Si nasce soli e soli anche si muore.
Si dorme soli in letti condivisi.
Soli si mangia pane di poesia.
Soli con noi ci si trova stranieri.
Soli a sognare graviti lo spazio,
soli a sentire l’io di carne e sangue,
soli a voler trattenere l’istante,
a passare senza voler passare.
(da L’aloe, 1983)
Come dirlo semplicemente
Come dirlo semplicemente
sui miliardi di istanti della nostra vita
quasi tutti sono bolle
che scoppiano subito
Altri – ben pochi – durano per sempre
presi nel fiume che ci porta
sono già l’eternità
Gli istanti in cui
ci si può sentire vicini
agli alberi, agli uccelli
e agli uomini, talvolta
Gli istanti meravigliosi
in cui si crede di essere in sintonia
con l’universo intero
e – forse – con Dio
(da Gli ultimi fuochi sulla terra, 2014)
Per vivere
Per vivere, bisogna piantare un albero fare un figlio, costruire una casa. Io ho soltanto guardato l’acqua che passa dicendo che tutto scorre. Io ho soltanto cercato il fuoco che brucia dicendo che tutto si consuma. Io ho soltanto seguito il vento che fugge dicendo che tutto si disperde. Io non ho seminato nulla nella terra che riposa e ci dice: ti aspetto.
Liliane Wouters – due poesie Traduzione di Gabriele Belletti
1.
Pas rien, pas rien, le petit vent de l’aube,
le petit rose du petit matin,
changé en pourpre, en noir, en nuit de taupe.
Je suis la taupe et le ciel est lointain.
Pas rien, pas rien, les flaques sur la plage,
la dune blonde et la blonde clarté,
la mer sans fin et les vagues sans âge.
Nous n’y aurons dansé qu’un seul été.
Pas rien, pas rien, même si l’on décompte
les vaches maigres, les années de chien.
J’aurai vécu tel jour, telle seconde.
C’était trop peu, mais ce ne fut pas rien.
*
Quale nulla, quale nulla, il venticello dell’alba,
l’incerto rosa di primo mattino,
mutato in porpora, in nero, in notte di talpa.
Io sono la talpa e il cielo mai è vicino.
Quale nulla, quale nulla, le pozze sulla spiaggia,
la duna bionda e la bionda visione,
il mare senza fine dall’onda fatta saggia.
Lì la nostra danza di un’unica stagione.
Quale nulla, quale nulla, anche se nascondo
le vacche magre, gli anni da cani.
Avrò vissuto quel giorno, quel secondo.
Sempre pochi furono, ma mai furono vani.
[da L’Aloès, “L’Aloe”, Paris, Luneau-Ascot,1983]
2.
Le bois sec
Brûler Je songe à ma cendre
quand m’appellent des forêts
Ô feux Mais à leur voix tendre
répond votre chant secret
Je suis né pour cette fête
barbare ces rites purs
ce mortel assaut de bêtes
contre le défi des murs
J’aime la gloire soudaine
des flammes j’aime le bref
sursaut de passion de haine
du feu saluant son chef
Brûler Mon sang me calcine
Pas un coin de chair ombreux
Et si pourtant mes racines
trouvaient un sol généreux
un peu d’eau de sel Le sable
d’où je sors verrait des fruits
Non De cette paix durable
la fin seule me séduit
Je ne porte ni lumière
ni chaleur en mon corps mais
ce n’est qu’au centre des pierres
qu’on trouve un feu qui dormait
Verdoyez branches dociles
aux commandements des dieux
Je montre mon bois fossile
C’est lui qui flambe le mieux.
*
Il bosco secco
Bruciare Penso alla mia cenere
quando mi chiamano dei boschi
O fuochi Ma alle loro voci tenere
rispondono i vostri canti foschi
Io sono nato per questa festa
barbara questi riti puri
questo mortale assalto di bestia
contro la sfida dei muri
Amo la gloria immediata
delle fiamme amo il lesto
sussulto di passion crociata
del fuoco in onor del suo maestro
Bruciare Il mio sangue mi ustiona
Nessun angolo di carne ombroso
E se nonostante ciò il mio rizoma
trovasse un terreno generoso
un po’ d’acqua di sale La rena
da cui esco vedrebbe frutto
No Di questa pace cantilena
io voglio portare il lutto
Io non porto né lucentezza
né calore nel mio corpo tuttavia
è solo al centro della pietra grezza
che si trova un fuoco in prigionia
Verdeggiate rami docili
ai comandamenti degli dei
Io mostro il mio bosco fossile
Lui brucia come io vorrei.
Carteggi Letterari -[da Le Bois sec, “Il Bosco secco”, Paris, Gallimard, 1960]
Biografia di Liliane Wouters (1)-(Ixelles, 1930 – 2016).Poetessa, drammaturga, antologista e traduttrice belga (soprattutto di testi fiamminghi), membro dell’Académie de langue et littérature françaises de Belgique. La sua carriera poetica inizia grazie a Roger Bodart, al quale invia il manoscritto de La Marche forcée, che diventerà la sua prima raccolta di poesie (Éd. des Artistes, Georges Houyoux, 1956). A questa seguiranno, tra le altre, Le Bois sec (Gallimard, 1960), Le Gel (Pierre Seghers, 1966), L’Aloès (Luneau-Ascot, 1983) e l’ultima Trois visage de l’écrit (Espace Nord, 2016). La sua opera teatrale più conosciuta, La salle des profs, è una riflessione arguta e al contempo tenera sul mestiere dell’insegnante, mestiere esercitato dalla Wouters per oltre trent’anni. Grande rilevanza rivestono, inoltre, le antologie da lei curate di poesia belga, sia di lingua francese (con Alain Bosquet e Yves Namur) sia di lingua fiamminga. Tra i tanti riconoscimenti ricevuti, ricordiamo il premio Goncourt de la poésie (2000).
Torna a abitarmi la paura
nell’isola che mai il vento doma.
Sono quel vento…
nuvola di turbamento.
Tra orme e ombre – segno degli dei –
la tela si sfilaccia a larghe trame
d’antiche lontananze…
S’illivida il pensiero come piuma
che si fa barca in mare. Vibra
in silenzio e lentamente spare.
Mi insegue ovunque la mia terra
e punge d’ingombro un sentimento
nei boschi e nei declivi di olivi
dai contorti fili. Come in un sacro
tempio sembra che all’acqua si leghi
il cielo. E di bellezza m’assale
uno sgomento.
(poesia inedita)
Il giorno resta vuoto come appeso
al fragile sentiero del pensiero.
Il mondo s’è fermato su una foglia
vaga di sogni stinta è la corolla.
Altro non chiedi del viaggio amaro
che rimembrare la melodia di ieri.
Non i sorrisi mancano ma gli anni
a spalancare impensabili segreti.
Nel dubbio che ogni cosa senza forma
sia guscio morto di bellezza.
(poesia inedita)
In un viavai di indugi e di pensieri
liane oscillano della memoria.
in ombra taciturne si passano
parola e filigrane intessono
a una canzone nuova.
Quale filo t’incatena nella valle
oscura? Eri farfalla d’oro.
Brucavi l’erbe in orizzonti estremi-.
Io non ricordo questo vuoto appeso
non ricordo turbamento e peso.
in angoli smarriti
la vita trema come rena sparsa.
Indecisione estrema come seme
d’erba in un cristallo di neve.
Da “Un asciugar di tempo” (Noubs 2014)
Più nessuna fronda fa garrula
corona alla stagione delle ombre.
La levità del tempo ci attraversa
la muta cognizione del dolore.
Mentre sentiamo scorrere le ore
lampi vediamo aprirsi di momenti
come se per miracolo la forma
intonasse di luce un ritornello.
E un mondo s’aprisse di bellezza.
(poesia inedita)
Incautamente sulla tua via
in lembi battuti dal vento
dove cactus non nudi del tempo
fioriscono nere scintille,
non lascerò che tu varchi la porta
per inseguire di Alentejo
la scia. Via me n’andrò
tra crocchi di lappole amare
dove l’alba promessa m’attende.
(poesia inedita)
Mi dici “bello il tuo costume
con la fascia colorata”
e io “solo quando soffia il vento”.
Due monadi silenti
– un grillo e una farfalla bianca –
l’una ferma sul lettino
l’altra in volo frettoloso verso l’oltre.
Felice di ritrovare il mare
dell’infanzia – un raggio d’aria
in piccola barca su lunghe onde
nella nebbia della fine.
(poesia inedita)
Nessun cielo di smalto sull’arida
sponda. La luna tremula sull’onda.
Sento frusciare anemoni di mare
nell’alveo verdeazzurro di memorie.
Vorrei snodare il grembiule
alle maree – scrutare l’abisso
dentro un bisso ma l’onda come il tempo
resta viandante perso sulla riva.
Care sembianze d’acque chiare
delle dolci primavere
Sognare rive labili di mondo
discendere dall’ugola del tempo
su varchi di cielo senza luce.
Babelico squilibrio di memorie.
Fuori dal tempo perdersi sognare
da finte ombre e da pensieri umani.
La luce li attraversa li fa vani
come dissolti nodi di esistenza.
Da “Un asciugar di tempo” (Noubs 2014)
L’alba nascente
s’è lasciata cullare
aprendo gli occhi
ai colori del mondo.
Arcobaleno raro.
*
Giochi di luce
sopra i tetti innevati,
arcobaleni.
Un pesante fardello
colorato di luce.
*
Pesa la terra –
ghirigoro di ghiaccio –
fascino arcano
d’armoniosa bellezza
di mutevoli forme.
*
Oh le violette
germogliate anzi tempo
sotto la neve.
Come luci nell’ombra
d’una muta stagione.
*
Osservo andare
sonnolenta la luna.
Fiore di luce
nel viaggio incantato
sotto lampi di neve.
Tamburello dei secoli per addormentare l’uomo
imprigionato nel cuore muto dell’universo.
Mezza mela d’oro da mangiare per il bambino
finché non si sentirà eterno.
Alberi, ponti, torri, montagne, mari, strade.
E tutto ciò che va alla deriva svanirà.
Quando essi non vivono più, nello spazio, liberi,
tu continuerai a vivere.
E quando ci stanchiamo (perché dobbiamo stancarci).
E quando ce ne andremo (perché vi lasceremo).
Quando nessuno si ricorda che un giorno moriremo
(perché moriremo).
Tamburello dei secoli per addormentare l’uomo,
mezza mela d’oro che misura il nostro tempo,
quando non sentiamo più, quando non saremo più,
tu continuerai a vivere.
“Luna d’agosto” testo originale spagnolo
Pandereta de siglos para dormir al hombre
preso en el corazón mudo del universo.
Media manzana de oro para que el niño coma
hasta sentirse eterno.
Árboles, puentes, torres, montes, mares, caminos.
Y todo a la deriva se irá desvaneciendo.
Cuando ellos ya no vivan, en el espacio, libre,
tú seguirás viviendo.
Y cuando nos cansemos (porque hemos de cansarnos).
Y cuando nos vayamos (porque te dejaremos).
Cuando nadie recuerde que un día nos morimos
(porque nos moriremos),
pandereta de siglos para dormir al hombre,
media manzana de oro que mide nuestro tiemo,
cuando ya no sintamos, cuando ya no seamos,
tú seguirás viviendo.
Accanto al mare
Se muoio, che mi mettano nudo, nudo accanto al mare. Saranno le acque grigie il mio scudo e non si dovrà lottare.
Se muoio che mi lascino da solo. Il mare è il mio giardino. Non può, chi amava le onde, desiderare un’altra fine.
Sentirò la melodia del vento, la misteriosa voce. Sarà finalmente vinto il momento che miete come falce.
Che miete incubi. E quando la notte inizierà ad ardere, sognando, singhiozzando, cantando, io nascerò di nuovo.
José Hierro
(Traduzione di Alessandro Ghignoli)
da “José Hierro, Poesie scelte”, Raffaelli Editore, 2004
∗∗∗
Junto al mar
Si muero, que me pongan desnudo, desnudo junto al mar. Serán las aguas grises mi escudo y no habrá que luchar.
Si muero que me dejen a solas. El mar es mi jardín. No puede, quien amaba las olas, desear otro fin.
Oiré la melodía del viento, la misteriosa voz. Será por fin vencido el momento que siega como hoz.
Que siega pesadumbres. Y cuando la noche empiece a arder, soñando, sollozando, cantando, yo volveré a nacer.
José Hierro
da “José Hierro, Quinta del 42”, Editora Nacional, 1952
Una splendida poesia d’amore di José Hierro
Se fosse vero che due anime
camminano congiunte, senza
che i corpi si conoscano;
Se fosse vero
che si son toccate da sempre,
che bevvero la stessa luce,
che lo stesso destino le culla;
Se fosse vero che son foglie
dello stesso arbusto, eterno e verde;
Se fosse vero che il loro trionfo
si compie il dì che avranno
gli occhi dell’anima gemella
fissi nella loro carne presente;
Se tutto ciò fosse vero,
come mai quel giorno di settembre
non ti cercai, chiamai, portai;
Come mai ignoravo che esistessi,
Come mai non trattenni la stella
che t’arrossava la fronte;
Come mai potevo cantare
sotto la fiamma del ponente;
Come mai poteva non esistere
il tuo passato di ora, che mi doleva.
Come ha potuto essere.
E come non lo impedii, con unghie, denti,
cuore…
VORREI NON ODIARE QUESTA SERA
(José Hierro del Real)
Vorrei non odiare questa sera,
non portare sulla mia fronte la nube oscura.
