-Giovanna Cinieri-Estratto da “Piccola stregheria”
-Rivista L’Altrove-
Biblioteca DEA SABINA-L’AUTRICE–Giovanna Cinieri, poeta e scrittrice, è nata a Taranto e ha studiato all’Accademia di Belle Arti di Bologna. È stata semifinalista al Premio Calvino racconti nel 2021 e nel 2022 e ha vinto il premio della critica sezione racconti al Premio Inedito Colline di Torino.
Questo tempo di correre a notte chiara di neve l’ho fatto, e stare qui dentro marzo neutrale agli elementi, all’orario che conta meglio i minuti rimanenti e gli sputi che la tua faccia a bassa frequenza mi schiva, fa del respiro un fischio che porta i cani dritti a casa: eccoli abbandonati tutti, nonostante padrona rimanga dall’alto una luce.
in me accetti di morire: ti serve essere due dove c’è tutto e polvere e un pezzetto di Dio ti riguarda, così dritto che è un proiettile. e poi hai la fine ad occhi aperti, tu disperato di grazia, perché insieme dura la vita.
Amore che mi hai dato il coltello il pane col burro di fumo e piangevi è in fiamme il comodino mi hai detto di notte, seduto tremando la sedia del più bel velluto non hai scritto la voce risalita in gola col bastone amore che mi hai fatto nero l’occhio celeste hai messo la voglia caduta aspettandomi fuori da scuola nell’auto storpia la lama spalma, hai promesso non taglia ho cose nel sangue anche ora a Luna Park spento hai girato la Ruota hai fatto il fantasma e gli specchi, la bara conoscevi il mio nome hai strappato il vestito viola che avevo mancandomi molto alla comunione con Dio sporcato il tavolo sceso in cantina parlato ai nemici di me lavata in giardino amore che mi hai dato resurrezioni di marmo la carne è del sangue, solo suo hai mangiato dal seno pregandomi non dirlo a nessuno che ero io che ti entravo di nascosto.
Ti piace guardare la notte che ho negli occhi dove ti inginocchi, ai miei piedi sporchi parli anche a me piace cercare le ossa degli avi tra i tuoi denti.
fare molecole dai capelli oppure niente coperta dai fantasmi del futuro.
e così i miei discendenti stanno dritti, negli spazi rotti di linguaggi nei secoli gli attimi incontabili.
smettere è un continuo ti dico che mi serve. mi dai teoriche dimensioni subatomiche dici a me che vuoi prendere dici a me che vuoi molecole
se cadessero fuochi e fosse irreversibile procedere in disfatta su questa terra classica a conferma delle leggi già da anni inaccettabili mangeremmo l’armamento con i nuclei nella bocca.
Rivista- L’Altrove
“La poesia non cerca seguaci, cerca amanti”. (Federico García Lorca) Con questo presupposto, L’Altrove intende ripercorrere insieme a voi la storia della poesia fino ai giorni nostri.
Si propone, inoltre, di restituire alla poesia quel ruolo di supremazia che ultimamente ha perso e, allo stesso tempo, di farla conoscere ad un pubblico sempre più vasto.
Troverete, infatti, qui tutto quello che riguarda la poesia: eventi, poesie scelte, appuntamenti di reading, interviste ai poeti, concorsi di poesia, uno spazio dedicato ai giovani autori e tanto altro.
Noi de L’Altrove crediamo che la poesia possa ancora portare chi legge a sperimentare nuove emozioni. Per questo ci auguriamo che possiate riscoprirvi amanti e non semplici seguaci di una così grande arte.
Lucia Ianniello presenta il nuovo album: KEEP LEFT and go straight South-
Roma -Venerdì 29 novembre alla Casa del Jazz Lucia Ianniello presenta dal vivo il nuovo albumKEEP LEFT and go straight South uscito per l’etichetta Filibusta Records. Si tratta del terzo disco come bandleader per la trombettista e compositrice campana, un progetto composto interamente da brani originali e che vede Lucia Ianniello, per la prima volta, anche in veste di autrice di alcuni testi, di cantante, oltre che di strumentista e compositrice. Questo lavoro è la rappresentazione sonora di un profondo cambiamento, sia musicale che interiore, della trombettista; l’indicazione di una direzione, il sud, alla ricerca di un luogo buono, migliore, possibile, e utopico, raggiungibile attraverso la resistenza e il rifiuto dei soprusi e di ogni forma di razzismo e di disparità sociale.
Lucia Ianniello – Tromba, flicorno e voce
Il quartetto, forte della diversa estrazione e formazione dei suoi componenti, in questo lavoro guarda oltre la musica jazz intesa come linguaggio tradizionale, e fa proprie, con sensibilità ed interesse, le espressività timbriche e dinamiche del mondo contemporaneo. I musicisti si confrontano, si inseguono in un appassionato interplay, tra improvvisazioni e aree tematiche ora essenziali ora maggiormente articolate. Le sonorità travalicano uno specifico genere, infatti, aboliti muri e steccati, la musica viaggia libera tra jazz contemporaneo, rock, rap e musica popolare
Formazione:
Lucia Ianniello – Tromba, flicorno e voce
Paolo Tombolesi – Pianoforte e tastiere
Roberto Cervi – Chitarre
Alessandro Forte – Batteria
Informazioni, orari e prezzi
Casa del Jazz
Viale di Porta Ardeatina 55
00154 Roma
Inizio concerto ore 21:00
Ingresso 10 euro
Casa del Jazz
Viale di Porta Ardeatina, 55 – Roma (RM)
Lucia Ianniello con “Keep Left And Go Straight South” (Filibusta Records, 2024)
// di Cinico Bertallot //
Lucia Ianniello-Quartet-pianista, compositore e didatta Paolo Tombolesi, il chitarrista Roberto Cervi e il batterista Alessandro Forte,
Esce in questi giorni il nuovo album della trombettista e compositrice campana Lucia Ianniello, “Keep Left And Go Straight South”, per l’etichetta Filibusta Records.vSi tratta del suo terzo disco come bandleader, un progetto composto interamente da brani originali e che vede la Ianniello, per la prima volta, anche in veste di autrice di alcuni testi, di cantante, oltre che di strumentista e compositrice. Al suo fianco il pianista, compositore e didatta Paolo Tombolesi, il chitarrista Roberto Cervi e il batterista Alessandro Forte, presente in quattro dei nove brani. Questo lavoro è la rappresentazione sonora di un profondo cambiamento, sia musicale che interiore, della musicista: l’indicazione di una direzione, il sud, alla ricerca di un luogo buono, migliore, possibile, eutopico, raggiungibile attraverso la resistenza e il rifiuto dei soprusi e di ogni forma di razzismo e di disparità sociale.
Scrive il critico e saggista Filippo La Porta nelle note di copertina: «… Il sud non solo come categoria geografica, ma anche morale e antropologica. Il sud di Carlo Levi, di Ignazio Silone, di Albert Camus (…), in questi autori il sud si svela come preziosa utopia: critica del nord industriale, governato dal principio di prestazione e di efficienza, immagine abbagliante di felicità e nostalgia di una vita meno repressa, percezione del confine come spazio di incontro con l’altro. Si tratta di una esperienza tangibile, per molti di noi, ma soprattutto di un mito culturale e civile capace di ispirare il comportamento di tutti».
Lucia Ianniello – Tromba, flicorno e voce
Tra i brani presenti nel disco, “Human Race” trae ispirazione da “Strange Fruit”, il capolavoro di Abel Meeropol reso famoso da Billie Holiday, legato all’origine del Movimento per i diritti civili in America; “Tide” evoca una marea viva, come quando la luna e il sole sono perfettamente allineati e le masse di donne, uomini e bambini si muovono in un flusso inarrestabile, naturale, alla ricerca di nuove terre, paesi, continenti, nella speranza di una vita migliore; “Feronia” racconta di donne che con difficoltà cercano di realizzare la propria identità (Feronia è una dea di origine italica, protettrice dei boschi e delle messi, ma anche dagli schiavi liberati). “South” è forse la narrazione di una memoria antica, di immagini lontane, ma assai vivide, che ritornano insieme ai suoni e agli odori, come una banchina in una stazione caotica, la voglia di lasciar andare e di partire, le rotaie roventi, i finestrini spalancati e il vento caldo, le vecchie tende per aria come capelli ribelli e quei treni che correvano fischiando verso il sole e l’azzurro del sud; “Bird Migration” è quasi una esortazione a non fermare il movimento umano: se gli uccelli migratori infatti affrontano viaggi estenuanti guidati dall’istinto di sopravvivenza della specie, è solo umana l’esigenza di migrare per inseguire un sogno, per realizzare sé stessi, oltreché per fuggire da guerre, carestie e cambiamenti climatici.
Il quartetto, forte della diversa estrazione e formazione dei suoi componenti, in questo lavoro guarda oltre la musica jazz intesa come linguaggio tradizionale e fa proprie, con sensibilità e interesse, le espressività timbriche e dinamiche del mondo contemporaneo. I musicisti si confrontano e si inseguono in un appassionato interplay, tra improvvisazioni e aree tematiche ora essenziali, ora maggiormente articolate. Le sonorità travalicano uno specifico genere: aboliti muri e steccati, la musica viaggia infatti libera tra jazz contemporaneo, rock, rap e musica popolare.
Descrizione dl libro di Tanguy Viel- Iceberg –La letteratura, nelle mani degli sciocchi, è intollerabile. La letteratura, tuttavia, ha sempre contato tra le sue fila una parte di miserabili, che prendono in mano la penna solo perché si trovano interessanti. Del resto, come diceva Goethe, «ci sono libri che sembrano scritti non per l’istruzione del lettore, ma per fargli vedere che l’autore sapeva qualcosa». Ed è così che, anno dopo anno, le librerie vengono invase di opere inconsistenti quanto un refolo d’aria.
Tanguy Viel- Iceberg –
Esiste, tuttavia, un esiguo numero di scrittori che si chiedono cosa voglia dire scrivere, a cosa serva e, soprattutto, a chi. Scrittori che non si sentono, a differenza di altri, autorizzati a scrivere. O per cui la scrittura rimane, al di là di tutto, un’attività poetica, un’opera di invenzione e di ricerca con successo irregolare. Attraverso una serie di illuminanti digressioni sulla scrittura e sulla lettura, Tanguy Viel passeggia tra gli scaffali delle biblioteche, si interroga sulla vita degli scrittori e scorge, in ogni pagina letta, la promessa di una risposta alla ricerca che sta svolgendo. Ad accompagnarlo in questo viaggio subacqueo – poiché nei libri veri c’è sempre qualcosa di marino – alcune tra le più
Tanguy Viel
Breve biografia di Tanguy Viel è nato nel 1973 a Brest e vive a Nantes.Ha collaborato con France Culture, ha scritto per numerose riviste. I suoi libri sono: Le Black Note, Cinéma, L’assoluta perfezione del crimine (Neri Pozza 2004), Insospettabile (Neri Pozza 2006, BEAT 2017), Paris Brest (Neri Pozza 2010).
La storia della casa editrice Neri Pozza
Nel 1938, Neri Pozza e i suoi amici, una piccola brigata di «teste calde» tenuta d’occhio dalla polizia fascista, creano a Vicenza le Edizioni dell’Asino Volante. Le edizioni sorgono per uno scopo preciso: pubblicare il primo libro di poesie di Antonio Barolini, che l’avvocato Ermes Jacchia, un eccentrico editore ebreo costretto alla fuga dalle leggi razziali, non può più dare alle stampe. In questo modo, ereditando, cioè, il compito di un editore ebreo vittima della stupidità e della crudeltà dell’epoca, Neri Pozza scopre la sua vocazione d’editore. Una vocazione che, al di là dei due brevi periodi di prigionia nelle carceri vicentine di San Biagio e San Michele per «sospetta attività antifascista», si esprimerà ininterrottamente, dapprima con le edizioni del Pellicano e infine con la fondazione, nel 1946 a Venezia, della Neri Pozza Editore.
La storia di Neri Pozza: Gli anni 50 e 60
Dalla pubblicazione, nell’anno di fondazione, di Peter Rugg l’errante di William Austin fino all’apparizione della Grande vacanza di Goffredo Parise nel 1953, le edizioni Neri Pozza costituiscono una delle più straordinarie avventure intellettuali del dopoguerra italiano. Con una grafica moderna e la collaborazione dei maggiori poeti e scrittori del tempo (Gadda, Montale, Sbarbaro, Luzi, Cardarelli, Bontempelli), Neri Pozza pubblica titoli spesso indimenticabili: La bufera e altro e Farfalla di Dinard di Eugenio Montale, Il primo libro delle favole di Carlo Emilio Gadda, In quel preciso momento di Dino Buzzati, Il ragazzo morto e le comete, il capolavoro di Goffredo Parise scritto quando l’autore non era ancora ventenne. Negli anni Sessanta, Neri Pozza dà vita a una innovativa collana di letteratura americana: «Tradizione americana», diretta da Agostino Lombardo, in cui appaiono autori come Whitman, James, Melville, Thoreau, Emerson, Hawthorne. Saggisti della casa editrice sono Carlo Ludovico Ragghianti, Giorgio Pasquali, Concetto Marchesi, Amedeo Maiuri, Emilio Cecchi, Carlo Diano, figure fondamentali della cultura italiana del tempo.
