ciò che incontra, e se anche la scrittura di questo libro è così, allora che sia una fiamma che brucia un’altra fiamma” rifilano la fredda lama della parola incendiaria di Marià, quel suo condurci in un “potentissimo altrove”, dove riecheggia senza sosta “questo restare non nati”, noi tutti, ugualmente “corpi fragili, nostalgia di creature”.
Paola Mancinelli (Taranto, 1974). Approfondisce gli studi filosofici e teologici, ottenendo il titolo di Magistero in Scienze Religiose. È poeta e artista visuale. È presente nel volume Taranto, citta della poesia, a cura di Silvano Trevisani, Macabor (2022), nel volume Sud. Viaggio nella poesia delle donne (Volume secondo), a cura di Bonifacio Vincenzi, Macabor (2020). Ha pubblicato il libro di poesie La resa del grazie, Ladolfi (2019). È presente nelle raccolte poetiche Sud. I poeti (Volume sesto), a cura di Bonifacio Vincenzi, Macabor (2019), Il corpo, l’eros, Ladolfi (2018), Close up. 0.10 Atti introspettivi di Sara Liuzzi, Gangemi (2018), Parole Sante, Kurumuny (2015). Ha pubblicato il libro d’artista Poesia, tempo presente. La parola e il tempo, Print Me (2014). Ha curato insieme ad Antonella De Biasi l’Antologia di AA.VV. Cartoline dalla Puglia per L’Erudita, Giulio Perrone (2023). Riceve il Premio Speciale della Giuria nella 2ª Ed. del “Premio Poesia Inedita Poeti Oggi 2022”, il Primo Premio della 9ª Ed. del Concorso Internazionale di Poesia “Parasio – Città di Imperia” 2022 e il Gran Premio della Giuria nella 29ª Ed. del Premio Nazionale di Poesia Inedita “Ossi di seppia”. Fa parte della redazione online della rivista Atelier per la quale cura la rubrica Visuale sul Novecento.
Biblioteca DEA SABINA- La rivista «Atelier»
La rivista «Atelier» ha periodicità trimestrale (marzo, giugno, settembre, dicembre) e si occupa di letteratura contemporanea. Ha due redazioni: una che lavora per la rivista cartacea trimestrale e una che cura il sito Online e i suoi contenuti. Il nome (in origine “laboratorio dove si lavora il legno”) allude a un luogo di confronto e impegno operativo, aperto alla realtà. Si è distinta in questi anni, conquistandosi un posto preminente fra i periodici militanti, per il rigore critico e l’accurato scandaglio delle voci contemporanee. In particolare, si è resa levatrice di una generazione di poeti (si veda, per esempio, la pubblicazione dell’antologia L’Opera comune, la prima antologia dedicata ai poeti nati negli anni Settanta, cui hanno fatto seguito molte pubblicazioni analoghe). Si ricordano anche diversi numeri monografici: un Omaggio alla poesia contemporanea con i poeti italiani delle ultime generazioni (n. 10), gli atti di un convegno che ha radunato “la generazione dei nati negli anni Settanta” (La responsabilità della poesia, n. 24), un omaggio alla poesia europea con testi di poeti giovani e interventi di autori già affermati (Giovane poesia europea, n. 30), un’antologia di racconti di scrittori italiani emergenti (Racconti italiani, n. 38), un numero dedicato al tema “Poesia e conoscenza” (Che ne sanno i poeti?, n. 50).
Direttore responsabile: Giuliano Ladolfi Coordinatore delle redazioni: Luca Ariano
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-Poetessa-Deportata ad Auschwitz sopravvissuta alla Shoah :”Testimonierò finché avrò fiato “
Roma- Intervista ad Edith Bruck, scrittrice, poetessa e sopravvissuta alla Shoah. Deportata ad Auschwitz quando aveva solo 13 anni ha dedicato decine di opere a raccontare la sua storia-Il 29 ottobre, presso il Centro bibliografico dell’ebraismo italiano “Tullia Zevi” a Roma, si è svolto l’evento di avvio della seconda edizione del progetto didattico «Tra Resistenza e Resa. Per sopravvivere Liberi! 80 voglia di libertà!», promosso dalla Commissione storica dell’Ucebi e dalla Fondazione Cdec. A quell’evento è intervenuta la scrittrice, poetessa, testimone della Shoah, Edith Bruck a cui abbiamo rivolto alcune domande.
– Nella sua scrittura convivono due lingue: quella dell’infanzia, l’ungherese, e quella dell’età adulta, l’italiano. Per raccontare la sua vita, ha scelto l’italiano. Che cosa l’ha spinta a fare questa scelta?
«Voglio dire subito che non ho mai scelto nulla nella vita, non avevo la possibilità di scegliere. Sono arrivata in Italia nel 1954, dopo tantissimi pellegrinaggi, passando per i campi di concentramento, e vagabondando per l’Europa distrutta. Sono arrivata per puro caso a Napoli e lì ho avuto una sensazione molto strana. La gente mi guardava, mi sorrideva, e mi sembrava che mi stessero dicendo: “Rimani qui!”. È stata una sensazione che non posso spiegare bene, ma sentivo che in quel paese avrei potuto vivere. Così sono rimasta. Mi sono trasferita a Roma, ho fatto vari lavori, e ho preso lezioni di grammatica italiana. Lentamente ho imparato la lingua. Devo precisare che prima di scrivere il mio primo libro in italiano, avevo scritto in ungherese nel 1946 Chi ti ama così. Quando sono uscita dall’Ungheria, l’ho fatto clandestinamente. Dopo la guerra, al ritorno dai campi, ho trovato un paese che viveva sotto il comunismo, che non era certo migliore del fascismo. Così ho lasciato l’Ungheria e ho dovuto abbandonare le poche cose che avevo scritto in ungherese, tra cui anche quel mio primo scritto. Dopo essere arrivata in Italia, ho pubblicato il mio primo libro in italiano nel 1959, un’autobiografia. Scrivere è stato un atto necessario per me: scoppiavo di parole, avevo bisogno di liberarmi da quell’inferno che rischiava di rimanere dentro di me per sempre».
– Quale significato attribuisce alla lingua italiana?
«Innanzitutto, per me essa rappresenta una salvezza, una barriera protettiva. Nella lingua materna sono stata offesa, umiliata, insultata. Nel ’42, non potevamo nemmeno uscire per strada senza rischiare di essere aggrediti o insultati. Nel 1944, non furono i tedeschi ma i fascisti ungheresi, le croci frecciate, a bussare alla nostra porta e a deportarci. Avevo solo 13 anni quando un ragazzino in divisa da gendarme, che non arrivava ai 20 anni, schiaffeggiò mio padre, che non aveva nemmeno 50 anni. In quel momento capii che qualcosa era finito per sempre. Sono stata prima ad Auschwitz, poi ci trasferirono a Bergen-Belsen, attraverso le famose marce della morte. Partimmo in mille, ma arrivammo vive in meno di 50. Ci portarono in un campo degli uomini, una “tenda della morte”, dove il pavimento era coperto di cadaveri. Lì alcuni uomini morenti mi dissero: “Se sopravvivi, racconta. Non ci crederanno, racconta anche per noi”. Promisi che l’avrei fatto. La mia sopravvivenza è stata anche una testimonianza per quelli che non hanno potuto raccontare. Per me testimoniare è un dovere morale, e continuerò a farlo finché avrò fiato».
– In Ungheria, le leggi razziali precedettero quelle italiane di due anni. Come vede la situazione attuale in Ungheria e in Europa?
«È triste constatare che l’antisemitismo è ancora presente, anche in Ungheria, dove il governo di Orbán alimenta una politica di chiusura. In tutta Europa, vediamo risorgere i partiti di destra e i movimenti che rievocano ideologie pericolose. La situazione mi preoccupa molto, ma continuerò a testimoniare la mia esperienza, a raccontare, perché credo che ogni vita sia preziosa e che nessuno debba mai dimenticare quello che è accaduto».
– Lei è anche traduttrice, grazie al suo lavoro molti italiani hanno conosciuto i poeti ungheresi Miklós Radnóti e Attila József…
«Tradurre è un lavoro difficile, perché bisogna entrare nello spirito della poesia. Miklós Radnóti è stato una grande fonte di ispirazione per me. Quando ho tradotto la sua poesia, ho sentito che, pur nel dolore e nella morte, c’era una ricerca di speranza. Tradurre queste voci è stato un modo per farle vivere ancora, per farle arrivare anche agli italiani».
– Quali sono le sue prossime pubblicazioni?
«È uscito da pochi giorni libro Oltre il male, scritto con Andrea Riccardi, edito da Laterza. Poi, nel 2025, pubblicherò una nuova raccolta di poesie dal titolo Le dissonanze. Si tratta di una raccolta suddivisa in due parti. La prima è sempre legata alla memoria di mia madre, di mio padre, e di mio fratello, che non ha mai scritto e ha parlato della tragica esperienza dei campi di concentramento solo una volta. Dopo la guerra, gli chiesi perché non riuscisse a raccontare. Alla fine, con molta difficoltà e una voce flebile, trovò il coraggio di dire che una volta, al suo ritorno da una giornata di lavoro forzato, vide che il giaciglio di mio padre era vuoto. Chiese al medico: “Dov’è mio padre?”, ed egli rispose che quel giorno erano morti tanti prigionieri, e che poteva andare fuori a cercarlo. Mio fratello ritrovò mio padre tra i cadaveri: l’aveva abbracciato, gli aveva chiuso gli occhi e aveva cercato uno straccio per coprirlo, perché era nudo. Poi lo lasciò lì, tra centinaia di corpi. Mio fratello raccontò questa storia una sola volta, e non abbiamo saputo mai nulla della sua esperienza nei campi: né cosa pensava né come sopportava le sofferenze di quei giorni. Aggiunse solo: “Non chiedetemi mai più niente”.
Nella seconda parte della raccolta, invece, parlo delle molestie sessuali che ho subito in passato, senza fare riferimenti espliciti ai nomi, ma evocando personaggi noti tra cui uno scrittore, un regista, un giornalista, uomini molto noti in Italia, che si sono comportati in modo indegno. Continuerò a testimoniare per tutta la vita che mi resta, dando voce a chi ha vissuto ciò che ho vissuto io: non solo mio fratello ma i tanti milioni di persone uccise dalla furia nazifascista. Credo che ogni vita sia preziosa e che sia importante raccontare, affinché non si dimentichi».
Articolo e intervista di Deborah D’Auria-
Fonte –Riforma .it- Il quotidiano on-line delle chiese evangeliche battiste, metodiste e valdesi in Italia.
Poesie di Massimo Ferretti “Allergia” (1952-1962)-
Giometti & Antonello Editori-Macerata
Una volta ancora, la casa editrice Giometti e Antonello di Macerata ha fatto insorgere con le Poesie di Massimo Ferretti un’opera fondamentale da quella cupa fangaia dove vengono gettati gli autori di cui non si è potuto fare un calco preciso. In questo caso si tratta di Allergia, breviario dell’inappartenenza composto dal poeta Massimo Ferretti e stampato per Garzanti nel 1963: «Nella mia vita il viaggio resta il segno / di ciò che doveva essere la vita / se l’avessi capita troppo tardi. / Ma ho capito tutto troppo presto / e ogni viaggio è uno spostamento / da una solitudine a un silenzio». Lette oggi, queste sue parole imbevute di torto mi appaiono come lividi in rilievo, e in ogni nicchia gelata vi spio una lotta per riportarvi calore.
Nato a Chiaravalle il 13 febbraio del 1935, Ferretti morirà a 39 anni a causa di un problema cardiaco, quell’endocardite reumatica che contribuì a fare della sua esistenza il resoconto di chi del mondo ha visto soprattutto le secche, le stretture, e che nonostante ciò ha sparso un rigo d’inchiostro per ogni fitta: «Il suo sperimentare» scriverà Pasolini «non è altro che il suo attaccarsi alla vita: un solo gesto, cioè, che per valere deve essere sempre diverso.». Certo: Ferretti si tormenta, prende congedo, e sembra tramare uno sciopero ogni volta che va a capo. Eppure è proprio questo tenace adoprarsi per fare del libro un perenne scuotimento che bisogna insistere a chiamare poesia.
Così il verso di Ferretti, proprio quando sembra ripararsi nella soffitta della decadenza, ci esorta piuttosto a stravolgere la rovina, a guastare festosamente qualsiasi sentore di prosciugamento, di siccità. Soprattutto, a reclamare la vita: «[…] Ma resterò. Resterò a rincorrere la vostra perfezione di selvaggi […] Ma sappiate che io non so nuotare: e il coltello dell’odio e dell’amore l’ho sepolto nel mare».
Di seguito, pubblico una selezione di poesie dal volume, per gentile concessione degli editori, che ringrazio.
Massimo Ferretti
Da Ad un giradischi
(Il Donchisciotte della Rabbia)
[…]
Volevo andare a scuola d’ottimismo
quando mi accorsi d’essere felice.
Come chi dice di fotografie lasciate
allo stato negativo
per confortare di contorni bianchi
il buio delle parti addette all’anima
e un alfabeto d’onomatopee:
rutto / pernacchia / fischio / gargarismo /
e un finale a sorpresa di
risate.
È aperto – vi prego – non bussate.
***
Da I versi urbani
Tra il pollice e l’indice è tesa
un’arpa di nichel o d’argento…
… colore incontrollabile!:
con il lampione lontano
e l’interruttore sul muro
alle spalle della finestra
da cui ti contemplo dormire.
Ma in questa minuscola rete
è presa «tutta la storia»:
i tetti del centro
gli alberi del rione
la Cupola e l’Antenna
Eliogabalo e Accattone
Catullo e Sandro Penna
i preti i preti i preti
le stelle i culi le mammelle
il muschio dei governanti
i vespasiani i ruderi i fascisti
la libertà del meccanismo
i direttori i redattori i professori
i feti gli aborti i figli –
i sette colli della tua leggenda
e i sette giorni della mia settimana…
Città-capitale,
io ti guardo dal filtro della sostanza
che ho estratto dai buchi del naso
con l’unghia del dito minore.
***
Da Deoso
[…]
Già sento malfidi tremiti,
ecco che il falbo sole s’assiepa!
Il fluire di rabidi fermenti diviene costante… Ecco strabocca!
Ti s’è svegliato il cuore! Sobbuglia!
Più forte ansima su di me con le tue creste,
squassa, divelgi, sfacela questo corpo
che avvelena l’aria che respira
che agita la sabbia dei deserti
che toglie luce al sole.
Il tuo rabbuffoso fermento,
credimi, non è un tormento.
Arremba su di me una sola minaccia:
che tu ti stenda in quieta bonaccia.
E già grandeggia il rumore del silenzio,
seviziatore e tiranno dei suoni…
Lontani si protendono i monti,
dai bivacchi dei pastori s’alzano sopiti fumi –
qui i fari pascolano con i loro lumi.
O voce, questa notte di cinigia
m’è più dolce d’un’alba bigia.
Vi fu, sempre, una intransigenza. A Carlo Antognini, interessato alla sua opera, il 3 maggio 1967, scrive, recisamente, “Vorrei, in breve, che fosse evitato ogni riferimento a padrini (reali o presunti) a premi letterari (vinti o perduti) all’appartenenza a gruppi letterari (presente o passata), ecc.”. Già allora, a 32 anni – era nato a metà febbraio, nel 1935, a Chiaravalle – Massimo Ferretti tornava sulle sue tracce, cancellandole. Benedetto da una allucinata precocità, Ferretti scrive uno dei libri emblematici – e perciò remoti fino al pungolo dell’oblio – del secondo Novecento, Allergia. L’aveva scritto meno che ventenne, questo Dino Campana marchigiano, con una lampeggiante – e tutt’altro che ingenua – giovinezza, con un gesto d’ustione sul corpo della poesia – montaliana, ungarettiana, luziana – italica. Leggete questa, dal titolo emblematico, Polemica per un’epopea tascabile:
Sono un animale ferito.
Ero nato per la caverna e per la fionda, per il cielo intenso e il piacere definitivo del lampo: e mi fu data una culla morbida ed una stanza calda.
Ero nato per la morte immutabile della farfalla: e l’acqua che mi crepò il cuore m’avrebbe solo bagnato.
Ero nato per la felicità della solitudine e il panico vergine dell’incontro: e mi sono ritrovato in una folla di eroi incatenati.
Ero nato per vivere: e m’avete maturato nella morte autorizzata dalla legge, nell’orgoglio delle macchine, nell’orrore del tempo imprigionato.
Ma resterò. Resterò a rincorrere la vostra perfezione di selvaggi organizzati nelle palestre, educati nelle caserme, ammaestrati nelle scuole: per la morte veloce delle bombe, per la morte lenta degli orologi delle seggiole dei telefoni.
Ma sappiate che io non so nuotare: e il coltello dell’odio e dell’amore l’ho sepolto nel mare.
*
Vanno fatte giocare insieme, gemelli contrari, secondo me, le parole “polemica” ed “epopea”, “tascabile” e “ferito”. Ogni epos ha il gergo di polemos. C’era un ragazzo, insomma, che aveva fiducia lirica e coscienza storica, che si sentiva espulso e sputato, “con un bigino di Marx nella tasca della blusa e pillole di Leopardi nell’altra”, sintetizzavo – giovanilista pure io – inserendolo tra i Maledetti italiani (il Saggiatore, 2007), per merito di due maledetti lettori, Flavio Santi e Massimo Raffaeli.
*
Prima di voltare le spalle al mondo, gettando sale sul fatto letterario, per occuparsi, a Jesi, nei tardi Sessanta, dell’azienda del padre, d’ambito edilizio, Massimo Ferretti fu il prodigio della poesia italiana. A promuoverlo e a esortarlo al verso fu Pier Paolo Pasolini, privatamente (“sei un mistero davvero appassionante”), poi al pubblico, su “Officina”, nel 1956, dicendo del “caso di questo ragazzo ventenne, traumatizzato e quindi prematuramente rivelato a se stesso da un’endocardite reumatica” che “è veramente unico, preistorico meglio che pregrammaticale, malgrado la sua straordinaria maturità”. Ferretti, per sempre incluso in una battagliera giovinezza, aspra, rigettò il vezzo tragico di Pasolini – come testimonia la lettera che si pubblica – soprattutto quando si confronta con la tragedia vera, nel 1959, il suicidio del cugino venticinquenne. Tuttavia, a Roma frequenta, tiepidamente, Bertolucci e Siciliano, passeggia lungo i convegni del Gruppo 63 e nel 1963, per Garzanti, pubblica Allergia, ricavandone un Viareggio per l’opera prima. Il libro, vigoroso, anomalo, poi dimenticato, fu recuperato da Raffaeli per Marcos y Marcos nel 1994 e risorge oggi per Giometti & Antonello insieme ad altri documenti (le lettere, ad esempio) che dicono l’indole del poeta.