Questa sera vorrei avere occhi più chiari
per posarli sereni nella lontananza.
Dev’essere bellissimo poter dire:
“Credo nelle cose che esistono e in altre
che probabilmente non esistono,
in tutte le cose che possono salvarmi,
anche ignorando il loro nome;
conosco la frutta dorata che dona l’allegria.”
Vorrei non odiare questa sera,
sentirmi leggero, essere fiume che canta,
essere vento che muove la spiga.
Guardo a ponente. S’abbuiano i lunghi percorsi
che vanno nella notte,
che donano la loro stanchezza alla notte,
che entrano nella notte
a sognare nella sua grande menzogna.
Le strade non portano
Le strade non portano
a nessuna meta; tutte
terminano in noi.
La fiamma del crepuscolo
ci fonde in unità.
È bello camminare,
sognare, cantare. Bello
essere gran tenerezza
con un cuore vicino,
(con un dolore remoto).
La sera si denuda,
mostra i suoi ori profondi.
Ogni forma ci incanta
col suo vino gioioso.
Ormai non c’è nulla: – passato,
futuro, ombre, gioie -,
fuori di noi.
La sera spolvera
il suo caldo tesoro.
I suoi pampini di fuoco
stillano nei nostri occhi.
La sera è nostra. Il mondo
fu fatto per noi.
Siamo il suo centro vivo
e gira il tempo intorno.
Passa e non può ferire
col suo dolore remoto
il nostro cuore vicino.
Le strade non portano
a nessuna meta; tutte
terminano in noi.
(Traduzione di Oscar Macrì)
BIOGRAFIA José Hierro
José Hierro . (Madrid, 3 de abril de 1922-21 de diciembre de 2002). è stato un poeta spagnolo, critico d’arte e membro dell’Accademia Reale della Lingua. La sua famiglia si trasferì a Santander quando era bambino e lì studiò per diventare perito industriale, fino al 1936. La sua prima poesia, Una bala le ha matado, fu pubblicata nel 1937. Alla fine della guerra civile fu arrestato e processato. Rimase in carcere fino al 1944, dove iniziò a interessarsi sistematicamente di letteratura. Quando fu rilasciato si trasferì a Valencia, dove si dedicò alla scrittura, collaborò a un dizionario mitologico e, insieme a José Luis Hidalgo, partecipò alla fondazione della rivista Corcel. Nel 1944 scrive la prima critica pittorica dell’opera di Modesto Ciruelos. Negli anni ’40 torna a Santander dove collabora alla rivista della Camera di Commercio. Nel 1946 entra a far parte dell’innovativo gruppo “Proel”, editore dell’omonima rivista di poesia, nella quale pubblica il suo primo libro di poesie, Tierra sin nosotros, nel 1947. Nel 1950 scrive Con las piedras, con el viento (Con le pietre, con il vento) e nel 1953 appare Antología poética (Antologia poetica). Stabilitosi a Madrid, inizia a lavorare per la Radio Nacional de España, oltre a scrivere critiche d’arte e a collaborare con riviste e giornali. Nel 1955 pubblica Estatuas yacentes e nel 1962 il volume Poesías completas. Ha tenuto un gran numero di conferenze sulla poesia e sull’arte nella maggior parte delle capitali europee e le sue poesie appaiono nelle più importanti antologie di poesia contemporanea. Ha ricevuto il Premio Nacional de las Letras nel 1990, anno di pubblicazione di Agenda. Nel 1998 ha pubblicato Cuaderno de Nueva York e ha ricevuto il Premio Cervantes. Ha ricevuto la laurea Honoris Causa dall’Università di Torino nel 2002. È morto alla fine dello stesso anno.
José Hierro del Real. (Madrid, 3 de abril de 1922-21 de diciembre de 2002). Poeta español, crítico de arte y académico de la Real Academia de la Lengua.
Su familia se traslada a Santander siendo niño y allí estudia la carrera de perito industrial, que tuvo que interrumpir en 1936. Su primer poema, Una bala le ha matado, aparece publicado en 1937.
Al finalizar la Guerra Civil es detenido y procesado. Permanece en la cárcel hasta 1944 y allí empieza a interesarse de forma sistemática por la literatura, apareciendo ya en sus primeros escritos diversos hechos vividos durante la contienda.
Cuando sale de prisión se traslada a Valencia, donde se dedica a escribir, colabora en un diccionario mitológico y, junto a José Luis Hidalgo, participa en la fundación de la revista Corcel. En 1944 realiza la primera crítica pictórica sobre la obra de Modesto Ciruelos.
Durante los años 40 vuelve a Santander y, además de trabajar en diferentes oficios, colabora en la revista de la Cámara de Comercio, donde escribe sobre economía y sobre los hombres ilustres de la industria cántabra.
En 1946 se relaciona con el renovador grupo “Proel”, editor de la revista poética del mismo nombre en la que publica su primer libro de poemas, Tierra sin nosotros, en 1947.
En 1950 escribe Con las piedras, con el viento y en 1953 aparece Antología poética, una amplia selección de su obra lírica.
Durante esa época fija su residencia en Madrid, donde comienza a trabajar en Radio Nacional de España, además de realizar crítica de arte y colaborar en revistas y periódicos.
En 1955 se publica Estatuas yacentes y en 1962 el volumen Poesías completas.
Durante las décadas siguientes continúa creando poesía, participa en actividades literarias, realiza crítica de arte analizando la obra de artistas del campo de la pintura y de la escultura, y forma parte de numerosos jurados literarios. Pronuncia gran número de conferencias sobre poesía y arte en la mayoría de las capitales europeas y sus poemas figuran en las más destacadas antologías de poesía contemporánea.
Premio Nacional de las Letras, en 1990, año en el que ve la luz Agenda.
En 1998 publica Cuaderno de Nueva York y recibe el Premio Cervantes.
Nombrado Doctor Honoris Causa por la Universidad de Turín, en 2002. Fallece a finales de ese mismo año.
José Hierro está considerado como una de las voces más representativas de la poesía social de posguerra.
Noi della Resistenza non è che andiamo in strada a sparare,
né ci nascondiamo in montagna,
né scriviamo sui giornali,
noi della resistenza non facciamo niente
ma quando moriremo avremo nella nostra mente
un ordine beato che ci ha consolato,
ci ha accompagnato nella vita, ci ha dato gioia
e felicità, ha fatto sì che la vita valesse veramente viverla,
morderla con tutti i denti come un pomo,
e quando moriremo questo paradiso
che noi abbiamo trovato, che era per strada
sotto gli occhi di tutti,
lo porteremo con noi sotto terra
e anche sotto terra continuerà a brillare.
(da Attorno al fuoco, Avagliano, 2006)
Mentre i ragazzi fanno il tema
Mentre i ragazzi fanno il tema
e le loro teste sono chine sul foglio
la stanza della classe riposa quieta
e brilla come una luce intorno ai loro capi.
Io li guardo, e la loro forza mi punge
– una ragazza è venuta a chiedermi una cosa
e nei suoi occhi celesti sprofondo -,
alcune delle fanciulle sono meno belle
ma nei loro tratti rivedo la gloria
delle donne latine,
i modi augusti e i lineamenti noti,
– penso a giovani donne prenestine, antichissime,
ornate di monili, eleganti,
e a povere fanciulle, a contadine a pastore
dei secoli più bui -,
e anche i ragazzi, quanta gloria sui loro capi.
E in tutti, quanta attesa, quante speranze
– loro di tutti i miei allievi sono i più grandi, sono già grandi –
e penso: come non ho detto niente a loro!
come non ho fatto niente! – non avrei potuto? –
solo preoccupato di fare il professore,
nella fretta in cui sono sempre, e distratto,
come se non mi fossi mai accorto di loro.
E mi stupisco di essere stato capace
pure di galleggiare in questo abisso di luce,
di essere rimasto illeso, salvo, tra tanta forza di flutti,
tra tanto mare calmo come un cielo celeste.
(da La miniera, Fazi, 1997)
Che bello che questo tempo
Che bello che questo tempo
è come tutti gli altri tempi,
che io scrivo poesie
come sempre sono state scritte,
che questa gatta davanti a me si sta lavando
e scorre il suo tempo,
nonostante sia sola, quasi sempre sola nella casa,
pure fa tutte le cose e non dimentica niente
– ora si è sdraiata ad esempio e si guarda intorno –
e scorre il suo tempo.
Che bello che questo tempo, come ogni tempo, finirà,
che bello che non siamo eterni,
che non siamo diversi
da nessun altro che è vissuto e che è morto,
che è entrato nella morte calmo
come su un sentiero che prima sembrava difficile, erto
e poi, invece, era piano.
(da La miniera, Fazi, 1997)
Quel tempo lì
Quel tempo lì, scaturiva da un orifizio
(io lo chiamo così, ma in realtà erano infiniti
gli orifizi, e invisibili)
come scaturisce ogni tempo
e anche questo tempo, quello di questi istanti,
scaturisce nello stesso modo
e è lo stesso tempo,
poi si spandeva come un liquido sulla terra piatta
mentre nello stesso istante altro ancora scaturiva
e io avevo dietro
quello che un istante prima era avanti.
Eppure era bello sedersi a un lato
e fare finta di niente di tutto questo movimento,
immaginare tutto immobile, e accanto
come qualcuno che riposava accanto a me
e io potevo far finta che non ci fosse,
che io potessi muovermi, e lui stesse fermo,
e io potessi finalmente riposare,
o anche dormire, e lei fosse una donna
con una grande gonna, e stesse ferma sui campi,
bella nel tramonto con il sole basso
e rosso, bella nella notte
e nella mattina luminosa, bianca.
(Inedito)
Luna libera
Per quale mai legale analogia
solo perché so in formule il tuo moto
dovrei pensarti schiava,
incatenata all’orbita,
e a questa, assimilare il mio cammino,
di attonito pastore rassegnato.
No,
per me sei vagabonda smemorata,
che sempre in campo aperto s’avventura,
ma la terra da un fianco la richiama.
A questa luna voglio somigliare,
a questa libertà che c’è in natura,
che è quella di seguire principi primi,
mossi da profonde spinte.
Daniele Bollea (Roma, 1945),daPrendere terra(I Quaderni del Battello Ebbro, 2000)
Ancora una poesia alla luna. Solo che stavolta l’autore è un astrofisico. E che ci dice il poeta-astrofisico? Che la scienza ha lasciato il meccanicismo, nel quale teneva segregata la natura, e si stupisce della sua libertà. Arte e scienza di nuovo insieme, come nel Rinascimento, e libertà umana non separata, ma strettamente collegata alla libertà della natura.
Scrive il poeta-astrofisico in una nota: “La natura non era più quella prigione da cui il pittore da secoli era in fuga cercando nell’anima la perduta libertà”. (Claudio Damiani)
La mente la devi spingere, è questo quello
La mente la devi spingere, è questo quello
che devi fare, la devi spingere avanti
fino a coprire tutte le galassie
tutta la materia oscura e l’energia oscura,
devi spingerla e spingerla, sempre più lontano
fino all’ultimo atomo della totalità dell’essere,
non devi lasciare niente, neanche un atomo, ricordati,
anche le cose che non sappiamo, che non conosciamo
anche quelle che non ci immaginiamo, anche quelle devi metterle
(lo so che è strano, ma devi fare così)
ed ecco comincerai a sentire una forza,
un’energia che penetra nel tuo corpo
da dentro. Questo è lo strano,
che non viene da fuori, come ci si aspetterebbe,
ma viene da dentro
come se – capisco che ti puoi stupire –
l’intero universo fosse dentro di te
ma tu non ci pensare, lasciala venire
e spandersi per bene in tutto il tuo corpo,
e poi goditi la sorpresa
di essere sfuggito (lo so che è strano) alla morte.
Inedito di Claudio Damiani
Miei contemporanei
di questo tempo instabile
dove, lasciato un trapezio,
non abbiamo ancora afferrato l’altro
– noi equilibristi, più che trapezisti –
non siate in angoscia pensando
di essere nati troppo presto
per vedere l’allungamento della vita
come un elastico viscido,
non pensiate di essere gli ultimi
a morire, proprio scarognati,
non fate come Ray Kurzweil
che fa una dieta di farmaci
per vivere fino alla singolarità
e che se non ce la farà si farà ibernare
perché qualcuno poi, forse, lo venga a svegliare.
– Ci dica, come fa a fare queste scarpe così belle?
– Mah, io sono un artigiano, lavoro. Vede io lavoro, non faccio altro che lavorare. La mattina mi alzo, e giù a lavorare. Vado avanti come un treno. Se mi fermassi, sarei come un treno fermo nella campagna. Potrei stare fermo un poco, ma ogni momento che passa è sempre più imbarazzante…
– Ma lei, per fare queste scarpe così belle, ha sicuramente capito qualcosa del mondo, e chi siamo noi, e perché siamo qui. Ce lo dica, la prego, ce lo dica.
– Mah vede, io non ho capito un bel niente. Io semplicemente lavoro. Gliel’ho già detto: mi alzo la mattina, e lavoro. Se mi fermassi, gliel’ho detto, sarebbe imbarazzante…
Cieli celesti (Fazi, 2016)
Sì, ho cercato
Sì, ho cercato
ma adesso vorrei vagare
solo vagare
senza cercare.
Si, qualcosa ho trovato
cioè non proprio trovato,
qualcosa m’è passato vicino,
girandomi ho visto la coda
ma non mi va di inseguirlo,
ecco, lasciamolo stare, lasciamolo correre
dove gli pare.