La storia di Neri Pozza: dagli anni 2000 ad oggi
Nel corso dei decenni Neri Pozza unisce la fedeltà all’impostazione originaria del suo fondatore alla scoperta delle nuove tendenze della narrativa internazionale e nazionale, pubblicando alcuni tra i maggiori bestseller come La ragazza dall’orecchino di perla di Tracy Chevalier, Shantaram di Gregory David Roberts, Annus Mirabilis di Geraldine Brooks, Il Simpatizzante di Viet Thanh Nguyen, Le quattro casalinghe di Tokyo di Natsuo Kirino, I Melrose di Edward St Aubyn, La sesta estinzione del premio Pulitzer Elizabeth Kolbert.
Sotto la direzione di Giuseppe Russo prima, e dal settembre 2023 con l’arrivo di Giovanni Francesio, Neri Pozza ha portato in Italia romanzi di successo come Le sette morti di Evelyn Hardcastle di Stuart Turton, One Day di David Nicholls, ha riscoperto autori come Michael McDowell (di cui la casa editrice, dopo il successo della serie Blackwater, sta traducendo tutte le opere), e poi ancora autori come Abraham Verghese, che con Il patto dell’acqua ha stregato i lettori, e Barbara Kingsolver, che con il suo Demon Copperhead ha vinto il Pulitzer per la narrativa e il Women’s Prize for Fiction nel 2023, arrivando fino a Triste Tigre di Neige Sinno, il libro vincitore del premio Strega Europeo 2024.
Tra i grandi successi della narrativa italiana si annoverano Due vite di Emanuele Trevi, romanzo vincitore del Premio Strega 2021, e autori e autrici come Denise Pardo, Francesca Diotallevi, Giuseppe Berto, Alberto Riva, Roberto Cotroneo, Eugenio Murrali e Paola Barbato, il cui nuovo romanzo è in uscita ad autunno 2024.
Accanto alla produzione di narrativa, Neri Pozza pubblica anche saggistica – dalla opere di Irvin D. Yalom fino a Splendore e viltà di Erik Larson, passando per i recenti successi di Vittorio Zincone (Matteotti dieci vite), Riccardo Chiaberge (La formula della longevità), di Nathan Thrall (Un giorno nella vita di Abed Salama, vincitore del Premio Pulitzer 2024) e la prestigiosa collana La quarta prosa, curata dal professore e filosofo Giorgio Agamben.
Le collane di Neri Pozza
Il programma della casa editrice si articola nelle seguenti collane: I narratori delle tavole, con le voci più originali della letteratura americana ed europea; Neri Pozza Bloom, contenente le ultime tendenze della letteratura nazionale ed internazionale; Le tavole d’oro, portavoce delle narrazioni del nuovo Oriente; Biblioteca Neri Pozza, collana di novità e riscoperte in edizione tascabile; La quarta prosa, collana di saggi e filosofia diretta da Giorgio Agamben; Neri Pozza Beat, un ampio repertorio di romanzi tascabili; Il tempo storico, diretta da Pierluigi Vercesi; I neri di Neri Pozza, sezione dedicata ai gialli con autori dal successo internazionale come Lisa Jewell, Jean-Luc Bannalec, Pierre Martin.
Il Gruppo Athesis
La casa editrice è una società per azioni e fa parte del Gruppo editoriale Athesis, espressione delle Associazioni Industriali di Verona e di Vicenza. Tra le società di Athesis figurano quotidiani (L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza, Bresciaoggi, La Gazzetta di Mantova), concessionarie di pubblicità (PubliAdige), televisioni (TeleArena, Tele Mantova). Neri Pozza editore costituisce la Divisione Libri di questo Gruppo con l’insieme dei suoi marchi: la casa editrice Neri Pozza e Beat, la Biblioteca degli Editori Associati di Tascabili, la casa editrice di paperback.
Federica Ziarelli-Poesie “Tu sei bellezza” (Terre D’Ulivi 2022)
Federica Ziarellinata a Perugia il 25 luglio 1980, ha esordito con il romanzo di formazione “Sono venuto a portare il fuoco” (Porzi editoriali, 2010). Nella primavera del 2016, pubblica “Aspettando l’aurora”una raccolta di poesie e racconti a sfondo mitologico (Midgard edizioni) e nel medesimo anno, la silloge poetica “Gli occhi dei fiori” con la quale si avvale del premio “Midgard poesia.” Nel 2019 è coautrice insieme a Nicoletta Nuzzo e Silvana Sonno, del saggio sulla poetica femminile umbra “Un’oscura capacità di volo” (Era Nuova edizioni) opera vincitrice del Premio internazionale di scrittura al femminile “Il Paese delle donne, 2020.” È del novembre 2019 la raccolta di poesie “In erba” (Terra d’ulivi edizioni).
Appena hai schiuso per me le palpebre del sepolcro
l’oscuro mi è apparso accettabile
tutto ha potuto la tua manina
mia musa consolante
amica del cuore
canticchiavi alle mie orecchie
per tenermi allegra
quando la morte non restituiva i suoi furti
le mie lacrime indurivi in diamanti
me li appoggiavi al mattino
mucchio luce sopra il banco.
*
Non resisto a questa sete di primavera
sarò ubriaca
ancor prima della sera
faccia in giù tra i cespugli di menta
per fortuna a questa stagione piaccio così: disponibile e spettinata
può stiepidirmi la soglia
popolare di pesci rossi il mio ghiaccio cardiaco
immergermi in prati che non fanno che crescermi.
*
Mi ha voluta pratica e tranquilla
la logica
luce accesa all’occorrenza.
Però a me piaceva scombinare le carte
zizzagare le linee
il vento sulla tovaglia del pic-nic
a rovesciare il vino
mandare all’aria insieme
panini e buoni consigli.
*
Non posso dimenticare
nostro ondoso Eden
il mare ci ha scacciati
e noi in prati artificiali a rincorrere
l’infanzia grondante
il fogliame tremulo delle scaglie.
Capita che l’erba si alzi
e commossa di rugiada
ci restituisca alle antiche gocce
il conforto il nutrimento
del latte abissale.
* * *
Ma di cosa sei fatta, tu?” “Di quello che ami” disse lei. “Più l’acciaio”.
Federica Ziarelli
– Nota di Irene Ester Leo- Rivista «Atelier»
Mi trovo a sentire queste parole così in linea con quanto vi dirò a seguire, parole che prendo per un po’ e faccio mie, parole di Ernest Hemingway. Vi è un’estrema delicatezza nella voce di Federica Ziarelli, antica e preziosa, quasi proveniente da un modo parallelo nel quale i sogni toccano terreno e danzano, su un filo sottile ma fatto di coraggio e di bellezza. La delicatezza è la corazza più forte e inestimabile, è l’acciaio: pozione salva cuore al grigio che affossa, ma in questo libro, ricchissimo e fatto di parole respiranti, questo acciaio è la poesia. Poesia che non si arrende. Apre il libro la sezione dedicata all’Aria, dove il senso evocativo dei passi di danza è la levità di un soffio che è ritmato dall’incedere di immagini care alla poetessa, e commoventi. Segue poi la sezione Terra, che è la meraviglia della scoperta ed ha negli occhi la natura, che è fame e sete di vita, e germogliante tra le vene. Ma lasciata la terra il viaggio continua con l’approdo verso l’Acqua, terza sezione. Ed è il mare che si apre a noi come una visione, un rimedio, un viaggio, un ricordo e l’anima diventa una sirena azzurra, e in quest’acqua che alleggerisce il peso di ogni cosa, appaiono anche volti cari e familiari. Ma nel dondolare degli opposti urge la fiamma del Fuoco che illumina la quarta sezione, che non distrugge ma alimenta sentimenti e moti interiori, riflessi dal vero, desideri, Cristo e le passioni, e scalda e spegne per far rinascere ogni cosa. Federica Ziarelli è una poetessa che ha fatto dello spessore e della grazia il suo stile, non v’è dubbio che ogni verso in questo libro abbia un peso e sia lontano anni luce dagli esercizi di stile di molte altre voci che affastellano la poesia contemporanea, non cerca la ribalta, il clamore, ma costruisce ponti, cattedrali, nel silenzio della creazione e senza l’urlo di chi vuole esserci. E’ un lavoro duro quello dei poeti che scavano dentro ogni loro vena per offrirsi al mondo e lasciarsi attraversare, è un lavoro severo e costante, coraggioso, di chi non somiglia a nessuno che non sia se stesso. Non vi è una battaglia contro le cose, ma un racconto di crescita ed evoluzione che lascia orme preziose ed un dono immenso. Come scrive con estrema precisione e attenzione Alessandra Corbetta, poetessa di valore, nella postfazione al libro, la Ziarelli si rivolge al lettore guardandolo negli occhi. Così come farebbe Whitman ad esempio, e sussurrandogli : Tu sei bellezza, titolo della raccolta e chiave sacra di volta. Cade dunque ogni barriera, non esiste differente altezza tra poetessa e lettore, quel Tu, è vicinanza e allontanamento di ogni timore reverenziale, è tendere la mano all’altro, è in questo gesto che la bellezza si dipana e fiorisce, non è una statua ieratica, ma senso profondo e significato del vivere, e su tutto unicità: “Sii tenace nel permanere di bellezza..”.
Breve biografia di Irene Ester Leo, 1980, laureata in Storia dell’arte, critico d’arte e letterario. Ha pubblicato: “Canto Blues alla deriva”(Besa, 2007); “Sudapest”(Besa, 2009) ; “Io innalzo fiammiferi”, con prefazione di Antonella Anedda ( Lietocolle, 2010)( Premio Letterario Nazionale di Calabria e Basilicata 2010, primo classificato); “Una terra che nessuno ha mai detto”, prefazione di Andrea Leone (Ed.della Sera 2010); “Cielo”, prefazione Davide Rondoni (La Vita Felice, 2012)(Secondo classificato Premio Laurentum 2012). I suoi versi sono stati tradotti in lingua spagnola, per l’America Latina, e in inglese su riviste internazionali.
Biblioteca DEA SABINA-
La rivista «Atelier»
http://www.atelierpoesia.it
La rivista «Atelier» ha periodicità trimestrale (marzo, giugno, settembre, dicembre) e si occupa di letteratura contemporanea. Ha due redazioni: una che lavora per la rivista cartacea trimestrale e una che cura il sito Online e i suoi contenuti. Il nome (in origine “laboratorio dove si lavora il legno”) allude a un luogo di confronto e impegno operativo, aperto alla realtà. Si è distinta in questi anni, conquistandosi un posto preminente fra i periodici militanti, per il rigore critico e l’accurato scandaglio delle voci contemporanee. In particolare, si è resa levatrice di una generazione di poeti (si veda, per esempio, la pubblicazione dell’antologia L’Opera comune, la prima antologia dedicata ai poeti nati negli anni Settanta, cui hanno fatto seguito molte pubblicazioni analoghe). Si ricordano anche diversi numeri monografici: un Omaggio alla poesia contemporanea con i poeti italiani delle ultime generazioni (n. 10), gli atti di un convegno che ha radunato “la generazione dei nati negli anni Settanta” (La responsabilità della poesia, n. 24), un omaggio alla poesia europea con testi di poeti giovani e interventi di autori già affermati (Giovane poesia europea, n. 30), un’antologia di racconti di scrittori italiani emergenti (Racconti italiani, n. 38), un numero dedicato al tema “Poesia e conoscenza” (Che ne sanno i poeti?, n. 50).
Direttore responsabile: Giuliano Ladolfi Coordinatore delle redazioni: Luca Ariano
Redazione Online Direttori: Eleonora Rimolo, Giovanni Ibello Caporedattore: Carlo Ragliani Redazione: Mario Famularo, Michele Bordoni, Gerardo Masuccio, Paola Mancinelli, Matteo Pupillo, Antonio Fiori, Giulio Maffii, Giovanna Rosadini, Carlo Ragliani, Daniele Costantini, Francesca Coppola.
Redazione Cartaceo Direttore: Giovanna Rosadini Redazione: Mario Famularo, Giulio Greco, Alessio Zanichelli, Mattia Tarantino, Giuseppe Carracchia, Carlo Ragliani.
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Donatella Bisutti è nata nel 1948 a Milano, dove vive. E’ giornalista professionista. Ha collaborato in particolare alla collana I grandi di tutti i tempi (Mondadori) con volumi su Hoghart Dickens e De Foe e ha tenuto per otto anni una rubrica di poesia sulla rivista Millelibri (Giorgio Mondadori editore). Nel 1984 ha vinto il Premio Montale per l’inedito con il volume Inganno Ottico (Società di poesia Guanda,1985). Nel 1990 è stata presidente della Association Européenne pour la Diffusion de la Poésie a Bruxelles. Di poesia ha poi pubblicato Penetrali (Boetti & C, 1989), Violenza (Dialogolibri, 1999), La notte nel suo chiuso sangue (ed. bilingue, Editions Unes, 2000), La vibrazione delle cose (ed. bilingue, SIAL, 2002), Piccolo bestiario fantastico (viennepierre edizioni, 2002), Colui che viene (Interlinea, 2005, con prefazione di Mario Luzi), Rosa alchemica (Crocetti, 2012). E’ in via di pubblicazione a New York l’antologia bilingue The Game tradotta da Emanuel di Pasquale e Adeodato Piazza Nicolai (Gradiva Publications, New York). La sua guida alla poesia per i ragazzi L’Albero delle parole, è stata costantemente ripubblicata e ampliata dal 1979 e attualmente edita nella collana Feltrinelli Kids (2002). Il saggio La Poesia salva la vita pubblicato nei Saggi Mondadori nel 1992 è negli Oscar Mondadori dal 1998. Nel 1997 ha pubblicato presso Bompiani il romanzo Voglio avere gli occhi azzurri. Fra le traduzioni il volume La memoria e la mano di Edmond Jabès (Mondatori, 1992), La caduta dei tempi di Bernard Noel (Guanda, 1997) e Estratti del corpo di Bernard Noel (Mondatori, 2001). Il suo testo poetico L’Amor Rosa è stato rappresentato come balletto al Festival di Asti con musica del compositore Marlaena Kessick. Ha curato per Scheiwiller l’edizione postuma delle poesie di Fernanda Romagnoli, dal titolo Il Tredicesimo invitato e altre poesie (2003). E’ nel comitato di redazione della rivista Poesia di Crocetti per cui cura la rubrica Poesia Italiana nel Mondo, nella redazione delle riviste Smerilliana e Electron Libre (Rabat, Marocco), tiene una rubrica di attualità civile, Il vaso di Pandora, sulla rivista Odissea e una rubrica di interviste La cultura e il mondo di oggi sulla rivista di Renato Zero Icaro. Collabora a diversi giornali e riviste, tra cui l’Avvenire, Letture e Studi Cattolici, Fonopoli, Leggendaria, La Clessidra, Semicerchio. Dirige la rivista Poesia e Spiritualità. E’ membro dell’Associazione Culturale Les Fioretti a Saorge in Francia. Tiene corsi di scrittura creativa per adulti, corsi di aggiornamento per insegnanti anche a livello universitario e laboratori di poesia per le scuole. Ha ideato e dirige la collana di poesia autografata A mano libera per le edizioni Archivi del ‘900 in cui sono apparsi finora testi di Luzi, Spaziani e Adonis. E’ tra i soci fondatori di Milanocosa.