La parabola letteraria di Ferretti si dice presto. All’onda del successo poetico s’aggiungono due romanzi, Rodrigo (ancora Garzanti, 1963) e Il gazzarra (Feltrinelli, 1965); qualche incarico nel mondo editoriale – un passaggio in Longanesi, la traduzione, per Astrolabio, di testi di antropologia, e, per Feltrinelli, di Tra, romanzo sperimentale di una scrittrice da riscoprire, Christine Brooke-Rose – e niente. Segue, per disposizione d’indole, il rifiuto d’un mondo che si avverte già marcato dal mercato, prono all’abuso estetico, inutile e inerte, insomma (a Gianfranco Canestrari, nel 1970, “Lo snobismo di sinistra – la politica come afrodisiaco – è una cosa che m’ha fatto sempre schifo, ma Feltrinelli e C. hanno proprio rotto gli argini del disgusto. E intanto sto ad aspettare traduzioni che nessuno mi manda”). La morte precoce – nel 1974 – i carati del carattere (che non le mandava a dire), ne hanno garantito, da un lato, la palude dell’oblio, dall’altro il culto, per intimi.
Massimo Ferretti
*
Di questo Donchisciotte della Rabbia (così una sezione del libro) vanno amate le poesie inquiete, l’imperfezione, le provvidenziali sbavature, gli sbalzi lirici. Come questo, che ha nome Anch’io sono il mare.
Spolperanno le montagne fino allo scheletro del corallo
ruberanno la fiamma al fuoco
e violeranno l’aria fin dove sospira,
ma il mare resterà il mare:
l’eterna emozione
l’elemento senza futuro.
Si sanno le piaghe aperte dalle navi
i delitti delle reti
e i tatuaggi carnali dei pescatori di perle,
ma il mare non cambia colore.
Non dico questo
perché ho segreti di conchiglie ribelli,
e l’amo perché la sua bellezza non mi fa soffrire.
Da piccolo mi ci portavano per farmi crescere forte
ma la mia stella incrociava altre acque
e nel libro del buio stava scritto
che il volto delle meduse
lo avrei trovato nella gente di terra:
e gli sono cresciuto lontano
con la misera invidia per i suoi sereni peccati
fatti di sole e di carne spogliata,
e ho accettato la sua potenza,
i lividi muri alzati tra nuvolo e abisso,
e l’onda del nord senza sogni.
Ma non ho avuto pazienza:
e l’acqua è rimasta col sale;
non ho avuto pazienza
perché anch’io sono il mare.
*
L’austera innocenza di Ferretti è un dono – d’altronde, quasi mai l’epoca riconosce i suoi. (d.b.)
***
A Pier Paolo Pasolini, Roma Jesi, 1 luglio 1959
Caro Pier Paolo,
«Molte volte un poeta si accusa e calunnia… »
mi hanno dirottato da Perugia la tua lettera che disgraziatamente non s’è perduta per la strada. Mi scrivi di capire tutto di me: e dimostri di non capire niente.
1) Il «desiderio di morire» appartiene alla tua psicologia, alla mia è del tutto estraneo. A 16 anni quando con la bicicletta mi sono buttato sotto un’auto (e s’è rovinata solo la bicicletta) l’ho fatto per disperazione «fisica»: da due anni una nevralgia reumatica nella zona del mediastino mi tormentava giorno e notte, e solo la morfina o gli ingorghi di stanchezza mi procuravano un dormiveglia di due ore una volta al mese: questa è «realtà» non auto-tenerezza, come è «realtà» – e non auto-esaltazione – il fatto che io non sono mai stato il malatino che fa pena; ma un «che peccato!», un’«incongruenza della natura», un «atleta fallito»: ho sorbettato queste qualifiche per tutta l’adolescenza: dal più scalcinato medico di campagna, al grande clinico, al colonnello-medico della visita di leva. Se ho registrato il «sentimento della morte» l’ho fatto per celebrare la vita. Io ho sempre desiderato vivere: e più stavo male, più volevo guarire.
2) Né l’Italia né io siamo in pericolo per il mio presunto e potenziale fascismo: l’Italia – come sempre – è minacciata dalla sua sacra ed eterna Natura, io dall’Indifferenza. Se scrivo di voler diventare un reazionario nello stesso momento so di aver semplicemente bestemmiato. A 17 anni, al tempo di Allergia, (quando ero «unico», «eccezionale», «straordinario») cercavo l’«immunità»: e tu sai che questo giovanotto «sufficientemente poeta» è sempre stato sufficientemente imprudente nel mondo dominato dalla «brutalità della prudenza». E tieni presente che ciò che io ho subito come si subiscono gli irrazionali fenomeni della natura, tu hai avuto modo di vederlo e capirlo: nel ’40 tu avevi 18 anni, io 5 (cfr. La Croce Copiativa).
3) Quanto al narcisismo schematizzi troppo. Io ho 24 anni. E se mi rimproveri di scrivere in prima persona (Leonetti direbbe in persona prima), mi costringi a guardarti con sospetto: «Se la nuova poesia si limita a denunciare in falsetto le ovvie miserie dei pastori e dei contadini a che cosa serve? Denunci, invece, quel proprio interno vizio conformistico…» scrivevi sul «Punto» del 25 maggio 1957 a proposito dei poeti meridionali, ma era un avvertimento che valeva per tutti. Allora: sei diventato vecchio o non hai più niente da dirmi? Non offre altre alternative la tua lettera acida in cui hai approfittato del mio dolore per fare il moralista a buon mercato. Lo saprò quest’inverno. Per ora ti prego soltanto di sopportare la noia della mia amicizia di cui tu non sai che fartene: io ho bisogno della tua: ti ho incontrato in un’età difficile e per me sei rimasto una presenza quotidiana. Che ti costa una lettera di otto righe, una volta all’anno? In bocca al lupo e rallegramenti anticipati per i premi; spero poi che avrai superato il trauma del trasloco e che i libri e i mobili siano in perfetto ordine. E i soliti abbracci sempre molto affettuosi, tuo
Massimo Ferretti
P.S. Mio cugino ha bisogno di molto silenzio: ora che appartiene ai commenti dei paesani.
Biografia di Massimo Ferretti nasce a Chiaravalle nel 1935.Sin da piccolo l’endocardite reumatica lo costringe a ripetuti ricoveri ospedalieri. Con lo scoppio della seconda guerra mondiale si trasferisce con la sua famiglia nei pressi di Belvedere Ostrense. La sua passione verso lo studio del pensiero di poeti come Rimbaud, Eliot e Montale lo spinge a scrivere i suoi primi versi. Ha con il padre un rapporto conflittuale, dettato dal suo scarso interesse per lo studio. Pier Paolo Pasolini pubblica su “Officina” alcuni estratti dalle sue prime prove in versi. Dietro pressioni paterne si iscrive a giurisprudenza a Perugia. La morte suicida di un suo cugino lo sconvolge determinando l’avvio di un lungo periodo introspettivo. Collabora con “Paese Sera”e “Il Giorno”. Partecipa anche ad un concorso come programmista indetto dalla Rai, ma le sue cagionevoli condizioni di salute non gli danno la possibilità di superare la selezione. Successivamente, i rapporti con Pasolini si incrinano a causa del suo interesse riposto per il Gruppo 63. A seguito della morte del padre è costretto ad immergersi nell’attività lavorativa. Studia e perfeziona a Londra la lingua inglese. Nel 1968 riprende a scrivere svolgendo anche l’attività di traduttore. Nel 1974 la morte lo coglie nel sonno. Riposa nel cimitero di Jesi.
In versi pubblica:
Allergia. Prefazione ad una giovinezza(Jesi, Tipografia Civerchia, 1955);
Allergia (1952-1962)(Milano, Garzanti, 1963; Premio Viareggio “Poesia, opera prima“ 1963). L’opera viene ristampata da Marcos y Marcos nel 1994 e da Giometti & Antonello nel 2019.
In narrativa pubblica i romanzi:
Rodrigo (Milano, Garzanti, 1963);
Il gazzarra (Milano, Feltrinelli, 1965).
Premessa dell’autore a Deoso. Rappresentazione poetica (1954)
Questo nuovo mito è dedicato a tutti coloro che credono – anche se non con troppa fiducia – in un mondo interminato fatto a strati che ogni età, con la sua civiltà, colma, ma non completa; e che il tempo rende sempre più difficile a riempire la parte nuova, perché il progresso si scrolla di dosso anche delle scorie, inevitabili eredità per chi resta. Come ai figli generati dagli uomini e dalle donne che vissero in una ipotetica età dell’argento – se la vogliamo lontana da noi – o dell’uranio – se la preferiamo più vicina – in cui la paura pesava tutta sulle spalle di un capro espiatorio: Deoso, un infelice bastardo, figlio non riconosciuto della Paura e del Genere Umano.
Massimo Ferretti
di Massimo Ferretti
[Massimo Ferretti (1935-1974) è un poeta da riscoprire. Nato nella provincia marchigiana (a Chiaravalle) e morto a Roma, Ferretti ha vissuto sempre ai margini della letteratura ufficiale, pur conquistandosi con le sue opere diversi riconoscimenti importanti, come il Premio Viareggio Opera Prima per la raccolta Allergia (Garzanti, 1963), e pur avendo interlocutori e consiglieri d’eccezione come Pier Paolo Pasolini (cui è dedicata Lode d’un amico poeta, leggibile di seguito) e Antonio Porta. Affetto da una malattia cardiaca che, secondo la sua stessa interpretazione, lo costrinse a sperimentare una forma di «alienazione particolare» che si tradusse poi in quella «professionale» della scrittura, Ferretti nasce come poeta con un libro notevole che oggi finalmente la casa editrice Giometti & Antonello ci permette di rileggere: Allergia, per l’appunto, che nella sua prima edizione autoprodotta del 1955 reca il sottotitolo Prefazione ad una giovanezza e una nota in cui l’autore spiega ciò che l’ironica deformazione del titolo ungarettiano per eccellenza dovrebbe suggerire istantaneamente ai lettori: «Questa “allergia”», scrive Ferretti, «va intesa come immunità possibile e necessaria d’una malattia ben diagnosticata: la storia, insomma, d’una presenza delusa ma non sconfitta». Un’autodiagnosi perfetta, verrebbe da dire, e quasi, a posteriori, un commento del destino letterario di questo marchigiano irregolare e quasi crepuscolare (perlomeno come poeta e prima dell’adesione al Gruppo 63), che del grande archetipo leopardiano eredita per esempio il rapporto di amore-odio con una provincia che sentiva meschina, arida o, meglio, agghiacciante, come una delle più belle poesie di Allergia, I colori del gelo (riprodotta qui sotto), dichiara nei suoi versi finali: «La mia provincia verde di colline / la mia valle torbida di nebbia / il paese dove sono nato / la casa che mi ha cresciuto – / tornarono nel buio del paesaggio / che il treno divorava nella corsa: / venivo da loro e a loro ritornavo, / ma loro non mi offrivano la vita: / m’offrivano il teatro di me stesso / per monologare all’infinito / lucidando l’archivio degli errori, / vitali colori del mio gelo».
*
Polemica per un’epopea tascabile
Sono un animale ferito.
Ero nato per la caverna e per la fionda, per il cielo intenso e il piacere definitivo del lampo: e mi fu data una culla morbida ed una stanza calda.
Ero nato per la morte immutabile della farfalla: e l’acqua che mi crepò il cuore m’avrebbe solo bagnato.
Ero nato per la felicità della solitudine e il panico vergine dell’incontro: e mi sono ritrovato in una folla di eroi incatenati.
Ero nato per vivere: e m’avete maturato nella morte autorizzata dalla legge, nell’orgoglio delle macchine, nell’orrore del tempo imprigionato. Ma resterò. Resterò a rincorrere la vostra perfezione di selvaggi
organizzati nelle palestre, educati nelle caserme, ammaestrati nelle scuole: per la morte veloce delle bombe, per la morte lenta degli orologi delle seggiole dei telefoni.
Ma sappiate che io non so nuotare: e il coltello dell’odio e dell’amore l’ho sepolto nel mare.
*
Ballata interrotta
Gioia infinita di sentirsi
nel coro; di dire: anch’io canto
con loro. Non sono belle le loro
canzoni, ed essi hanno
la voce stonata. Eppure ora tace
la capra stranita legata
all’albero magro. Non è il frastuono
che strozza i belati: anch’essa ha visto
quelle ironiche bocche far saltare
l’allegria lungo i campi. – Non m’ammazzare, bionda, sono giovane! – Coraggio! Pedala: scopri i ginocchi! – Hei bionda, svicola: e avrai cento amanti!
Ma passa la bionda ciclista
e viene una siepe di filo
di ferro che senza sfiorarmi
mi squarcia la carne e il cuore mi sfibra:
rammenta una sorte. E non sono
nel coro. Io sono solo.
*
Anch’io sono il mare
Spolperanno le montagne fino allo scheletro del corallo
ruberanno la fiamma al fuoco
e violeranno l’aria fin dove sospira,
ma il mare resterà il mare:
l’eterna emozione
l’elemento senza futuro.
Si sanno le piaghe aperte dalle navi
i delitti delle reti
e i tatuaggi carnali dei pescatori di perle,
ma il mare non cambia colore.
Non dico questo
perché ho segreti di conchiglie ribelli,
e l’amo perché la sua bellezza non mi fa soffrire.
Da piccolo mi ci portavano per farmi crescere forte
ma la mia stella incrociava altre acque
e nel libro del buio stava scritto
che il volto delle meduse
lo avrei trovato nella gente di terra:
e gli sono cresciuto lontano
con la misera invidia per i suoi sereni peccati
fatti di sole e di carne spogliata,
e ho accettato la sua potenza,
i lividi muri alzati tra nuvolo e abisso,
e l’onda del nord senza sogni.
Ma non ho avuto pazienza:
e l’acqua è rimasta col sale;
non ho avuto pazienza
perché anch’io sono il mare.
*
Lode d’un amico poeta
Tu sei della stirpe di chi vince:
il male che scalfisci non ti tocca,
la tua maturità non ha timori –
ma non ripetermi che qui è la foresta,
che l’uomo è sempre una rivolta in atto,
che il verbo del poeta è la pietà:
una rondine sottratta alla corrente.
E un giorno non mi capirai.
Entrerò nella turba dei Falliti
con l’umiltà che sempre mi ha distinto;
brucerò tanta rabbia dentro il cuore
che l’inferno tremerà nel riscaldarmi:
e avrò anch’io un duro contrappasso:
sarò il bullone d’un ponte americano.
La tribù degli eroi delle parole,
ripiegata sui freddi tavolini
dove la carta brucia nella penna,
si presta a certi sbagli disumani:
ed ecco i fumatori di matite,
i coppieri dei calamai ammuffiti,
gli alfieri delle «leggi» del partito,
i sacrestani delle muse benedette:
una folla assurda e senza volto
che nuota nell’inchiostro
con la scienza della carta-calcante.
E la marea li mescola agli onesti:
ai profeti della giustizia anchilosata,
alle trombe medievali della Croce,
agli amanti delle immagini rapite.
Ma il tuo sangue non vive in questi lacci:
e io brucio stelle pel tuo canto vergine
turbato solamente dalla vita!
Io brucio stelle pel tuo verso barbaro
fermato nelle canzoni verdi
dell’uomo vivo, immerso nella terra.
Il vento di Provenza che lo scuote
è il rifiuto della pace degli antichi,
l’insulto alla vergogna del ricatto sociale,
l’urlo per la misura della morte.
Ma l’ansia di toccare il cuore al mondo
t’ha piegato al torpore della Lingua
che hai destato in difficili rime.
E l’Italia salvata nelle origini
rivive nel profumo della luce:
ed ecco i fiumi inquieti dell’infanzia,
la cupa adolescenza delle ombre,
gli ardori consumati nel silenzio,
i passi svuotati nelle strade,
la costante follia della Chiarezza,
la nostalgia invincibile dell’alba,
la solitudine accettata come un pegno
da risolvere in numeri di vita.
La tua origine è un’onda mostruosa
che ha radici negli abissi della luna,
il tuo pianto è una luce senza limiti
che libera dal buio esseri veri,
e il tuo furore critico
che incendia foreste filologiche
e scava negli angoli dell’anima
in fondo non conosce che una meta:
il tropico del canto corrisposto
dove il cuore è il calore della terra
e il popolo il palpito del mondo.
*
La coltivatrice diretta
Sono salito su un colle sottovento
perché la voce risultasse chiara
e ho gridato critiche gelate
alla mira del fratello adolescente:
ma lui non m’ascoltava affatto
e continuò a sparare
senza sbagliare un bersaglio
con i suoi polsi di roccia
guidati da l’occhio sereno.
E anch’io ho preso a sparare
pel gusto di esplodere colpi:
ho sparato su lampadine fulminate
su barattoli vuoti di conserva
su una lady delle pellicole «ferrania»,
scollatissima e a formato naturale,
su coperchi di scatole di scarpe
su defunte bottiglie di spumante –
e su tutta l’angoscia del mondo.
E per ogni bersaglio centrato
ho ballato nel verde del grano:
e la fresca rugiada del grano
m’ha invaso e passato i calzoni
dai piedi fino alle cosce.
E sono corso fino a un casolare
per portarvi la festa del fuoco
che hanno acceso per farmi asciugare:
e ho bagnato la gola asciugata
dal fuoco di troppe parole sconvolte
nel secchio ramato del latte
munto all’istante dalla ragazza più giovane
stordita dal fuoco e dal latte
bevuto nel secchio ramato
per bagnare la gola asciugata
dalle risate scavate da troppe parole sconvolte –
e lei m’ha pulito le scarpe
e lei m’ha asciugato i calzini
provando il secco calore
sulla sua guancia di perla.
Che importa salire,
che vale varcare la porta del mondo? –
se la vita è in fondo alle scale.
*
I colori del gelo
Nella mia vita il viaggio resta il segno
di ciò che doveva essere la vita
se l’avessi capita troppo tardi.
Ma ho capito tutto troppo presto
e ogni viaggio è uno spostamento
da una solitudine a un silenzio:
da un’attesa a un tacito possesso.
Non posso non fermarmi al corridoio
d’un rapido treno della notte,
pieno di tedeschi d’ogni sesso
e di reclute del nostro nuovo esercito.