Adesso vorrei essere io
questa cosa che appare non vista,
vorrei essere io questa cosa che vaga
e che ti sfiora, ti passa accanto nel sonno
mentre dormi, mentre mangi, mentre leggi
ti passa accanto e ti accarezza
o ti dà un bacio veloce
tu non fai a tempo a accorgertene
che già non mi vedi più.
E mettiamo invece che abbiano ragione quelli che dicono che dopo la morte, per chi muore, non c’è niente. Visto che la morte non è qualcosa di casuale piovutoci da un cielo distratto, ma è necessaria all’evoluzione, anzi tutt’uno con essa, poiché per evolvere ci vogliono sempre nuovi individui, e devono morire i vecchi, allora è indubitabile anche questo: che in quanto preciso, unico elemento della macchina evolutiva, in quanto attore dell’evoluzione, l’individuo viene a essere come un organo di un organismo, come l’elemento di un composto, e dunque a partecipare con la sua piccola vita, della grande vita. Ecco allora che dire “dopo la morte non c’è niente” viene a essere qualcosa di insufficiente, e un po’ in malafede anche. L’individuo che nasce e muore, è come se avesse incisa, in una sua medaglietta, una particolare entità matematica, che significa una identità identica solo a sé, come un certo preciso numero, quello e non altro, e proprio per questo, cioè essere un preciso numero, dà a lui l’appartenenza a tutta la realtà dei numeri, l’essere lui anello di una grande catena, significa che se non ci fosse, la catena si spezzerebbe, e sprofonderebbe nell’abisso.
Cieli celesti (Fazi, 2016)
Breve biografia di Claudio Damiani è nato nel 1957 a San Giovanni Rotondo ma vive a Roma dall’infanzia. Ha pubblicato le raccolte poetiche Fraturno (Abete,1987), La mia casa (Pegaso, 1994, Premio Dario Bellezza), La miniera (Fazi, 1997, Premio Metauro), Eroi (Fazi, 2000, Premio Aleramo, Premio Montale, Premio Frascati), Attorno al fuoco (Avagliano, 2006, finalista Premio Viareggio, Premio Mario Luzi, Premio Violani Landi, Premio Unione Scrittori) e Sognando Li Po (Marietti, 2008, Premio Lerici Pea). Ha curato i volumi: Almanacco di Primavera. Arte e poesia (L’Attico Editore, 1992); Orazio, Arte poetica, con interventi di autori contemporanei (Fazi, 1995); Le più belle poesie di Trilussa (Mondadori, 2000). È stato tra i fondatori della rivista letteraria Braci (1980-84). Suoi testi sono stati tradotti in diverse lingue (tra cui principalmente inglese, spagnolo, serbo, sloveno, rumeno) e compaiono in molte antologie italiane (anche scolastiche) e straniere. Collabora con vari giornali tra cui la cronaca di Roma di «Repubblica».
Castelnuovo, cambierà il motto da “Perla della Cultura della Sabina” sembrerebbe a ”Fregnacce per tutti” ?.
Castelnuovo di Farfa- Finalmente oggi, 20 settembre 2021, anche Castelnuovo celebra la sua “PORTA PIA” /“PORTA CASTELLO”-
A Castelnuovo oramai è in piena attività la fabbrica :”Amore per il Borgo”.
Be’, che dire se non EVVIVA.
Certo evviva , perché è pur vero che sembrerebbe che non abbiamo più l’acquedotto storico di Cerdomare, ma in sostituzione abbiamo “L’ORNISCHI” che disseta la nostra voglia del sapere tutto sulla storica “SAGRA delle FREGNACCE”.
Certamente la “Sagra delle Fregnacce” castelnuovese è appagante ed ora, quindi, come si potrebbe aggettivare o definire di “GREPPIA” o di “NICCHIA”?
Comunque EVVIVA ora Castelnuovo dal motto “Perla della Cultura della Sabina” ci chiediamo noi castelnuovesi, come direbbe il Foscolo:”siamo in un’ansia di trepida attesa” ,se verrà cambiato il motto in ”Fregnacce per tutti” .
Sinceramente noi sappiamo dove vanno a finire le “Fregnacce”, anche se molto gustose e invitanti, esattamente dalla parte opposta della Cultura.
Così è se vi pare come dice il Grande Luigi Pirandello.
Centenaire de la naissance d’Italo Calvino, un festival d’événements à Paris pour le fêter
Autrice dell’Articolo – Evolena
N’OUBLIEZ PAS ! Le 15 octobre, 100 ans se seront écoulés depuis la naissance d’Italo Calvino (à Cuba). Par sa riche production littéraire, la profondeur de sa pensée, il est considéré comme un pilier de la littérature du XXe siècle en Italie et au-delà. Calvino était et continue à être une référence pour la culture italienne et parmi les auteurs les plus lus, y compris dans les écoles à tous niveaux. Romancier, écrivain, journaliste, personnalité marquante pour son engagement politique et civique, intéressé par le monde du théâtre, du cinéma, de la musique, de la bande dessinée et de l’art. Calvino est un monde en soi. Sans cesse, de nouvelles suggestions et de nouvelles interprétations émergent, comme le démontrent les nombreuses initiatives organisées en Italie et à l’étranger pour célébrer ce Centenaire. Il a vécu 13 ans à Paris, de 1967 à 1980, et ces années ont été fondamentales pour lui. Il n’est donc pas étonnant que la communauté italienne de Paris s’associe aux célébrations de ce Centenaire. Pour vous permettre de vous orienter plus facilement dans cette riche actualité calvinienne, Altritaliani vous propose un récapitulatif chronologique des événements parisiens qui nous ont été signalés et de saisir ces occasions pour lire, relire l’oeuvre d’Italo Calvino.
Mardi 3 octobre – Maison de l’Italie à la Cité universitaire, 7a Bd Jourdan, 75014 Paris A 19h00 Vernissage de l’exposition « Calvino à la Maison » avec Andrea Kerbaker, Commissaire de l’exposition, Claudia Vena, responsable de l’installation et Fabio Gambaro, auteur de «Lo scoiattolo sulla Senna. L’avventura di Calvino a Parigi ». L’exposition est réalisée par le centre culturel Kasa dei Libri de Milan avec la Maison de l’Italie, en partenariat avec l’Institut Culturel Italien de Paris et la Monte Paschi Banque.
Réservation obligatoire pour le vernissage : https://my.weezevent.com/calvino-a-la-maison-vernissage-exposition
L’exposition sera ouverte du 4 octobre au 6 novembre avec deux autres temps forts. Vous pouvez découvrir le programme complet sur le site de la Maison de l’Italie : https://maison-italie.org/wordpress/index.php/calvino-a-la-maison/
Mardi 10 octobre – Maison de la recherche (4, rue des Irlandais 75005) A partir de 9h00une journée d’étude consacrée à Italo Calvino «Méditations parisiennes de Calvino. Perspectives littéraires, philosophiques et historiques».
Cette journée, qui se veut interdisciplinaire, propose la rencontre avec des spécialistes de l’œuvre calvinienne, des historiens de la culture, des philosophes et des sociologues.
PROGRAMME EN PDF A TELECHARGER ICI
A suivre une présentation du livre de Fabio Gambaro «Lo scoiattolo sulla Senna. L’avventura di Calvino a Parigi ». Une table ronde avec Yves Hersant, Christophe Mileschi et Martin Rueff, viendra clore la journée.
Cet événement est ouvert à tous et est organisé par l’association Italiques en partenariat avec le LECEMO (CIRCE) – Sorbonne Nouvelle Paris 3 et Historia Magistra.
Réservation obligatoire pour la journée : https://my.weezevent.com/calvinojour
Mercredi 11 octobre – Librairie italienne La Tour de Babel 10, rue du Roi de Sicile 75004 Paris M Saint-Paul A 19h30 présentation du livre de Fabio Gambaro Lo scoiattolo sulla Senna. L’avventure di Calvino a Parigi (Feltrinelli). Ce livre retrace les 13 années pendant lesquelles Italo Calvino a vécu à Paris de 1967 à 1980. C’est à cette époque, marquée par la révolte étudiante et par les dernières avant-gardes européennes, que l’auteur italien entre en contact avec les représentants de l’Oulipo, ce qui façonnera de manière significative sa production, notamment Les villes invisibles,Le château des destins croisés et Si une nuit d’hiver un voyageur.
Vendredi 13 octobre – Librairie italienne La Tour de Babel 10, rue du Roi de Sicile 75004 Paris M Saint-Paul A 19h30. Mise en espace de quelques nouvelles de Gli amori difficili (Les amours difficiles) par Bruno La Brasca et Serena Rispoli
L’amour et l’absence au centre des contes de ce recueil sont interprétés par la voix et les gestes de Bruno La Brasca et Serena Rispoli.
mardi 17 octobre à 19h30 | PARIS/INVISIBILE | Mairie du 9ème arrondissement – Salle du Conseil
Une mise en espace/installation créée à l’occasion du centenaire de la naissance du grand écrivain Italo Calvino « Imprégnés de Calvino, fuyant la représentation, on a suivi un sentier oulipien qui nous a permis de pénétrer la ville, les villes, Paris, par le prisme de l’invisibilité. Plus que le récit d’une aventure, l’aventure obscène d’un récit. J’habite Paris ou j’habite à Paris? »
Avec : Bruno La Brasca, Gerardo Maffei, Gaspard Njock
Mise en scène : Gerardo Maffei
Installation visuelle : Gaspard Njock
Dramaturgie : Bruno La Brasca, Gerardo Maffei
Production et organisation : Les Ateliers de CriBeau
Entrée libre dans la limite des places disponibles, Réservation préférable : lesateliersdecribeau@gmail.com
Mercredi 18 octobre – Librairie italienne La Tour de Babel 10, rue du Roi de Sicile 75004 Paris M Saint-Paul A 19h30 Calvino et la Ligurie
Avec Martin Rueff, traducteur du livre Liguries(Editions Nous) et Gianmarco Parodi, auteur de Nella città invisibile – Viaggio nei luoghi calviniani (Ed. Piemme)
Dans Liguries, on découvre un Calvino arpenteur minutieux des paysages, homme de l’espace et non du temps, animé par une pulsion de voir et de décrire qui fut aussi forte que celle de raconter. Liguries est constitué de cinq proses et d’un ensemble de poèmes (les « Eaux fortes de Ligurie », rédigés pendant la période de la Résistance)
Au fil des pages, Gianmarco Parodi part quant à lui à la découverte des lieux (réels)
qui ont inspiré la création littéraire de l’un des écrivains contemporains les plus marquants de notre époque.
Dans cet itinéraire, la ville de Sanremo en Ligurie (où Parodi est né) occupe une place centrale, revenant à plusieurs reprises dans les livres de Calvino.
Maison de l’Italie à la Cité universitaire, 7a, Bd Jourdan, 75014 Paris Jeudi 19 octobre à 19h, Christophe Mileschi et Martin Rueff présentent le livre Le métier d’écrire. Correspondance (1940-1985), une récolte de plus de trois cents lettres choisies d’Italo Calvino (Gallimard, sortie prévue le 5 octobre 2023).
Plus de trois cents lettres choisies d’Italo Calvino dessinent le portrait complexe et attachant, inattendu et captivant de cet écrivain si bien connu et si secret. Les premières missives de la jeunesse, adressées aux parents et aux amis, laissent progressivement la place aux lettres consacrées au métier d’écrire. C’est que Calvino, par son activité d’écrivain, comme à travers sa profession d’éditeur, n’a cessé de s’adresser aux auteurs et artistes de son temps qu’il lisait et qui le lisaient : Pavese, Vittorini, Morante, Ortese, Pasolini, Antonioni, Sciascia, Moravia, Eco, Magris, et bien d’autres. La vie culturelle et littéraire italienne du siècle dernier nous est ainsi offerte dans ses tensions, ses constructions, ses réalisations.
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Jeudi 19 octobre – La Libreria, 89, rue du Fbg Poissonnière 75009 Paris (M°Poissonnière) A 19h Présentation du livre illustré et adapté par Sara Colaone, Il Barone rampante d’Italo Calvino (Mondadori) – Romanzo a fumetti, en présence de l’autrice et en compagnie de Domenico Biscardi
L’univers de Calvino en images, une évidence et une source féconde d’inspiration. Et ce soir-là, ce sera pour La Libreria une joie de recevoir Sara Colaone, talentueuse autrice de bandes dessinées, qui s’est attaquée avec fantaisie et respect au merveilleux Baron perché d’Italo Calvino : le résultat est un album enchanteur à mettre entre les mains de lecteurs de tous âges.
Vous pourrez également admirer ses planches ainsi que celles d’autres illustrateurs de Calvino à l’Institut culturel italien dans la cadre de l’exposition « Calvino imaginaire. Les mondes de Calvino (ré)interprétés par les bandes dessinées et les illustrateurs » qui ouvre la veille
jeudi 19 octobre à 18h30| Calvinologie. Lecture musicale |Mairie du 9ème arrondissement – Salle du Conseil – 6 rue Drouot
Eva, la cinquantaine, vit cloîtrée dans son luxueux appartement de Manhattan du fait d’une étrange affection. Chaque année, à la même période, le mal la rattrape, inexorable, et étend un peu plus son empire. Impossible d’arriver quelque part…
Le 18 septembre 1985 le téléphone sonne et un mystérieux interlocuteur demande à parler à Eva. C’est Italo Calvino qui appelle, de l’hôpital de Sienne où il vit ses dernières heures. Il le sait, il ne passera pas la nuit, et prie Eva de sortir de chez elle pour récupérer le texte d’une conférence qu’il doit donner le lendemain à Harvard, et de la prononcer à sa place. Eva panique, terrifiée à l’idée d’affronter le dehors. Et pourquoi l’écrivain l’a-t-il choisie, elle, parfaite inconnue ?