Donatella Bisutti
POESIE
da INGANNO OTTICO
Vivendo Contro il vetro
il disegno di un respiro
– prima e dopo, invisibile.
Paura Non della morte, ma
della metamorfosi
– accettare di privarsi di sé
come acqua che si lasci versare
e prende forma da ciò che la contiene
e corre via – e l’assorbe la terra
ed è e non è più – senza pena, forse
eppure non va persa.
Lenta, arrischiata
ogni cosa matura
per un attimo
di colma beatitudine
poi trabocca
come l’acqua di un vaso
fugge la pienezza.
Canzone d’amore cannibale So che ti ritroverò
non potrai sfuggirmi
mia è l’immaginazione
catturato come un insetto e trafitto
immobilizzato spaventato rassegnato
comunque sarai
lì
farò di te quello che non vorrai
con calma mi appresterò a divorarti
l’amore non lascia niente sul piatto
neanche le chele.
Ti avrò mangiato e succhiato
svuotato
– non vorrei tuttavia che tu soffrissi
vorrei che godessi anche tu
della felicità immensa
dì essere cibo.
Conoscenza La conoscenza avviene per semplificazione Non è un aggiungere, ma un togliere, fino alla
perfetta trasparenza. Lasciare depositare in fondo al vaso i detriti, il pulviscolo inutile che
si è mescolato all’acqua trasportando il vaso da una parte all’altra della stanza. Anche
vivere non è aggiungere tempo al tempo accumulato, ma sottrarre l’eccedenza del tempo
fino alla perfetta consumazione Anche in questo caso il pulviscolo inutile viene depositato
in un vaso.
da PENETRALI
Natura morta Fuori nevica.
Una brocca
sul tavolo ha rosse trasparenze.
Sbucci piano la mela.
Ti tenta l’avventura
di quella buccia lucida
che avvolge
la luce della stanza.
Ogni oggetto
ha una sua consistenza inutile,
così rassicurante,
Il piatto dì lucida ceramica
se l’inclini
riflette un cielo nitido
di calce bianca.
Anniversario dei morti Tu che con braccia severe
mi allontanavi
e mi atterrivi con storie di fantasmi
ora t’affacci timida da sopra il muro
per timore di essere scacciata.
Nevica
e i tuoi piedi freddi in una
vaga foschia lasciano impronte.
Inconsolata mi tendi
la mano, ché la speranza è anche dei morti.
Così madre bambina percorri i viali
tu che dominavi, incerta,
finalmente un sorriso
sulla chiusa falce delle labbra.
Ma nevica e la giornata
volge alla sua fine – nemmeno questa volta
apportando il perdono
o l’oblio.
Donatella Bisutti
Su un quadro di Nolde al Museo di Copenaghen L’avvampare del rosso e dei giallo
con selvaggia delizia
l’Orco divora i suoi bambini
amando sé nella carne e nel sangue.
La bellezza è forse una
più intensa voracità
al centro della vita?
Intorno a lava incandescente
gli smorti colori della cenere.
Quando l’occhio
cessa di essere abbagliato
allora scopre le viole – dopo
soltanto dopo.
Schive e affollate –
una corona alla luce.
Cancellano l’aggressività delle corolle.
Silenziosamente trasformano la sconfitta in vittoria,
nude e luminose di buio.
Ora non vedi che queste. Le sole
a muoversi: il movimento
percorre il quadro. Non più una tela cosparsa di colore,
ma una pagina che si sfoglia.
Alcune sono aperte, altre si inclinano, altre ancora si chiudono al vento che le investe.
Sono l’ombra dei fiori luminosi, diversa dall’offerta della vita:
piuttosto, ciò che essa sottrae,
il velato splendore
i loro gambi, lacci.
Vivono una straordinaria animazione:
curiose, tumultuose, si muovono
in diverse direzioni
Fuggono quella pennellata grigia:
il turbine che sopravviene.
Soggette al vento, quindi
Capaci di servirsene,
di sottrarsi
alle insidie dei cervi e delle lepri.
Poi noti il loro centro giallo
un astro minuscolo nel buio:
la luce è il seme.
Solo alla fine scopri che le margherite
nella gloria apparente del loro rosso e giallo
arretrano.
Ammassate contro il vaso lanciano
grida di terrore e i petali sono braccia
levate a proteggere i volti
paonazzi di polline, teste
che saranno tagliate.
Ti accorgi che
anche le viole sono piegate e vinte,
si stanno reclinando nel vaso,
muoiono.
da COLUI CHE VIENE
La notte lo ti amo ti amo gridi non sai a chi
ed esci nel buio a cercarti
in luoghi perduti di merci e di anime
dove ti circonda una siepe di uomini
e un’alta siepe di muri
e tu con quel grido senza vedere nulla
che mastichi e inghiotti fermo a un angolo dì strada
io ti amo a chi non sai balbetti
perché tu non sei e dici
sì a chiunque
allora sei prostituta e drogato, spacciatore e ladro
non per amore dell’uomo
ma per orrore dell’uomo
allora senti quell’antica voglia di uccidere
temendo di frugare nella tua stessa carne.
Il viandante Come una vela sospinto sulla strada
finché viene il crepuscolo
e il vento cade come un’onda grigia.
Gli alberi hanno pelame dì animali
le loro cime velano le stelle
e il cuore del bosco si allontana dentro il bosco
da ogni suo punto si dipartono strade
eppure il centro è sempre nell’attesa
di un silenzio più fitto e più sospeso
dove non si è formata la parola.
da VIOLENZA
Anche nell’orrore
la rosa.
La rosa di sangue.
Pulizia Uccidere da lontano
Senza toccare.
Evitare il contagio.
Lavarsi le mani
sporche di sangue.
Lavarsi le mani
nel sangue.
*
Gli angeli
con vesti di filo spinato
Gli angeli dalle lingue strappate.
Gli angeli senza grido.
*
Di ossa facciamo spade.
Armi.
Da un teschio uno scudo rotondo
INEDITI
Eros
Pauroso, che ti nascondi in grembo ad una vecchia
e preferisci i libri al libro inesauribile del corpo,
allo sfogliare gli strati della pelle
fino alla nudità paonazza di Eros, lo scorticato.
Avevo un cappello di pelo di lupo
E nei tuoi occhi la luce era un riso
Che non cessa di gorgogliare in gola.
Da allora molte volte mi è parso di vedere assai più chiaro
ma più spesso sono stata un cieco abbandonato
in uno spiazzo vuoto.
Hai portato via la mia vita
dimmi dove.
Non è con te – tu non l’avevi cara
non è con me – che non ho più palato né odorato.
Dimmi dove l’hai condotta, sola e nuda.
E ancora trema
per te, la condannata.
L’albero dei cachi Primo viaggiatore L’albero dei cachi si sviluppa
contro il cielo dell’ultima stazione.
sulla nudità dei rami
la bassa traiettoria dei soli invernali.
Per loro l’albero ha rinunciato
alla sontuosa lucentezza delle foglie.
Si concentra nel miele del pensiero.
Secondo viaggiatore Albero dì un eden spoglio, nel sogno ha ottenuto
di riportare l’inverno all’estate.
Nulla indica più chiaramente
che la vita non nasce dalla necessità
ma dal sovvertimento
e la bellezza è il frutto dell’immaginazione.
Se Se un cavallo fosse solamente un cavallo
e non tutti i terrori che fremono nella sua coscia rotonda
o la tempesta che scuote la criniera
se non fosse l’occhio visionario e folle
che cela il segreto dell’acqua
o la coda imperiale nella sua forma arcuata
a sferzare lo schiavo
se esso non fosse un’oscura montagna
sotto di te
ma – come è – un animale timoroso e irruente
pronto a valersi di ogni astuzia
per essere libero e giocare
e tu sapessi amarlo con tenerezza
ma non seriamente –
quando si impenna sulla sabbia
gli assesterai un colpo deciso nei fianchi
spingendolo fra le onde.
Donatella Bisutti
Lo sguardo Il gatto
apparve dal fondo dei giardino
leccò un po’ dalla ciotola
poi sedette immobile
lo sguardo diritto fisso
le sue pupille nelle mie pupille
senza ringraziare né chiedere
solo guardare.
Ed io fui intera nelle sue pupille
interamente dentro quello sguardo
senza giudizio senza attesa
quietamente fui.
Il libro a Aldo Palazzeschi Dal fondo del tempo si leva
la nera figura che addita
la colpa e misura la pena.
Qual’era la colpa?
Di essa si è persa memoria.
La nera figura non sa
solo il custode del libro lo sa
il libro col nero sigillo
nel libro sta scritto e il passato
non è mai cancellato.
Ah potessi quel libro sfogliare
lasciare
al suo posto
un bianco senza futuro.
Ah non fossi mai nata
io sono la non amata.
Voce io senza voce
voce cieca
voce accecata
io senz’occhi
io muta e cieca
io afona
voce strozzata
voce che strozza
io parola
senza voce senz’occhi
io parola vibrante
a tastoni gemendo
voce impalata
gola
agnello impalato
io nuda
esco fuori
su tacchi
altissimi
corpo nudo
bellissimo
io
bellissima
sfido lo sterminio
parlo
di me parto
io danzo
e canto
il mondo mi vede.
Nascita Tu uscita dal buio e dal dolore
verso la vita
e la tua lontana morte
verso un tuo non richiesto dolore
e sofferenza e rischio
e inevitabile pena
ma anche gioia e pienezza
nel maturare del frutto
appeso al ramo
nella perfetta sfera
carne affonderà i denti
golosa la vita.
Ballata della nascita e della morte Separata da quel ventre
di umori e succhi
che fu la mia casa
e volendo dimenticare mi rifiuta
pezzetto di carne sanguinosa
piombo
nel precipizio oscuro della notte. Ti capovolgi e ruoti precipitando fra le stelle perfori la chiusa volta celeste nel cunicolo del sangue e delle feci pezzetto di carne sporca ora puoi solo esplorare il buio e perderti. La notte non ha appigli non sai se precipiti o sali e le tue dita battono sul vetro quando dal nero abisso d’acqua affiori a respirare. Tu non sei nulla. Proiettata fuori da quel corpo che ora ad altri si dà il tuo solo legame è con ciò che odi.
Ed ora questo grande corpo morto davanti a me
ha lasciato l’ormeggio
allontanandosi immenso
quella parte di me che è morta.
——–Aprite questa bara
——–ancora non ho conosciuto il mondo.
——–Questo corpo che mi è stato caro
——–dovrà dunque disfarsi?
Per A ung San Suu Kyi prigioniera Dalla chiusa corteccia germogliando
senza braccia né mani
senza gambe né piedi
tu parli o silenziosa
giorno per giorno
della morte
fai cibo.
Chi farà tacere il silenzio?
Chi fermerà ciò che non si muove?
Ti hanno rinchiusa,
non sapevano di farti seme.
Natività di Rennes. Crisalide strettamente avvolta
Da fasce
Ancora tutta avvolta nel sogno del parto
Partorita dalla nuda
verticalità del rosso
che ancora tutta la sommerge
come chiaro sangue
il rosso
il rosso
il rosso.
Non sappiamo ancora.
Nel buio del grembo fosti intero
ed ora
in un buio papavero di luce
sei la crisalide.
Ancora non sappiamo.
Orizzontale
traspare
dentro il suo cuore rosso
tinge la chiara veste che nasconde il seno
rigida
vuota
che da un suo punto oscuro tesse
l’attesa della stoffa
l’attesa di quel rosso.
Donatella Bisutti
Fonte – ITALIAN POETRY
l sito www.italian-poetry.org funziona correntemente dal 2000. Era nato l’anno precedente, dopo una serie di incontri e di confronti con la Poetry Society americana, ai cui criteri di severa selezione si ispira, antologizzando la poesia italiana moderna e contemporanea dagli inizi del Novecento fino ai giorni nostri, a partire dai poeti nati nei primi anni del XX secolo e attivi nei decenni successivi.