– Dal congedo delle insegne luminose
dal patetico gergo dei consigli
salva, frau, questo provinciale!:
la tenerezza che sale da un abisso
è una luce che mi fa tremare,
la rivolta d’un reietto è una canzone,
il sole è il calore d’un relitto.
Sì, questa notte non sono entrato
perché sono un maschio in borghese
e non sono più un ragazzo
(«militari e ragazzi metà prezzo»):
sarò un alpino e avrò una penna nera,
non starò più attaccato a un finestrino
a decifrare teoremi neutrali
su estetiche statali e militari.
L’esercito amava alle mie spalle,
ma io non sono un soldato dell’esercito:
io sono un soldato della vita
e stanotte ho giocato una partita
molto più dura di quelle che faranno
i soldati che stanotte ti hanno avuta
e quelli che dormivano beati
nelle scomode amache improvvisate
con le retine dei portabagagli
e quelli incastrati nei sedili
tra tedeschi saturi di birra
e l’incenso dei piedi senza scarpe.
Davanti al vetro in cui ti specchi
per pettinare in pace i tuoi capelli
e mi chiedi perché non sono entrato
e mi dici che sarò un alpino,
stanotte ho guardato il mio destino.
La mia provincia verde di colline
la mia valle torbida di nebbia
il paese dove sono nato
la casa che mi ha cresciuto –
tornarono nel buio del paesaggio
che il treno divorava nella corsa:
venivo da loro e a loro ritornavo,
ma loro non mi offrivano la vita:
m’offrivano il teatro di me stesso
per monologare all’infinito
lucidando l’archivio degli errori,
vitali colori del mio gelo.
È inutile, ragazzo, pensare di correre se il cuore ha le valvole bruciate;
è inutile moltiplicare un metro di bosco e chiamarlo jungla, o voltare le spalle al mare e chiamare la sabbia deserto;
è inutile prendere la tessera al partito per sentirti comunista, o girare un disco di negri per sentirti negro:
e avere un motivo per protestare.
Il mondo non si accomoda, ma questo non è un male.
Il male è che il sabato continua a fare il padrone e la domenica la serva avvilita:
perché la carezza sognata può essere un miracolo azzurro e quella avuta è solo un vento di mano.
Ragazzo, tu sarai l’uomo che leggerà nel giornale come va avanti il mondo –
non darti pensiero di lasciare il posto pulito
e non picchiare tua moglie quando si vergognerà d’invecchiare:
la giostra girerà lo stesso e il tuo sangue non saprà di sale.
Nota degli editori
Allergia è un libro fondamentale per ridiscutere il canone obsoleto della poesia italiana del Novecento a partire dai senza patria, dagli scrittori irregolari e dalle individualità non facilmente catalogabili in una suddivisione per correnti. E l’autore ne era ben consapevole, se ancora ventenne scriveva in una lettera: «Dal ’52 in poi ho letto con passione e disordine diversi libri di poesia – buoni e cattivi –; tutti mi hanno dato qualcosa ma nessuno mi ha offerto un mondo da continuare.» E dodici anni dopo, nel comunicare una sua nota biografica: «Vorrei, in breve, che fosse evitato ogni riferimento a padrini (reali o presunti) a premi letterari (vinti o perduti) all’appartenenza a gruppi letterari (presente o passata), ecc.» Questa sua vocazione all’inappartenenza lo colloca naturalmente a fianco di autori già presenti nella nostra collana, come Armand Robin con il volume L’indesiderabile, o Marcello Barlocco, di cui a breve riproporremo i racconti. La notorietà in vita di Massimo Ferretti (Chiaravalle 1935 – Roma 1974) è legata alla pubblicazione della sua unica raccolta poetica, Allergia, la cui versione definitiva vede la luce nel 1963 per l’editore Garzanti e arriva a vincere il Premio Viareggio «Opera prima». Pubblicherà anche due romanzi, Rodrigo per Garzanti nel 1963 e Il gazzarra per Feltrinelli nel 1965, prima di abbandonare deluso la scena letteraria e rilevare l’attività commerciale del padre. Canzoniere crepuscolare e irrequieto di piccole vicende marginali di vita privata – dalle tragicomiche cronistorie familiari, sempre al limine tra parodia del poemetto storico e vocazione alla ballata, ai tableaux di ilare disperazione di una vita universitaria cui si sente fisiologicamente ostile, dall’isolamento marchigiano ai deserti delle relazioni culturali a Roma cui partecipa da estraneo – Bildungsroman auto-ironico e sentimentale «di un adolescente che diventa uomo» e infine scrittore, Allergia è la storia di una irriducibilità assoluta e irredimibile della vita poetica a qualsiasi norma umana o letteraria. Anche per questo, nonostante qualche meritorio tentativo, il libro è rimasto fino ad oggi in ombra, fra gli oggetti sommersi e inconoscibili della letteratura italiana per cui non si riusciva a trovare una via di recupero. Confidiamo che conquisti grazie a questa riedizione il suo spazio adeguato.
«La notorietà in vita di Massimo Ferretti (Chiaravalle 1935 – Roma 1974) è legata alla pubblicazione della sua unica raccolta poetica, Allergia, la cui versione definitiva vede la luce nel 1963 per l’editore Garzanti e arriva a vincere il Premio Viareggio “Opera prima„. Pubblicherà anche due romanzi, Rodrigo per Garzanti nel 1963 e Il gazzarra per Feltrinelli nel 1965, prima di abbandonare deluso la scena letteraria e rilevare l’attività commerciale del padre.
Canzoniere crepuscolare e irrequieto di piccole vicende marginali di vita privata – dalle tragicomiche cronistorie familiari, sempre al limine tra parodia del poemetto storico e vocazione alla ballata, ai tableaux di ilare disperazione di una vita universitaria cui si sente fisiologicamente ostile, dall’isolamento marchigiano ai deserti delle relazioni culturali a Roma cui partecipa da estraneo – Bildungsroman auto-ironico e sentimentale “di un adolescente che diventa uomo„ e infine scrittore, Allergia è la storia di una irriducibilità assoluta e irredimibile della vita poetica a qualsiasi norma umana o letteraria.»
In ricordo della antifascista Gerda Taro,( l’altra metà di Robert Capa)
la prima reporter donna uccisa nella guerra di Spagna.
In ricordo della antifascista Gerda Taro-Ma la lotta di resistenza antifascista non fu appannaggio dei soli uomini come apprendiamo dalle mille testimonianzeche attestano i mille sacrifici ed eroismi delle donne in quel teatro mondiale di lotta al nazifascismo ancor prima che esso si affermasse con i suoi regimi in mezza Europa. Lo testimonia il sacrificio di Rosa Luxemburg , ma anche delle donne della Repubblica spagnola contro il fascista Franco appoggiato da Mussolini ed Hitler. A render pubblico il loro ruolo contribuirono i reporter internazionali antifascisti che con le loro foto testimoniarono tuti gli aspetti di quella sanguinosa guerra civile. Tra essi/e , oggi , in questo luglio 2017, a 80 anni dalla sua crudele morte , vogliamo ricordare, per non dimenticare la bellissima, coraggiosissima nonostante la sua giovane età (26 anni) Gerda Taro, l’altra metà di Robert Capa. Quanto il suo esempio di donna tedesca antifascista e ribelle fosse temuto e lo sia ancor oggi lo testimonia l’accanimento col quale i nazisti di ieri e di oggi cerchino di distruggere il suo ricordo. Durante la seconda guerra mondiale i nazisti profanarono la sua tomba , a Parigi e distrussero l’epitaffio che nessuno ha voluto ricostruire. L’anno scorso nel 2016 , nella sua natìa Germania, fu esposta una mostra di sua fotografie e al termine di quel festival fotografico a Leipzig rimase una grande riproduzione della sua opera. Il 4 agosto 2016, esattamente un anno fa, ignoti hanno distrutto l’opera con della vernice nera. I sospetti sono caduti sulle organizzazioni neo-naziste antisemite che protestano contro la presenza dei migranti. Un accanimento contro la sua memoria che ricorda quello dei nazisti contro quella della rivoluzionaria comunista Rosa Luxemburg . Tra le tantissime foto scattate da lei nella guerra di Spagna ne abbiamo scelte due , la prima quella di un combattente antifascista che cancella l’Arriba Spagna e con il pennello sul muro scrive Arriba Russia, disegnado una falce e martello, testimonianza di come la Rivoluzione d’Ottobre fosse un punto di riferimento dei “proiletari di tutto il mondo”. L’altra è quella di un miliziano repubblicano rannicchiato con il suo moschetto che difende più che con il suo corpo che con il fucile che impugna , la donna che gli sta a fianco, sorridente. Infine la fotyo scattata dal suo compagno di fede e di amore Firedman alias la metà maschile di Robert Capa. Una foto che la vede riposarsi stremata dopo la vittoriosa battaglia di Brunete, appoggiata ad un cippo miliare di una strada.Una stanchezza di chi vive intensamente una vita vissurta pericolosamente al servizio della Rivoluzione. In quel corpo fragile , in quel viso quasi angelico, si nascondeva una grande donna che noi salutiamo a pugno chiuso! Il ricordo della sua vita , rintracciabile anche su wikipedia lo lasciamo all’articolo scritto da un’altra donna, Maria Grazia Giordano Paperi, sul sito librario l’Undici alla pagina http://www.lundici.it/2016/07/gerda-taro-laltra-meta-di-capa/
Di lei vogliamo ricordare un paio di8 libri anche se diverse sono le pubblkicazioni internazionali che la ricordano:” L’ombra di una fotografa” di François Maspero Ed. Archinto. “Gerda Taro. Una fotografa rivoluzionaria nella Guerra civile spagnola” di Irme Schaber Ed. Derive Approdi
Portrait of photographers Gerda Taro (1910 – 1937) (left) and Robert Capa (1913 – 1954), 1936. (Photo by Fred Stein Archive/Archive Photos/Getty Images)
Gerda Taro. L’altra metà di Capa
All’alba del 26 luglio 1937 a Madrid, in un ospedale allestito all’Escorial, moriva Gerda Taro, il 1° di Agosto avrebbe compiuto 27 anni.
Al suo funerale, celebrato a Parigi proprio quel 1°di Agosto, parteciparono personalità di spicco della politica e della cultura, mentre una banda suonava la Marcia Funebre di Chopin, una folla di oltre 100.000 persone seguiva il feretro.
Pablo Neruda, fra gli altri, lesse un elogio funebre in memoria di Gerda e Alberto Giacometti realizzò il monumento sepolcrale per la tomba che fu collocata al Père Lachaise, nella zona dedicata ai rivoluzionari.
Negli anni dell’occupazione tedesca e del regime collaborazionista francese il sepolcro di Gerda fu violato e l’epitaffio danneggiato, non fu mai restaurato. La memoria stessa di Gerda per decenni fu smarrita nell’oblio del tempo.
Anni fa ho passato un’intera mattinata alla ricerca di quella tomba, senza successo.
Chi era Gerda Taro? Nacque a Stoccarda nel 1910 con il nome di Gerta Pohorylle in una famiglia della buona borghesia ebraica di origini galiziane. Crebbe a Lipsia, adolescente spensierata, studentessa eccellente. Bella, estroversa, ribelle, il 19 marzo 1933 venne arrestata e imprigionata perchè sospettata di aver partecipato alla distribuzione di volantini antinazisti. Il 30 gennaio di quello stesso anno tale Adolf Hitler era diventato cancelliere, eletto dalla maggioranza del popolo tedesco. Gerta non era, e probabilmente non fu mai, iscritta ufficialmente ad alcuna organizzazione o partito comunista, ma la sua educazione e la sua cultura erano squisitamente laici e di sinistra e la sua natura profondamente rivoluzionaria.
Di quella esperienza di detenzione ci è arrivata la testimonianza di una compagna che racconta come Gerta al suo ingresso in cella si fosse scusata con le altre detenute per il proprio abbigliamento “(…) le SA mi hanno arrestata proprio mentre stavo uscendo per andare a ballare”. Divenne presto la Liebling, l’idolo, delle prigioniere: distribuiva le sigarette che il padre riusciva a farle arrivare, cantava arie americane, insegnava alle compagne parole di inglese e francese, lingue che lei padroneggiava con disinvoltura. Gerta escogitò ed insegnò anche a comunicare con le celle vicine con l’alfabeto dei colpi.
Restò in prigione 17 giorni, salvata anche dal proprio passaporto polacco, dopo il suo rilascio decise, o i suoi genitori per lei, di lasciare la Germania. Alla fine dell’estate del 1933, raggiunse Parigi , come tanti esuli antifascisti italiani o tedeschi.
A Parigi i primi tempi furono duri, sistemazioni di fortuna presso amici o conoscenti, piccoli lavori: ragazza alla pari, segretaria, modella. Parigi era il centro di un’intensa attività artistica, letteraria e politica e molti dei protagonisti erano emigrati come Gerta. Nei caffè che anche lei frequentava si potevano incontrare grandi nomi, Walter Benjamin, Joseph Roth, Ernest Hemingway e personaggi meno conosciuti. Era il settembre del 1934 quando Gerta incontrò un giovane fotografo ungherese, Endre Friedmann, francesizzato in Andrè Friedmann. Fu l’incontro del destino.
Nelle parole di chi conobbe Gerta e Andrè sono descritti belli, affascinanti, traboccanti di vita e intensamente liberi. Dopo il loro incontro si innamorarono, vissero insieme, si separarono, si ritrovarono, non si persero mai di vista.
Gerta si avvicinò alla fotografia e grazie ad Andrè ottenne un impiego fisso all’ agenzia anglocontinentale Alliance di cui, per un anno, fu la factotum, dove perfezionò la tecnica della fotografia e della stampa e imparò a conoscere e trattare il mercato del fotogiornalismo in crescita.
E’ a questo punto che la storia di Gerta e Andrè si confonde alla leggenda.
I due giovani innamorati, ambiziosi, talentuosi e decisi a conquistare il mondo, si inventarono un personaggio, un fotografo americano, ricco, famoso e molto costoso, temporaneamente in Europa. Il personaggio doveva avere un nome, la scelta cadde su Robert Capa, che ricordava il cognome del famoso regista Frank Capra. Pare che l’idea venne a Gerta, magari dopo essersi amati, nell’esaltazione della passione reciproca, o forse dopo una sera al cinema, quando ci si lascia trasportare dai sogni, o dopo qualche bicchiere di vino buono non accompagnato da regolare cena, la vita da giovani bohemien non sempre contemplava pasti regolari.
Anche Gerta cambiò il proprio nome in Gerda, Taro. Entrambi gli pseudonimi avevano il vantaggio di suonare esotici e dall’origine poco riconoscibile.
Lo stratagemma funzionò. Robert Capa nel giro di qualche mese diventò un fotografo richiestissimo e molto apprezzato.
Nel luglio del 1936 scoppiò l’insurrezione franchista, Gerda e Bob si recarono in Spagna. Avevano due macchine fotografiche una Rolleiflex e una Leica, entrambi usavano entrambe, fotografavano la folla, il fermento, le barricate, le milizie, il fronte. Entrambi firmavano indifferentemente le proprie fotografie “CAPA”.
Ritornarono a Parigi e poi diverse volte in Spagna. Il sodalizio professionale e sentimentale era intenso e proficuo. Erano una coppia, ma Gerda rifiutò ripetutamente di sposare Andrè. Voleva “rimanere un essere libero. La sua compagna, pari in ogni campo, compreso l’amore: non sua moglie”.
Nel Luglio del 1937 i Capa erano ancora in Spagna a documentare la guerra. Andrè doveva rientrare a Parigi per trattare con alcune agenzie e cercare finanziatori per un viaggio in Cina. Gerda rimase a Madrid. Si lasciarono con l’intesa di ritrovarsi a Parigi dopo una decina di giorni. Non si videro più.
Se una foto non è buona non eri abbastanza vicino”. (Robert Capa)
In quei giorni di assenza di Robert Gerda realizzò il suo più importante reportage sulla battaglia di Brunete e fu proprio di ritorno da quel fronte che la giovane fotoreporter perse la vita, era stata troppo vicina. Aveva lavorato intensamente, incurante del pericolo, dopo ore passate in un buco a fotografare aveva terminato i rullini, così aveva trovato un passaggio per rientrare a Madrid viaggiando aggrappata al predellino di un’auto colma di feriti.
Inaspettatamente aerei tedeschi attaccarono il convoglio. Un carro armato “amico” perse il controllo e investì l’auto a cui era attaccata Gerda che cadde rimanendo schiacciata sotto i cingoli.
“Avete messo al sicuro le mie macchine? Sono nuove” Chiedeva. Raccontarono che “Durante tutto il trasporto, con le mani sulla pancia, tenne premute le sue stesse viscere”. Si mostrò incredibilmente forte e coraggiosa, ma era ferita molto gravemente. Fu sottoposta a trasfusione e operata. Il medico che l’aveva in cura raccomandò di non farle mancare la morfina per renderle più sopportabili quelle ore. Le ultime. All’alba del 26 Luglio chiuse gli occhi. Per sempre. Ecco dunque chi era Gerda Taro, una giovane donna bella, affascinante, talentuosa e libera che è stata, sia pur brevemente, l’altra metà del grande artista e fotografo celato dallo pseudonimo Robert Capa e poi troppo a lungo fu dimenticata. Più volte Robert Capa raccontò che all’alba di quel 26 luglio 1937 era morto anche lui.
Maria Grazia Giordano Paperi
Gerda Taro i funeraliGerda Taro gettyimages-Gerda Taro
Gerda-Taro-Tomba-originale-1937Gerda Taro-Tomba-attualeGerda-Taro-prima-fotogiornalista-guerra-di SpagnaGerda TaroGerda Taro_Photo Robert CapaGerda Taro a ParigiGerda TaroGerda TaroGerda TaroGerda TaroGerda TaroGerda Taro
La storia e le voci di poetesse,da Anna Achmatova a Maria Wisława Anna Szymborska, che hanno lasciato il segno nella cultura mondiale con il loro immaginario potente. Sono autrici che dal Medio Oriente all’Est Europa rappresentano mondi poetici caratterizzati da mille culture e da uno sguardo aperto e profondo sulla contemporaneità.La poesia delle donne, una storia da raccontare -Articolo di Lorenzo Pompeo– Con il loro immaginario potente, le voci delle poetesse hanno lasciato il segno nella letteratura mondiale, con una sensibilità aperta a mille culture e uno sguardo sempre attento alla realtà storica e sociale. Pubblichiamo un estratto del libro di Left “La poesia delle donne” di Rosalba De Cesare e Lorenzo Pompeo che il 20 ottobre 2022 è stato presentato a Roma presso la Biblioteca comunale “Goffredo Mameli” via del Pigneto n. 22-
La poesia femminile rappresenta una questione aperta, un quesito al quale la presente antologia vorrebbe offrire solo un modesto contributo. Non vogliamo offrire risposte definitive, semmai porre domande, a partire dalla definizione stessa della categoria: esiste una poesia femminile? Esiste una differenza significativa che la contraddistingue? È utile o necessario creare una categoria a parte?