Avec : Maria Laura Baccarini (voix et chant), Manuel Magrini (piano)
Texte : Yann Apperry
Musique : Massimo Nunzi
Entrée libre dans la limite des places disponibles, Réservation préférable : lesateliersdecribeau@gmail.com
Lundi 30 octobre – Institut culturel italien, 50 rue de Varenne, 75007 Paris A 19h, projection du film Italo Calvino. Lo scrittore sugli alberi, de Duccio Chiarini, 2023, 76′ (Prix Italia 2023) en présence du réalisateur
’aventure de l’écrivain italien le plus indéfinissable du XXe siècle est racontée dans ce documentaire qui relit son parcours artistique à travers l’une de ses œuvres les plus connues, « Il Barone Rampante ». Le défi du film est d’offrir un nouveau regard sur l’auteur le plus connu du XXe siècle, notamment grâce à des séquences inédites, des photos et des lettres autographes qui lui ont été accordées en exclusivité. Ce documentaire utilise le livre peut-être le plus symbolique d’Italo Calvino comme un prisme à travers lequel reconstruire le rapport entre l’œuvre de l’auteur et les contextes historiques et politiques qu’il a traversés, dans sa recherche constante de la bonne distance par rapport aux choses du monde.
Mardi 6 novembre – Maison de l’Italie, 7a, Bd Jourdan, 75014 A 19h, finissage de l’exposition « Italo Calvino à la maison » avec une nouvelle présentation du livre Lo scoiattolo sulla Senna de Fabio Gambaro à la présence de l’auteur et de Andrea Kerbaker, conservateur de l’exposition.
Michèle Gesbert est née à Genève. Après des études de langues et secrétariat de direction elle s’installe à Paris dans les années ’70 et travaille à l’Ambassade de Suisse (culture, presse et communication). Suit une expérience associative auprès d’enfants en difficulté de langage et parole. Plus tard elle attrape le virus de l’Italie, sa langue et sa/ses culture(s). Contrairement au covid c’est un virus bienfaisant qu’elle souhaite partager et transmettre. Membre-fondatrice et présidente d’Altritaliani depuis 2009. Coordinatrice et animatrice du site.
Ci ha lasciato il 13 ottobre 2023, all’età di ottant’anni
Poesie di Louise Glück
Il papavero rosso
Il massimo
è non avere
mente. Sentimenti:
oh, quelli ne ho; mi
governano. Ho
un signore in cielo
che si chiama sole, e mi apro
per lui, mostrandogli
il fuoco del mio cuore, fuoco
come la sua presenza.
Che altro può essere una simile gloria
se non un cuore? Oh, sorelle e fratelli,
eravate come me una volta, tanto tempo fa,
prima di essere umani? Vi
concedeste di aprirvi
una volta per poi non aprirvi
mai più? Perché in verità
adesso io sto parlando
come voi. Io parlo
perché sono distrutta.
Vespro
Una volta credevo in te; ho piantato un fico.
Qui, in Vermont, paese
senza estate. Era una prova: se l’albero viveva,
allora tu esistevi.
Questa logica dice che non esisti. O esisti
esclusivamente nei climi caldi,
nella torrida Sicilia, in Messico, in California,
dove crescono inimmaginabili
albicocche e fragili pesche. Forse
vedono la tua faccia in Sicilia; qui, vediamo appena
l’orlo del tuo vestito. Devo addestrarmi
a dare una parte dei pomodori a John e a Noah.
Se c’è giustizia in qualche altro mondo, a quelli
come me, che la natura spinge
a vite di astinenza, dovrebbe toccare
la parte più abbondante di tutte le cose, di tutti
gli oggetti della fame, l’insaziabilità
essendo lode di te. E nessuno loda
più appassionatamente di me, con
desiderio più dolorosamente frenato o più merita
di sedere alla tua destra, se esiste, partecipando
del perituro, il fico immortale,
che non viaggia.
I gigli bianchi
Mentre un uomo e una donna fanno
un giardino tra loro come
un letto di stelle, qui
fanno passare la sera d’estate
e la sera diventa
fredda del loro terrore: potrebbe
finire, sarebbe capace
di devastazione. Tutto, tutto
può perdersi, nell’aria odorosa
le strette colonne
che salgono inutilmente e, di là,
un ribollente mare di papaveri –
Taci, mio amato. Non mi importa
quante estati vivo per tornare:
questa sola ci ha dato l’eternità.
Ho sentito le tue mani
seppellirmi per liberare il suo splendore.
(Traduzione di Nicola Gardini da The Wild Iris 1992).
Approccio all’orizzonte (18)
Una mattina mi sono svegliata incapace di muovere il braccio destro.
Avevo sofferto periodicamente di notevoli
dolori su quel lato, il mio braccio da pittrice,
ma in questo caso non c’era dolore.
In effetti, non c’era sensibilità.
Il mio medico è arrivato entro un’ora.
Ci fu subito la richiesta di altri dottori,
vari test, procedure —
Ho mandato via il dottore
e invece ho assunto il segretario che trascrive queste note,
le cui capacità, mi è stato assicurato, sono adeguate alle mie esigenze.
Si siede accanto al letto a testa bassa,
possibilmente per evitare di essere ritratto.
Quindi iniziamo. C’è un senso
di allegria nell’aria,
come se gli uccelli cantassero.
Dalla finestra aperta arrivano ventate di aria dolce e profumata.
Il mio compleanno (ricordo) si sta avvicinando velocemente.
Forse i due grandi momenti collideranno
e vedrò me stessa incontrarsi, andare e venire –
Naturalmente, gran parte del mio io originale
è già morto, quindi un fantasma sarebbe costretto
ad abbracciare una mutilazione.
Il cielo, ahimè, è ancora lontano,
non proprio visibile dal letto.
Esiste ora come ipotesi remota,
un luogo di libertà del tutto svincolato dalla realtà.
Mi ritrovo a immaginare i trionfi della vecchiaia,
immacolati, visionari disegni
fatti con la mia mano sinistra –
“Sinistra”, anche, come “residuo”.
La finestra è chiusa. Di nuovo silenzio, moltiplicato.
E nel mio braccio destro, ogni sensibilità scomparsa.
Come quando la hostess annuncia la conclusione
attraverso l’audio del servizio di bordo.
La sensibilità è scomparsa – mi viene in mente
che sarebbe una bella lapide.
Ma ho sbagliato a suggerire
che questo sia già accaduto.
In effetti, sono stata perseguitata dalla sensibilità;
è il dono dell’espressione
che così spesso mi ha delusa.
Mi ha delusa, mi ha tormentata, praticamente per tutta la vita.
Il segretario alza la testa,
pieno di astratta deferenza
ispirata dall’approccio della morte.
Non può aiutare, realmente, ma essere emozionante,
questo emergere della forma dal caos.
Una macchina, vedo, è stata installata vicino al mio letto
per informare i miei visitatori
del mio progresso verso l’orizzonte.
Il mio stesso sguardo continua a spostarsi su di essa,
linea instabile delicatamente
ascendente, discendente,
come una voce umana in una ninna nanna.
E poi la voce si ferma.
A quel punto la mia anima si sarà fusa
con l’infinito, rappresentato
da una linea retta,
come un segno meno.
Non ho eredi
nel senso che non ho nulla di sostanziale
da lasciare.
Forse il tempo attutirà questa delusione.
Per chi mi conosce bene non sarà una novità;
Lo capisco. Quelli a cui
sono legata dall’affetto
perdoneranno, spero, le distorsioni
imposte dall’occasione.
Sarò breve. Così si conclude,
come dice la hostess,
il nostro breve volo.
E tutte le persone che non si conosceranno mai
si affollano nel corridoio e vengono tutte incanalate
nel terminale.
Louise Glück, Faithful and Virtuous Night, Farrar, Straus and Giroux. 2014
traduzione di Marcello Comitini
La spada nella roccia
Il mio analista alzò brevemente lo sguardo.
Naturalmente non potevo vederlo
ma avevo imparato, nei nostri anni insieme,
a intuire questi movimenti. Come al solito,
si è rifiutato di ammettere
se avessi ragione o meno. La mia ingegnosità contro
la sua evasività: il nostro giochino.
In quei momenti, ho sentito l’analisi
affiorare: sembrava far emergere in me
un’astuta vivacità ero
incline a reprimerla. L’indifferenza
del mio analista per le mie esibizioni
era adesso immensamente rilassante. Un’intimità
era cresciuta tra noi
come una foresta intorno a un castello.
Le persiane erano chiuse. Vacillanti
barre di luce avanzavano sulla moquette.
Attraverso una piccola striscia sul davanzale della finestra,
ho visto il mondo esterno.
Per tutto questo tempo ho avuto la vertiginosa sensazione
di fluttuare sopra la mia vita. Quella vita
scorreva lontana. Ma stava
ancora scorrendo: questa era la domanda.
Fine estate: la luce stava svanendo.
Scintille sfuggite guizzarono sulle piante in vaso.
L’analisi era al suo settimo anno.
Avevo ricominciato a disegnare –
piccoli schizzi modesti, casuali
costruzioni in tre dimensioni
modellati su oggetti funzionali —
Eppure, l’analisi richiese
gran parte del mio tempo. A cosa
questo tempo fu sottratto: questa
era anche la domanda.
Mi sdraio, guardando la finestra,
lunghi intervalli di silenzio si alternano
a riflessioni un po’ svogliate
e domande retoriche –
Il mio analista, ho sentito, mi stava guardando.
Così una madre, nella mia immaginazione, fissa il suo bambino addormentato,
il perdono che precede la comprensione.
O, più probabilmente, così mio fratello deve avermi guardato –
forse il silenzio tra noi prefigurava
questo silenzio, in cui tutto ciò che rimaneva non detto
era in qualche modo condiviso. Sembrava un mistero.
Poi l’ora finì.
Scesi come ero salita;
il portiere aprì la porta.
Il clima mite della giornata persisteva.
Sopra i negozi erano state spiegate le tende a strisce
a proteggere la frutta.
Ristoranti, negozi, chioschi
con gli ultimi giornali e sigarette.
Gli interni diventavano più luminosi
mentre l’esterno diventava più scuro.
Forse i farmaci stavano funzionando?
Ad un tratto si sono accesi i lampioni.
Ho sentito, improvvisamente, la sensazione che telecamere iniziassero a riprendere;
ero consapevole del movimento intorno a me, i miei simili
guidati da un insensato feticcio per l’azione —
Quanto profondamente ho resistito a questo!
Mi sembrava superficiale e falso, o forse
parziale e falso —
Invece la verità … beh, la verità come la vedevo io
si esprimeva come immobilità.
Ho camminato un po’, fissando le vetrine delle gallerie …
i miei amici erano diventati famosi.
Potevo sentire il fiume in sottofondo,
da cui proveniva l’odore dell’oblio
intrecciato con le erbe aromatiche in vaso dei ristoranti—
Avevo deciso di unirmi a una vecchia conoscenza per cena.
Eccolo al nostro solito tavolo;
il vino fu versato; era impegnato con il cameriere,
discutendo dell’agnello.
Come al solito, durante la cena è nata una piccola discussione, apparentemente
riguardante l’estetica. C’era libertà di espressione.
Fuori, il ponte luccicava.
Le auto correvano avanti e indietro, il fiume
brillò dietro, imitando il ponte. Natura
che riflette l’arte: qualcosa di simile.
Il mio amico ha trovato l’immagine potente.
Era uno scrittore. I suoi numerosi romanzi, all’epoca,
sono stati molto lodati. Uno era molto simile a un altro.
Eppure il suo compiacimento mascherava la sofferenza
come forse la mia sofferenza mascherava la compiacenza.
Ci conoscevamo da molti anni.
Ancora una volta lo avevo accusato di pigrizia.
Ancora una volta, ha respinto la parola …
Sollevò il bicchiere e lo capovolse.
Questa è la tua purezza, ha detto,
questo è il tuo perfezionismo
Il bicchiere era vuoto; non ha lasciato segni sulla tovaglia.
Il vino mi era andato alla testa.
Tornai a casa lentamente, meditabonda, un po’ ubriaca.
Il vino mi era andato alla testa, o no
la notte stessa, la dolcezza di fine estate?
Sono i critici, ha detto,
i critici hanno le idee. Noi artisti
(includeva me): noi artisti
siamo solo bambini con i nostri giochi.
Louise Glück
(TRADUZIONE DI MARCELLO COMITINI)
cinque poesie da Averno e L’iris selvatico di Louise Glück, Edizione Il Saggiatore
da Averno(2006)
La stella della sera
Questa sera, per la prima volta in molti anni,
mi è apparsa di nuovo
una visione dello splendore della terra:
nel cielo del crepuscolo
la prima stella sembrava
crescere in luminosità
mentre la terra si oscurava
finché in ultimo non poté essere più scura.
E la luce, che era la luce della morte,
sembrava restituire alla terra
il suo potere di consolare. Non c’erano
altre stelle. Solo quella
di cui sapevo il nome
poiché nella mia altra vita le avevo fatto
torto: Venere,
stella del crepuscolo,
a te dedico
la mia visione, poiché su questa superficie vuota
hai gettato luce sufficiente
a rendere il mio pensiero
nuovamente visibile.
Averno
1.
Muori quando il tuo spirito muore.