Il sito ha totalizzato più di 14 milioni di visualizzazioni nei primi quindici anni di vita ed è indicizzato quale primo risultato di Google per “poesia italiana”.
Il nuovo logo del sito, introdotto nel 2014, all’insegna di Montale, Quasimodo e Ungaretti, rimanda simbolicamente alla grande avventura della poesia italiana contemporanea dal principio del Novecento fino ad oggi.
Giornata contro la violenza sulle donne: la poesia africana
Rivista L’Altrove
Giornata contro la violenza sulle donne -la poesia africana-I dati riferiscono che nel mondo il 35% delle donne ha subito una forma di violenza. In Africa questi dati salgono ancora di più. Si parla del più del 50%; in alcuni Paesi come il Kenya, l’Etiopia, la Tanzania o il Sudafrica i casi di violenza sulle donne sono all’ordine del giorno, un uomo su quattro ha commesso un reato sessuale.
Giornata contro la violenza sulle donne
Giornata contro la violenza sulle donne
Giornata contro la violenza sulle donne
La povertà dilagante, la cultura, gli usi e i costumi di queste genti rendono la situazione ancora più drammatica. Essere donne in Africa significa essere private di qualunque cosa, della propria libertà, della propria femminilità, della propria dignità e soprattutto della propria vita.
La violenza assume diverse forme: discriminazioni, abusi, matrimoni forzati e precoci, mutilazioni genitali, malattie.
Le disuguaglianze di genere, l’analfabetismo obbligato, rendono le violenze ancora più diffuse e insensate. Le donne che non hanno un lavoro o un istruzione dipendono ancora di più dai loro mariti e vengono maggiormente sottomesse alla loro volontà.
Ancora oggi molte bambine vengono date in sposa prima che compiano la maggiore età e si ritrovano presto madri, ferite, scoraggiate e senza futuro. Sposandosi da bambine devono anche subire una delle pratiche più crudeli e atroci che una donna possa affrontare: la mutilazione. Più di duecento milioni di bambine e donne tuttora in vita hanno subito mutilazioni genitali. Le conseguenze delle mutilazioni genitali femminili sono diverse: infezioni, rapporti sessuali dolorosi, ripercussioni psicologiche, persino la morte della donna.
Ogni violenza porta con sé altra violenza.
A raccontarla ci pensano le poetesse. È una sola voce potente quella che ci arriva dallo Stato Africano. A portarla nel nostro Paese è l’iniziativa chiamata Afro Women Poetry, un progetto ambizioso che vuole far conoscere al pubblico italiano e internazionale l’Africa vissuta dalle donne. Le poetesse esprimono bene le violenze di genere di cui sono vittime; tra loro Mariska Araba Taylor-Darko, Maame Afia Konadu Sarpong e Line Zokro descrivono la brutalità della violenza domestica.
Sono poesie di facile lettura, che, nella loro semplicità di forma, provocano nel lettore tristezza e rabbia. Sono testi narrativi, lunghi monologhi liberatori, che somigliano alla spoken word poetry, la parola-poesia parlata, recitata e quasi urlata.
Sì, in questi versi è possibile sentire anche il grido di ogni donna africana, di richiesta d’aiuto, di ribellione.
Alcune poesie scelte per la Giornata Internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne:
Picchiare per amore
Il tuo pugno mi ha colpito in viso Sono rimasta sotto shock Senza muovermi né urlare La prima volta che è successo Dicesti che mi picchiavi perché mi amavi
Mi hai incolpata Non ricordo d’aver sbagliato Il tuo gioco d’azzardo e le bevute Il tuo andare a donne, il flirtare I tuoi problemi e preoccupazioni Era tutta colpa mia Dicevi che mi picchiavi perché mi amavi
Ti ho chiesto perché lo facevi “Mi hai costretto tu!” hai detto “Devo correggerti, amore mio” “Ti amo, per questo ti picchio”
Non sapevo l’amore fosse così Forse nessuno me l’aveva detto Pensavo l’amore fosse amare e prendersi cura Risate e felicità Non questo: paura ed essere picchiata “per amore”
Sono invecchiata nel cuore Il mio amore si è trasformato in paura e odio Vivevo solo nel terrore di quel pugno in faccia Perché non me ne sono andata, perché? La vergogna di affrontare il mondo di dire la verità Perché ti amavo Perché mi minacciavi Dicevi di amarmi, per questo mi picchiavi Mi addormentavo piangendo, in silenzio Perché lui non mi sentisse e non arrivasse un altro pugno in viso
È amore questo? Un pugno in faccia Devo aver sognato l’altro amore Quello delle stelle del cinema Quello dei libri Cosa ho fatto per meritarmi questo? Questo pugno “d’amore” in faccia
La mano che mi colpisce mi accarezza Non riesco ad andare via Né a dire cosa ho nel cuore Nessuno deve conoscere la mia vergogna Giaccio maltrattata e morta dentro Aggrappata a te, non per amore ma per paura Mentre temo il mattino perché avrò un altro pugno in faccia Mi chiederai, mentre io mi farò scudo “Sei sveglia?” E sussurrerai tra i baci “Ti picchio perché ti amo”
Di Mariska Araba Taylor-Darko.
Traduzione di Serena Piccoli
Non voglio sposarmi mai
Non voglio sposarmi Svegliarmi ogni mattina e vedere la faccia di mia mamma dipinta di sonori schiaffi dai palmi di papà, fa male all’anima Le cingeva il collo con le mani per prenderle la vita Dio sa quanto l’ha picchiata
Mio papà non mangia cibo stantio e mio papà è quel tipo pulito, sempre in ordine preciso, curato, il classico uomo alla moda di Bristol così la mamma ha dovuto lasciare il lavoro mollare la sua vita e fare lavori a domicilio: pompini, effusioni da letto sfruttando leve e controluce cucinare e pulire
Ogni notte lui abusava sessualmente di lei in svariati modi fino a toglierle il fiato, incessantemente Quello stesso fiato che le toglieva la mattina dopo picchiandola anche se aveva fatto tutto bene Mia madre era solo un manichino che indossava ferite come sciarpe e calci invece di camicie
Io, piccola bimba, sbirciavo tra i due cardini della porta per guardare la mamma che implorava che la lasciasse stare Quel che vedevo nei suoi occhi erano solo ferite nell’anima Mia madre cadeva in ginocchio e pregava come se Gesù dovesse prendere il posto di papà Piangeva e urlava a Dio di prendersi le sue pene o la sua vita Piangeva sempre
Quando la mamma disse che stava andando via tutto ciò che papà rispose fu “Ciao, Felicia” Non gli importava che lei stesse andando via Dopo tutto era solo un perfetto nessuno che nessuno era triste di veder partire Ma poi mia madre non è poi mai partita e questo per i suoi figli
Mia madre non ha sposato un uomo ha sposato la violenza Girata e rigirata come una trottola Era al suo servizio tutto il giorno e comunque la notte le squarciava la cervice L’amore era andato e lei aveva perso la fiducia e la capacità di parlare, a forza di nascondere le prove delle due azioni, eppure lui non si pentiva
Il suo corpo era una mappa Ogni linea un sentiero, una strada di classe una via verso una città Ogni città, un ricordo d’amore e dolore Il suo amore era un rapper e lei era tutto il suo pubblico I segni dei suoi pugni erano sofferenze d’amore nascoste Il corpo, l’ego, l’amore, lo spirito e l’anima di lei erano un mucchio di cicatrici incasinate
Non voglio mai sposarmi A volte mi chiedevo perché rimanesse. Ma se solo il dolore non facesse male se si potesse tornare indietro nel tempo senza rimpianti L’uomo di cui si era innamorata era cambiato era diventato uno squilibrato Ha lasciato che lui avesse il coltello dalla parte del manico e che stabilisse ogni quanto le fosse permesso di non poterne più di lui
Tutto questo mi cambiò Mi girava nella testa di giorno, di notte e proprio non trovavo pace La mia famiglia veniva presa in giro la gente spettegolava perché il matrimonio dei miei era diventato un incontro di boxe
Lei aveva perso il suo gusto per la moda il suo stile erano maniche lunghe occhiali scuri e trucco pesante Notti lunghe di chiacchiere piene di risate erano ora un disastro Ma mia madre non si è mai arresa
Mio padre era un cocainomane e quando lei si lamentava lui la prendeva a schiaffi e urlava “Me ne sbatto di quello che pensi!” Quindi un’altra guancia bluastra e un labbro rotto perché lei aveva cercato di distoglierlo dall’ennesima sniffata Fu troppo tardi quando realizzò che i suoi cieli blu erano diventati grigi e i suoi ricordi erano svaniti
Mia madre era incinta eppure mio padre la forzava a fare sesso con lui Stavano facendo a botte quando lei cadde dal settimo gradino E con la vista appannata, è rotolata giù giù, giù e ancora più giù fino a che la sua vita non si è spenta Era morta
Che gran dolore fu pensare che era l’ultima volta che vedevo mia madre E tutti continuavano a dire “va tutto bene”, “lui cambierà” “le cose andranno meglio” Mia madre è ora due metri sottoterra e io non so cosa sente Non può neanche sapere quanto mi manca né vedere come sto crescendo male e non c’è nessuno che mi dica “Ama, andrà tutto bene”
Sono stata stuprata più volte Sono diventata una dannata Mio fratello ora è un tossicodipendente e io una ninfomane perché non c’è nessuno con cui parlare e nessuna madre da cui andare Mio padre, mio padre è in prigione per droga Se solo potesse capire la bellezza della resilienza Se solo potesse capire la bellezza della resilienza non soffrirebbe le conseguenze di questo seguito grottesco ‘Mi dispiace’ ora è soltanto una parola
Fidatevi, c’è stato un tempo prima delle guerre un tempo prima delle cicatrici un tempo in cui per lei lui non era che dolce e adorabile un tempo in cui non si era accorta del difetto della sua stella candente C’è stato un tempo in cui lei era il suo mondo, la sua casa
Quando le promesse dovevano arare l’amore tra di voi perché hai consentito a te stessa di essere così acerba?
Non voglio mai sposarmi… con un uomo come mio padre
Innamorarsi di un violento è come vivere in un sacchetto di plastica Ti sembra di avere abbastanza aria per respirare ma sai per certo che morirai Allora prenditi un momento e ricordati che non c’è fretta per il matrimonio Prenditi tempo per trovare te stessa e migliorarti Le relazioni e i matrimoni di successo non prosperano di solo amore, ma di vera amicizia Non voglio mai sposarmi con un uomo come mio padre.
– Questo lavoro mi è stato ispirato dai fatti accaduti nella famiglia di una cara amica.
Di Maame Afia Konadu Sarpong
Traduzione di Serena Piccoli
L’amore
C’era una volta l’amore Un sentimento divenuto così raro che ogni cuore lo chiama con tutto se stesso C’era una volta l’amore E finalmente un giorno l’amore è venuto a lei Amore benedetto amore delirio amore commovente In nome di questo amore il suo cuore è rimasto sordo Sordo quando le si diceva che il suo era pesante, pesante per troppi sentimenti cattivi Rispondeva, io lo amo, non c’è amore senza dolore E durante questi giorni feroci In queste notti pungenti in un sanguinoso silenzio Ha sopportato la sua violenza In amore ci si mette in coppia per costruire e vivere insieme Lui preferisce distruggerla e ridere quando lei trema All’inizio era splendente e gioviale Colpo dopo colpo è sfiorita e divenuta pallida Le sue illusioni sul loro idillio sono scomparse Ormai nella sua vita accumula bile I suoi occhi sono un torrente inesauribile La sua vita un castello di sabbia Le sue promesse delle favole In amore ci si mette in coppia per rendersi felici Ma lui preferisce coprirla di lividi Un atto disumano non è quando un cane fa del male ad un altro cane È sicuramente un linguaggio che ogni cuore capirà L’amore non è mai stato compagno della violenza Se vivi questo calvario Sappi che hai il diritto di dire sì Sì a un cambiamento radicale Sì all’amore…
Nino Pedretti, Poesie- Con un saggio di Giuseppina Di Leo
Nino Pedretti, Giovanni Maria, detto Nino. – Nacque a Santarcangelo di Romagna, il 13 agosto 1923, da Luigi Renato, impiegato comunale noto in paese come cultore di archeologia (sue ricerche del 1936 diedero impulso alla scoperta delle grotte di Santarcangelo) e studioso di storia locale, e da Maria Cola, insegnante di scuola elementare. Trascorse l’infanzia nella casa di via del Tavernello.
da Al Vòuṣi (1975)
Al chèṣi ad campagna
Sbriṣédi da la róspa
maṣèdi dri i garagg
al chèṣi ad campagna
agli à finéi.
I li smana pr’e’ mònd:
i ébi ti ẓardéin
al dvanaróli in mòstra
te salòt.
Dalvólti t’a li vèid
maṣèdi sòtta i cópp,
cmè pavaiòti;
ch’u li zirca i marchènt
par fè d’i albérgh.
Le case di campagna. Sbriciolate dalle ruspe │ nascoste dietro i garage│ le case di campagna │ hanno i giorni contati. │ Le smembrano a pezzetti: │ le vasche di sasso │ nei giardini │ e gli arcolai in mostra │ nel salotto. │ A volte le scorgi │ nascoste sotto i tetti │ come farfalle │ che i mercanti le cercano │ per farne degli alberghi.
I ẓugh
Pòsta che tótt
poeti e nò poeti
a sém te bèl d’l’inféran
u s piṣ a fè di ẓugh
ch’I daga aria.
Mè me mi bidèl
a i dégh ch’u m daga i metar:
déu, tréi, quatar e stènta.