Partiamo da alcune considerazioni introduttive: se da un lato a partire da Saffo, vissuta presumibilmente tra il 630 e il 570 a. C., la poesia femminile è una realtà testimoniata nella storia da molte altre figure, è pur vero che fino al XIX secolo si è trattato di presenze marginali, casi eccezionali e rari. Le cose cambiano in modo sostanziale con la Rivoluzione industriale e il lento processo di emancipazione femminile. Attraverso l’ingresso delle donne nel mondo del lavoro, si andò affermando nelle società occidentali prima, e poi in tutto il mondo, seppure in modo graduale e parziale, il principio della parità di diritti. Mano a mano che questo processo avanzava nel corso del XIX e del XX secolo, anche nel mondo dell’arte e della poesia la presenza femminile è diventata sempre più importante, in numeri e peso specifico. Ciò malgrado, si tratta pur sempre di una presenza ancora largamente minoritaria. E se consideriamo la questione in una ottica mondiale, anche oggi esistono Paesi e vaste aree geografiche in cui l’accesso all’istruzione è ancora precluso alle donne, oppure ostacolato da circostanze materiali che di fatto impediscono tale accesso. Ciò malgrado, non è raro il caso di bambine nate in seno a famiglie prive di mezzi che grazie alla loro forza di volontà sono riuscite a far sentire la propria voce attraverso i loro versi malgrado mille difficoltà e ostacoli, facendosi spesso portatrici di una visione del mondo nuova e inedita, ribellandosi cioè a quell’atavico silenzio in cui le loro madri, le sorelle e le nonne erano e sono ancora confinate da una tradizione secolare.
Ma questo è solo uno degli aspetti del mondo della poesia femminile del ’900, a cui senza dubbio occorre prestare la massima attenzione (anche perché si tratta di figure spesso marginali o emarginate anche nel mercato editoriale italiano, che solitamente alla poesia presta già ben poca attenzione). Ma la poesia femminile del ’900 non fu solo uno strumento per rivendicare il diritto alla parola delle donne. O meglio, in alcuni casi lo è stato, ma se la prendiamo in esame esclusivamente da questo punto di vista, si finirebbe per attribuirle uno statuto puramente finalistico e, in quanto tale, presumibilmente inferiore, se consideriamo la poesia una forma d’arte. Eccoci quindi di fronte allo scoglio principale: a questo punto forse qualcuno potrebbe obiettare che sarebbe meglio ignorare completamente la questione di genere (posizione condivisa anche da alcune poetesse, come ad esempio il premio Nobel Wisława Szymborska). Poesia engagé o “arte pura”? – Un antico dilemma, che però può assumere un significato inedito se declinato al maschile e al femminile. Sorgono però a questo punto nuove domande che inevitabilmente chiamano in causa la dimensione pubblica e quella privata della poesia, dei poeti e delle poetesse.
È indubbio che il movimento femminista ha giocato un ruolo importante nello sviluppo della poesia femminile, creando le condizioni necessarie affinché la presenza delle donne nel mondo delle lettere non si limitasse a casi sporadici e isolati. Ma sarebbe limitante ricomprendere tale fenomeno esclusivamente nell’alveo del femminismo. L’arte del ’900 fu prima di tutto sperimentazione e ricerca, rottura di schemi e di immagini preordinate. In questo processo la presenza delle donne è stato un elemento capitale, aspetto forse ancora non del tutto recepito nel canone del secolo appena trascorso….
Il testo è un estratto dal libro di LeftLa poesia delle donne di Rosalba De Cesare e Lorenzo Pompeo.
Premiata con il Nobel per la letteratura nel 1996 e con numerosi altri riconoscimenti, è generalmente considerata la più importante poetessa polacca degli ultimi anni e una delle poetesse più amate dal pubblico di tutto il mondo. In Polonia i suoi libri hanno raggiunto cifre di vendita (500 000 copie vendute, come un bestseller) che rivaleggiano con quelle dei più notevoli autori di prosa, nonostante abbia ironicamente osservato, nella poesia intitolata Ad alcuni piace la poesia (Niektórzy lubią poezję), che la poesia piace a più di due persone su mille.
Amleto un eroe moderno –Articolo di Alberto Pellegrino-Shakespeare è il più grande genio teatrale di tutti i tempi, perché, come scrive il drammaturgo August Strindberg, egli “descrive gli uomini in tutti i loro aspetti, incongrui, contraddittori, lacerati, fragili, divisi, incomprensibili proprio come sono gli esseri viventi”. Tra le sue opere la tragedia di Amleto è la più affascinante e misteriosa, complessa e problematica, perché essa appare assolutamente moderna per la vitalità e la polivalenza del protagonista, un intellettuale tormentato dal dubbio che è solito rifugiarsi nello studio e nella riflessione per fuggire da una realtà che lo disgusta.
William Shakespeare
Oggetto di migliaia di analisi e interpretazioni, Amleto è uno dei grandi miti moderni per aver segnato il passaggio dell’Inghilterra dal medioevo all’età rinascimentale, per avere un protagonista che rappresenta il nuovo intellettuale borghese, l’uomo di Copernico e della Riforma, l’uomo con i caratteri tratteggiati da Machiavelli, Montagne e Cartesio, l’intellettuale che ha conosciuto l’Orlando furioso di Ariosto, il Don Chisciotte della Mancia di Cervantes ma soprattutto l’Elogio della follia di Erasmo da Rotterdam. In quest’ultima opera si parla di una “razionale” forma di pazzia che serve ad affrontare i ciarlatani, i parassiti, i mestatori, la stessa gente che affolla la reggia di Danimarca, la stessa follia che suggerisce al principe Amleto di assumere la maschera del pazzo, di recitare la parte del fool, una mitica figura del folklore popolare che è un buffone stravagante e un manipolatore di parole abile nel saper mescolare furbizia e follia. La figura di Amleto è ancora affascinante, perché riflette l’ambiguità, l’introspezione, lo smarrimento dell’uomo contemporaneo impegnato a cercare l’essenza della vita, ma sempre più solo di fronte alla propria coscienza e alla propria ragione.
William Shakespeare
Nella grande stagione del teatro elisabettiano gode di grande popolarità la tragedia di vendetta, fondata su alcuni elementi ricorrenti: l’apparizione di un fantasma che chiede di essere vendicato, il giuramento di chi ha questo compito, l’uso della pazzia come maschera per difendersi, l’occasione per vendicarsi offerta dallo stesso nemico, la corruzione del protagonista che, nel portare avanti il suo piano, scende allo stesso livello morale del nemico. La tragedia scespiriana, nonostante presenti delle analogie, si allontana da quel genere teatrale, perché contiene una visione innovativa della vendetta, non privilegiando l’azione ma il percorso interiore che conduce all’attuazione della vendetta stessa. Dalle società primitive fino alla società rinascimentale il principio “occhio per occhio, dente pe dente” era un dovere che spettava ai parenti prossimi dell’ucciso e in particolare al figlio maggiore ma quest’obbligo morale risulta estraneo ad Amleto che è tormentato dal dubbio, dal bisogno di arrivare alla conoscenza della verità, dal peso di problematiche morali che provocano un rapporto conflittuale con la sua coscienza.
La Danimarca è uno Stato nato dalla forza militare della nobiltà e fondato sulla violenza, governato da un re che è un guerriero sanguinario, anche se valoroso, il quale incarna la politica di conquista e di potere di una società dove vige la legge della vendetta e della ritorsione sanguinaria. Amleto esalta la figura del padre paragonandolo a un dio, nonostante stia scontando in Purgatorio i crimini politici e gli altri peccati che ha commesso.
In questo mondo vecchio e corrotto Amleto porta una ventata di novità, perché è un uomo di spada ma anche un intellettuale che ha studiato nell’Università di Wittenberg, centro della riforma, del razionalismo, del progresso moderno, dell’erudizione umanistica. Dotato di una grande sensibilità morale e di alti valori spirituali, egli rimane gravemente colpito e disgustato dall’assassinio del padre, dall’usurpazione del trono, dalla scoperta della condotta immorale della madre, tanto da avvertire una nausea che lo spinge fino alle soglie del suicidio rifiutato solo per la paura verso il mistero dell’aldilà (“Così questa troppo solida carne potesse fondersi e disciogliersi in rugiada: o che l’Eterno non avesse stabilito la sua legge contro l’uccisione di sé!…Come sono tediosi, vieti, insipidi e non profittevoli sembrano a me tutti gli usi di questo mondo! Come l’ho a schifo!”).
William Shakespeare
Amleto condanna il comportamento della madre che ha scambiato un essere perfetto con un uomo ignobile, vile, ipocrita e fratricida come Claudio, il quale governa uno Stato in preda alla corruzione, all’ipocrisia, alla repressione. Il nuovo re, che nutre dei sospetti verso Amleto, guida tutti gli intrighi di corte; condanna il principe all’esilio in Inghilterra e ordina di ucciderlo appena giunto a terra; ordisce il complotto finale, coinvolgendo un Laerte assetato di vendetta per la morte del padre e della sorella Ofelia. Al fianco del re opera il primo ministro Polonio che incarna una politica fondata sulla macchinazione, la manipolazione, lo spionaggio: è lui a proporre di sorvegliare Amleto, perché la follia dei grandi non può rimanere senza controllo; a usare la figlia per circuire Amleto e strappargli la verità; a spiare l’incontro-scontro tra madre e figlio, stando nascosto dietro una tenda e pagando con la vita questa sua predisposizione all’intrigo.
Amleto, con la sua anima ferita e tormentata, s’interroga sul comportamento più giusto da seguire per assolvere il dovere della vendetta, sul confine tra il bene e il male, sulle ragioni per vivere il presente e per comprendere il destino ultimo dell’uomo. Senza più le certezze religiose e politiche del medioevo, egli avverte l’obbligo di sperimentare, sondare e capire le motivazioni del suo agire.
Amleto, regia e interpretazione di Laurence Olivier, GB, 1948
Amleto di William Shakespeare
Carmelo Bene-
in Amleto di Shakespeare
Nonostante le sue incertezze, egli trova il coraggio di avventurarsi in un mondo ingannevole di cui non conosce i confini, di accettare una sfida che lo carica di nuove responsabilità, di rinunciare al suo mondo giovanile, agli studi, agli amici, all’amore, al trono. I suoi dubbi lo spingono ad avere dei comportamenti contraddittori: a volte è un sognatore erudito e indolente, incapace di portare a termine un atto di vendetta; a volte è un assassino impulsivo e brutale; in alcune occasioni è tenero, amorevole, sensibile, raffinato, in altre è spietato, beffardo e perfino volgare.
Erving Goffman, nella sua opera La vita come rappresentazione, ci aiuta a capire questi modi di operare, quando dice che ogni individuo agisce trasmettendo il proprio io particolare per mezzo di comportamenti esteriori e di parole come fa un attore chiamato sulla scena a interpretare un ruolo. Noi siamo quello che recitiamo, perché comunichiamo attraverso la rappresentazione e l’interpretazione di una vasta gamma di ruoli che cambiano a seconda dell’uditorio e che richiedono delle capacità drammatiche per entrare pienamente nella parte che s’interpreta. Amleto, che è un profondo conoscitore dell’arte drammatica, si trova al centro di uno spettacolo che riflette la concezione scespiriana del teatro, che deve essere considerato lo specchio della natura, lo specchio della società, lo specchio del tempo con lo scopo di conferire un volto alle virtù e ai vizi dell’umanità. Con i materiali drammatici che ha a disposizione, egli riesce a trovare una parte da interpretare ogni volta che sale sul palcoscenico della vita, passando attraverso una successione di ruoli che gli consentono di apparire agli altri recitanti come un diverso, un estraneo, un pazzo, anche se, dietro i suoi vaneggiamenti, s’intravede un disegno razionale regolato da un preciso schema mentale finalizzato alla ricerca della verità.
In questo percorso verso la catarsi finale, troviamo al fianco di Amleto due donne che interpretano un ruolo importante: Gertrude e Ofelia. La regina Gertrude è la madre alla quale il figlio non perdona di essere passata con troppa rapidità da un letto all’altro, spinta dalla lussuria e vittima di una libidine che “si abbuffa vorace di sudiciume”. Amleto, rivolgendosi alla donna con il furore di un amante geloso e di un figlio tradito, le ordina di praticare l’astinenza sessuale, perché il suo non può essere un nobile sentimento amoroso; la prega di non rivelare a nessuno la sua finta follia e di riferire al re che suo figlio è veramente impazzito. La regina crede in questa finzione o in una reale follia? Difende e protegge suo figlio? In ogni caso asseconda i suoi piani e si riscatta salvandogli la vita, quando nel duello finale impedisce ad Amleto di bere il vino avvelenato che lei ha già bevuto.
Ofelia è una fanciulla innocente e sinceramente innamorata del principe e, quando lui entra nella sua stanza indossando la maschera del folle, la giovane sente vacillare il suo amore, respinge le sue lettere e le sue profferte amorose, corre dal padre per dirgli che Amleto è vittima di una follia che Polonio scambia per la pazzia propria di un innamorato respinto. A sua volta Polonio, dopo avergli ordinato di non cedere alle lusinghe del principe che, per gli obblighi del suo rango, non potrà mai essere il suo sposo, la manipola e la strumentalizza, inviandola a sondare lo stato mentale del principe. Amleto, pur amandola, vede in Ofelia una femmina soggetta a peccare e a generare altri peccatori, per cui sfoga su di lei la propria misoginia in una scena di brutale violenza: “Dio vi ha dato una faccia e voi vene fate un’altra. Ancheggiate, ondeggiate, bisbigliate. date nomignoli alle creature di Dio e spacciate la vostra impudenza per candore. Via non ne voglio più sapere. Mi ha reso pazzo. Dico che i matrimoni non s’hanno più da fare. Quelli che si sono sposati – tranne uno – vivranno. Gli altri resteranno come sono. Va, chiuditi in convento”.
Carmelo Bene- in Amleto di Shakespeare
Ofelia, sconvolta per la morte del padre e per l’abbandono dell’uomo che ama, si trova avvolta da una tragica solitudine che finisce per farla impazzire e farla morire affogata in un fiume, vittima innocente e sacrificale di una società violenta e crudele, specchio di un mondo marcio dove nessuno prega, nessuno si pente, nessuno perdona, dove a pagare sono gli esseri più deboli e indifesi, dove l’amore è una variabile che il teatro della vita non prevede e non comprende. Questa tragedia finisce praticamente di fronte alla tomba di Ofelia, quando Amleto confessa pubblicamente il suo amore e afferma il primato del suo dolore rispetto al fratello che lo accusa di aver fatto impazzire e spinto al suicidio la giovane.
La follia di Amleto realtà o finzione?
“Il tema della follia occupa in Shakespeare una posizione estrema nel senso che essa è senza rimedio. Niente la riporta mai alla verità e alla ragione: la follia, nei suoi vani ragionamenti, non è vanità; il vuoto che la riempie è un male molto aldilà della mia scienza, come dice il medico a proposito di Lady Macbeth; è già la pienezza della morte: una follia che non ha bisogno di medico” (Michel Foucault).
La pazzia di Amleto è vera o falsa? Amleto è folle o si finge folle? In ogni caso il principe, per mezzo della follia, si ritaglia uno spazio di libertà per arrivare attraverso la menzogna a scoprire la verità. La sua è una follia ambigua, simulata per trarne un vantaggio quando è solo o con gli amici è lucido e consapevole, è capace di profonde riflessioni; quando finge di essere folle assume il ruolo del vendicatore. In questo vortice di ragione e pazzia, Amleto è costretto a distinguere che cosa è reale e che cosa è apparenza, anche se le sue barriere psicologiche cominciano a vacillare, tanto da apparire gioioso e triste, comico e violento, un uomo dagli alti ideali che ama e odia la vita, una persona sensibile ma con una debole volontà. Dotato di una coscienza iperattiva, egli cade facilmente nella recriminazione e nell’autoflagellazione, soppesa e valuta ogni suo pensiero, non giustifica nessuna azione, per cui il suo percorso verso la verità arriverà a trovare una soluzione solo alla fine della storia. Sulla base di questi elementi si può avanzare l’ipotesi che Amleto soffra di una voluptas dolendi non patologica, ma derivante dalla sua condizione di figlio chiamato ad assolvere un compito che non sente come un dovere, di persona costretta a esplorare le radici più profonde della fragilità umana, a saldare il conto con il proprio destino.
Il tema della follia ha fatto nascere diverse teorie psicoanalitiche che possono sembrare persino eccessive, tenuto conto che siamo di fronte a un personaggio nato dalla fantasia di un autore. Tuttavia, dopo la scoperta fatta nel 1896 dallo storico inglese Brandes, per il quale questa tragedia sarebbe stata scritta da Shakespeare agli inizi del Seicento, poco dopo la morte del padre, molti autori, compreso Freud, ritengono che dietro il personaggio di Amleto si celi la persona del suo creatore e che l’opera rappresenti una catarsi psicologica destinata a risolvere i problemi esistenziali del drammaturgo. Del resto è incontestabile che la tragedia, alla quale Shakespeare ha lavorato dal 1589 al 1601, rappresenti una svolta fondamentale nella sua vita e nella sua opera, perché appare completamente diversa dai precedenti drammi storici inglesi e ha pochi punti di contatto con i sedici grandi drammi scritti successivamente.
Lo psicanalista André Green sostiene che in Amleto sono presenti tre livelli di follia: il primo livello è al servizio dell’astuzia e si basa sulla dissimulazione, che il principe usa per realizzare il suo progetto di vendetta con un gioco destinato a inquietare i suoi nemici che non sanno più chi egli sia; il secondo livello è la passione malinconica che nasce dal lutto per la ferita inferta ai suoi sentimenti filiali, per il crollo dell’immagine idealizzata della madre degradata dal ruolo di madre a quello di prostituta; l’ultimo livello è la follia amorosa che porta Amleto a scaricare la sua misoginia e il suo odio su Ofelia e sulla madre. Amleto ha scoperto che il candore materno nasconde la sfrenatezza del peccato; ha intuito che Ofelia, immagine della purezza e della sincerità, è stata usata come esca per tendergli una trappola e la colpisce verbalmente con estrema violenza, gettando le premesse perché la fanciulla cada vittima di una vera follia.