Altrimenti, vivi.
Puoi non farcela al meglio, ma tiri avanti —
non hai altra scelta.
Quando lo dico ai miei figli
non prestano attenzione.
I vecchi, pensano —
fanno sempre così:
parlano di cose che non si vedono
per coprire tutti quei neuroni che perdono.
Ammiccano fra loro;
senti il vecchio, parla di spirito
perché non ricorda la parola per sedia.
È terribile essere soli.
Non intendo vivere soli —
essere soli, dove nessuno ti sente.
Ricordo la parola sedia.
Voglio dire — è solo che non mi interessa più.
Mi sveglio pensando
devi prepararti.
Presto lo spirito si arrenderà —
tutte le sedie del mondo non ti aiuteranno.
So cosa dicono quando sono nell’altra stanza.
Dovrei vedere uno specialista, dovrei prendere
uno dei nuovi farmaci per la depressione?
Li sento che discutono, sottovoce, come dividere le spese.
E voglio gridare
vivete tutti in un sogno.
Basta e avanza, pensano, vedermi perdere colpi.
Basta e avanza senza le lezioni che gli faccio questi giorni
come se avessi diritto a nuove informazioni.
Bene, loro hanno lo stesso diritto.
Stanno vivendo in un sogno, e io mi sto preparando
a diventare un fantasma. Voglio gridare
la nebbia si è diradata —
È come una vita nuova:
non dipendi dalla conclusione;
conosci la conclusione.
Pensaci: sessant’anni seduta su sedie. E ora lo spirito mortale
che vorrebbe così apertamente, così temerariamente —
Sollevare il velo.
Vedere a cosa stai dicendo addio.
3.
Da un lato, l’anima erra.
Dall’altro, gli esseri umani che vivono nella paura.
In mezzo, il pozzo della scomparsa.
Alcune ragazze mi chiedono
se sarebbero al sicuro nei dintorni dell’Averno —
hanno freddo, vogliono andare a sud per un po’.
E una dice, come scherzando, ma non troppo a sud —
Io dico, al sicuro come da qualsiasi parte,
il che le rende felici.
Intendo dire che niente è sicuro.
Sali su un treno, scompari.
Scrivi il tuo nome sul finestrino, scompari.
Ci sono luoghi come questo ovunque,
luoghi in cui entri come ragazza,
da cui non ritorni mai.
Come il campo, quello che è bruciato.
Dopo, la ragazza sparì.
Forse non esisteva,
non abbiamo prove in un senso o nell’altro.
Tutto ciò che sappiamo è:
il campo bruciò.
Ma questo lo vedemmo.
Quindi dobbiamo credere nella ragazza,
in quello che ha fatto. Altrimenti
sono solo forze che non capiamo
a governare la terra.
Le ragazze sono felici, pensando alle vacanze.
Non prendete il treno, dico.
Scrivono i loro nomi nella condensa sul finestrino di un treno.
Voglio dire, siete brave ragazze,
che cercate di lasciare i vostri nomi.
Persefone l’errante
Nella seconda versione, Persefone
è morta. Lei muore, sua madre piange —
i problemi della sessualità
qui non ci concernono.
Ossessivamente, nel lutto, Demetra
percorre la terra. Non ci aspettiamo di sapere
cosa Persefone stia facendo.
È morta, i morti sono misteri.
Abbiamo qui
una madre e un enigma: questo
corrisponde precisamente all’esperienza
della madre quando
guarda in faccia alla bambina. Pensa:
ricordo quando non esistevi. La bambina
è perplessa; più tardi, l’opinione della bambina è
che è sempre esistita, proprio come
sua madre è sempre esistita
nella sua forma attuale. Sua madre
è come una figura a una fermata d’autobus,
un pubblico per l’arrivo dell’autobus. Prima di questo,
lei era l’autobus, una temporanea
casa o comodità. Persefone, protetta,
guarda fuori dalla finestra del carro.
Cosa vede? Una mattina
all’inizio della primavera, ad aprile. Ora
tutta la sua vita sta iniziando — sfortunatamente
questa sarà
una vita breve. Conoscerà, a fondo,
solo due adulti: la morte e sua madre.
Ma due è
due volte ciò che ha sua madre:
sua madre ha
una bambina, una figlia.
Come dea, avrebbe potuto avere
mille bambini.
Cominciamo a vedere qui
la profonda violenza della terra
la cui ostilità suggerisce
che non desidera
continuare come fonte di vita.
E perché questa ipotesi
non è mai considerata? Perché
non è nel racconto; essa solamente
crea il racconto.
Nel lutto, dopo che la figlia muore,
la madre vaga per la terra.
Sta studiando il suo caso;
come un politico
lei ricorda tutto e non ammette
niente.
Per esempio, la nascita
di sua figlia fu intollerabile, la sua bellezza
fu intollerabile: questo lo ricorda.
Ricorda di Persefone
l’innocenza, la tenerezza —
Cosa progetta, mentre cerca sua figlia?
Sta manifestando
un avvertimento il cui messaggio implicito è:
cosa stai facendo fuori dal mio corpo?
Ti chiedi:
perché è sicuro il corpo della madre?
La risposta è
questa è la domanda sbagliata, poiché
il corpo della figlia
non esiste, se non
come un ramo del corpo della madre
che deve essere
ricongiunto a ogni costo.
Quando un dio piange significa
distruggere gli altri (come in guerra)
mentre allo stesso tempo chiede
di ribaltare i patti (anche come in guerra);
se Zeus la recupera,
l’inverno finirà.
L’inverno finirà, la primavera ritornerà.
I venticelli irritanti
che amavo tanto, gli idioti fiori gialli —
La primavera ritornerà, un sogno
fondato su una falsità:
che i morti ritornano.
Persefone
era abituata alla morte. Ora sempre e poi sempre
sua madre la trascina di nuovo fuori —
Devi chiederti:
i fiori sono veri? Se
Persefone «ritorna» sarà
per una di due ragioni:
o non era morta o
viene usata
per sostenere una finzione —
Penso di poter ricordare
l’essere morta. Molte volte, d’inverno,
ho avvicinato Zeus. Dimmi, gli chiedevo,
come posso tollerare la terra?
E lui diceva:
tra poco tempo sarai di nuovo qui.
E nell’intervallo
dimenticherai tutto:
quei campi di ghiaccio saranno
i prati dell’Eliso.
da L’iris selvatico (1992)
Mattutino
Padre irraggiungibile, quando all’inizio fummo
esiliati dal cielo, creasti
una replica, un luogo in un certo senso
diverso dal cielo, essendo
pensato per dare una lezione: altrimenti
uguale — la bellezza da entrambe le parti, bellezza
senza alternativa — Solo che
non sapevamo quale fosse la lezione. Lasciati soli,
ci esaurimmo a vicenda. Seguirono
anni di oscurità; facemmo a turno
a lavorare il giardino, le prime lacrime
ci riempivano gli occhi quando la terra
si appannò di petali, qui
rosso scuro, là color carne —
Non pensavamo mai a te
che stavamo imparando a venerare.
Sapevamo solo che non era natura umana amare
solo ciò che restituisce amore.
Fine dell’estate
Dopo che pensai tutte le cose,
pensai il vuoto.
C’è un limite
al piacere che trovavo nella forma —
In questo non sono come voi,
non mi appago in un altro corpo,
non ho bisogno
di un riparo fuori di me —
Mie povere ispirate
creazioni, siete
fastidi, in fondo,
mera limitazione; siete
alla fine troppo poco simili a me
per piacermi.
E così candide:
volete essere ripagate
della vostra scomparsa,
pagate tutte con qualche parte della terra,
qualche ricordo, come una volta eravate
compensate per il lavoro,
lo scriba pagato
con argento, il pastore con orzo
per quanto non è la terra
a durare, non
queste scaglie di materia —
Se apriste gli occhi
mi vedreste, vedreste
il vuoto del cielo
specchiato in terra, i campi
di nuovo nudi, senza vita, coperti di neve —
poi luce bianca
non più travestita da materia.
traduzione di Massimo Bacigalupo.
APRILE
Nessuna disperazione è come la mia disperazione…
Non c’è posto in questo giardino
di pensare cose simili, producendo
i fastidiosi segni esteriori; l’uomo
che strappa ferocemente un’intera foresta,
la donna che zoppica, rifiutando di cambiar vestito
o lavarsi i capelli.
Pensate che mi importi
se vi parlate?
Ma voglio che sappiate
mi aspettavo di più da due creature
che furono dotate di mente: se non
che aveste davvero cura l’uno dell’altro
almeno che capiste
che il dolore è distribuito
tra voi, tra tutti i vostri simili, perché io
possa riconoscervi, come il blu scuro
marchia la scilla selvatica, il bianco
la viola di bosco.
Buon compleanno a Louise Glück, nata oggi nel 1943
Una poesia di Louise Glück, Premio Nobel
Legge non scritta
Interessante come ci innamoriamo: nel mio caso, in modo assoluto. In modo assoluto e, ahimè, spesso – così era nella mia gioventù. E sempre con uomini piuttosto giovanili – immaturi, imbronciati, o che prendono timidamente a calci foglie morte: alla maniera di Balanchine. Né li vedevo come ripetizioni della stessa cosa. Io, con il mio inflessibile platonismo, il mio fiero vedere solo una cosa alla volta: ho decretato contro l’articolo indefinito. Eppure, gli errori della mia gioventù mi rendevano senza speranza, perché si ripetevano come è di solito vero. Ma in te sentii qualcosa oltre l’archetipo – una vera espansività, un’esuberanza e amore della terra profondamente estranei alla mia natura. A mio merito, benedissi la mia buona fortuna per te. La benedissi in modo assoluto, alla maniera di quegli anni. E tu nella tua saggezza e crudeltà mi hai gradualmente insegnato l’assenza di senso di quel termine.
DaNuovi poeti americani (Einaudi, 2006).
Mezzanotte –
Alla fine la notte mi circondò;
ci galleggiavo sopra, forse dentro
o mi trasportava come un fiume trasporta
una barca, e allo stesso tempo
vorticava sopra di me,
costellata di stelle ma comunque oscura.
Questi erano i momenti per i quali ho vissuto.
Ero, mi sentivo, misteriosamente elevata al di sopra del mondo
e quell’azione che alla fin fine era impossibile
rendeva il pensiero non solo possibile ma illimitato.
Non aveva fine. Non ho bisogno, ho sentito,
di fare qualcosa. Qualsiasi cosa
sarebbe stata fatta per me, o fatta a me,
e se non fosse stata fatta, non era
essenziale.
Ero sul mio balcone.
Nella mano destra tenevo un bicchiere di scotch
in cui si stavano sciogliendo due cubetti di ghiaccio.
Il silenzio era entrato in me.
Era come la notte e i miei ricordi — erano come le stelle
in quanto erano fissi, sebbene ovviamente
se si fossero potuti vedere come fanno gli astronomi
si sarebbe visto che sono fuochi senza fine, come i fuochi dell’inferno.
Ho appoggiato il bicchiere sulla ringhiera di ferro.
Sotto, il fiume scintillava. Come ho detto,
tutto brillava — le stelle, le luci del ponte, gli importanti
edifici illuminati che sembravano fermarsi al fiume
per riprendere di nuovo, il lavoro dell’uomo
interrotto dalla natura. Di tanto in tanto ho visto
le imbarcazioni da diporto serali; poiché la notte era calda,
erano ancora piene.
Questa è stata la grande escursione della mia infanzia.
Il breve viaggio in treno che culmina in un tè di gala in riva al fiume,
poi quello che mia zia chiamava la nostra passeggiata,
poi la barca stessa che navigava avanti e indietro sull’acqua scura –
Le monete in mano a mia zia passarono nella mano del capitano.
Mi è stato consegnato il biglietto, ogni volta un nuovo numero.
Quindi la barca si è immessa nella corrente.
Ho tenuto la mano di mio fratello.
Abbiamo visto i monumenti che si susseguivano
sempre nello stesso ordine
e così ci siamo spostati nel futuro
dove si sperimentano ricorrenze perpetue.
La barca risalì il fiume e poi tornò indietro.
Si è spostata nel tempo e poi
attraverso un’inversione di tempo, anche se la nostra direzione
era sempre avanti, la prua continuava
a tracciare un sentiero nell’acqua.
Era come una cerimonia religiosa
in cui la congregazione stava
aspettando, vedendo,
e questo era l’intero punto, il contemplare.
La città andava alla deriva
metà a destra, metà a sinistra.
Guardate com’è bella la città,
ci diceva mia zia. Perché
era illuminata, immagino. O forse perché
qualcuno l’aveva detto nell’opuscolo stampato.
Successivamente abbiamo preso l’ultimo treno.
Spesso mi addormentavo, anche mio fratello dormiva.
Eravamo bambini di campagna, non abituati a tante emozioni.
Voi siete ragazzi esausti, disse mia zia,
come se tutta la nostra infanzia fosse a questo proposito
una qualità esaurita.
Fuori dal treno, il gufo stava chiamando.
Quanto eravamo stanchi quando siamo arrivati a casa.
Sono andata a letto con i calzini.
La notte era molto buia.
La luna è sorta.
Ho visto la mano di mia zia afferrarsi alla ringhiera.