E néun al savém
s’èl ch’e’ vu déi
e’ vó dí mèrda.
Acsè a la matéina
a éintar ti mi pan
cmè t’un scafandar
ch’a vagh ad che pòzz nir
ch’l’è la mi bènca.
I giuochi. Poiché tutti │ poeti e non poeti │ stiamo nel mezzo dell’inferno │ ci piace fare i giuochi │ che un po’ muovono l’aria. │ Al mio bidello │ io chiedo di darmi le misure: │ due, tre, quattro e settanta. │ E noi sappiamo │ che significa, │ significa merda. │ Così la mattina │ entro nei miei panni │ come dentro uno scafandro │ e scendo in quel pozzo di sterco │ che è la mia banca.
La pavunzéla
Mè u m piṣ e’ pasaròt
che quand ch’e’ nèiva
e’ ven tònda ma chèṣa
a saltaréll.
U m piṣ la zèlga
e’ tòurd, e’ culumbazz
e e’ meral stéid ad nir
se su bèch zal.
E u m piṣ e’ varẓléin
ch’l’è pu un burdlín
ad préima elementèra
ch’u s’vólta sempra indrí
par ciacarè.
E una massa u m piṣ e’ rusignul
ch’e’ chènta cumè un rè
tla su varẓéura,
e sinènca e’ stouran pastrouciòun
ch’e’ scaramaza,
mò piò ad tótt
u m piṣ la pavunzéla
ch’la caméina a pass lóngh
cumé una sgnòura.
La pavoncella. A me piace il passero │ che quando nevica │ si avvicina alla casa saltellando. │ E mi piacciono la cincia │ il tordo, il colombaccio │ e il merlo tutto in nero │ col suo becco giallo. │ Mi piace il vergellino │ che è un bambino di prima elementare │ sempre voltato indietro │ a chiacchierare. │ E molto mi piace il rosignolo │ che canta come un re │ chiuso tra il verde; │ e amo persino lo storno fracassone │ ma la mia diletta │ è la pavoncella │ che cammina con passo lungo │ come una signora.
L’òm dal putèni
Léu tla su véita
féina i zinquént’an
u n éva pansè mai
ad mètt so chèṣa.
E stéva te caséin
a lè, bón, a fè i sarvéizi.
«Al putèni – e gévva – sal
n’è te su lavòur
agli è invurnéidi,
mòsci ti su létt
se mèl ad pènza.
U t tòca fè pianín
s’t’vó fè l’amòur
quandè c’al dórma.
E pu, la sèira, mè
a i fazz e’ bagn.
Fa e’ còpp, fa e’ còpp
a i dégh dalvólti
in módi che l’acqua
la i córra zò bén
te mèẓ dla schéina».
L’uomo delle puttane. Lui in vita sua │ fino ai cinquanta │ non aveva pensato mai │ di mettere su casa. │ Stava lì, buono, │ nel casino a fare dei servizi. │ «Le puttane – diceva – se │ non sono impegnate sul lavoro │ sono stordite, │ mosce nel letto │ con il mal di pancia. │ Devi far piano│ se vuoi fare all’amore │ intanto che sono addormentate. │ Poi alla sera │ io faccio loro il bagno. │ Fa il coppo, fa il coppo │ dico delle volte │ in modo che l’acqua │ le corra giù per bene │ nel mezzo della schiena».
Al vòuṣi
Dalvólti da par mè
te lètt, t’un curidéur
t’un treno par Milèn
a sént al vòuṣi.
E alòura a m fazz
piò grand
ch’al sòuna dréinta
ad mè
cumè al campèni.
Le voci. A volte, per conto mio, │ nel letto, in un corridoio, │ in un treno per Milano │ ascolto le voci. │ E allora divento │ più grande │ perché risuonano dentro │ di me │ come campane.
E’ lavadéur
Me lavadéur
al dòni
scavcèdi cmè di
diéval
al sbatéva i pan
cumè dal frósti.
Al scuréva ad travérs
al s’aragnèva
e pu al cantéva insén
e l’éra di rógg d’amòur
cumè dal gati.
Il lavatoio. Al lavatoio │ le donne │ coi capelli scarmigliati come │ diavoli │ picchiavano coi panni │ come fruste. │ Parlavano scurrile │ litigavano │ e poi si mettevano a cantare insieme │ ed erano grida d’amore │ come delle gatte.
La ciòza
La cantéva d’amòur
ma la finestra
la cantéva lòngh, a gòula vérta
e l’éra una vòia ad mas-ci
avnéuda chi lo sa,
da sòtta tèra
so par al gambi, t’i ócc
te fiòur dla pènza.
La cantéva d’amòur:
una zurnèda ch’éurta.
Adés l’è cmè una ciòza
la puléss i burdéll
e la sta zétta.
La chioccia. Cantava d’amore │ alla finestra │ cantava a lungo, a squarciagola │ ed era una voglia di maschio │ venuta chi lo sa │ da sotto terra │ su per le gambe, agli occhi │ al fiore della pancia. │ Cantava per amore │ ed era una giornata corta. │ Ora ha l’aria d’una chioccia │ pulisce i bambini │ e sta in silenzio.
Sesso
Sesso par néun e vléva déi
figa te pógn, scòul,
sburédi tla latréina.
Par néun e vléva déi
la paéura d’l’impregn,
al mói ch’al scapéva de lètt
«Gino, sta bón a m’aracmand»,
senza mai gód, cumè una midizéina.
E pu avemaréi, patérr,
e’ savòun, la praticòuna.
E pansè ch’l’éra acsè dòulz
sal tedeschi te fióm:
a m guardéva cmè déi
«Tóla, tóla, puréin»
e pu al ridéva.
Sesso. Sesso per noi significava │ fica nel pugno, male di scolo │ e vizio di latrina. │ Per noi significava │ terrore di metterle incinte │ la moglie che sfuggiva dal letto │ «Gino, sta buono mi raccomando», │ senza godere mai, come una medicina. │ E poi pianti, preghiere │ sapone, la praticona. │ E pensare che era così spensierato │ farlo giù al fiume con le tedesche: │ mi guardavano come per dire │«Prendila, ragazzo, prendila» │ e poi si mettevano a ridere.
E’ lavòur
«E’ treno e’ pórta véa»
e’ gévva la mi mà
e mè a so andè ẓiréun
par la Germania
in zirca d’un lavòur.
A sémi ch’u l sa l’òs-cia
d’incrécch ad chi vaghéun,
avémi un pansir féss
par tótt e’ viaẓ:
turnè ma chèṣa.
Da par néun, dalòngh,
tra ẓénti furistíri
a s’apuzémi a la mèi
sa cal do trè paróli
cumè chi póri strópi
sòura i su bastéun.
«Ferstehen, ferstehen, polizai»
e lòu i s’guardéva cmè déi:
«Mo quést, da dòu ch’i vén».
Il lavoro. «Il treno porta via lontano» │ diceva mia mamma │ e io in Germania sono andato │ in cerca di lavoro. │ Eravamo una folla │ compressi nei vagoni │ e solo un pensiero │ in tutto il viaggio: │ tornare a casa. │ Soli, lontano │ fra genti forestiere │ ci appoggiavamo alla meglio │ sopra quelle due o tre parole │ come poveri zoppi │ sopra il bastone. │ «Ferstehen, ferstehen, polizai» │ e loro ci guardavano come a dire: │ «Ma questi, da dove vengono?».
Se la lèngua la mòr
Se la lèngua la mòr
se la s’invléna,
se la pérd i parént
cum una vèdva,
se la piénz da par sé
spléida te còr di vécc
tal chèṣi zighi,
alòura e’ paèis l’è andè
u n’à piò stòria.
Se la lingua muore. Se la lingua muore │ se si contamina, │se perde i suoi legami │come una vedova, │se piange in disparte │sepolta nel cuore dei vecchi │nelle case buie, │allora il paese è finito, │non ha più storia.
da Te fugh de mi paèiṣ (1977)
Dedica
Dòni ch’avéi tla bòcca un góst
cumé ad faréina gréiṣa
dòni criscéudi te scéur
cumé un pèn ad fadéiga
dòni de vént e de méur
dòni dla biènca róṣa de sònn
dòni dla brèṣa
dòni ch’avéi cuṣei ti dè
sta mi parlèda antéiga
dòni l’è sòtta e’ vòst zil ch’l’è nèd
tòtt sta fiuréida strèna.
Dedica. Donne che avete in bocca un gusto │ di acida farina │ donne cresciute al buio │ come pane di fatica │ donne del vento e del muro │ donne della bianca rosa del sonno │ donne di brace │ donne che avete cucito i giorni │ della mia parlata antica │ donne è sotto il vostro cielo │ che è nata questa mia fiorita.
La nèiva
Stasèira
ò vòia d’arcurdè
l’udòur dla nèiva
e al préim fróffli
inzèrti te zil
cumé di gazótt furistìr
ch’ì vén ènca da néun.
La neve. Stasera │ mi punge un ricordo: │ l’odore della neve. │E i primi fiocchi │incerti nel cielo │come uccelli forestieri │giunti anche da noi.
Ulisse
Ulisse, un chèn
l’avéva caminé par tótt al strédi
e l’éra avnéu a muréi
t’l’invéran dla su véita.
E adès l’éra e’ mònd
ch’u i scapéva véa
ti su pan ad luce.
Ulisse. Ulisse, un cane │ ramingo per il mondo │ era venuto a morire │ nel colmo del suo inverno. │ Ed ora eran le strade │ che gli correvan via │ in abiti di luce.
Al poeṣéi
Ò scrétt zinquènta poeṣéi par un léibar
zinquènta galéini biènchi te curtéil
e a li guèrd cumè una cuntadéina
che sàbat la li pórta me marchè.
Le poesie. Ho scritto cinquanta poesie per un libro │ cinquanta galline bianche nel cortile │ e le guardo come una contadina │ che sabato le porterà al mercato.
La matéina prèst
A m’arcórd la matéina se cafè
l’udòur di tréni, la nèbia
d’in èlt datònda al chèṣi
e’ sònn ch’e’ pastruciéva s’l’aria
e i ruméur dal curiri
sal pènzi pini ad studént
e e’ sòul ch’lavnéva so pianín
alzènd al brazi e la caméisa
rossa de dè
te zil ch’l’aveva frèdd
ancòura par la nòta.
La mattina presto. Ricordo la mattina col caffè │ l’odore dei treni, la nebbia │ in alto attorno alle case │ e il sonno che si impastava con l’aria │ e il rumore delle corriere │ gremite di studenti │ e il sole si alzava piano │ alzando le braccia e la camicia │ rossa del giorno │ nel cielo ancora infreddolito │ per la notte.
Paróli
A vagh scarabuciand
pruvénd sla vòuṣa
paróli vèci d’un témp
ch’al gévva ad dòni te d’agócc
ch’al mè pasi pianín
sòtta la pèla
e al m’à fiuréi
te sangh, sòtta i cavéll.
Paróli ch’agli à durméi
par an sòtta la zèndra
e adès a tir fura
me fugh de mi paèiṣ.
Parole. Vado scarabocchiando │ provando con la voce │ parole vecchie d’un tempo │ che le donne pronunciavano lavorando a maglia │ che mi sono passate piano piano │ sotto la pelle │ e mi sono fiorite │ nel sangue, sotto i capelli. │ Parole che hanno dormito │ per anni sotto la cenere │ e ora tiro fuori │ al fuoco del mio paese.
*****
Nino Pedretti
LE VOCI DI SANTARCANGELO DI ROMAGNA NELLA POESIA DIALETTALE DI NINO PEDRETTI*
Il 30 maggio 1981, all’età di 58 anni, veniva a mancare il poeta Nino Pedretti[1], «insegnante e glottologo, che nasce poeta in lingua e muore poeta in dialetto»[2], una delle voci più importanti della poesia dialettale romagnola.
Nino (Giovanni Maria) Pedretti (Santarcangelo di Romagna 1923 – Rimini 1981) faceva parte della generazione dei poeti «nati negli anni ‘20» (Asor Rosa), compagno di strada nonché fraterno amico di Tonino Guerra e Raffaello Baldini, «il singolare terzetto dei poeti di Santarcangelo di Romagna» (Isella)[3].
Il silenzio nel quale sembrava esser stata reclusa la memoria del poeta dopo la sua morte è stato rotto negli ultimi anni grazie alla scrupolosa ricerca che la studiosa Manuela Ricci ha condotto sia sulle carte private – conservate a Pesaro dalla famiglia[4] sia su quelle conservate nel fondo “Archivio Nino Pedretti” presso la Biblioteca Comunale di Santarcangelo di Romagna e nel fondo del padre Luigi Renato, conservato presso la Biblioteca Gambalunga, dove sono state rinvenute le poesie giovanili inedite pubblicate poi (non tutte) nel volume Le pepite d’oro, edito da Raffaelli[5]. Nel 2007, col titolo Al vòusi, e altre poesie in dialetto romagnolo, l’Einaudi pubblicava l’intera produzione dialettale edita di Nino Pedretti: l’opera prima Al vòusi, e le successive raccolte, Te fugh de mi paèis e La chesa de témp. L’edizione era arricchita dalla cura di Manuela Ricci, da una nota di Dante Isella e da uno scritto di Raffaello Baldini.