Nell’analizzare il personaggio di Amleto, Freud ritiene che il suo inconscio desiderio di uccidere il padre e di giacere con la madre sia stato rimosso, facendo così rallentare la sua azione e facendo risvegliare in lui quelle pulsioni e quei desideri sopiti nel confronto con la realtà. “Il mito di re Edipo che uccide il padre e prende in moglie la madre, rivela il desiderio infantile, contro cui interviene più tardi la ripulsa della barriera conto l’incesto. La creazione poetica dell’Amleto di Shakespeare nasce sul medesimo terreno del complesso incestuoso, questa volta meglio mascherato…Nell’Edipo l’infantile fantasia di desiderio, su cui l’opera si accentra, viene evidenziata e portata a compimento come nel sogno; nell’Amleto resta rimossa e la sua presenza c’è rivelata unicamente, come avviene in una nevrosi, dagli effetti inibitori che ne sono la conseguenza. L’effetto prodotto nell’Amleto non esclude il fatto che si possa ignorare del tutto la personalità dell’eroe del dramma, che è costruito sulla sua riluttanza a compiere il gesto di vendetta assegnatogli; l’opera non ci dice il motivo di questa esitazione, né i più disparati tentativi di interpretazione hanno potuto indicarcelo” (Sigmund Freud, L’interpretazione dei sogni).
Secondo Freud, Amleto è un malato d’isteria e questo spiega sia la sua esitazione a uccidere lo zio per vendicare il padre, sia l’indifferenza con cui manda a morire due cortigiani e uccide Laerte: “La sua coscienza è il suo inconscio sentimento di colpa. E non sono forse isterici la sua freddezza sessuale quando parla con Ofelia, la sua reiezione dell’istinto di generare figli, e infine il suo transfert dell’azione da suo padre a Ofelia? E forse che alla fine non riesce, esattamente allo stesso singolare modo con cui lo fanno i miei isterici, ad attirare su di sé la punizione e a subire lo stesso destino del padre, quello di essere avvelenato dallo stesso rivale?” (Lettera a Wilhelm Fliess del 15 ottobre 1897).
Jung sposta l’attenzione dalla pulsione sessuale di Amleto verso la madre alla figura del Padre, sostenendo che l’emersione simbolica della figura paterna nei sogni diventa il veicolo di una normativa sociale (“Nei sogni, è da una figura di padre che provengono decisive persuasioni, proibizioni, consigli”). Jung ritiene che il nostro inconscio si serva di immagini (gli archetipi) che illustrano tutta una serie di tematiche psicologicamente connesse tra di loro. Nel caso di Amleto l’apparizione del fantasma paterno diviene un’apparizione dell’archetipo, una proiezione psichica che attraverso le immagini trova la sua voce, per cui questa irruzione del sovrannaturale nel mondo reale nasce dalle profondità inconsce dell’individuo.
Considerazioni finali su Amleto
Aldilà di tante analisi e valutazioni, possiamo affermare che nessun’altra opera teatrale contiene una così vasta gamma di sentimenti e di azioni, nessuna offre un’immagine così ricca e complessa dell’operare umano, nessuna sa meglio analizzare gli aspetti più segreti dell’anima, perché in questa tragedia sono rappresentate le vicende individuali e dello Stato, le amicizie e gli affetti, gli odi e le uccisioni, i tradimenti e le congiure, le pene d’amore e le perversioni sessuali, la razionalità e la follia dell’uomo. Incapace di dare delle risposte e delle certezze, Amleto rimane solo sul palcoscenico e affida a Orazio il compito di raccontare la sua vera storia, perché tutto “il resto è silenzio”. Perdonare Amleto è come perdonare noi stessi consapevoli che egli ha saputo colmare l’abisso tra il recitaredi esserequalcuno e l’esserequalcuno.
Shakespeare ha teatralizzato i valori della libertà e della responsabilità, ha introdotto l’idea che la volontà umana può essere libera senza essere inquinata dal peccato, perché l’individuo possiede il libero arbitrio senza il quale nessun uomo avrebbe la possibilità di scegliere il proprio destino. Amleto, a differenza di Edipo e di Oreste, non agisce sotto l’imposizione del Fato, ma è il principale artefice di se stesso, non si lascia imprigionare dalle circostanze nemmeno quando le scelte gli vengono imposte dall’alto. La sua è la storia di un giovane che prende coscienza di una malattia spirituale ancora presente in qualsiasi società, perché il “marcio” di Elsinore colpisce non solo la sensibilità del protagonista, ma la nostra attuale sensibilità. In questa sua tragedia Shakespeare ci mostra un eroe che il mondo crocifigge alla croce del tempo, condannandolo a vivere in una società dove essere, rispetto al non essere, richiede uno sforzo tremendo.
Nello stesso tempo l’autore propone una nuova ricchezza di pensieri e di emozioni, un nuovo modo di rappresentare il dolore, chiamando Amleto a decidere tra stoicismo e attivismo, tra la scelta di morire e l’impegno di vivere, tra l’attrazione per l’ignoto e il pensiero che la morte non costituisce la fine di un’esistenza travagliata, ma l’inizio di un nuovo tormento. Nel suo celebre monologo è assente ogni segno di follia, perché esso contiene una profonda saggezza rappresentata da parole che sono la discesa nel più profondo mistero dell’umanità, la più drammatica riflessione sulla vita.
Per leggere la tragedia
William Shakespeare, Amleto, traduzione di Eugenio Montale, Vallecchi, Firenze, 1949, Mondadori, 1977
William Shakespeare, Amleto, traduzione di Cesare Garboli, Einaudi, 2009
Bibliografia essenziale
Giorgio Melchiori, Shakespeare, Laterza, 1994
Isabella Imperiali (a cura di), Shakespeare al cinema, Bulzoni, 2000
Harold Bloom, Shakespeare. L’invenzione dell’uomo, Rizzoli, 2001
Andrew C. Bradley, La tragedia di Shakespeare. Storia, personaggi, analisi, Zizzoli, 2002
Aldo Carotenuto, L’ombra del dubbio. Amleto nostro contemporaneo, Bompiani, 2005
Nadia Fusini, Di vita si muore. Lo spettacolo delle passioni nel teatro di Shakespeare, Mondadori, 2010
Film consigliati
Amleto, regia e interpretazione di Laurence Olivier, GB, 1948
Amleto, regia e interpretazione di Carmelo Bene, Italia, 1973
Hamlet, regia e interpretazione di Kenneth Branagh, GB-USA, 1996
Amleto, regia e interpretazione di Laurence Olivier, GB, 1948
LA TRAMA
Nel XVI secolo, nel castello di Elsinore in Danimarca, due sentinelle avvertono Orazio che, nelle ultime notti, è apparso loro a mezzanotte un fantasma. Orazio vede a sua volta lo spettro e rimane colpito dalla somiglianza con il defunto Re Amleto, per cui decide di avvertire il principe Amleto. Intanto è salito al trono Claudio, fratello del re e zio di Amleto, che si è immediatamente sposato con Gertrude, la regina rimasta vedova. Un matrimonio che Amleto non ha accettato, per cui è triste e indignato per la scelta della madre. Dopo avere appreso della comparsa dello spettro, Amleto raggiunge Orazio sugli spalti del castello e il fantasma fa intendere di voler parlare solo con Amleto e gli annuncia la terribile verità: a parlare è lo spirito di Re Amleto, tornato sulla Terra per chiedere al figlio di vendicarlo. La sua morte non è stata casuale: Claudio, approfittando del sonno del re, ha versato nel suo orecchio un veleno mortale, facendo credere a tutti che la morte del re sia stata provocata dal morso di un serpente. In questo modo Claudio si è impossessato del trono e della moglie del defunto sovrano, con la quale già intratteneva una relazione adultera. Lo spettro chiede ora ad Amleto di punire l’assassino. Finito il colloquio con il fantasma, il giovane ordina di mantenere il segreto sulle apparizioni. Preoccupato per la tristezza del nipote, il nuovo sovrano cerca di scoprirne le cause, servendosi di Ofelia, la figlia di Polonio che sta accuratamente evitando Amleto perché diffida dalle sue dichiarazioni d’amore. Mentre il re, la regina e Polonio sono nascosti in un angolo, Ofelia incontra Amleto che, nel frattempo, tra sé e sé sta recitando il monologo “Essere o non essere”. Turbato dalla scoperta dell’assassinio del padre, Amleto le nega il suo amore e le consiglia di entrare in convento. Amleto è particolarmente entusiasta per l’arrivo di una compagnia di attori: il giovane decide di modificare la sceneggiatura del loro spettacolo, aggiungendo delle parti per mettere in scena l’assassinio del padre per osservare le reazioni del Re Claudio e poterlo così smascherare davanti a tutti. Purtroppo il piano di Amleto con la rappresentazione teatrale dell’omicidio del padre va a buon fine: Claudio esce indignato dalla sala e la regina Gertrude decide di avere un colloquio con il figlio per comprendere le ragioni della sua condotta, ma è duramente rimproverata dal figlio. Polonio, che si è nascosto nella camera della regina per riferire tutto al re, è scambiato per Claudio e viene ucciso da Amleto. Sempre più convinto che Amleto sia un pericolo per la corona, il re decide di spedirlo in Gran Bretagna con l’ordine che egli sia ucciso non appena arrivato in terra inglese. Intanto Laerte, fratello di Ofelia, avuta la notizia della morte del padre Polonio, ritorna in Danimarca per vendicarsi. Il re gli propone di sfidare a duello Amleto (che intanto è sfuggito alla morte ed è ritornato a Elsinore), intingendo nel veleno la punta della sua spada e avvelenando la coppa del vincitore in caso Amleto ottenga comunque la vittoria. Ofelia, resa folle dal dolore causatogli dal rifiuto di Amleto e dalla morte del padre, si uccide gettandosi in un fiume. Il duello sarà all’ultimo sangue: Amleto vince il primo assalto e la regina, brindando alla sua salute, beve dalla coppa avvelenata. Intanto i duellanti, nella confusione che segue, si scambiano più volte i fioretti e vengono entrambi colpiti dalla punta imbevuta nel veleno. Morta la regina, Laerte decide di rivelare tutta la verità ad Amleto che, preso dall’ira, si getta sul re e lo trafigge con la spada incriminata, costringendolo poi a bere dalla coppa che ha ucciso la madre. Prossimi alla morte, i duellanti si riconciliano e Orazio è incaricato da Amleto di raccontare la sua vicenda.
–Articolo di Alberto Pellegrino-Fonte-Lettere dalla Facoltà – Bollettino dalla facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università Politecnica delle Marche
-Articolo di Daniela Musini per Vanilla Magazine Club-
ANTONIO LIGABUE -“El matt”,lo chiamavano quelli della Bassa, quando lo vedevano vagare tra le nebbie del Po, parlare da solo, fare smorfie terrifiche ed emettere suoni animaleschi.
«Dam un bès» (dammi un bacio) chiedeva ossessivamente, un grido lacerante come una tela tagliata.
Ma a lui, vagabondo dall’aspetto sgraziato e grottesco, quel bacio non lo dava mai nessuno, tanto meno le donne che, vedendolo, tiravano via velocemente o si scansavano spaventate e disgustate.
E allora lui se l’inventava una compagna, indossando abiti femminili, in una struggente e patetica farsa.
E agli sghignazzi della gente del posto, lì a Gualtieri, in provincia di Reggio Emilia, rispondeva con un sorriso sgangherato, ma più spesso con scatti di furore.
“El matt”, ma anche “El tedesch”, perché era nato a Zurigo il 18 Dicembre 1899 da Elisabetta Costa, ragazza madre del bellunese emigrata in Svizzera (lui non saprà mai chi fosse suo padre); quando aveva due anni sua madre si sposò con Bonfiglio Laccabue che lo adottò dandogli il suo cognome.
Era un uomo violento e tirannico, Bonfiglio, a dispetto del nome, e Antonio lo detestava e, preda di un rancore livoroso e mai sopito, lo accuserà fino alla morte di aver ucciso la madre e i 3 fratellini che da quell’unione erano nati, avvelenandoli (e invero morirono tutti e quattro per una esiziale intossicazione alimentare).
E fu per questo che si firmerà sempre Ligabue e non Laccabue: per odio.
Quella tragedia ebbe conseguenze devastanti per il suo equilibrio psichico ed emotivo già da sempre fragilissimo, e per la sua esistenza: dato in adozione ad una coppia zurighese, iscritto in una scuola per bambini minorati mentali, sottoposto a privazioni e vessazioni, iniziò già a 18 anni quella drammatica teoria di ospedali psichiatrici e ricoveri di fortuna, quella straziante odissea che lo fa approdare a Gualtieri, dove vivrà fino alla morte.
Appena arrivato, solo, senza parlare e capire una parola d’italiano, dal carattere ruvido e e aspro, dai modi selvatici e bruschi, dagli scatti umorali incontrollati e dal famelico bisogno d’affetto, guardato con sospetto dalla comunità locale, cominciò a vivere ai margini della società, un reietto vagabondo che si riparava nelle stalle e che aveva più dimestichezza con gli animali (di cui imitava versi e posture) che con gli esseri umani.
E cominciò a dipingere, “el matt”, dovunque gli capitasse, su fogli e con colori prestati da anime buone: un universo primitivo e onirico, fatto di aquile rapaci e tigri dalle fauci spalancate, di animali in lotta tra di loro e serpenti e “vedove nere” infide e letali.
La violenza repressa del suo animo angosciato, le vertigini e gli abissi della sua mente, la sopraffazione dei più forti, il soccombere dei più deboli: tutto c’era in quei dipinti dai colori lussureggianti, tra quelle foreste, anzi, giungle folte e pregne di simboli nascosti, che farebbero pensare alla pittura naïf del Doganiere Rousseau, se non fosse che nel segno spesso e contorto di Ligabue, in quei colori accesi e aggressivi, c’è un che di inquietante, ancestrale, ferino.
Se ne accorse, con stupore, il pittore Renato Marino Mazzacurati, mica uno qualunque, uno che faceva parte della Scuola Romana e aveva dimestichezza con il Cubismo e l’Espressionismo, e che gli insegnò l’uso dei colori ad olio.
La pittura si fece allora ancora più vivida con i colori che sembravano spremuti direttamente dai tubetti, come nei dipinti dei Fauves (“Belve”, appunto) di primo Novecento che rispondevano ai nomi di Matisse, Van Gogh, Derain, de Vlaminck, ma con un’aura più nevrotica, più feroce e disperata che anticipava i furori espressionistici di Schiele.
E poi quegli autoritratti che dipinse ossessivamente (ben 300) in cui lui ha sempre quell’espressione guardinga e strabuzzata, quel ghigno ostile che gli serra le labbra, e la vedi la sua anima tormentata, percepisci i suoi incubi, i suoi drammi, le violenze subite.
Durante la seconda guerra mondiale “el matt” divenne utile ai suoi compaesani perché conosceva il tedesco e faceva da interprete agli occupanti in cambio di un pasto caldo e di un giaciglio riparato.
Ma poi una bottigliata in testa ad un soldato tedesco lo fa precipitare di nuovo nel gorgo dei ricoveri in manicomi, da cui esce ogni volta sempre più squilibrato, furibondo, disperato. E la pittura si fa ancora più gridata e ringhiosa.
Poi la svolta, improvvisa, inaspettata, nel 1948 quando critici e mercanti d’arte si accorsero finalmente di lui e furono interviste e articoli stupefatti e ammirati.
Divenne anche ricco, proprio lui, “el matt”, “el tedesch”.
E allora realizzò il sogno di una Vita: comprarsi una motocicletta, una Guzzi rossa fiammante, con cui sfrecciare tra le strade di Gualtieri, così glielo faceva vedere ai suoi compaesani, a quelli che l’avevano deriso ed emarginato.
E persino un’auto con tanto di autista in divisa che doveva togliersi il cappello (così s’era impuntato) ogni volta che lui entrava e si sedeva sui sedili posteriori, come facevano i signori.
Perché se non aveva potuto avere l’amore e l’amicizia, almeno il rispetto glielo dovevano tutti ora, perdinci!
La passione per la motocicletta gli fu fatale.
Un brutto incidente lo ammaccò nel fisico e nell’anima cui fece seguito una maligna paresi.
La Vita, ancora una volta, lo aveva sferzato con unghiate crudeli.
In una radiosa giornata di maggio del 1965, chiese al Curato di essere battezzato e cresimato.
Tre giorni dopo, il 27, Antonio Ligabue, uno dei più geniali artisti del Novecento spirò.
Ma la sua leggenda continua.
-Articolo di Daniela Musini per Vanilla Magazine Club-
e il suo soggiorno obbligato dal regime fascista a RIVODUTRI di Rieti
LINA CAVALIERI
RIVODUTRI (Rieti)-2 luglio 1940 –Il soggiorno obbligato perLINA CAVALIERI, LA DONNA PIU’ BELLA DEL MONDO.
LINA CAVALIERI
LINA CAVALIERI Il 2 luglio 1940 fu internata, con obbligo di firma tre volte al giorno , insieme alla sorella, a Rivodutri in provincia di Rieti, in quanto suddita francese.A Rivodutri vi restò fino al 27.07.1940 per poi essere trasferita a Rieti. Gabriele D’Annunzio la definì la “massima testimonianza di Venere in terra” e nella dedica di una copia del romanzo “Il Piacere” scrisse: “a Lina Cavalieri, che ha saputo comporre con arte, una insolita armonia tra la bellezza del suo corpo e la passione del suo canto. Un poeta riconoscente. Firmato Gabriele D’Annunzio.”
Lina Cavalieri risiedette, durante il soggiorno a Rivodutri, in via Micheli Giuseppe 1, nei pressi della Piazza del Municipio.
N° O07I4 P/llo Rieti, 5 luglio 1940 XVIII
Oggetto; Cavalieri Natalia fu Florindo e fu Peconi Teonilla nata a Roma,25/12/1876 – suddita francese.
Al PODESTÀ’ di Rivodutri
AL COMANDO STAZIONE CC.RR. Rivodutri
p.c .ALLA R. PREFETTURA DI – RIETI
ALLA R. PREFETTURA DIV. RAGIONERIA di RIETI
AL COMANDO GRUPPO CC,RR. di RIETI
AL COMANDO COMPAGNIA CC.RR. Rieti
Con foglio di via obbligatorio ho avviato costà, in data odierna, l’individuo in oggetto il quale, con provvedimento I* corr» N°484I2/443
del Ministero dell’interno, viene internato in cotesto Comune.