Con grande eccitazione, applausi e ovazioni,
gli altri salirono sul ponte superiore
a guardare la terra scomparire nell’oceano –
Louise Glück
(TRADUZIONE DI MARCELLO COMITINI)
BIOGRAFIA
Glück Louise-Premio Nobel per la Letteratura 2020. Nata a New York nel 1943, Louise Glück è una poetessa statunitense. La sua poesia evoca schegge memoriali rielaborando temi come l’isolamento e la solitudine, in un tono insieme colloquiale e meditativo. Vincitrice del premio Pulitzer con L’iris selvatico (The Wild Iris, 1993), ha convinto i critici per lo stile controllato ed elegante con cui assorbe lunghe sequenze narrative di tratto confessionale che ricordano la poesia di R. Lowell, S. Plath e A. Sexton. In Meadowlands (1997) rievoca figure mitiche come Ulisse e Penelope all’interno di una scrittura molto moderna, che racconta di un matrimonio che sta per finire. Nel 2020 vince il Nobel per la letteratura per “la sua incofondibile voce poetica che con austera bellezza rende l’esistenza individuale esperienza universale”. Louise Glück è una poetessa statunitense. La sua poesia evoca schegge memoriali rielaborando temi come l’isolamento e la solitudine, in un tono insieme colloquiale e meditativo. Vincitrice del premio Pulitzer con L’iris selvatico (The Wild Iris, 1993), ha convinto i critici per lo stile controllato ed elegante con cui assorbe lunghe sequenze narrative di tratto confessionale che ricordano la poesia di R. Lowell, S. Plath e A. Sexton. In Meadowlands (1997) rievoca figure mitiche come Ulisse e Penelope all’interno di una scrittura molto moderna, che racconta di un matrimonio che sta per finire. Nel 2020 vince il Nobel per la letteratura per “la sua incofondibile voce poetica che con austera bellezza rende l’esistenza individuale esperienza universale”.
Nel 2020 per il Saggiatore vengono pubblicati: Averno e L’Iris Selvatico. A queste segue Ararat (2021).
Un cigno nella bruma. Immagini sulla poesia di Louise Glück
Articolo di ENZA SIRIANNI
Esordisco con l’ammettere che il nome di Louise Glück mi è giunto completamente nuovo alla notizia del conferimento del Nobel. Non sono un’esperta della poesia americana contemporanea, ma ne sono attratta e, umilmente, vado esplorandola. Mai incrociata. Rovistando nelle mie cartelline, ho scoperto in un link un accenno alla poetessa, un guizzo appena, subito sommerso da una sequela di nomi soprattutto maschili, alcuni dei quali segnalati come le voci più rappresentative della odierna poesia statunitense.
A dire il vero, autori di spicco, quando la materia è ispirata da Calliope, Euterpe e Erato, in lingua straniera peraltro, per ragioni editoriali che hanno a che fare con il venale costi/ ricavi di prudentissimo calcolo, è più facile reperirli pubblicati singolarmente o in raccolte antologiche.
Può capitare di trovarli tradotti e diffusi in blog e siti vari. Ma della nostra Louise quali le tracce? Sporadiche. Chiudendo sul link menzionato, sono andata a scavare come un cane da tartufo in cerca di una rarità quale è emersa nel mercato dell’editoria italiana, la Glück. Per quanto mi riguarda, questo dato ha attenuato in me una sorta di senso di colpa per non conoscerla prima del Nobel.
Del resto, non per consolarmi, lei non era nota a tanti, un nome inatteso, che ha colto di sorpresa gli addetti. Tanto rara che non si trova un suo libro in Italia oggi, neanche a pagarlo a peso d’oro mentre, prevedibilmente, si sta provvedendo a ristamparla. Eh, sì, a parte Minimum Fax nel 2003 e Einaudi che nel 2006 l’avevano inserita in una antologia di poeti americani contemporanei (la prima a cura di Mark Strand e Damiano Abeni, la seconda a cura di Elisa Biagini) due piccole impavide case editrici italiane, Giano e Dante & Descartes, avevano osato pubblicarla senza tante storie di convenienza, in riconoscimento alla sua voce poetica. Lungimiranti o sognatori? Più la seconda. Giusto per ricordare e sottolineare quanto fosse ignorata la professoressa della Yale University che ha vinto il Pulitzer, il National Book Award, che è stata poeta laureata, che ha all’attivo parecchie raccolte di poesie. Sul numero esatto non riesco ad essere precisa, oscillando, secondo le mie informative, da quindici a undici. I francesi concordano su dodici, anche loro in difetto di conoscenza più manchevole del nostro, non avendo mai pubblicato un’antologia della poetessa newyorkese. In Francia, infatti, si trovano solo liriche sparse tradotte in riviste specializzate.
La mia ricerca, tuttavia, non è stata infruttuosa seppur indubbiamente non completa. Ho potuto leggere molti componimenti della Glück, soprattutto grazie a Massimo Bacigalupo che ha tradotto The Wild Iris e Averno. Ma ho trovato poesie tradotte da altri in raccolte più recenti. Mi sono accostata con interesse, curiosità ma con la consapevolezza che «ogni poesia è misteriosa; nessuno sa interamente ciò che gli è stato concesso di scrivere», come dice Jorge Luis Borges nel prologo di “Carme presunto e altre poesie”.
Che la Glück abbia dichiarato, non appena le hanno comunicato di essere stata insignita del premio, che con i soldi che riceverà potrà finalmente acquistare una casa nel Vermont che molto ama, me l’ha resa familiare e vicina.
Una donna che a 77 anni coltiva sogni semplici come potere avere un rifugio in mezzo ai boschi nel The Green Mountain State, è sicuramente già per questo una poetessa. Cos’è la Poesia che ci aiuta ad attraversare la bellezza e il dolore della vita, se non avercela nel cuore e nella mente, intimamente a noi connaturata, in quella sorgente inspiegabile di pensieri vaghi, erranti, gentili, gioiosi, malinconici, vibranti di emozioni che ci suggeriscono di levarci in volo, non schiacciati dalle paure, dalle angustie, dalle ambasce che solitamente affliggono la nostra specie? L’immagine che ho in mente è quella di un cigno nella bruma che si libra su uno stagno freddo, rischiarando con la sua bianca luminiscenza la nebulosa aria intorno. Ecco, per me, Louise assomiglia a questo essere alato, lei che in una delle liriche di Averno, attraverso la voce di Proserpina, esprime il desiderio di non avere più braccia ma ali.
E a lei mi piacerebbe chiedere perché la mattina vorrebbe svegliarsi contemplando abeti a perdita d’occhio, tinte di smalto nella chiarità di quiete albe, colori crepuscolari sui declivi dei monti, distese di scille azzurre, il sole frantumato in polvere d’oro tra milioni di rami, orme di una lepre sui piumoni di neve, fasci di luna sulle margherite del giardino? Se mi dicesse che la risposta la conosco già, mi sentirei a lei sorella più di quanto non lo sia per l’appartenenza allo stesso genere e per la grazia che promana dai suoi versi. Femminile. Senza concessioni a melense tentazioni, con lo sguardo asciutto e coraggioso sulle perdite che vivere comporta. Ciò che avremmo voluto e non è stato. Ciò che pensammo di avere raggiunto e si è dissolto. Ciò che invano trattenemmo e si è allontanato. Ciò che doveva accompagnarci e ci ha lasciato soli. Distacchi, separazioni.
L’amore, il più vulnerabile ai conflitti, alla fine.
Ma in te sentii qualcosa oltre l’archetipo –
una vera espansività, un’esuberanza e amore della terra
profondamente estranei alla mia natura. A mio merito,
benedissi la mia buona fortuna per te.
La benedissi in modo assoluto, alla maniera di quegli anni.
E tu nella tua saggezza e crudeltà
mi hai gradualmente insegnato l’assenza di senso di quel termine.
da Legge non scritta
Nella tenda, Achille
piangeva con tutto il suo essere
e gli dèi videro
che era un uomo già morto, vittima
della parte che amava,
la parte mortale.
da Il trionfo di Achille
E la morte? Quella fisica che più addizioniamo giorni di vita, più ci sottrae persone che conosciamo, che amiamo? Achille piange sconsolato il compagno Patroclo, Demetra è disperata per sua figlia Persefone rapita da Ade, Orfeo è impazzito di dolore per la sua Euridice morsa da un serpente.
Miti famosi che la Glück riprende dando ad ognuno l’interpretazione secondo il suo vissuto che, nella sua unicità e irripetibilità, ha l’impronta dell’universale. Del resto, il mito, con i suoi archetipi, giace come parte costitutiva dell’essere umano, dei suoi sentimenti, dei suoi sogni, delle sue paure, delle sue sfide, dei suoi limiti. Siamo fatti di fragilità e di forza. Di dolore e gioia. Di frustrazione e riscatto. Siamo una antinomia che genera dubbi, domande, spinte contrastanti dal buio alla luce e viceversa. Nascondersi, un impulso infantile mai soppresso, è una resa all’incomprensione degli altri, un riparo alla solitudine che si cura con la poesia. La terapia della “solità” in un ventre sotterraneo:
Prendevo
la metropolitana col mio libretto
come per difendermi
dallo stesso mondo
non sei sola
diceva la poesia,
nel buio del tunnel
da Ottobre
Eppure Louise bussa alle porte del Mistero in cui avverte siamo avvolti. Lo interpella, lo sfiora, gli bisbiglia, conscia che mai a lei né ad alcun altro sarà dato di comprenderlo. Non qui. Forse neanche dopo. Gli echi dickinsoniani che la critica ha rilevato nella sua poesia, restano su questo limen. Non lo oltrepassano. L’incontro che la poetessa di Amherst riteneva certo con l’Immortalità, è dubbioso per la Glück. Dio è irraggiungibile da quando fummo esiliati dal Giardino. Un Padre che imparammo a venerare ma non ad amare. Forse per questo non è della «natura umana amare ciò che ci restituisce amore».
Padre irraggiungibile, quando all’inizio fummo
esiliati dal cielo, creasti
una replica, un luogo in un certo senso
diverso dal cielo, essendo
pensato per dare una lezione: altrimenti
uguale… la bellezza da entrambe le parti, bellezza
senza alternativa… Solo che
non sapevamo quale fosse la lezione. Lasciati soli,
ci esaurimmo a vicenda. Seguirono
anni di oscurità; facemmo a turno
a lavorare il giardino, le prime lacrime
ci riempivano gli occhi quando la terra
si appannò di petali, qui
rosso scuro, là color carne…
Non pensavamo mai a te
che stavamo imparando a venerare.
Sapevamo solo che non era natura umana amare
solo ciò che restituisce amore.
Mattutino
Il giardino che è così ricorrente nei temi della Glück tanto da divenire il suo interlocutore privilegiato nella raccolta “L’Iris selvatico”, è un luogo di domande, di interrogativi sulla sua vita, su quella dei mortali, di affetti, ricordi, potature, sradicamenti, recisioni. Una metafora vegetale della nostra esistenza, eco dell’Eden da cui fummo cacciati, in cui vi è il segreto dell’origine e della fine. Nulla finisce ma tutto si trasforma in una circolarità biologica. Questa idea non elimina la difficoltà ad accettare la morte che non trova attenuazioni escatologiche né dolci segnali dall’aldilà. Duro è il richiamo della madre di Louise che cammina sui corpi dei genitori, cresciuti in erba, in Paesaggio aborigeno.
Stai calpestando tuo padre, disse mia madre,
e in effetti ero in piedi nel centro esatto
di un manto erboso, talmente curato da poter essere
la tomba di mio padre, anche se nessuna lapide lo diceva.
Stai calpestando tuo padre, ripeté,
stavolta più forte, e io cominciai a trovarlo strano
perché era morta anche lei; l’aveva ammesso persino il dottore.
Mi spostai un po’ più in là, dove
finiva mio padre e cominciava mia madre.
Tuttavia, nella medesima raccolta L’iris selvatico, quasi adirata, la Glück nega anche questa possibilità. Se la vita è una incessante rigenerazione, non è sorte che tocchi agli umani. Siamo imperdonabili, senza assoluzione che ella non concede prima di tutto a se stessa. Queste oscillazioni, non contraddizioni, sono di una donna inesausta nelle domande durante il viaggio che è la vita e in cui gli stati d’animo variano dall’entusiasmo alla delusione.
Qualsiasi cosa abbiate sperato,
non troverete voi stessi nel giardino,
fra le piante che crescono.
Le vostre vite non sono circolari come le loro:
le vostre vite sono il volo dell’uccello
che inizia e finisce nell’immobilità.
da Vento calante
E quale luogo migliore se non il giardino, riflesso del primigenio Eden, per chiedere a Dio se esiste in una domanda controsenso? E poi il puntuale ritorno alla realtà, alla sua disciplina, alle sue necessità.
Una volta credevo in te: piantai un fico.
Qui, in Vermont, terra
senza estate. Era una prova: se l’albero sopravviveva,
voleva dire che esistevi.
Secondo questa logica, non esisti. O esisti
esclusivamente in climi più caldi,
la fervente Sicilia, il Messico, la California,
dove si coltiva l’inimmaginabile
albicocca e la fragile pesca. Forse
vedono la tua faccia in Sicilia; qui a stento vediamo
l’orlo della tua veste. Devo disciplinarmi
per dividere con John e Noah il raccolto di pomodori.
da Vespro
Ma Louise, che si dibatte tra la durezza della vita e il bisogno di smussarla, accarezza l’idea di giungere alla fine credendo ancora in qualcosa. Un privilegio non concesso a tutti, nonostante siamo una somma di perdite, nonostante ci abbandoni anche il corpo. Ad esso dedica una lirica struggente, lei che lo ha maltrattato tante volte con la sua anima paurosa e brutale. Il riferimento all’anoressia di cui soffrì da giovane, pare evidente.