L’approccio di Nino Pedretti al dialetto è avvenuto non da subito: il contesto familiare (la madre insegnante e il padre non santarcangiolese di origine, scrittore e appassionato di storia locale) gli aveva permesso di potersi esprimere solo ed esclusivamente in italiano; il dialetto, documenta Raffaello Baldini, «lo imparò dagli amici giocando prima a palline e poi a pallone. Ma se per i molti altri della sua generazione il dialetto era, come si dice, la lingua materna, per Nino direi che era la lingua fraterna»[6].
Nell’immediato dopoguerra in Santarcangelo si assiste all’avvio di un’«avventura culturale» (Miro Gori) che andrà sotto il nome di E’ Circal de giudéizi («Il Circolo del giudizio»). Si trattò di un tentativo culturale, passato poi alla storia sotto questo nome per via dell’appellativo che bonariamente qualche compaesano rivolgeva a quel gruppo di giovani intellettuali – “Ve là, e’ circal de giudéizi” – che si riuniva sotto i portici del “Caffè Trieste” per discutere i più svariati temi culturali ed artistici (letteratura, cinema, arte, musica), insieme a quelli politici e sociali, e dove Pedretti avrà modo di esprimere il suo talento poetico e musicale[7].
Nel clima culturale di quegli anni, a partire dal 1946, il poeta santarcangiolese ottiene premi e riconoscimenti nazionali per poesie inedite in lingua, confluite in maggior parte nel volume Gli uomini sono strade[8].
Intorno alla metà degli anni Cinquanta Nino Pedretti parte per la Germania dove trova un impiego e perfeziona la lingua tedesca. In un carteggio con Rina Macrelli emerge, insieme al gusto per la novità verso una città da scoprire (Francoforte), anche una “leggera” «nostalgia»[9] per il paese e per gli amici.
In quello stesso torno di tempo, dopo il rientro in Italia, Pedretti unisce alla carriera di insegnante anche l’attività di traduttore. Se, come abbiamo detto, l’approccio al dialetto è subentrato presumibilmente in età adolescenziale, il passaggio successivo nella formazione poetica di Nino Pedretti, quello della scrittura in dialetto, risale al periodo immediatamente dopo il ’68; un passaggio cruciale in cui egli si fa portavoce degli emarginati e dei “diseredati”, di coloro che, non avendo un ruolo “attivo” nelle vicende della storia di quegli anni, rischiavano di restarne fuori: «Per parlare a loro nome bisognava parlare come loro: in dialetto. E così Nino cominciò a scrivere in dialetto» (Baldini)[10].
Ma, prima ancora che poeta dialettale, Nino Pedretti è valente studioso di questioni linguistiche: «già nel 1967 aveva frequentato un corso di fonologia a Edimburgo; nel 1972 ebbe l’incarico del coordinamento della Commissione docente nei corsi abilitanti per l’area linguistica; nel 1975 l’Università di Urbino gli affidò l’insegnamento di Glottodidattica nella Scuola di perfezionamento»[11].
A seguito dell’indagine linguistica e fonologica, durata diversi mesi, condotta col romanista Friedrich Schürr, Pedretti nota ancor più chiaramente, insieme alle molteplici potenzialità poetiche offerte dal dialetto, anche i limiti in cui esso era costretto. Si trattava cioè di far uscire il santarcangiolese dalle secche dell’«oralità», «per portare, trascinandolo alla legittimità della scrittura, il dialetto nel futuro»: una «scommessa» sulla quale punta anche l’amico Raffaello Baldini.
L’occasione per parlare delle «voci della poesia del dopoguerra» è fornita dal Seminario popolare su Tonino Guerra e la poesia dialettale romagnola[12], tenutosi a Santarcangelo nel giugno del 1973 (l’anno prima era stato pubblicato I bu, di Guerra), in cui il nostro, sotto l’impulso di Tonino Guerra, accetta l’incarico di organizzare l’evento in collaborazione con Rina Macrelli.
Il tema sul dialetto resterà per Pedretti un discorso aperto che egli riprenderà a più riprese, fino al suo ultimo libro.
Il passaggio dalla fase di studio del dialetto alla produzione poetica vernacolare è breve.
Poeta «per necessità» (Bo), Nino si propone al pubblico nel 1975 con Al vòusi, perspicuo già nel titolo (‘le voci’), con il quale sembra dare volto alle voci registrate su nastro magnetico nel corso dell’indagine fono-linguistica. I temi trattati per parlare dei purétt sono espressi utilizzando la «lingua brutale» del sotto-proletariato e del proletariato, in una sorta di esperimento linguistico come testimonianza della loro condizione di sofferenza, fisica e morale. Tra rabbia, dolore, disperazione ma, anche, ironia, nella «nota allegra» del gusto di vivere, nella trivialità del sesso a buon mercato, un popolo di sconosciuti – giocatori, prostitute, infermieri, vecchi, matti, barbieri e lavandaie, per non citarne che alcuni – emerge come dal nulla reclamando diritto di identità. L’attenzione al dialetto copre, scopre e scorre dovunque creando qua e là specchi di vera poesia, come in Se la lèngua la mòr (Se la lingua muore).
In quei primi anni Settanta nasce «quella cosa» (Baldini) che andrà sotto il nome di «poesia neodialettale». La poesia in dialetto, ritenuta fino ad allora «ancillare o eccentrica», comunque minoritaria rispetto alla poesia in lingua, acquista dunque dignità di «lingua-poesia» (Pasolini), avviandosi dai piani «bassi ai piani alti» (Sereni). Se in Al vòusi, la poesia in dialetto di Pedretti «ha trovato da sé l’allineamento alle forme elette e alle esperienze della poesia in lingua […] è da notare come in tutta la poesia di Pedretti lo scarto tra originale e versione non è poi così forte, non tale almeno da ottundere l’incisività dell’impianto e la sicurezza di fondo»[13].
Per certi aspetti, Te fugh de mi paèis svolge un ruolo paritetico ad Al vòusi, cambiandone però la prospettiva, nel senso, come in altro modo precisa Pedretti, che le immagini non sono rivolte ‘verso’ il mondo ma esse provengono ‘dal’ mondo, nate da un’aria perduta e germogliate «nell’io profondo dove risuonava una meraviglia nutrita di dialetto». Così, mentre i versi di Al vòusi ricordavano la miseria del pane e recavano un’ansia di riscatto, in Te fugh de mi paèis lo sguardo si fa interiore, come ricerca della bellezza scomparsa, soffermandosi su tutto ciò che è in pericolo di scomparire, piante e animali inclusi:
Ecco, gli animali, mi sembra siano i più esposti, così come i deboli e gli emarginati, alla violenza e al male di vivere. Ogni giorno scompare una specie di volatile, di mammifero, di pesce. Pensare agli animali s’accomuna al sentimento di precarietà in cui da sempre, ma soprattutto oggi, viviamo.
La chèsa de temp (La casa del tempo), rappresenta l’ultima fatica di Pedretti, uscito alle stampe qualche mese dopo la sua morte «grazie alla fraterna cura di Raffaello Baldini» (Ricci). E, come il protagonista del monologo, Il racconto perduto, anche Nino sembra voler dire: «Così come Ulisse posso lanciare le mie pietre contro l’immenso gigante del tempo senza che nessuno se ne avveda». [14]
L’universo letterario di Nino, lo abbiamo visto, si compone di voci, di storie reali e fantastiche al tempo stesso, di paesaggi, oggetti quotidiani, di luce e di silenzi. Anzi, la luce predomina fino a farsi ossimoricamente «luce nira» (Linfoma).
La sua attenzione verso il mondo rimane costante (E’ mònd l’è una palìna ch’la s’incrépa) ed egli si fa partecipe della natura come in questi ultimi versi di Al nóvvli (Le nuvole): «nóvvli a n’e’ savéi che dréinta / a purté quèll di mi nónn / che adès l’è dvént / un udòur d’un pórt, / chissà, d’una furèsta». («nuvole non lo sapete che dentro / portate il mio fiato / e forse quello dei miei nonni / che adesso è diventato / un odore di porto, / chissà, d’una foresta»); la realtà si confonde con l’immaginazione e la fantasia torna a farsi sogno come in questi versi de La pasegièda (La passeggiata), che riporto in lingua: «e lì dove un tempo / chissà mai quali signori / portavano dentro le carrozze / tra siepi di rose, lì / vado guardando perché un cortile / mi faccia vedere attorno ad una statua / una fontana che sogna / d’avere dei capelli: o dei cavalli / davanti un portone verde / fuori dal tempo, come in una pittura»; gli oggetti raccontano storie di vita in un gioco di luci (come in I vasétt) e di ombre (come in E’ pióv, Piove: «Piove, di fuori il mondo / è pieno di bianco / di un’aria di cenere dolce / come di gigli. / La mia vecchia casa / si è fasciata di ombre: / i miei morti sono lì / che stanno seduti»).
Verrebbe da chiedersi, cos’è che fa soffermare l’attenzione del poeta su ciò che sta al limite tra interno ed esterno, al margine della realtà, ai bordi di un mondo? Una risposta potrebbe essere trovata nella ricerca che Pedretti ha condotto da sempre contro il gioco delle apparenze laddove, ad esempio, se un tetto di canne può significare l’inizio e consentire alla fantasia di andare oltre, al tempo stesso quella linea rappresenta punto ad limina di uno spazio privato dove allo sguardo soltanto è consentito addentrarsi per coglierne, per un attimo, il nucleo “intimo” attraverso la mediazione della parola (La pórta). Allo stesso modo, se da una parte troviamo le varietà legate a uno o più elementi eterei o solari del giorno e del sogno, dall’altra, un microcosmo di oggetti ci porta più vicino la gente e il vasto popolo di compaesani, di parenti e amici che hanno fatta propria la memoria di quegli oggetti, di un intero universo ineluttabilmente destinato a perdersi: «Dietro questa poesia c’è un tempo immemorabile che non ha mai avuto voce e qui sta la prima ragione del poeta Pedretti, immettere nel coro della poesia illustre un materiale di vita che stava per venire cancellato per sempre» (Bo).
In Dmanda (Domanda) leggiamo: «Duv’è ch’a s masarà / al poeséi ch’a n so bón ‘d scréiv / ch’a gli zarchédi tént / ch’l’è quèlli ch’a m pis ad piò / ch’a n li pòs lèz / gnénca se desideri?», («Dove si nasconderanno / le poesie che non sono capace di scrivere, / che ho cercato tanto, / che sono quelle che amo di più, / che non posso leggere / neanche col desiderio?».
Alla Dmanda si potrebbe rispondere che forse si sono nascoste in tutte le poesie da lui effettivamente scritte, visibili solo a chi sa guardare oltre le parole; che sono racchiuse nella conchiglia (La cunchéa), nelle piante strane di una stazione (La staziòun), nella bottiglina piena di aria verde (La bucìna), tra le ruotine dei bottoni nella scatola dei ditali (Tla scatla di didèl).
In La chèsa de temp il tempo è l’artefice, l’arciere pronto a scoccare l’ultimo dardo-attimo di silenzio, subissando ogni voce, totalizzante e privativo, uguale a sé soltanto quando entra dappertutto, come nella splendida E’ silénzi (Il silenzio).
Mi scriveva Nino nell’agosto del 1980: «La poesia si fa con tutto il corpo e non solo coi sentimenti. Voglio dire che il corpo e tutto quello che lo muove diventa poroso, filtra, lascia passare odori di cose. Gli occhi, le mani, il ventre, l’arcata del petto sono investiti da questo vento che ci scuote, che ci fa partorire i sogni».
Giuseppina Di Leo
[1] Il presente studio sull’opera del poeta dialettale Nino Pedretti riprende in parte un mio precedente lavoro già pubblicato su: «Incroci. Semestrale di Letteratura e altre scritture, diretta da Raffaele Nigro e Lino Angiuli, n. 20, Mario Adda Editore, luglio-dicembre 2009», 149-153; “Voci dal Novecento”, a cura di Ivan Pozzoni, vol. III, Limina Mentis Editore 2012.
[2] G. MIRO GORI, E’ circal de giudéizi; Santarcangelo di Romagna nell’esperienza culturale del secondo dopoguerra. Catalogo della mostra: cinema e televisione, Santarcangelo di Romagna, 16 dic. 2000 – 7 genn. 2001, Clueb, Bologna 2000, 13.
[3] R. BALDINI, La nàiva. Versi in dialetto romagnolo. Introduzione di Dante Isella, Einaudi, Torino, 1982, V.
[4] Tra gli inediti conservati nell’Archivio Lina Pedretti Conti, Oggi ho alzato le mie bandiere, autografo, una poesia di cui, tra le carte del poeta, si conserva anche una successiva redazione, «una poesia in seguito ripresa col titolo In risposta all’accusa circa una mia pretesa povertà. Chi sono, non pubblicata. Sorta di autoritratto poetico di Pedretti: «Io sono ricco / perché porto con me / le acque verdi dell’Isar / e gli archi dei suoi grandi ponti. / Nessuno può dire che sono povero / perché ho visto splendere / gli alberi di melo vicino alla tua casa / che tu non conosci. / Io sono forte / perché ho alzato le mie bandiere / e fatto festa, oggi, un giovedì, / un giorno qualunque della settimana. / Io sono ricco / perché ho fiducia nella vita / e posseggo tante case d’amici veri. /Io sono ricco / perché sono me stesso / sono Nino Pedretti», in M. RICCI, E’ circal de giudéizi; Santarcangelo di Romagna nell’esperienza culturale del secondo dopoguerra. Catalogo della mostra: letteratura, Introduzione di Renzo Cremante, Santarcangelo di Romagna, 16 dic. 2000 – 7 genn. 2001, Clueb, Bologna 2000, 61-62.