Il Podestà di Rivodutri è pregato attenersi scrupolosamente
alle seguenti disposizioni Ministeriali;
.
I°) – All’arrivo dell’ internato provvedere a far impiantare il fascicolo personale ed un registro, nel caso vi siano più internati
2°)- Stabilire il perimetro entro il quale l’internato può circolare.
3°) – Imporgli, senza però rilasciargli speciali carte di permanenza, la prescrizione di non allontanarsi da detto perìmetro. Per gìustificati motivi sì pòtra consentire all’internato di recarsi in determinate località dell’abitato. II permesso dì allontanarsi dall’abitato potrà, invece, essere concesso soltanto dietro autorizzazione del Mini¬stero, da richiedersi pel tramite di quest’Ufficio.
4°) – Imporre all’internato un orario con divieto, salvo giustifi¬cati motivi o speciali autorizzazioni, di uscire prima dell’alba e rin¬casare dopo l’Ave Maria.
5e) – L’internato dovrà presentarsi tre volte.al giorno: al mattino. a mezzo giorno ed alla sera, al Podestà o ad un Funzionario Comunale che ne prenderà nota nel fascicolo personale. In caso di constatata as¬senza il Podestà dovrà darne immediato avviso a cotesta Stazione CC.CC,; per le ricerche, telegrafando altresì a quest’Ufficio.
6°) – L’internato potrà consumare i pasti in esercizi o presso famiglie private del posto, dietro autorizzazione del Podestà.
7′) L’internato ha l’obbligo di serbare buona condotta e non dar luogo a sospetti e mantenere contegno disciplinato,
8°) – Non è consentito all’internato dì tenere presso di se passa porti o documenti equipollenti e documenti militari.
9°) – L’internato non deve possedere danaro a meno che non sì tratti di piccole somme non eccedenti in nessun caso le cento lire; le eccedenze dovranno essere depositate presso banche o uffici postali su libretto nominativo che sarà conservato dal podestà. Qualora l’internato abbia necessità di effettuare prelevamenti, dovrà chiedere di volta in volta l’autorizzazione al podestà il quale, se ritiene gìustificata la richiesta provvedere a fare eseguire l’operazione tenendo presenti che la somma da prelevare non deve mai superare quella consentita. Prelevamenti di somme superiori dovranno essere autorizzati dal Ministero,pel tramite di questo Ufficio.
IO°)- L’internato non può tenere gioielli di valore rilevante né t:itoli; tanto i gioielli che i titoli dovranno essere depositati a spese dell’interessato,, in cassette di sicurezze presso la banca più vicina dove l’internato sarà fatto accompagnare per tale operazione. La chiave della cassetta sarà tenuta dall’interessato, mentre il libretto dì riconoscimento sarà conservato dal Podestà,
…………………..Omissis
Firmato: il Questore di Rieti
Di seguito viene riportato uno stralcio del registro della firma dell’internata Lina Cavalieri. Le firme dovevano essere apposte alle ore: 9,00, alle 12,30 ed alle 18,30
stralcio del registro della firma dell’internata Lina Cavalieri
Biografia di Lina Cavalieri-Autore Marta Questa
Era il 1936 quando fu pubblicato a Roma il libro Le mie verità scritto da Lina Cavalieri, canzonettista, soprano lirico, mito della belle époque europea ed attrice cinematografica. L’ autobiografia, curata da Paolo d’ Arvanni, nome d’ arte dell’ avvocato Arnaldo Pavoni, suo impresario e compagno di vita, era dedicata al poeta Trilussa, pseudonimo anagrammatico di Carlo Alberto Salustri, “grande amico e grande romano” e noto per le sue composizioni in dialetto romanesco. Lina aveva da poco superato i sessant’ anni, età in cui, diceva, “si è maturi per vivere in campagna”. A quell’ epoca aveva scelto di abitare nella villa di Roma “tra alberi secolari e piante e fiori” e per altri sei mesi dell’ anno a 80 chilometri dalla capitale, presso Rieti, a Castel San Benedetto , in collina, zona che diceva, “valorizzata per volere di Mussolini” e dominata dalla “montagna di Roma, il Terminillo”.
L’ aspetto conventuale e serenamente monastico della casa di campagna sembrava giustificare il suo nome La Cappuccina, termine che, comunque, risultava avere molta assonanza con la villa La Capponcina, presso Settignano, a Firenze, abitata per un certo periodo dal poeta Gabriele d’ Annunzio che Lina aveva conosciuto, frequentato e forse, per breve tempo, anche amato e che ai suoi occhi “si era trasformato da poeta incomparabile in eroe leggendario nella guerra che ha reso l’ Italia degna delle più fulgide tradizioni”. Si trattava di una ammirazione reciproca perché già lo stesso poeta a Milano nel maggio del 1903 aveva scritto:” A Lina Cavalieri , che ha saputo comporre con arte una insolita armonia tra la bellezza del suo corpo e la passione del suo canto” ed ancora nel settembre dello stesso anno su un volume, appena pubblicato, dal titolo Il piacere apparve la seguente dedica: “A Lina Cavalieri, alla massima testimonianza di Venere in terra, questo libro ove si esalta il suo potere”.
“I suoi capelli corvini, la pelle d’ avorio, le sopracciglia più lunghe del mondo, le labbra carnosissime e lievemente rilevate, il naso gentile, e all’insù, gli occhi profondissimi e ombrati”, nonché le sue forme valorizzate da splendidi abiti e da un abbigliamento in genere molto scollato, fecero impazzire gli uomini dell’ epoca tanto da essere definita “La donna più bella del mondo”. Si diceva che fosse “ talmente perfetta da fare arrestare le persone per strada”
“Sono nata a Roma il 25 dicembre di un anno che non ricordo”, così esordiva nel libro “Le mie verità” , celando volutamente l’ anno della sua nascita, atteggiamento vezzoso tipico delle donne di spettacolo famose che vogliono nascondere la loro età . “Venni al mondo in una più che modesta viuzza del vecchio Trastevere dal quale lo spirito di Gioacchino Belli aveva saputo trarre ora la satira pungente, ora la poetica descrizione di uomini e di cose”. Era il 1 875 e Roma da pochi anni era capitale del Regno unito d’ Italia con a capo il re Vittorio Emanuele II. Nacque in Via del Mattonato 17 il giorno di Natale e per questo fu battezzata nella basilica di Santa Maria in Trastevere due giorni dopo con il nome, si dice, di Natalina. Sin da bambina si manifestò vivace e caparbia : “Mia madre aveva tentato tutti i mezzi per domare questa eccessiva mia indipendenza di carattere. Trovate assolutamente inutili le forme più comuni di persuasione, ricorreva assai spesso alle busse, che non sortivano effetto migliore degli amorevoli ammonimenti”. Le piaceva giocare a picca a campana e cercava sempre con gli amici di entrare nei baracconi da fiera senza pagare. Lasciata bruscamente “l’età dei giochi”, a causa della situazione familiare economica molto precaria, svolse diversi mestieri per sostenere la famiglia: sarta apprendista, quindi, fioraia ambulante ed anche piegatrice di giornali presso il quotidiano La Tribuna. “Lavoravo, rigovernavo, facevo le compere, custodivo i miei fratelli Nino e Oreste e mia sorella Giulia. Nella nuova stamberga che ci alloggiava, in Via Napoleone III (una camera e una cucina) tutto intorno a me era squallore. Io lo sentivo , mi si stringeva il cuore , ma per uno strano contrasto sempre presente in ogni i istante della mia vita, cantavo […]. Il caso volle che mi dedicassi al teatro”. L’ abitudine della ragazza a cantare durante il lavoro con una notevole voce spinse la madre a ricorrere ad Arrigo Molfetta, maestro di musica, non certo passato alla storia, che si offrì gratuitamente di insegnare a Lina qualche canzonetta per diventare una chanteuse di caffè – concerti . Nel 1887 fu scovata nei Capannoni di Porta Salaria dall’ impresario Nino Cruciani che la scritturò per il caffè-concerto Esedra. Il suo primo repertorio era costituito di tre canzoni : Core innamorato, Chiara Stella, Il cavallo del colonnello, una di quelle composizioni a doppio senso allora di moda, ed un teatrino di piazza Navona fu luogo del suo esordio. “Avevo quattordici anni – scrive nel memoriale Le mie verità – la mia buona mamma mi accompagnava a piedi dalla nostra casa di via Napoleone III a piazza Navona […] perché eravamo tanto povere da non poterci permettere il lusso di un tram. Del mio ingresso nella vita artistica conservo un confuso ricordo di paura […], le mie mani trepide, tormentavano il mio vestitino, la bocca non riusciva ad aprirsi, la gola serrata dallo spavento non emetteva alcun suono. In quest’ attimo terribile intravidi la mia casetta, la necessità e inconsciamente aprii le labbra, articolai qualche nota. Cessò la musica del piano scordato, un frastuono di mani plaudenti mi scosse e quasi automaticamente ricaddi tra le quinte. Quando molti anni dopo la critica dei grandi quotidiani americani rilevava[…] il caldo singulto arrotondante della mia voce, ho ripensato che il mio debutto fu dolente e che forse quella sera , nella fumosa sala di piazza Navona, la mia voce ricevette il crisma del singhiozzo, che si confuse per sempre alle mie note appassionate”. Da quel timoroso debutto nel sordido teatrino romano, dove cominciò ad esibirsi per una lira al giorno, indossando ogni sera un semplice abitino di tessuto a fiori celeste comprato a Campo dei Fiori e cucito dalla madre, la popolarità sarà in continua ascesa grazie anche alla sua bellezza, sensualità e temperamento focoso, divenendo in breve tempo una figura popolare della Roma umbertina. La scritturarono in locali sempre più importanti e famosi. Nel 1894 il nome di Natalina Cavalieri per la prima volta apparve sulla locandina del Concerto delle Varietà, in Via Due Macelli , poi sarà la volta del grande teatro Orfeo, per dieci lire al giorno, e poi al teatro Diocleziano per quindici lire. Il suo repertorio si arricchì di altre canzoni: La Ciociara, Funiculì – funiculà, A Frangesa di Mario Costa. Il suo successo romano fu siglato anche dalla elezione a reginetta di Trastevere, avvenuta una sera di Carnevale al teatro Costanzi, per merito soprattutto di un principe romano e dei suoi amici, e questo titolo le agevolò l’ingresso al grande Orfeo, dove i suoi meriti artistici ebbero l’opportunità di essere consacrati. Arrivò dopo anche per lei il momento di approdare nel regno italiano dei cafè chantant, caffè con spettacoli di varietà: il Salone Margherita di Napoli, il luogo, in quel periodo, più prestigioso per una canzonettista. Fu l’ impresario del salone Margherita che nel 1895 la presentò al pubblico per la prima volta con il nome abbreviato di Lina al posto del dichiarato Natalina. Dichiarato perché molti dubbi sorgeranno infatti sul suo nome proprio quando nel 1940, durante il breve periodo di internamento nel carcere di Rivodutri, vicino a Rieti, sarà registrata con il nome di Natalia e non Natalina e questo può far pensare che a Napoli, al momento dell’ abbreviazione, lei o chi altro per lei, avesse preferito al diminutivo Lia, forse troppo breve, quello di Lina con il quale poi sarà conosciuta in tutto il mondo. Nei tre locali partenopei più famosi, quali il Salone Margherita l’Eldorado e l’Eden si esibì con il suo repertorio delle più celebri canzoni napoletane di Maria Marì, O sole mio, Marechiare, e con l’inedita Ninuccia, canzone che fu composta per lei dal poeta e musicista napoletano Giambattista De Curtis su testo di Vincenzo Valente e di cui fu la prima interprete. Era alta, aggraziata con un contegno angelico e trasognato e molto sensuale ed a Napoli, anche quando entrava in scena cantando” O sole mio”, accompagnata da un gruppo di mandoliniste vestite da pescatore, faceva impazzire tutti gli uomini. Napoli rappresenterà per lei in trampolino di lancio per l’ Europa. Aveva appena vent’ anni quando da lì andò a Parigi, alle Folies Bergère, riproponendo il suo programma di canzoni napoletane, con un’ orchestra completamente femminile con chitarre e mandolini. Lina Cavalieri sconcertò Parigi: si fece scoprire dai suoi ammiratori mentre correva vezzosamente per il Bois de Boulogne su un velocipede color rosso fuoco,” polpacci e caviglie in bellavista, il volto graziosamente arrossato dallo sforzo.”. Fu un’abile strategia che le consentì, già allora, di ottenere un’ampia pubblicità gratuita. Nella primavera del 1893 Natalina aveva già saputo attirare attorno a sé l’attenzione degli sportivi e l’ammirazione delle donne recandosi a Milano per una gara ciclistica nella quale l’attrice aveva sfidato la fioraia Adelina Vigo. Quella delle due ruote fu per la Cavalieri un sincero diletto sportivo che l’accompagnò anche negli anni successivi e che la portò a correre e a vincere la corsa a tappe Roma – Torino e ancora, nel 1899, a sfidare la campionessa belga, mademoiselle Hélene Dutrierux.
Dimostrava di comprendere lo spirito del tempo: diffusione dello sport tra le donne significava emancipazione. Il pedalare un velocipede liberava dall’opprimente corsetto, ne scopriva il corpo, e tutto questo dava alla donna la coscienza del proprio fisico e sessualità. La belle epoque” fu affascinata dalla sua intraprendenza, dalla sua grazia e dalla sua straordinaria bellezza. Cominciavano a circolavano in tutto il mondo cartoline postali che riproducevano il suo volto, i suoi favolosi boa di struzzo, i suoi splendidi gioielli che fecero sognare donne di tutti i paesi.
Salì poi sul palcoscenico dei più importanti teatri di Londra, Berlino e San Pietroburgo.
Aveva già un figlio, Alessandro, chiamato anche lui con un diminutivo: Sandro. Era nato a Roma nel febbraio del 1892, si dice, da una relazione con il maestro di musica Arrigo Molfetta, a cui, poi, Lina qualche anno dopo, sembra, avesse restituito tutto il denaro “prestato per gli alimenti”, perché non avesse alcuna ingerenza nell’ educazione di quello che reputava solo suo figlio . In quegli anni Lina non poteva immaginare ancora che Sandro avrebbe più tardi preso il cognome del suo terzo marito, il tenore francese Lucien Muratore.
Di lei si diceva che era una danzatrice aggraziata, in grado di compiere i movimenti ed i gesti più allusivi con tale innocenza e con tale fanciullesca semplicità e fascino che la loro natura pornografica veniva ignorata. Jules Massenet., autore di alcune fra le opere portate in scena da Lina semplificava così: “La bellezza ti dà il diritto di sbagliare qualche volta”.
Fu a Mosca che omaggiò il pubblico di una versione un po’ pasticciata di Oci ciorni e, nonostante la pronuncia approssimativa, ne ricavò tanti applausi ed il dono di un facoltoso ammiratore: una cesta di fiori unita ad una collana di smeraldi appartenuta all’ inglese Lady Hamilton. Il donatore era il principe russo Aleksander Bariatinsky che Linotchka, come lui la chiamerà, sposerà in segreto a Pietroburgo nel 1899.
Fu alla fine del secolo che, spinta da molteplici pareri favorevoli, Lina decise di passare al canto lirico. Darà definitivamente l’ addio al varietà per realizzare un sogno più ambito: diventare una cantante lirica, professione considerata all’epoca più nobile. Fu il tenore Francesco Marconi, il popolare Checco, interprete dei Puritani e del Rigoletto, a perfezionare il suo canto. Prenderà lezioni dall’ affermata cantante del Teatro della Scala, Maddalena Mariani Masi, che di Lina riconoscerà sempre l’ intelligenza, l’ intuito musicale non comuni ed una forza di carattere da permetterle di sottoporla ad uno studio indefesso. “Il teatro lirico metteva in me la febbre del desiderio” .
Il debutto a soprano avvenne nel 1900 a Lisbona ne “I Pagliacci”. Fu un fiasco totale che Lina nel suo libro attribuì al nervosismo destato dalla presenza della famiglia reale portoghese ed all’ intervento malevolo del manager Petrini, talmente ossessionato da lei da essere disposto a rovinare lo spettacolo per farla cedere alle sue avances.
Il 4 marzo dello stesso anno si cimenterà nella Bohème di Giacomo Puccini nel ruolo di Mimì al San Carlo di Napoli: “Vestii l’ abito di Mimì e cantai. Non potevo non vincere Stravinsi. Sentii Napoli. Napoli mi comprese”.
Il passo era fatto e Lina era diventata soprano lirico.
Sergi Levik, baritono e critico d’ opera di origine russa, così commentava: “L’ enorme lavoro che la Cavalieri ha fatto su se stessa con la supervisione di buoni insegnanti ha trasformato una voce debole e miserella in uno strumento professionale del tutto tollerabile” Si diceva che avesse una voce limpida e fresca, ma piuttosto limitata nel volume, nelle vibrazioni ed anche nell’ estensione e c’ è chi la consigliava di sostare al confine tra il genere lirico e quello leggero.
Il momento di svolta artistica coincise con la fine del suo primo matrimonio a cui seguirà l’ annullamento dell’ unione da parte dello zar Nicola.
Da Napoli si aprirà per lei una carriera che la porterà nei più importanti teatri lirici d’ Europa e d’ America al fianco di nomi celebri della lirica. Fu al S. Carlos di Lisbona, all’ Imperiale di Varsavia, all’ Aquarium di Pietroburgo, al Teatro Massimo di Palermo, al Dal Verme ed al Lirico di Milano nel 1902 e nel 1903, al Carlo Felice di Genova, al Casino di Montecarlo tra il 1904 ed il 1906. Importantissimi sono gli ingaggi che ottenne oltreoceano, a New York, al Metropolitan e al Manhattan. Il suo successo derivava molto dal fatto che incarnava il prototipo di bellezza femminile dell’ epoca: una bellezza trasognata che, unita ad una presenza scenica ed ad una buona recitazione, rappresentava in campo operistico nell’ epoca del verismo una vera e propria carta vincente. Una sera d’ impulso, al termine del gran duetto d’ amore della Fedora, Lina Cavalieri al Metropolitan, durante la stagione del 1906-1907, in scena baciò realmente Enrico Caruso sulle labbra, ottenendo così il definitivo successo del suo personaggio. Per la prima volta in America un’ attrice aveva baciato davvero sulla scena. Fu un trionfo, si gridò allo scandalo e ciò aumentò il successo che la porterà alla vittoria sulla soprano Geraldine Farrar e ad ottenere l’ interpretazione della Manon Lescaut di Puccini. L’ indomani , l’ Evening World intitolava così la cronaca della serata:
”Cavalieri and Caruso, in a fervent embrace arouse a Metropolitan Opera House audience”. La Cavalieri fu allora conosciuta negli Stati Uniti come la primadonna che bacia,“the kissing primadonna”.