Corpo mio, ora che non viaggeremo più molto a lungo insieme
comincio a provare una nuova tenerezza verso di te, molto cruda e inconsueta,
come i ricordi che ho dell’amore quand’ero giovane –
l’amore che era così spesso sciocco nei suoi intenti
ma mai nelle sue scelte, nelle sue intensità.
Troppo chiedere in anticipo, troppo che non poteva essere promesso –
La mia anima è stata così paurosa, così violenta:
perdona la sua brutalità.
Come fosse quell’anima, la mia mano si muove cauta sopra di te,
non volendo recare offesa
ma impaziente, finalmente, di raggiungere l’espressione come sostanza:
non è la terra che mi mancherà,
sei tu che mi mancherai.
Il congedo dal corpo, che nell’età tarda ci denuncia la sua stanchezza, non è un congedo dalla vita, dalla poesia, dai suoi lettori. La Gluck continua con noi i suoi colloqui lucidi, visionari, confidenziali. Tanto sussurrati da planare verso il silenzio da lei amato, in cui mi sembra di udire il fugace fruscio di un cigno bianco nella bruma.
Il romanzo di una generazione di intellettuali nella Parigi esistenzialista del secondo dopoguerra.
In appendice Simone de Beauvoir di Simone de Beauvoir, Simone de Beauvoir vista da Sartre.
Il libro
Nel quadro dell’intera produzione di Simone de Beauvoir, I Mandarini, insieme all’autobiografia – Memorie d’una ragazza perbene, L’età forte, La forza delle cose, A conti fatti -, è il romanzo piú significativo ed emblematico. Nessuno meglio di Beauvoir avrebbe potuto raccontare la tumultuosa stagione di questo dopoguerra, in cui gli intellettuali francesi, i Mandarini appunto, erano gli indiscussi protagonisti della vita culturale e politica (basti pensare a Sartre e a Camus). Le vicende di Henri, Nadine, Anne, Dubreuilh, dei giovani «esistenzialisti » e delle ragazze che girano a vuoto, riflettono le lacerazioni di un mondo che non sa trovare il suo equilibrio, sospeso com’è tra speranze, ideali e il duro confronto con la realtà.
Breve biografia di Simone de Beauvoir
Simone de Beauvoir (Parigi 1908 – 1986)compí i suoi studi letterari e filosofici alla Sorbona. L’incontro con Sartre, che le sarà compagno per tutta la vita, è del luglio 1929. Gli anni della guerra e del dopoguerra furono fervidi di battaglie politiche, incontri e esperienze, come l’esordio della rivista «Les Temps Modernes» e l’amicizia con Camus, Leiris, Giacometti, Genet, Vian, Nelson Algren. Di Simone de Beauvoir Einaudi ha pubblicato I mandarini (Prix Goncourt 1954), Memorie di una ragazza perbene, L’età forte, La terza età, La forza delle cose, A conti fatti, Una morte dolcissima, Le belle immagini, Lo spirituale un tempo, Quando tutte le donne del mondo…, Una donna spezzata e La cerimonia degli addii.
Da: Alibi -Longanesi, 1958- Da: Il mondo salvato dai ragazzini e altri poemi-Einaudi, 1968-
Da: Alibi -Longanesi, 1958-
ALIBI
Solo chi ama conosce. Povero chi non ama! Come a sguardi inconsacrati le ostie sante, comuni e spoglie sono per lui le mille vite. Solo a chi ama il Diverso accende i suoi splendori e gli si apre la casa dei due misteri: il mistero doloroso e il mistero gaudioso.
Io t’amo. Beato l’istante che mi sono innamorata di te.
Qual è il tuo nome? Simile al firmamento esso muta con l’ora. Sei tu Giulietta? o sei Teodora? ti chiami Artù? o Niso ti chiami? Il nome a te serve solo per giocare, come una bautta. Vorrei chiamarti: Fedele; ma non ti somiglia.
La tua grazia tramuta in un vanto lo scandalo che ti cinge. Tu sei l’ape e sei la rosa. Tu sei la sorte che fa i colori alle ali e i riccioli ai capelli. La tua riverenza è graziosa come l’arcobaleno.
Sono i tuoi giorni un prato lucente dove t’incontri con gli angeli fraterni: il santo, adulto Chirone, l’innocente Sileno, e i fanciulli dai piedi di capra, e le fanciulle-delfino dalle fredde armature. La sera, alla tua povera cameretta ritorni e miri il tuo destino tramato di figure, l’oscuro compagno dormiente dal corpo tatuato.
Tu eri il paggio favorito alla corte d’Oriente, tu eri l’astro gemello figlio di Leda, eri il più bel marinaio sulla nave fenicia, eri Alessandro il glorioso nella sua tenda regale. Tu eri l’incarcerato a cui si fan servi gli sbirri. Eri il compagno prode, la grazia del campo, su cui piange come una madre il nemico che gli chiude gli occhi. Tu eri la dogaressa che scioglie al sole i capelli purpurei, sull’alto terrazzo, fra duomi e stendardi. Eri la prima ballerina del lago dei cigni, eri Briseide, la schiava dal volto di rose. Tu eri la santa che cantava, nascosta nel coro, con una dolce voce di contralto. Eri la principessa cinese dal piede infantile: il Figlio del Cielo la vide, e s’innamorò.
Come un diamante è il tuo palazzo che in ogni stanza ha un tesoro e tutte le finestre accese. La tua dimora è un’arnia fatata: narcisi lontani ti mandano i loro mieli. Per le tue feste, da lontani evi giungono luci, come al firmamento. Ma tu in esilio vai, solo e scontento. Il mio ragazzo non ha casa né paese.
La bella trama, adorata dal mio cuore, a te è una gabbia amara. E in tua salvezza non verrà mai la sposa regina del labirinto. Per il sapore strano del bene e del male la tua bocca è troppo scontrosa. Tu sei la fiaba estrema. O fiore di giacinto cento corimbi d’un unico solitario fiore!
La folla aureovestita del tuo bel gioco di specchi a te è deserto e impostura. Ma dove vai? che mai cerchi? invano, gatta-fanciulla, il passaggio d’Edipo sul tuo cammino aspetti. O favolosa domanda, al tuo delirio non v’è risposta umana. Riposa un poco vicino a chi t’ama angelo mio.
Quando mi sei vicino, non più che un fanciullo m’appari. Le mie braccia rinchiuse bastano a farti nido e per dormire un lettuccio ti basta. Ma quando sei lontano, immane per me diventi. Il tuo corpo è grande come l’Asia, il tuo respiro è grande come le maree. Sperdi i miei neri futili giorni come l’uragano la sabbia nera. Corro gridando i tuoi diversi nomi lungo il sordo golfo della morte.
Riposa un poco vicino a chi t’ama.
Lascia ch’io ti riguardi. La mia stanza percorri spavaldo come un galante che passa in una strage di cuori. Allo specchio ti miri i lunghi cigli ridi come un fantino volato al traguardo. O figlio mio diletto, rosa notturna! Povero come il gatto dei vicoli napoletani come il mendico e il povero borsaiolo, e in eleganza sorpassi duchi e sovrani risplendi come gemma di miniera cambi diadema ogni sera ti vesti d’oro come gli autunni.
Passa la cacciatrice lunare coi suoi bianchi alani…
Dormi. La notte che all’infanzia ci riporta e come belva difende i suoi diletti dalle offese del giorno, distende su noi la sua tenda istoriata. I tuoi colori, o fanciullesco mattino, tu ripiegasti. Nella funerea dimora, anche di te mi scordo.
Il tuo cuore che batte è tutto il tempo. Tu sei la notte nera.
Il tuo corpo materno è il mio riposo.
(1955)
MINNA LA SIAMESE
Ho una bestiola, una gatta: il suo nome è Minna.
Ciò ch’io le metto nel piatto, essa mangia, e ciò che lemetto nella scodella, beve.
Sulle ginocchia mi viene, mi guarda, e poi dorme, tale che mi dimentico d’averla. Ma se poi, memore, a nome la chiamo, nel sonno un orecchio le trema: ombrato dal suo nome è il suo sonno.
Se penso a quanto di secoli e cose noi due livide, spaùro. Per me spaùro: ch’essa di ciò nulla sa. Ma se la vedo con un filo scherzare, se miro l’iridi sue celesti, l’allegria mi riprende.
I giorni di festa, che gli uomini tutti fan festa, di lei pietà mi viene, che non distingue i giorni. Perché celebri anch’essa, a pranzo le do un pesciolino; né la causa essa intende: pur beata lo mangia.
Il cielo, per armarla, unghie le ha dato, e denti: ma lei, tanto è gentile, sol per gioco li adopra. Pietà mi viene al pensiero che, se pur la uccidessi, processo io non ne avrei, né inferno, né prigione.
Tanto mi bacia, a volte, che d’esserle cara io m’illudo, ma so che un’altra padrona, o me, per lei fa uguale. Mi segue, sì da illudermi che tutto io sia per lei, ma so che la mia morte non potrebbe sfiorarla…
(1941)
AMULETO
Quando tu passi, e mi chiami, assente son io. Per lunghe ore ti aspetto, e tu, distratto, voli altrove. Ma tanto, il mezzano serafico del nostro amore, il sultano dello zenit che muove sul quadrante le sfere con le dita infingarde e sante, ha già segnato l’istante del nostro convegno. Molli si volgono i miei giorni a quella imperiosa stagione. Candida e glaciale essa risplende alta salendo, come fuoco. Ah, nostra incantevole stanza! Che importa a me, infido spirito, dei tuoi diversi pensieri? Il presagio inchina già la fronte all’annuncio. Sorte e amore ti congiungono a me.
(1945)
LETTERA
Tutto quel che t’appartiene, o che da te proviene, è ricco d’una grazia favolosa: perfino i tuoi amanti, perfino le mie lagrime. L’invidia mia riveste d’incanti straordinari i miei rivali: essi vanno per vie negate ai mortali, hanno cuore sapiente, cortesia d’angeli. E le lagrime che mi fai piangere sono il mio bel diadema, se l’amara mia stagione s’adorna del tuo sorriso.
Stupisco se ripenso che avevo tanti desideri e tanti voti da non sapere quale scegliere. Ormai, se cade una stella a mezzo agosto, se nel tramonto marino balena il raggio verde, se a cena ho una primizia nella stagione nuova, o m’inchino alla santa campana dell’Elevazione, non ho che un voto solo: il tuo nome, il tuo nome, o parola che m’apri la porta del paradiso.
Nel mio cuore vanesio, da che vi regni tu, le antiche leggi del mondo son tutte rovesciate: l’orgoglio si compiace d’umiliarsi a te, la vanità si nasconde davanti alla tua gloria, la voglia si tramuta in timido pudore, la mia sconfitta esulta della tua vittoria, la ricchezza è beata di farsi, per te, povera, e peccato e perdono, ansia e riposo, sbocciano in un fiore unico, una grande rosa doppia.
Ma la frase celeste, che la mia mente ascolta, io ridirti non so, non c’è nota o parola. Ti dirò: tu sei tutto il mio bene, ad ogni ora questa grazia di amarti m’è dolce compagnia. Potesse il mio affetto consolarti come mi consola, o tu che sei la sola confidenza mia!
(1946)
CANTO PER IL GATTO ALVARO
Tra le mie braccia è il tuo nido, o pigro, o focoso genio, o lucente, o mio futile! Mezzogiorni e tenebre son tue magioni, e ti trasformi di colomba in gufo, e dalle tombe voli alle regioni dei fumi. Quando ogni luce è spenta, accendi al nero le tue pupille, o doppiero del mio dormiveglia, e s’incrina la tregua solenne, ardono effimere mille torce, tigri infantili s’inseguono nei dolci deliri. Poi riposi le fatue lampade che saranno al mattino il vanto del mio davanzale, il fior gemello occhibello. E t’ero uguale! Uguale! Ricordi, tu, arrogante mestizia? Di foglie tetro e sfolgorante, un giardino abitammo insieme, tra il popolo barbaro del Paradiso. Fu per me l’esilio, ma la camera tua là rimane, e nella mia terrestre fugace passi giocante pellegrino. Perché mi concedi il tuo favore, o selvaggio? Mentre i tuoi pari, gli animali celesti gustan le folli indolenze, le antelucane feste di guerre e cacce senza cuori, perché tu qui con me? Perenne, tu, libero, ingenuo, e io tre cose ho in sorte: prigione peccato e morte. Tra lune e soli, tra lucenti spini, erbe e chimere saltano le immortali giovani fiere, i galanti fratelli dai bei nomi: Ricciuto, Atropo, Viola, Fior di Passione, Palomba, nel fastoso uragano del primo giorno… E tu? Per amor mio?