[5] N. PEDRETTI, Le pepite d’oro. Poesie 1946-1947, a cura di M. Ricci, Raffaelli Editore, Rimini 2003.
[6] R. BALDINI, Due tre cose su Nino e il dialetto, in N. Pedretti, Al vòusi e altre poesie in dialetto romagnolo, a cura di ; Nota di Dante Isella; Con uno scritto di Raffaello Baldini, Einaudi, Torino 2007.
[7] Fin da giovane, Pedretti aveva coltivato l’interesse per la musica e la danza. La tesi di laurea conseguita nel 1953 a Urbino, relatore Piero Rebora, verteva intorno alla poesia e musica nera d’America.
[8] N. PEDRETTI, Gli uomini sono strade, introduzione di G. Bàrberi Squarotti, Forum/Quinta Generazione, Forlì 1977.
[9] L’esperienza lavorativa in Germania durerà alcuni anni a partire dal 1954, «tornerà nel ’57, e comincerà a lavorare in Italia insegnando inglese in vari istituti medi e dell’avviamento», in M. RICCI, E’ circal de giudéizi; Santarcangelo di Romagna nell’esperienza culturale del secondo dopoguerra. Catalogo della mostra: letteratura, cit., 30-31-32.
[12] Cfr. Lingua Dialetto Poesia. Atti del Seminario popolare su Tonino Guerra e la poesia dialettale romagnola, Santarcangelo di Romagna, 16-17 giugno 1973, prefazione di T. De Mauro, Edizioni del Girasole, Ravenna, 1976.
[13] V. SERENI, Come canta quel Nino, in «L’Europeo», 7 dicembre 1981, p. 123)
[14] Postume le pubblicazioni degli scritti in prosa: Teatro minimo. Scritto da Nino Pedretti per bambini dai quattro ai dodici-tredici anni, Centro Stampa del Comune, Pesaro [1982]; Nella favola siamo tutti. Fantastorie, a cura di R. Roversi, disegni di R. Vespignani, Maggioli, Rimini 1989; L’astronomo, introduzione di Franco Brevini, nota biografica di G. Fucci, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1992; Monologhi e racconti, con una nota di Manuela Ricci ed Ennio Grassi, Raffaelli Editore, Rimini 2011; Grammatiche. Monologhi e racconti inediti, , a cura di Tiziana Mattioli, trascrizioni di Elena Nicolini, Raffaelli Editore, Rimini 2012.
Nota.
Una versione più ampia di questo saggio è stata pubblicata sul sito di POLISCRITTURE.
Nino PedrettiNino Pedretti
Fonte Enciclopedia TRECCANI- PEDRETTI, Giovanni Maria, detto Nino. – Nacque a Santarcangelo di Romagna, il 13 agosto 1923, da Luigi Renato, impiegato comunale noto in paese come cultore di archeologia (sue ricerche del 1936 diedero impulso alla scoperta delle grotte di Santarcangelo) e studioso di storia locale, e da Maria Cola, insegnante di scuola elementare. Trascorse l’infanzia nella casa di via del Tavernello. Nel 1928 nacque sua sorella Giaele.
Dopo essersi diplomato presso l’Istituto per geometri di Rimini, nel 1942 fu chiamato alle armi a Trieste, da dove fuggì a seguito degli avvenimenti dell’8 settembre 1943 per far rientro a Santarcangelo e trasferirsi poi a San Marino. Ripresi gli studi, conseguì il diploma di maestro all’Istituto magistrale di Forlimpopoli.
È di quegli anni la frequentazione del gruppo di intellettuali santarcangiolesi denominato, con ironia bonaria da parte dei compaesani, E’ circal de giudéizi (Il circolo del senno), che si riunì dapprima in casa di Pedretti e poi al Caffè Trieste e di cui fu inizialmente animatore Tonino Guerra. Questi, fra il 1944 e il 1945, scrisse i testi poi inclusi in I scarabócc (1946), offrendo dignità poetica a un dialetto, quello santarcangiolese, fino a quel momento inedito dal punto di vista della scrittura letteraria.
Del gruppo fecero parte i poeti – a loro volta nel dialetto di Santarcangelo – Raffaello Baldini e Gianni Fucci, lo sceneggiatore e scrittore Flavio Nicolini, i pittori Federico Moroni, Giulio Turci e Lucio Bernardi. Nelle riunioni si discorreva di arti figurative e politica, musica e letteratura; si leggevano Baudelaire, Rimbaud, Mallarmé, Éluard, García Lorca, Campana, Ungaretti, Montale, Quasimodo, Kafka, i narratori americani, Moravia. Intorno al 1949 il gruppo conobbe Elio Petri, con il quale collaborarono Fucci e Guerra per la realizzazione del cortometraggio Nasce un campione (1954). Iscrittosi alla facoltà di economia e commercio dell’Università di Ancona, Pedretti la abbandonò quasi subito per passare a quella di lingue straniere dell’Università di Urbino, dove si laureò, nel 1953, discutendo con Piero Rebora una tesi (Poesia e musica negra d’America) sul jazz come punto di arrivo di una tradizione poetico-musicale che ha inizio con i Negro spirituals e le ballades degli schiavi d’America. Agli anni universitari, fra il 1946 e il 1947, risalgono i primi testi poetici che, privilegiando il sermo brevis, risentivano certo delle letture compiute all’epoca, così come di una temperie già postermetica; letti alla cerchia di amici, furono pubblicati postumi con il titolo Le pepite d’oro (a cura di M. Ricci, Rimini 2003).
Dopo aver svolto il ruolo di supplente presso la scuola elementare di Santarcangelo, divenne insegnante alle elementari di Magenta. Abbandonato l’incarico, nel 1954 Pedretti si trasferì in Germania, dove trovò impiego in una banca a Francoforte e poté perfezionare la conoscenza della lingua tedesca.
Rientrato in Italia nel 1957, si recò a Milano, dove collaborò con alcune testate giornalistiche minori. Fece quasi subito rientro a Santarcangelo, ricominciando a fare supplenze nelle scuole. Dopo un breve periodo come addetto alle pubbliche relazioni presso l’Azienda nazionale idrogenazione combustibili (ANIC) di Ravenna, ricoprì provvisoriamente il ruolo di insegnante di inglese a Forlì. Ebbe inizio un periodo di relativa stabilità, cui contribuì anche il matrimonio nel 1959 con Lina Conti, con la quale si trasferì a Rimini. Nel 1960 nacque la figlia Daniela e nel 1961 ottenne la nomina di insegnante di ruolo a Cesena, dove andò a vivere: qui vide la luce la seconda figlia Anna Maria, mentre un terzo figlio, Paolo, nacque nel 1963.
Fra gli anni Cinquanta e Sessanta, insieme con l’approfondimento della lingua inglese, si era dedicato all’attività di curatore e traduttore di testi stranieri. Nel 1963 scrisse la prefazione a un’edizione scolastica del romanzo di J.K. Jerome, Tre uomini in barca (tradotto da Anna Maria Mezzolani Casadei). Assieme a Eloisa Paganelli curò poi l’antologia British children teach Italian children (Bologna 1966): pensato per le scuole medie, il volume raccoglieva testi scritti da bambini britannici, nella convinzione che le esigenze espressive e i contenuti psicologici che danno forma a un linguaggio siano i medesimi durante l’età puberale, in Italia come nel Regno Unito.
Nel 1967 frequentò un corso di fonologia a Edimburgo. L’anno successivo ricoprì l’incarico di insegnante di inglese al liceo di Pesaro, dove nuovamente si trasferì con tutta la famiglia. Nel 1972 ebbe l’incarico per il coordinamento della Commissione docente nei corsi abilitanti per l’area linguistica. A prosecuzione di questo iter didattico, nel 1975 l’Università di Urbino gli affidò l’insegnamento di «glottodidattica nella Scuola di perfezionamento» (Ricci, 2003, p. 12 n.).
Ma gli anni Sessanta e Settanta furono anche quelli della scelta del dialetto come lingua della poesia. Pedretti, che amava definirsi linguista, si impegnò in una ricerca sulla fonologia delle parlate locali, commissionatagli dal Comune di Santarcangelo e registrata su una serie di nastri. In tale percorso è da segnalare l’amicizia con il glottologo Friedrich Schürr, studioso di dialetti romagnoli, che veniva raccogliendo i risultati dei suoi spogli nel volume La voce della Romagna (1974).
Stimolato dalla frequentazione di Guerra e di altri poeti del circal (fra cui Baldini, che esordì nel 1976 con E’ solitèri), anche Pedretti scrisse quindi i suoi primi versi in dialetto, che apparvero nel bimestrale TuttoSantarcangelo fra il 1970 e il 1973: le poesie Trent’an (n. 33), La lèngua dla mi mà, Se la lèngua la mor (n. 60) e I nòm dal strèdi (n. 66). Sempre nel 1973 fu tra i partecipanti al Seminario popolare su Tonino Guerra e la poesia dialettale romagnola, ideato da Nicolini e organizzato da Rina Macrelli (anche lei parte del circal), che si tenne il 16 e 17 giugno a Santarcangelo, dove lesse la relazione Poesia romagnola del dopoguerra (poi inclusa negli atti Lingua Dialetto Poesia, usciti nel 1976, con prefazione di Tullio De Mauro, per le Edizioni del Girasole di Ravenna). In un commento a margine della relazione di Augusto Campana toccò il problema della trascrizione del santarcangiolese, oggetto di discussione con Schürr (dalle posizioni del quale si era allontanato, prediligendo piuttosto una riduzione dei segni diacritici, e ricorrendo ai soli accenti acuto e grave).
Ma l’evento più importante fu la pubblicazione della prima raccolta in santarcangiolese, Al vòuṣi (Ravenna 1975), con prefazione di Alfredo Stussi. Le voci del titolo sono quelle della comunità paesana, in un’ottica di poesia civile intesa a dare la parola a chi, per imposizione storica, non l’ha mai avuta; sono voci di personaggi umili e non illustri, veicolo di espressione di una mentalità popolare creativa e fantastica. La scelta del dialetto, idioma letterariamente affrancato dall’oleografia municipalistica pur restando lingua quotidiana e semanticamente concreta, fu tanto più significativa quanto più si consideri che esso era lingua d’elezione a posteriori; in ogni caso non canale di recupero memoriale, né lingua rappresentativa di un’infanzia perduta (nonostante sia definito lèngua dla mi mà). La novità di tale scelta era inoltre in certa autonomia lessicale rispetto a Guerra, e nella semplificazione grafica dei dittonghi (evidenziata dallo stesso Pedretti in una Nota sul dialetto).
Tra febbraio e settembre 1974 Pedretti aveva pubblicato inoltre alcune prose satiriche sul mondo della scuola (La scuola, La carriera, La pensione e Lo stato giuridico finalmente) in TuttoSantarcangelo. Tre anni dopo diede invece alle stampe la raccolta Gli uomini sono strade (Forlì 1977); prefata da Giorgio Bàrberi Squarotti, che rilevava la maggiore ampiezza e distensione di discorso delle liriche in lingua rispetto all’essenzialità di quelle in dialetto, includeva poesie scritte fra il 1946 e il 1977, per alcune delle quali era stato insignito nel 1969 con il Cervo d’argento alla XIII edizione del premio Cervia di poesia.
A pochi mesi di distanza vide la luce la seconda silloge in santarcangiolese, Te fugh de mi paèiṣ (Nel fuoco del mio paese, Forlì 1977), con dedica alle donne ispiratrici della parlata in dialetto, che abbandonava la coralità di Al vòuṣi per farsi ricerca lirica di un senso fuggevole al di là delle cose, intuito in pochi dettagli come una finestra aperta, lo scorrere dell’acqua, un odore, un ricordo improvviso. Proseguendo l’attività di traduttore, pubblicò una versione in italiano del poema di Sylvia Plath, Three women (Tre donne. Un poema per tre voci, Forlì 1978).
Nel 1979 seguì l’organizzazione del Convegno nazionale di studi su Antonio Baldini, che ebbe luogo a Santarcangelo il 16 e 17 giugno. Per l’occasione preparò un’intervista a Marino Moretti, che non fece in tempo a realizzare per la malattia di quest’ultimo, morto poi a luglio. Grazie a una borsa di studio ricevuta dall’Experiment in international living, pochi giorni dopo si recò a Saint Louis per seguire un corso di perfezionamento sulla letteratura americana presso il Webster College. Visitò anche New York, da cui trasse l’immagine della ‘città verticale’. Tuttavia, come emerge da una lettera alla moglie del 25 giugno, gli Stati Uniti gli ispirarono da subito un sentimento di durezza e ostilità.
Al ritorno in patria il suo fisico era già minato dal linfoma che non molto tempo dopo lo avrebbe portato alla morte.
Ebbe comunque la forza di lavorare all’ultima raccolta in santarcangiolese, La chèṣa de témp (La casa del tempo, Milano 1981), in cui si avverte l’imminenza della fine, che uscì postuma, con uno scritto di Carlo Bo, per i tipi di All’insegna del pesce d’oro. Il manoscritto, la cui stesura fu accompagnata da uno scambio epistolare con Baldini sul problema della grafia del dialetto, piacque a Dante Isella (lettera a Pedretti, 3 novembre 1980).
Pedretti morì a Rimini il 30 maggio 1981.
L’anno prima era stato insignito del primo premio al concorso di poesia Romagna. Con una lettera del 12 marzo 1982, Ettore Bonora, ancora ignaro della sua scomparsa, ne elogiava la produzione in santarcangiolese.