L’ influente critico musicale Algernon ST Brenon sul Daily Telegrapphy così scriveva: “Possiede fuoco e varietà di movimento, impulso ed emozione[….].un colpo d’ originalità nel gestire la scena […]. A proposito del canto non ci si può esprimere altrettanto entusiasticamente. A volte le sue note acute sono imprecise, a volte le medie, a volte le gravi; almeno in questo sembra essere imparziale […]. Ma sul palco riesce davvero a dare qualcosa di raro. Nessuno è come lei con quella faccia da madonna e la sua figura sinuosa e serpentina”. Dopo un periodo iniziale di rappresentazioni della Bohème, del Faust, de “I Pagliacci”, s’ indirizzò verso le parti di cortigiana d’ alto rango e di donna fatale. Era attratta da opere come la Fedora, la Tosca, l’ Adriana perché le offrivano l’ occasione di sfoggiare abiti sontuosi che mettevano in risalto il suo fisico e gioielli veri e preziosissimi. Aveva “un portamento da gran dama” e, secondo il giudizio di molti, nessuna primadonna seppe raccogliere e drappeggiare al pari di Lina lo strascico della principessa Fedora.
Ma la Lina Cavalieri “dell’ Opera di Parigi, del Metropolitan di New York, del Coven Garden di Londra, del teatro italiano di Pietroburgo…. ecc.” non cantò mai a Roma come soprano. ”Non ho mai voluto presentarmi al pubblico dei miei concittadini – scriveva nella sua autobiografia- perché ho sempre risentita una autentica paura degli spettatori romani. Il pubblico a Roma è critico, sagace, intenditore perfetto di musica, abituato agli spettacoli lirici più vari e più complessi, assuefatto a dare un giudizio su tutte le celebrità. Sebbene non mi sia mai sentita come artista, inferiore a tanti altri, ho sempre pensato, da buona romana, quale sono, Nemo propheta in patria”.
La bellezza le valse, si dice, ottocentoquaranta proposte di matrimonio e numerosi flirt. La desiderarono gli uomini di mezzo mondo e per lei spasimarono principi, baroni, finanzieri,poitici ed artisti di ogni continente, per lei Wassili d’Angiò, duca di Durazzo, conte di Gravina e di Alba, ex capitano dell’esercito zarista, ultimo discendente del re di Napoli, di Sicilia e d’Albania Carlo D’Angiò a Parigi, fece ricoprire di petali di rose rosse l’intero tragitto tra la stazione ferroviaria e l’albergo in cui l’aspettava. Ma lei stessa in “Le mie verità” scrive: “Tre volte ho sposato e tre volte ho rotto i miei vincoli legali: un russo, un americano ed un francese”. Dopo il principe russo Alessandro Bariatinsky sarà la volta del ricchissimo, “cittadino della stellata repubblica”, l’ americano Robert Winthrop Chanler, conosciuto a New York durante la stagione lirica al Manhattan Opera House, durante un ricevimento dato in onore di Lina in casa della signora Benjamin Guiness, “la migliore e la più cara amica”. “Non avevo per lui che un sentimento di buona amicizia” ed infatti il matrimonio durò appena una settimana e nella sua opera autobiografica scrive: “Le mie valige erano fatte. Partii […]. Ed io rinunziai ai palazzi, alla grande tenuta, alla rendita annua […]. Non ho mai più rivisto il mio secondo marito del quale solo qualche anno fa ho appreso la morte. Amici comuni mi dissero [ ..] che la sua camera era letteralmente tappezzata di mie fotografie”. In realtà c’ è chi disse che una immensa quantità di beni, comprendente addirittura tre palazzi, trasmigrò dalla proprietà dell’ americano nelle mani di Lina prima addirittura della separazione. Anche questa volta la separazione fu dovuta al fatto che Lina amava assumere il ruolo di vera e propria donna di spettacolo. Amava calcare le scene, farsi ritrarre nelle pose più conturbanti, vestire abiti sfarzosi arricchiti anche da pietre preziose spesso regalate dai suoi ammiratori, mariti ed amanti, indossare capi della famosa della sartoria francese di Jeanne Paquin, più conosciuta come Madame Paquin, capi che Lina pubblicizzava in tutto il mondo. “In certe sere il palcoscenico dei teatri veniva trasformato in giardino ed i diamanti, gli smeraldi, i rubini sfolgoravano indosso alla bella artista”. Molto spesso in scena fu vista portare in petto una croce di diamanti, non per la grande devozione per il simbolo, quanto, sosteneva il critico Giulio Piccini, meglio conosciuto con lo pseudonimo Jarro, per il valore delle pietre che la costellavano. Divenne il simbolo della donna più elegante ed affascinante d’ Europa, un sogno per gli uomini di tutti i paesi ed un mito per le donne dell’ epoca. “E’ così bella, si diceva, che troverebbe mille spettatori anche se andasse in un’ isola deserta”.
Il marito francese sarà il tenore Lucien Muratore, che sposerà nel 1913 a Parigi e che diventerà padre adottivo del figlio Sandro. La guerra del 1914 “sconvolse tutto [….] Allontanò da me in poco tempo mio marito nell’ esercito della Repubblica transalpina, due miei fratelli e mio figlio nell’ armata italiana”. Il matrimonio con il terzo marito coincise con l’ abbandono della carriera lirica e l’ approccio con quella cinematografica.
Come tanti ironizzarono, divenne la prima cantante lirica protagonista di films muti. Dopo i primi passi compiuti alle Cines di Roma, società allora diretta dal barone Alberto Fassini, debuttò a Parigi sotto l’ insegna dei Fratelli Pathè. Tra il 1914 ed il 1921 girerà film in Italia, poi a Berlino, in Inghilterra e, prima fra le europee, in America, scritturata dalla Players films company a New York, dove recitò per la prima volta nel film muto “Gismonda “diretto da Edward José e tratto dall’ opera teatrale di Victorien Sardou, L’ eterna tentatrice su scenario di Fred de Gressac, che poi divenne produttore della Metro Goldwin Mayer a Hollywood. ”Il lavoro cinematografico mi piaceva moltissimo – scriveva – ma male sopportavo le luci dei proiettori che mi cagionarono gravi forme di congiuntivite […]. Come al teatro di Montecarlo nella Fedora cantai l’ opera per l’ ultima volta, così a New York l’interpretazione di Gismonda chiuse la mia attività cinematografica”. In Italia, per gli effetti della Grande Guerra, i film americani della Cavalieri furono distribuiti solo al termine del conflitto, non ottenendo peraltro pari successo delle proiezione oltralpe. Da cantante di cabaret a soprano lirico, da sportiva ad attrice cinematografica, scrittrice ed anche produttrice di creme e profumi Il periodo del matrimonio con Muratore coincise anche con l’apertura dell’Istituto di bellezza “Chez Lina”, a Parigi, vicino agli Champs Elysèes, in Avenue Victoir Emmanuel,, oggi avenue du Président Roosevelt, che sarà frequentato da nobili e ricche signore affascinate dal mito della bellezza “costi quel che costi”.
“Mi dedicai a questa nuova forma d’ arte che ritenni anche manifestazione pratica di altruismo”. Fu così che le macchine di massaggio e di ondulazione, le ciprie, le creme, i rossetti e le lozioni, sostituirono per circa dieci anni le orchestre, le scene, le partiture. Le parrucche ed i costumi. I miei compagni di successo non si chiamarono più: musicisti, tenori, baritoni, bassi ma parrucchieri, massaggiatori, manicure e pedicure” ”In questa nuova attività ho avuto gioie e soddisfazioni, se non materiali almeno morali”. La maison fu frequentata dalle signore della nobiltà europea affascinate dal mito della bellezza di Lina che produsse anche cosmetici che recavano sulla confezione il suo nome: ricercatissimi i profumi Monna Lina ed Eau de Jouvence. Nel 1909 la Cavalieri aveva aperto un laboratorio di prodotti di bellezza anche negli Stati Uniti, gestito dal fratello Oreste, nel quale venivano realizzati cosmetici secondo i segreti acquisiti da un antico ricettario di Caterina de Medici che, diceva, “di aver rinvenuto”. Accetterà anche di pubblicizzare vari prodotti dell’ epoca, come quelli della casa di produzione Palmolive e l’ aperitivo Bitter Campari, allora in voga. Nel 1914, aveva dato alla stampa un libro “My secrets of beauty” il cui sottotitolo recava uno slogan che sembra scritto oggi: “Contiene più di mille preziose ricette di preparazione usate e raccomandate da Madame Cavalieri in persona”. Offriva raccomandazioni sulla conservazione della bellezza, consigli che la Cavalieri aveva già dispensato alle lettrici di una rivista francese di attualità e moda femminile.
Le sue varie attività ed i suoi ingaggi la porteranno continuamente a viaggiare da un paese all’ altro, correndo spesso anche dei rischi, in un’epoca, non dimentichiamo, in cui i mezzi di locomozione erano assolutamente primordiali, la distanza tra una località e l’altra praticamente insormontabile così come le frontiere delle varie nazioni.. Durante un suo viaggio da Bordeaux per Nuova York sul piroscafo Patria della Favre Line, che ospitava anche la famosa attrice Sarah Bernhardt, Lina racconta che temette per la sua vita in quanto un sottomarino nemico seguì minaccioso la rotta del piroscafo, dopo averne già fatto affondare ben undici.
Anche il matrimonio con il tenore francese ebbe termine e si separarono a Parigi nel 1927. Ammetterà di aver “amato sempre con riserva, col beneficio dell’ inventario come direbbero gli avvocati specializzati in successione”. “Amo gli uomini come amo la vita, come amo la natura, ma penso che, nella maggioranza dei casi, questo compagno della nostra esistenza è assai inferiore a quel che crede o sente di valere”.
Nel frattempo, una nuova unione ufficiale, c’ è chi sostiene coronata anche da un matrimonio, di cui, però, non ci sono tracce e di cui Lina nelle sua opera autobiografica non fa alcuna menzione, la vedrà impegnata con il campione automobilistico Giovanni Campari, che morirà tragicamente di lì a poco il 10 settembre 1933, uscendo di pista nell’autodromo di Monza durante una gara. Sarà il fratello Davide Campari, l’imprenditore italiano legato anche lui, sembra, sentimentalmente alla Cavalieri, a sfruttare la fama di lei per promuovere in tutto il mondo i propri elisir, le bevande Cordial e Bitter. Nello stesso periodo, ancora molto affascinante, anche se non più giovane, Lina sarà ambasciatrice del made in Italy ma anche la testimonial per prodotti di bellezza, per l’ alta moda sartoriale e per apparecchi musicali Columbia.
Anche il legame sentimentale con Davide Campari non durerà a lungo e nel 1934 la Cavalieri si legò all’avvocato romano Arnaldo Pavoni, di venti anni più giovane di lei, già sposato e che, con lo pseudonimo di Paolo D’Arvanni, curerà due anni dopo la pubblicazione del libro autobiografico di Lina “Le mie verità”, memorie che sembravano un romanzo, tanto da indurre una grande casa cinematografica americana a proporle di girare un film sulla propria vita, che sicuramente sarebbe stato realizzato se non fosse scoppiata la seconda guerra mondiale.
Nel frattempo già all’ età di 55 anni, tre anni dopo essersi separata da Lucien Muratore, si era ritirata dal lavoro. Aveva affidato al figlio l’ amministrazione di tutte le attività di Parigi e Montecarlo , aveva abbandonato il cinema. “Abbandono che non mi rattristò – diceva – perché lo ritenevo solo un riposo”. “Mi ritiro dall’ arte senza chiasso dopo una carriera forse troppo clamorosa”.
Tornò in Italia, comprò una casa vicino a Rieti, a Castel San Benedetto, dove riunì tutti i suoi cimeli e lì visse accanto al suo impresario Arnaldo Pavoni ed al suo cane tanto amato che chiamò Pastorella in sintonia con il nome monastico della villa La Cappuccina. Si racconta che in quegli anni di ritiro in campagna Lina Cavalieri aprisse la sua dimora a tanti ospiti italiani e stranieri, organizzando giornate di festa con spettacoli anche di fuochi d’artificio e con particolari luci ad intermittenza con una cadenza che poteva dar luogo ad una sorta di alfabeto Morse luminoso, destinato come messaggio a qualcuno che si trovava a distanza e nel buio. Queste luci, che potevano, in effetti, servire per lanciare messaggi a chi “si intendeva informare”, e, quindi, il sospetto di spionaggio o di tentato sabotaggio ed il fatto di essere suddita francese furono probabili causa del suo arresto e successivo internamento a Rivodutri, voluto esplicitamente dal Ministero dell’ Interno italiano.
In passato, a partire dalla prima guerra mondiale aveva sempre mostrato una aperta simpatia per le forze alleate. Durante il periodo parigino insieme al terzo marito Lucien Muratore ed all’ amica Rachel Boyer della Comedie francaise aveva fatto parte del Comités pour l’ assistence aux poilus, aveva partecipato alle numerose tournée di propaganda per gli alleati europei insieme al marito anche in occasione del viaggio del maresciallo Ferdinand Foch, che aveva occupato il ruolo di comandante in capo di tutti gli eserciti alleati sul fronte occidentale sino alla resa della Germania imperiale. Negli anni Trenta aveva, si diceva, dato ospitalità nella sua abitazione parigina a Dolores Donati, sorella del più noto Oreste che in quegli anni, come antifascista, era esule in Francia. Nel suo libro Le mie verità, pubblicato nel 1936, facendo riferimento al suo viaggio in Africa settentrionale ed in Asia Minore, parlerà della Palestina come della “culla di tre religioni, la patria del più grande spirito che il mondo abbia conosciuto : Gesù Cristo”, e rimarrà impressionata dalla “visione dei pochi ebrei rimasti in Gerusalemme, non più padroni di casa loro, non più liberi di esercitare liberamente la loro missione di moderne vestali, custodi del fuoco sacro d’ Israele”. Inoltre sempre nella sua opera autobiografica descriverà con acume e benevolenza le caratteristiche dell’ uomo russo, americano, francese, italiano, ma non farà alcun riferimento all’ uomo tedesco, citandolo soltanto in un iniziale e semplice elenco. Non si soffermerà a descrivere le sue particolarità, come se volutamente volesse sorvolare sull’ argomento o per paura, o per dichiarato distacco, o per poca attrazione nei confronti di quel tipo di uomo.
Era il 2 luglio del 1940 quando Lina fu arrestata. La Germania a partire dal maggio aveva dato avvio alle operazioni militari contro la Francia ed il 10 giugno l’ Italia aveva dichiarato guerra alla Francia ed alla Gran Bretagna a fianco della Germania. Fu arrestata insieme alla sorella, ma, forse per il suo passato molto celebre, l’ arresto qualche giorno dopo fu tramutato in domicilio coatto a Rivodutri, in via Giuseppe Micheli 1, nei pressi della piazza del Municipio dove rimase sotto stretto controllo per un certo periodo, con l’ obbligo di non allontanarsi dall’ abitato e di presentarsi tre volte al giorno, vale a dire al mattino. a mezzo giorno ed alla sera, di fronte al podestà o ad un funzionario comunale, che ne doveva prendere nota nel fascicolo personale insieme alla sua regolare firma. Non le era concesso, come a tutti gli internati, di possedere denaro, né gioielli, né titoli. A Lina, che sempre ricordava la difficile infanzia, che mai aveva nascosto di temere la precarietà economica, la povertà e si era continuamente impegnata per divenire ricca, famosa e potente, non fu facile sicuramente accettare queste regole e soprattutto la mancanza di libertà. Questa esperienza rappresentò per lei sicuramente una svolta e segnò un cambiamento nelle sue scelte di vita. Durante l’ internamento può essere entrata in contatto o avvicinata da quelle forze politiche italiane e tedesche per le quali Lina aveva tutti i requisiti per divenire una loro collaboratrice: parlava bene il russo, il francese e l’ inglese, proprio le tre lingue dei belligeranti nemici dell’ Italia e della Germania ed inoltre aveva numerose conoscenze all’ estero anche fra civili e militari con incarichi importanti. Sta di fatto che dopo il domicilio coatto a Rivodutri e la sua permanenza ancora per poco tempo a Castel San Benedetto , lascerà la casa “La Cappuccina” per trasferirsi insieme al suo compagno di vita Arnaldo Pavoni, in arte Paolo D’ Arvanni, a Firenze, la “città dei fiori”, “la città di Dante”, come l’ aveva definita nella sua opera autobiografica, quella città che l’ aveva vista più volte far “moda automobilistica” sfrecciando lungo le Cascine o in aperta campagna su una splendida Ford Model T, conosciuta anche col nome di Tin Lizzie (lucertolina di latta). Aveva sempre associato Firenze ad una esperienza alquanto singolare, vissuta nel periodo in cui si trovava nella città per le varie rappresentazioni della Traviata al teatro Pagliano, ai primordi della sua attività di soprano lirico. All’ epoca alloggiava, all’ hotel Baglioni insieme alla compagna delle “sue fatiche”, la maestra Maddalena Mariani Masi ed in quella occasione era venuta a conoscenza che l’ autista, che ogni mattina la scorrazzava alle Cascine per un passeggiata, altro non era che il duca Raimondo T, primogenito di una delle più antiche e nobili famiglie siciliane, ben conosciuto da alcuni amici palermitani e che, pur di dividere il suo tempo con lei, aveva accettato questo incarico. Ma i tempi erano cambiati: Italia e Germania erano in guerra, Firenze aveva accolto in visita Hitler già ben due volte, nel 1938 e poi nel 1940 ed il clima mondano era solo un lontano ricordo.