AVVENTURA
per Luchino Visconti
Hai tu un cuore? La leggenda vuole che tu non l’abbia. Al vedermi, che per te mi consumo d’amore, tutti mi dicono: «Ah, pazza, mangiata dalle streghe, rosa dalle fole, soldato d’imprese disperate, marinaio senza veli né remi, dove t’avventuri? in quali deserti di sabbia, dietro Morgane, e fuochi fatui, e larve canzonatrici tu vuoi spegnere la tua sete nella solitaria morte! Ah, chi ti gettò questa rete, povero pesciolino?» Così dice la gente; ma lasciamo che dica! A chi di te mi sparla, nemica io mi giurai. Per te, mio santo capriccio, volto divino, senz’armi e senza bussola sono partita. Non v’è riposo alla speranza mai. A difficili amori io nacqui. Come una rosa in un giardino d’Africa o d’Asia assai lontano, come una bandiera alzata in cima a una nave pirata, come uno scudo d’argento appeso in un barbaro tempio, difficile splende il tuo cuore il tuo frivolo, indolente cuore, l’eroico, femmineo tuo cuore. il tuo regale, intatto cuore, il cuore dell’amore mio. Io credo nel tuo cuore! Le caverne terrestri son tutte una gioielleria. Funerea primavera per le mie feste vanesie, l’ametista viola e l’agata lunare e i diamanti simili a rose cangianti e il topazio vetrino, il topazio d’oro. Hanno i cristalli aloni e code di fuoco, mille comete e lune per la mia notte. M’offron conchiglie i golfi, e giochi oceanici, e il cielo boreale riposi e meditazioni. Dolcezze ha l’aranceto, come salive d’amore, e l’Asia graziose belve, mie tenere schiave. Le Maestà dei re conversazioni m’accordano, e al mio comando s’accendono circhi e teatri. Ma alla conquista io partii d’un frutto aspro. Il tuo cuore: altro frutto non voglio mordere. Non voglio i doni terrestri, al mio potere mi nego. Il solo mio volere è questa impresa! Alla conquista d’un frutto amaro andai. Le cose amare sono le più care. Segreta, lo so, è la stanza del prezioso cuore ch’io cerco. Lungo e incerto il viaggio fino al nido di questa civetta-fenice. Inesperta son io, compagno né guida non ho, ma giungerò alla camera felice del mio bell’idolo. Addio, dunque, parenti, amici, addio! Prima bisogna guadare il lago stagnante della paura, e i Grandi Orgogli oltrepassare, fastosa catena di rupi. Snidare bisogna l’invidia che s’imbosca e i mostri di gelosia mettere in fuga, (ah, San Michele e San Giorgio, datemi il vostro scudo!) per notti occhiute, selve purpuree, dove incontrare potrò centauri e ippogrifi, e bere il magico sangue dei narcisi. Si levan poi le triplici mura di Sodoma intorno a campo straniero dalle sette torri merlate. Incantare dovrò i guardiani, riscattare le spose comprate, e a lungo errerò per corti e fughe di scale, fra un popolo d’echi e d’inganni fino alla cara porta, che reca la scritta crudele: Indietro, o pellegrina. Non riceve. Ah, fossi alato usignolo, foss’io centaura, ah, sirena foss’io, foss’io Medoro o Niso, che forse a te più amico sarebbe il nome mio, grazioso cuore! Invece, Lisa è il mio nome, nacque nell’ora amara del meriggio, nel segno del Leone, un giorno di festa cristiana. Fui semplice ragazza, madrina a me fu una gatta, e alla conquista partii d’un dolce cuore. Or che mi presentai, siimi cortese, o amore. Di che temi, o selvatico? d’esser preso al laccio? Ah, no, dell’amara pampa la figlia io non sono. D’esser trafitto? Io non ho coltello, né pungiglione. Né son io sbirra, per gettarti in carcere, né fata, per averti compagno notte e giorno, mutato in corvo, dentro gabbietta d’oro. Ah, dall’impresa non giudicarmi eroe! Leggera è la mia mente più del fuoco, più che un riccio dei tuoi fulvi capelli. Per la mia pena, per il tuo vinto amore, con te soltanto un poco giocare io voglio come una foglia scherza con l’ombra e il sole, o una ragazza col suo gatto rosso. E poi ti dirò addio. Tu dirai: Lisa! supplicherai: Lisa! Ah, Lisa! Lisa! chiamerai. Ma io ti dirò addio.
Da: Il mondo salvato dai ragazzini e altri poemi (Einaudi, 1968)
ADDIO
Dal luogo illune del tuo silenzio mi riscuote ogni giorno l’urlo del mattino. O notte celeste senza resurrezione perdonami se torno ancora a queste voci. Io premo l’orecchio sulla terra a un’eco assurda dei battiti sepolti. Dietro la belva in fuga irraggiungibile mi butto sulla traccia del sangue. Voglio salvarti dalla strage che ti ruba e riportarti nel tuo lettuccio a dormire. Ma tu vergognoso delle tue ferite mascheri i cammini della tua tana. Io fingo e rido in un ballo disperato per distrarti dall’orrenda mestizia ma i tuoi occhi scolorati di sotto le palpebre non ammiccano più ai miei trucchi d’amore. Alla ricerca dei tuoi colori del tuo sorriso io corro le città lungo una pista confusa. Ogni ragazzo che passa è una morgana. Io credo di riconoscerti, per un momento. E mendicando rincorro lo sventolio di un ciufietto o una maglietta rossa che scantona… Ma tu rintanato nel tuo freddo nascondiglio disprezzi la mia commedia miserabile. Buffone inutile io deliro per le vie dove ogni fiato vivente ti rinnega. Poi, la sera, rovescio sulla soglia deserta un carniere di piume insanguinate. E chiedo una tenerezza al buio della stanza, almeno una decadenza della memoria, la senilità, l’equivoco del tempo volgare che medica ogni dolore… Ma la tua morte cresce ogni giorno. E in questa piena che monta io vado e mi riavvento in corsa dirotta, per un segno, un punto nella tua direzione. O nido irraggiungibile e caro, non c’è passo terrestre che mi porti a te. Forse fuori dai giorni e dai luoghi? La tua morte è una voce di sirena. Forse attraverso una perdizione? o vna grazia? o in quale veleno? in quale droga? forse nella ragione? forse nel sonno? La tua morte è una voce di sirena. Voglia di un sonno che pare una tua dolcezza ma è stata già l’impostura dove ti ho perso! La tua morte è una voce di sirena che vorebbe sviarmi da te nelle sue fosse. Forse, io devo accettare tutte le norme del campo: ogni degradazione, ogni pazienza. Non posso scavalcare questa rete spinata mentre al tuo grido innocente non c’è risposta. La tua morte è una luce accecante nella notte, è una risata oscena nel cielo del mattino. Io sono condannata al tempo e ai luoghi finché lo scandalo si consumi su di me. Io devo, qui, trescare e patteggiare con la belva per rubarle il segreto del mio tesoro. O pudore d’una infanzia uccisa, perdonami questa indecenza di sopravvivere. Tu sei partito credendo di giocare alla fuga. Era per fare il bravo, la tua smorfia d’addio. Al solito! Che poi ti bandisci nella tua stanzuccia minaccioso dietro le porte sbarrate come un gran capitano nel suo forte supremo. Guai per l’audace che si arrischi all’assedio! Ma ti conosco. Che invece se nessuno si arrischia ti strazi, e piangi nella tua rabbia infantile perché non c’è amore al mondo e ti lasciano solo. Ma stavolta, la tua porta fu sbattuta dagli uragani. Le piogge entrarono nel vano abbandonato e una fanghiglia come sangue ha imbrattato i muri. Quando eri vivo, la tua stanza era la stella del quartiere, ricercata da tutti. E adesso tutti ne rifuggono, come fosse appestata. Il mio piede incíampa nella tua camiciola che nessuno ha più raccolto da terra. Sul terrazzo devastato dagli inverni, le piante sono morte. Perfino i ladri hanno schifato questo tuo feudo estremo dove infatti c’era poco di valore, da rubare! Ritagliàti dalle riviste, i ritratti dei tuoi eroi adornano ancora le pareti: Gautarna il Sublime, il barbuto Fidel, Billie Holiday la suicida. In un angolo, c’è ancora la scodella della tua gatta. Una cravattina rossa pende nell’armadio. Alla partenza, ti caricasti dei tuoi beni principali: il canestro con la gatta e il fonografo a valigia. «Il resto dei bagagli, speditelo per via mare». Trecento volte quella nave ha ripercorso quel mare e i tuoi tesori sono dispersi, e io sono qui, vivente. Anche se vivo tremila anni, e se corro tutti i mari, non posso più raggiungerti per riportarti indietro. Lo so che tu credevi di giocare all’addio. Era una braveria, la tua smorfia… Ma contro una scommessa impaziente di ragazzo è un’altra lunga agonia la posta che qui si chiede. La ladra delle notti è una cammella cieca e folle che gira per Sahara incantati, fuori d’ogni pista. L’itinerario è lunatico, non c’è destinazione. Le sabbie disfanno le tracce dei suoi furti. Le sue pupille bianche fanno crescere miraggi dai corpi lacerati che lei semina per le sabbie. E i miraggi si spostano a distanze moltiplicate irraggiungibili nei loro campi solitari. Amputati dai corpi, si disperdono separati senza rimedio, eterne mutilazioni. Nessun miraggio può incontrare un altro miraggio. Non ci sono che solitudini, dopo il furto dei corpi.
…
A P. P. P.
In nessun posto
E così, tu – come si dice – hai tagliato la corda. In realtà, tu eri – come si dice – un disadattato e alla fine te ne sei persuaso anche se da sempre lo eri stato: Un disadattato. I vecchi ti compativano dietro le spalle pure se ti chiedevano la firma per i loro proclami e i “giovani” ti sputavano in faccia perché fascisti come i loro baffi: (già, tu glielo avevi detto, però avevi sbagliato in un punto: questi sono più fascisti dei loro baffi) ti sputavano in faccia, ma ovviamente anche loro ti chiedevano la propaganda per i loro volantini e i soldi per le loro squadrette.
E tu non ti negavi, sempre ti davi e ti davi E loro pigliavano e poi: “lui dà” – bisbigliavano nei loro pettegolezzi – “per amore di se stesso”. Viva, viva chi ama se stesso e gli altri ama come se stesso. Loro odiano gli altri come se stessi e in tale giustizia magari si credono di fondare una rivoluzione. Loro ti rinfacciavano la tua diversità dicendo con questo: l’omosessualità. Difatti, loro usano il corpo delle femmine come gli pare. Liberi di usarlo come gli pare. Il corpo delle femmine è carne d’uso ma il corpo dei maschi esige rispetto. E come no!
Questa è la loro morale. Se una femminella di strada avesse assassinato uno dei loro non la giustificherebbero perché immatura. Ma in verità in verità in verità quello per cui tu stesso ti credevi un diverso non era la tua vera diversità. La tua vera diversità era la poesia.
È quella l’ultima ragione del loro odio perché i poeti sono il sale della terra e loro vogliono la terra insipida. In realtà, LORO sono contro-natura. E tu sei natura: Poesia cioè natura. E così, tu adesso hai tagliato la corda. Non ti curi più dei giornali– [la] preghiera del mattino – con le crisi di governo e i cali della lira, e decretoni e decretini e leggi e leggione. Io spero che un’ultima sola grazia terrena ti resti ancora – per poco – ossia ridere e sorridere. Che tu di là dove sei– ma per poco ancora – di là, dal Nessun Posto dove ti trovi ora di passaggio – che tu sorrida e rida dei loro profitti e speculazioni e rendite accumulate e fughe dei capitali e tasse evase e delle loro carriere ecc. Che tu possa riderne e sorriderne per un attimo prima di tornartene al Paradiso.
Tu eri un povero E andavi sull’Alfa come ci vanno i poveri per farne sfoggio tra i tuoi compaesani: i poveri, nei tuoi begli abitucci da provinciale ultima moda come i bambini che ostentano di essere più ricchi degli altri per bisogno d’amore degli altri. Tu in realtà questo bramavi: di essere uguale agli altri, e invece non lo eri. DIVERSO, ma perché?
Perché eri un poeta. E questo loro non ti perdonano: d’essere un poeta. Ma tu ridi[ne]. Lasciagli i loro giornali e mezzi di massa e vattene con le tue poesie solitarie al Paradiso. Offri il tuo libro di poesie al guardiano del Paradiso e vedi come s’apre davanti a te la porta d’oro Pier Paolo, amico mio.
(1976)
Breve Biografia di ELSA MORANTE
ELSA MORANTE – nata a Roma il 18 agosto del 1912 – morì a Roma il 25 novembre 1985– la maggiore di quattro figli, figlia di Francesco Lo Monaco e Irma Poggibonsi. Elsa è cresciuta credendo che il secondo marito di sua madre, Augusto Morante, fosse suo padre. Nel 1922 a famiglia si trasferì a Monteverde Nuovo dove Elsa Morante fin da giovanissima iniziò a scrivere racconti e poesie. Dopo aver completato gli studi, lasciò la famiglia, mantenendosi dando lezioni di greco e latino. I suoi primi racconti sono stati pubblicati su riviste come Il Corriere dei Piccoli, I diritti della scuola e Oggi, alcuni di essi pubblicati con lo pseudonimo di Antonio Carrera.Grazie al pittore Capogrossi, nel 1936 conosce Alberto Moravia il grande scrittore romano, autore tra gli altri de Gli indifferenti e La noia. Il matrimonio della Morante con Alberto Moravia, oppositore del governo fascista di Mussolini, la mise in contatto con i maggiori scrittori e intellettuali italiani dell’epoca, tra cui Umberto Saba e Pier Paolo Pasolini. Le sue raccolte di poesia sono Alibi (Longanesi 1958, Garzanti 1988, Einaudi 2004) e Il mondo salvato dai ragazzini e altri poemi (Einaudi, 1968, 2006, 2012). I suoi romanzi: Menzogna e sortilegio (1948), L’isola di Arturo (1957), La storia (1974), Aracoeli (1982). Numerosi i racconti e gli scritti vari, saggi e interventi. È uno dei maggiori narratori italiani. Menzogna e sortilegio viene pubblicato nel 1948 vincendo il premio Viareggio, con L’Isola di Arturo Elsa Morante divenne la prima donna a vincere il Premio Strega.
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