Lina prenderà alloggio, o meglio, forse le sarà assegnato come alloggio, la villa Torre al Pino, ammobiliata, con villino attiguo, in via Suor Maria Celeste nella zona di Poggio Imperiale, di proprietà della tedesca Olga Tall, vedova del russo Muravieff , e che era stata sottoposta a sequestro dall’ Ente gestione e liquidazione immobiliare di Roma in quanto dichiarata di proprietà di un suddito “nemico della patria”. Vivere a Firenze le permetteva anche di avere più contatti con il figlio dal carattere, dicevano, molto schivo e poco socievole, che sin dalla tenera età era stato lasciato alle cure dei nonni materni e che aveva avuto pochi contatti con la madre sempre impegnata in attività che la portavano a viaggiare in tutta Europa ed in America. Alessandro risiedeva in città ormai dal 1933 insieme alla moglie, Elena Darra, che aveva sposato a Firenze nel 1932, quando ancora a Palmanova svolgeva attività in qualità di capitano dell’ esercito italiano. Viveva insieme ad Elena in uno stabile in via Jacopo Nardi, abitato anche dagli zii della moglie con i quali sicuramente aveva instaurato un legame affettivo molto stretto che lo porterà alla sua morte, avvenuta nel 1993, all’ età di 101, a scegliere di essere seppellito nella tomba che aveva già accolto le spoglie degli zii acquisiti e successivamente della consorte. Si trattava di una zona abitata dalla borghesia fiorentina, al di là di quei viali di circonvallazione, realizzati su progetto dell’ architetto Giuseppe Poggi dopo l’ abbattimento delle mura città nella seconda metà dell’ Ottocento, nei pressi della stazione di Campo di Marte, non certamente vicina a via Suor Maria Celeste, nella zona di Arcetri , in campagna, fuori dalla città, vicina a villa Il Gioiello, che aveva ospitato un tempo Galileo Galilei, all’ Istituto di Poggio Imperiale, all’ Osservatorio astronomico di Arcetri ed all’ Istituto di fisica, voluto in quella zona dallo scienziato e poi anche sindaco e podestà di Firenze, Antonio Garbasso. La via stretta e lunga era poco frequentata e la villa Torre al Pino, che si trovava circa a metà della strada, era isolata, circondata da un ampio parco e chiusa da un alto muro e pertanto presentavano una conformazione adatta per essere facilmente controllabili in tutt o loro punti. All’ epoca i vicini vedevano talvolta Lina Cavalieri girare nei dintorni su una carrozza guidata da un cocchiere, ma nessuno sembra averla mai avvicinata. Sta di fatto che molti fiorentini e visitatori ebbero modo di vederla per l’ ultima volta alla XIII Mostra d’ arte toscana, tenuta a Palazzo Strozzi nell’ aprile – maggio del 1942, ritratta nel dipinto di Giovanni Boldini che la raffigurava vestita stranamente con un abito molto castigato che nascondeva “la rara perfezione del suo corpo, massima nelle braccia che erano rimaste esemplari con gli anni”.
Firenze la ospiterà per poco tempo. Alcuni amici raccontarono che a Parigi una cartomante le aveva predetto che un giorno sarebbe morta di morte violenta. Così accadde. L’ 8 febbraio del 1944 da un aereo delle forze alleate, alle tre del pomeriggio, furono sganciate tre bombe: la prima colpì la casa di Lina Cavalieri, la seconda il bordo della strada che rimase transennato per anni, la terza cadde nel terreno agricolo sottostante la strada, che gli abitanti di Pian dei Giullari chiamavano Regnaia, perché i contadini erano soliti collocarvi delle reti per catturare piccoli uccelli. Solo la prima bomba provocò vittime. Lina Cavalieri morì insieme al suo segretario , l’ avvocato Arnaldo Pavoni ed alla sua casiera Guglielma Raveggi. Lo spostamento d’ aria demolì anche parte del villino vicino dove rimase ferito Ennio Raveggi, il popolare massaggiatore della Fiorentina. Sembra che Lina non avesse raggiunto in tempo i sotterranei esterni di difesa antiaerea per poter recuperare i gioielli nascosti nella sua camera da letto.
All’ epoca ci fu chi sostenne che le bombe erano state sganciate perché l’ aereo stava perdendo quota a causa di una avaria, ma tre bombe sganciate erano poca cosa perché l’ aereo si alleggerisse ed inoltre i punti colpiti apparvero precisi e strategici perché l’ obiettivo venisse colpito ed eliminato. Molti, infatti, ritennero che le truppe alleate avessero voluto punire la cantante in quanto collaboratrice di ufficiali tedeschi.
Brevi e sintetici furono gli articoli apparsi sui giornali nei giorni successivi al bombardamento ed alla morte di Lina Cavalieri, mentre si dice che dopo il tragico evento «lenta e dura la voce della radio” introdusse “ un brivido di orrore nelle tante case borghesi dove Lina Cavalieri era divenuta un mito [… ] milioni di persone hanno sospirato, riconoscendo nella fine di una leggenda un congedo della propria stessa giovinezza”. Sembra che dopo l’ accaduto in Firenze non fu reso alcun omaggio alla “donna più bella del mondo”, a colei che nella sua vita era sempre stata un personaggio pubblico ed aveva in tutti i modi cercato di attirare a sé l’ attenzione di tutti. La paura,forse, di nuovi attacchi aerei, il clima di forte tensione in quei giorni tra forze fasciste e gruppi di antifascisti e la presenza frequente nella zona di militari tedeschi, ormai prossimi alla ritirata, faranno sì che “dietro al suo carro, in quei giorni tristi e dolorosi” ci fossero solo “ un prete, sei persone ed una folla di ricordi che nessuno vide”.
La salma, pare intatta, di Lina Cavalieri, estratta dalle macerie, fu trasferita all’ asilo mortuario del Romito dove si svolse,come comunicarono molti giornali dell’ epoca, il non ben definito “rito del’ associazione”. Il suo corpo fu poi trasportato al cimitero delle Porte Sante, dove rimarrà sino al 1947 ed alla fine della guerra verrà tumulata nel cimitero del Verano, a Roma, nella tomba di famiglia insieme al padre Florindo, già morto nel 1909, ed alla madre Teonilla, deceduta nel 1931 e dove più tardi la raggiungeranno anche i fratelli. La salma del suo compagno di vita, il romano Arnaldo Pavoni rimase nel cimitero dello Porte Sante sino al 1951, quando sarà tumulato in un altro cimitero fiorentino senza, ironia della sorte, poter mai raggiungere l’ ultima compagna della sua vita e della morte.
Breve Biografia di Ewa Lipska poetessa e pubblicista, è nata a Cracovia l’8 ottobre 1945. Comincia a scrivere versi già negli anni del liceo. Debutta come poetessa nel 1961, pubblicando sul quotidiano Gazeta Krakowska la poesie Krakowska noc (Notte cracoviana), Smutek (Tristezza) e Van Gogh. Si diploma all’Accademia di Belle Arti di Cracovia. Dal 1970 al 1980 lavora presso la prestigiosa casa editrice Wydawnictwo Literackie, dove cura le collane di poesia, continuando la sua attività creativa. Dal 1995 al 1997 direttrice dell’Istituto Polacco di Vienna. Cofondatrice e redattrice di diverse riviste letterarie, tra cui il mensile “Pismo”. Vicepresidente del PEN Club polacco. Ha ricevuto molti prestigiosi premi nazionali e internazionali per la sua creazione letteraria. Le sue poesie sono state tradotte e pubblicate in quasi 40 lingue. Autrice di numerose raccolte poetiche, tra le ultime: Ja (Io 2004), Pogłos (Rimbombo 2010), per la quale ha ricevuto il premio “Gdynia”, e Droga pani Schubert… (Cara signora Schubert…, 2012), 20 poesie scelte (CFR 2014), Il lettore di impronte digitali (titolo originale Czytnik linii papilarnych, Donzelli 2017). Ha scritto inoltre diversi testi poetici di canzoni di successo.
Ewa Lipska poesie
Forse
Forse ancora mi resterà sbiadita come inutile verso una fotografia. L’ultima separazione il cielo con la pioggia svolgerà su tamburi. E il giorno verrà il giorno verrà il giorno verrà nel tuo grigio stinto vestito nella fotografia così piccola così concisa che è possibile stringere in una mano. E più non so più non so più non so se tu eri o sei o sarai forse guardi e di rimpianto è il grigiore forse soltanto con noncuranza gioisci forse pensi che la vecchiaia già vecchiaia adesso da me con impeto si affretti. Tu ti sei fermata e aspetti. Io sono in cammino. Tu negli occhi aperti ti sei fermata. Ed io guardare non posso non posso. Perciò guardo mortalmente ostinata.
– Vetri
Che pena guardare quei vetri oblunghi. Donne assonnate si tolgono il trucco dal volto. E accanto cupi passano i viaggiatori. Dietro di loro c‘è il paesaggio. La truppa marcia. Nel paesaggio ci sono i tavoli. Sui tavoli c’è il vino. A un tavolo una ragazza. Nella ragazza c’è il sorriso. E nel sorriso c’è la tristezza. E tutto è come al cinema in quei vetri oblunghi. Nella ragazza c’è il sorriso.
Fa pena guardare. Donne assonnate. Nelle donne c’è l’amore. Nell’amore c’è la fine. E poi ci sono solo vetri oblunghi e la tristezza. Viaggiatori. Nell’amore c’è la fine.
Nei viaggiatori c’è il treno. Battono in essi le ruote. E nelle ruote c’è l’eternità. Nell’eternità c’è la paura. E nella paura c’è il silenzio. E nel silenzio il più silenzioso. Nei viaggiatori c’è il treno. E il continuo gioco delle ruote.
Che pena guardare. La truppa marcia. Nel soldato c’è la pallottola. E nella pallottola c’è la morte. E nella morte c’è tutto e nulla c’è nella morte. E nel sorriso c’è la tristezza. Nell’amore c’è la fine.
A un tavolo una ragazza. Nella ragazza c’è il cuore. E nel cuore c’è un soldato. Nel soldato c’è la pallottola. E piange la ragazza. Passano i viaggiatori. La fresca notte si specchia nei vetri oblunghi.
Nessuno
Sono d’accordo su questo paesaggio che non esiste. Mio padre regge nella mano il violino. I bambini leccano il suono. La corrente d’aria investe i petali delle rose. Poi la guerra. Ci perdiamo di vista. A frasi intere si celano le parole. La stanza vuota parcheggiata nell’oscurità dell’edificio. Prego lasciare un biglietto dice nessuno.
Natura morta
La natura morta comincia a guastarsi. Arrugginiscono le viti dei giaggioli. Dalla frutta di Chardin Courbet Cézanne si leva un odore nauseante. La tela perde la vista. Nel bicchiere una pietra di vino. Insopportabile il nero. Profetiche visioni dei dittatori della moda: si approssima l’epoca dei lampi. Piante terrestri anfibi e mammiferi soffierà via il corno. Il tempo accadrà sempre più raramente. Sarà sempre più breve. Sempre di meno. Dunque togli dalla borsetta il nostro amore. E affrettati. Un brandello di oltremare annuncia che faremo in tempo a ridere.
Amore
L’amore è un indovino. Prevede se stesso te e me. E’ del popolo eletto e usa una lingua ad alta tensione. Nella Biblioteca Nazionale macchia perfino i libri poco letti. In una valanga di cori scopre un’eco di euforia e di morte. E quando ti raggiungerà cerca di essere in casa. O qualcosa del genere. Pur di incontrarvi.
Sogno
Il sogno mi dava quindici possibilità. Tre vie d’uscita da una situazione alquanto difficile. In una di esse bisognava usare la chiave che tenevo in mano. Nel sogno proiettavano un film sulla fine del mondo. Nessuno dei presenti in sala ha chiesto: e dopo? Le poesie scritte nel sogno erano molto buone. Quelle non scritte affatto – non erano peggiori. Il tempo era come doveva essere. Bisognava con tutto questo andare verso la veglia. Mi ha sorpassata un gruppo di atleti che correvano oltre il tempo. Una vecchietta ha preso un sonnifero ed è tornata indietro. La veglia è sopraggiunta inattesa. Le ho comunicato soltanto il dolore alla testa posata male sul bianco cuscino.
Mia sorella
Mia sorella ancora non sa che il mondo è condannato all’atlante. E l’atlante è un enorme piatto eternamente affamato. E’ un giornale di paesi-modelli ritagliati. A volte fuori moda. Che all’improvviso tutto è chiaro quando si esce dal cinema. Che le idee aderiscono perfettamente ai manichini. Che non c’è morte che serva di esempio. Che la morte è soltanto di natura. Che volendo guardare il cielo bisogna portarlo prima alla censura. Che il più alto sapere è nella biblioteca dello spazio. Che l’amore è amore. E l’amore è un giardino. Che in questo giardino bisogna sfuggire l’autunno. Che in un giardino non si può sfuggire l’autunno. Che nessuno impedirà più la divisione delle cellule. Che la vita è finita quando comincia. Che Isolda è vecchia. Soffre di reumatismi. Che la storia è una grande pattumiera. Serve a far sparire le date e a spaventare i bambini. Che quando la notte per un attimo gli occhi ci adombra si risvegliano in noi gli uccelli gridando: Terra! Terra! E allora scopriamo un nuovo continente: l’Uomo che sulle palpebre la calda mano ci posa… Ma mia sorella sa già Che A come Ada.
*
Non mi ha salvata l’alluvione benché giacessi già sul fondo. Non mi ha salvata l‘incendio benché bruciassi per molti anni. Non mi hanno salvata le disgrazie benché mi investissero treni e automobili. Non mi hanno salvata gli aerei che sono esplosi con me nell’aria. Si sono abbattute su di me le mura di grandi città. Non mi hanno salvata i funghi velenosi né i precisi tiri dei plotoni d’esecuzione. Non mi ha salvata la fine del mondo perché non ne ha avuto il tempo. Nulla mi ha salvata. VIVO.
Certificato di garanzia
La nostra macchina da matrimonio si è inceppata all’improvviso. E benché continuiamo a pelare i pomodori a tagliare sottilmente l’aglio a infarcire la serata di parole sul sesso e a mangiare ricordo dopo ricordo cerchiamo nervosamente il certificato di garanzia che mantiene la parola.
L’esame
L’esame per il posto di re andò a meraviglia. Si presentarono alcuni re e un apprendista re. Fu scelto re un certo re che doveva essere re. Ottenne punti extra per le origini l’educazione spartana e per il sorriso che prese tutti alla gola. In storia rivelò notevoli capacità di sorvolare. La lingua obbligatoria risultò la sua madrelingua. Quando toccò il tema dell’arte avvinse il cuore della commissione. Uno dei membri della commissione avvinse un po’ troppo forte. Sì quello era davvero un re. Il presidente della commissione corse a chiamare il popolo per consegnarlo solennemente al re. Il popolo era rilegato in pelle.
. A due voci
– Non sarò più tua moglie. – Non sarò più tuo marito. – I bambini non capiranno cos’è accaduto. – Bisogna mandarli al cinema. – I segugi dei miei pensieri hanno fiutato la separazione. – Una grossa cicatrice dopo questo amore resterà. – Lo seppelliremo visto che è giunto così insensato. – Le sentinelle dei ricordi metteremo presso la bara. – Quanto si può tenere un cadavere in casa? – Quanto si può tenere un cadavere nel cuore? – Faremo brevi discorsi. – Gli augureremo ogni bene. – Affinché non ritorni. – Forse ancora una volta… – Non ci troverà in casa. Andiamo in tintoria. – Troppo incauti siamo stati con noi stessi. Prima dell’alluvione fuggivamo verso il fiume. – Prima della siccità fuggivamo verso il sole. Eternamente stanchi abusavamo della farmacia. – Coprivamo le orecchie quando l’orologio ci minacciava sonando l’allarme sonando l’allarme. – Ci separavamo per ulteriori incontri su una funivia. Fissando il baratro sceglievamo l’amore che ci occorreva. – Eravamo atterriti dalla profondità del destino. – Soli come il deserto che non spera più nel cielo. – E soltanto del nostro amore ancora la camicetta di seta. Del nostro amore il pettine. – E le labbra che impediscono l’accesso alla parola. – La sera fa già fresco. Prendiamo i cappotti dei bambini. – E andiamogli incontro. Il cinema è lontano.
Il giorno dei Vivi
Nel giorno dei Vivi i morti giungono alle loro tombe – accendono le luci al neon e piantano i crisantemi delle antenne sui tetti dei multipiani sepolcri a riscaldamento centralizzato. Poi scendono con gli ascensori verso il quotidiano lavoro: la morte.
Ewa Lipska poetessa polacca-
Poesie tradotte da Paolo Statutiè nato a Roma il 1 giugno 1936. Nel 1963 si è laureato in Scienze Politiche presso l’Università di Roma. Nello stesso anno è stato assunto come impiegato dalle Linee Aeree Italiane Alitalia, che ha lasciato nel 1980. Nel 1975, presso la stessa Università romana, ha conseguito la laurea in lingua e letteratura russa ed altre lingue slave (allievo di Angelo Maria Ripellino). Nel 1982 ha debuttato in Polonia come poeta e nel 1985 come prosatore. E’ autore di numerose traduzioni letterarie pubblicate (prosa e poesia) dal russo, ceco e soprattutto dal polacco nella lingua italiana. Ha collaborato con diverse riviste letterarie polacche e italiane. Nel 1987 ha pubblicato in Italia due libri di favole: “Il principe-albero” e “Gocce di fantasia” (Edizioni Effelle di Marino Fabbri). Una scelta di queste favole è uscita anche in Polonia con il titolo “L’albero che era un principe” (”Drzewo, które było księciem”, Ed. Nasza Księgarnia, Warszawa, 1989). Dal 1982 al 1990 ha lavorato presso la Redazione Italiana di Radio Polonia a Varsavia, realizzando molte apprezzate trasmissioni prevalentemente letterarie. Nel 1990 ha ricevuto il premio annuale della Associazione di Cultura Europea – Sezione Polacca, per i meriti conseguiti nella divulgazione della cultura polacca in Italia. Negli anni 1991-1997 ha insegnato la lingua italiana presso il liceo statale “J. Dąbrowski”di Varsavia ed ha preparato l’esame scritto di maturità in questa lingua, a livello nazionale, per conto del Provveditorato Polacco agli Studi. A gennaio del 2012 ha creato un suo blog: musashop.wordpress.com, dedicato a poesia, musica e pittura, dove pubblica in particolare le sue traduzioni di poesia polacca e russa. Recentemente sono uscite in Italia nella sua versione raccolte di poesie di: Małgorzata Hillar, Urszula Kozioł, Ewa Lipska, Halina Poświatowska e sono in corso di stampa: K.I. Gałczyński, Anna Kamieńska e Anna Świrszczyńska. Pratica anche la pittura (olio e pastello) ed ha al suo attivo 9 mostre personali in Polonia, dove risiede da molti anni.
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