Postumi uscirono, oltre a La chèṣa de témp e a Le pepite d’oro, una silloge di pièces per bambini fra i quattro e i tredici anni, Teatro minimo (Pesaro 1982), e una di ‘fantastorie’ risalenti al 1961, Nella favola siamo tutti (Rimini 1989). Videro poi la luce 37 racconti e monologhi con il titolo L’astronomo (a cura di F. Brevini – G. Fucci, Milano 1992), cui seguirono “Al vòuṣi” e altre poesie in dialetto romagnolo, a cura di M. Ricci, nota di D. Isella, postfazione di R. Baldini (Torino 2007); Monologhi e racconti, a cura di M. Ricci – E. Grassi (Rimini 2011) e Grammatiche: monologhi e racconti inediti, a cura di T. Mattioli (Rimini 2012).
Fonti e Bibl.: Archivio Pedretti, donato da Lina Conti alla Biblioteca comunale A. Baldini di Santarcangelo di Romagna.
Pelasgi. I poeti romagnoli in lingua, a cura di D. Argnani – G.R. Manzoni, Rimini 1985, pp. 35-56; G. Fucci, ‘E’ circal de giudéizi’…, in Diverse lingue. Rivista semestrale delle letterature dialettali e delle lingue minori, 1992, n. 11, pp. 37-46; N. Pedretti, L’astronomo, introduzione di F. Brevini, nota biografica di G. Fucci, Milano 1992; E’ circal de giudéizi. Santarcangelo di Romagna nell’esperienza culturale del secondo dopoguerra…, a cura di M. Ricci, Bologna 2000; M. Ricci, Prefazione a N. Pedretti, Le pepite d’oro, Rimini 2003; C. Martignoni, Per non finire. Sulla poesia di Raffaello Baldini, Pasian di Prato 2004, pp. 49-58; Per N. P., Atti del convegno, Urbino… 2012, a cura di G. De Santi et al., Rimini 2013.
Nino Pedretti nasce a Santarcangelo il 13 agosto 1923, figlio di un impiegato comunale e di una maestra elementare.
Dopo essersi diplomato presso l’Istituto per geometri di Rimini, nel 1942 viene chiamato alle armi a Trieste, da dove fugge a seguito degli avvenimenti dell’8 settembre 1943 per far rientro nella città natale e rifugiarsi poi a San Marino.
Ripresi gli studi nel primo dopoguerra, consegue il diploma di maestro presso l’Istituto Magistrale di Forlimpopoli; è in quegli anni che dà vita, assieme ad altri giovani intellettuali santarcangiolesi, al sodalizio che diventerà noto come E’ circal de’ giudéizi.
Decide di continuare gli studi iscrivendosi alla facoltà di lingue straniere dell’Università di Urbino, ove si laurea nel 1953 con una tesi sul jazz.
Successivamente si trasferisce in Germania. Rientra in Italia e insegna lingua inglese nei licei di Cesena e Pesaro. Nel 1975 pubblica Al vòuşi, la sua prima raccolta di poesie in romagnolo. L’opera riscontra un immediato successo.
Del dialetto romagnolo, Pedretti ha lasciato questa definizione:
«A differenza dell’italiano, arrotolato nei codici, levigato ed illustre, il fratello umile, il dialetto, è vissuto all’aperto come un’erba selvatica, bagnato dalla pioggia dei secoli e come un’erba pertinace di gramigna, si è arrampicato sui monti, si è addentrato nei minimi villaggi, ha coperto ogni metro di terra dove viveva la gente comune del lavoro e dei sacrifici.»
Sebbene Pedretti sia principalmente un letterato, l’esigenza di scrivere il dialetto santarcangiolese lo ha indotto ad affrontare l’analisi del proprio dialetto, confrontandosi anche con Friedrich Schürr, che Pedretti incontrò a Costanza. A partire da tale confronto egli definì alcuni criteri grafici che furono poi adottati da altri autori santarcangiolesi, e che trovano un fondamento obbiettivo anche negli studi più recenti[1].
Franca Valeri, pseudonimo di Franca Norsa, aveva nell’albero genealogico della famiglia la presenza di un’attrice, vissuta nel XVIII secolo, di nome Fanny Norsa.Franca Valeri appassionata di recitazione fin da piccola, imitatrice delle amiche della madre, Franca cresce apprendendo, su invito del padre (il quale le regala spesso dischi a 78 giri di Ettore Petrolini), l’inglese e il francese e frequentando, grazie a entrambi i genitori spesso ospiti in un palchetto di amici, il teatro alla Scala, appassionandosi così all’opera. Vive inoltre a Riccione, Venezia e la Svizzera per le lunghe vacanze estive[5]. Dopo un periodo vissuto in un appartamento in via della Spiga, i Norsa nel 1935 si trasferiscono nella signorile via Mozart.
Franca Valeri
Franca frequenta il Regio Liceo Ginnasio Giuseppe Parini nella sezione C, l’unica in cui venga insegnata la lingua inglese. Sua compagna di classe e amica in quel periodo è Silvana Mauri[8], futura moglie di Ottiero Ottieri e nipote di Valentino Bompiani, il quale, trasferitosi a Milano in quegli anni, aveva fondato la casa editrice Bompiani.
Franca adolescente inizia recitando caricature in compagnia di alcune amiche: con loro inscena una specie di teatrino ad uso e consumo di amici e parenti. Nasce in questo contesto il personaggio della Signorina Snob (che stigmatizzava con sagacia e ironia i comportamenti ipocriti della borghesia milanese, cui lei stessa appartiene).
Franca Valeri
Le leggi razziali fasciste del 1938 privano la famiglia dei diritti fondamentali e Franca si trova, per di più, a dover rinunciare anche alle affezionate domestiche. Espulsa dal Parini all’ultimo anno, riesce ad iscriversi da privatista, senza destare sospetti, al Regio Liceo – Ginnasio Alessandro Manzoni.
Il periodo più buio arriva dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943. Il padre e il fratello trovano rifugio in Svizzera. Franca, rimasta a Milano con la madre, sopravvive alle deportazioni grazie a un impiegato dell’anagrafe, il quale le rilascia una carta d’identità falsa, che la trasforma nella figlia illegittima di sua madre Cecilia Pernetta, nata a Pavia come quest’ultima e non a Milano. Lei e la madre lasciano l’appartamento di via Mozart ad alcune persone ricercate e si trasferiscono in Brianza, poi in una località sopra Lecco, per tornare infine a Milano, nascoste in una casa di ringhiera bombardata, di proprietà di amici, in via Rovello. Per passare il tempo legge Marcel Proust, nei libri Gallimard in lingua originale posseduti da suo padre, il quale aveva studiato alla Sorbona.
Franca Valeri
Nel 1944, ospitata a Roma da una cugina del padre, si presenta all’audizione per l’ingresso all’Accademia nazionale d’arte drammatica, assieme a Tino Buazzelli. Recita un brano da Le mosche, di Jean-Paul Sartre, ma Silvio D’Amico, Wanda Capodaglio e Orazio Costa, affamati e di fretta, prendono Buazzelli e respingono lei. Franca non si dà per vinta, e, complice la cugina, fa credere ai suoi di frequentare l’accademia; nel frattempo riesce a recitare e a fare cabaret, divenendo amica di Ennio Flaiano e Nicola Ciarletta. Domenica 29 aprile 1945 è a Milano ed assiste all’esposizione del Duce Benito Mussolini, Claretta Petacci e gerarchi a piazzale Loreto, avendo la sensazione di assistere a un giudizio universale.
Esordi
Nel 1946 debutta ufficialmente a teatro nel ruolo di una sarta, in una commedia della compagnia di Ernesto Calindri, in scena al Teatro Olimpia, in Foro Buonaparte. Nel 1947 si fa notare con il personaggio di Lea Lebowitz, una ebrea innamorata del rabbino, in un lavoro teatrale di Alessandro Fersen. Accetta poi di interpretare il cane bassotto del signor Bonaventura, per poter recitare con Sergio Tofano. In seguito entra a far parte della compagnia del Teatro dei Gobbi, nella quale esordisce nel 1949. Il nome d’arte Franca Valeri viene scelto solo più tardi, nei primi anni cinquanta, su suggerimento dell’amica Silvana Mauri, che in quel periodo stava leggendo un libro del poeta Paul Valéry, e su spinta del padre ingegnere che non era convinto della carriera d’attrice della figlia.
Franca Valeri
La compagnia del Teatro dei Gobbi, formata da Alberto Bonucci (più tardi sostituito da Luciano Salce. Vittorio Caprioli (conosciuto a Roma e ritrovato a Milano in una rivista di Marisa Maresca) e Franca Valeri, si trasferisce a Parigi portando in scena i Carnet de notes n. 1 (1949) e Carnet de notes n. 2 (1950), opere che propongono una serie di sketch satirici sulla società contemporanea senza ausilio di scene e costumi.
La compagnia sceglie infatti una formula teatrale che non prevede alcun travestimento: gli attori non indossano costumi per caratterizzare uno o l’altro personaggio, ma si presentano così come sono al naturale, in modo che il personaggio sia una invenzione del momento e che scaturisca “come dal cappello di un prestigiatore”.
A Parigi la compagnia si esibisce in un teatrino del quartiere latino, vicino al teatro dei Pitöeff, condividendo la serata con un’altra coppia di artisti: Raymond Devos e Marcel Marceau e utilizzando scene dipinte da Lila De Nobili.
Anni cinquanta
Durante gli anni cinquanta, la Valeri intraprende l’attività di attrice cinematografica: esordisce con Federico Fellini, il primo film al quale prende parte è infatti Luci del varietà, codiretto dal regista riminese assieme ad Alberto Lattuada, nel quale interpreta la piccola parte della coreografa ungherese che allestisce un balletto surreale nel nuovo spettacolo di Checco Dalmonte (Peppino De Filippo). Farà seguito una lunga serie di commedie, spesso al fianco di Alberto Sordi o di Totò, tra cui Totò a colori (1952), Piccola posta (1955), Il segno di Venere (1955), Il bigamo (1956), Arrangiatevi! (1959), Il vedovo (1959).
Franca Valeri
Nel 1950 Colette Rosselli e Indro Montanelli si trovano a Parigi, dove va in scena proprio il Carnet de notes n. 2. Montanelli e la Rosselli sono amici della Valeri e sostenitori dello spettacolo. Nasce così in quel periodo la collaborazione tra la Valeri e la Rosselli, che le porterà a realizzare congiuntamente il libro, fortemente sostenuto dallo stesso Montanelli, Il diario della Signorina snob, pubblicato nel 1951 dalla Mondadori. Il volume è frutto della celebrità ottenuta dal personaggio della “signorina snob” alla radio, alla fine degli anni quaranta. Il diario della Signorina Snob racconta, in forma di diario, un anno della vita di questo personaggio, tracciandone la vita quotidiana, le frequentazioni, le vacanze. Ogni pagina del diario è illustrata dalle tavole della Rosselli.
Anni sessanta
Negli anni sessanta viene diretta dal marito Vittorio Caprioli in alcune commedie a colori, di cui è anche coautrice della sceneggiatura: Leoni al sole (1961), Parigi o cara (1962) e Scusi, facciamo l’amore? (1967).
Franca Valeri è colonna portante del varietà televisivo dagli anni sessanta, spesso diretta da Antonello Falqui in trasmissioni come Le divine (1959), Studio Uno (1966) e Sabato sera (1967), gli ultimi due condotti da Mina e diretti da Antonello Falqui.
Le pellicole che la vedono protagonista sono poche e per la maggior parte scritte da lei e dirette da Caprioli. In Parigi o cara al personaggio di Delia Nesti è affidato il ruolo di reggere da sola l’intera costruzione del film, circondato da personaggi tutti di secondo piano.
Franca Valeri inoltre non si è dedicata molto al doppiaggio, tuttavia è rimasto un suo doppiaggio dell’attrice francese Simone Signoret nel film Confetti al pepe del 1963.
Durante gli anni sessanta, Franca Valeri pubblica una serie di dischi nei quali vengono registrati i suoi personaggi femminili. La serie di dischi viene pubblicata dalla casa discografica EMI – La voce del padrone. Nascono così gli album Le donne di Franca Valeri (1962, con lo stesso titolo verrà pubblicato anche un EP 7″ contenente un brano inedito rispetto all’album), Una serata con Franca Valeri (1965) e La signora Cecioni e le altre (1968). Negli album ogni traccia racchiude un breve monologo dei personaggi più celebri e conosciuti di Franca Valeri, attraverso la radio e la televisione. Al successo televisivo si deve infatti l’album La signora Cecioni e le altre del 1968, che dedica tutta la prima facciata al personaggio della signora Cecioni, una romana popolana sempre al telefono con mammà, divenuta celebre grazie alle trasmissioni, dirette da Antonello Falqui, Studio Uno (1966) e Sabato sera (1967).
Anni settanta
Le ultime apparizioni cinematografiche di Franca Valeri sono da posizionare tra gli anni settanta e gli anni ottanta, quando figura in alcune pellicole minori che fanno parte degli ultimi fuochi della commedia all’italiana, tra le tante: Basta guardarla di Luciano Salce (1970), Ettore lo fusto (1972), Ultimo tango a Zagarol (1973), La signora gioca bene a scopa? (1974).
Durante gli anni settanta partecipa alla fertile stagione degli sceneggiati televisivi della Rai. Diviene molto amica di persone di teatro, come Nora Ricci, con la quale reciterà negli sceneggiati Rai Nel mondo di Alice e Sì, vendetta…, entrambi del 1974, e Giuseppe Patroni Griffi. Nel 1974 scrive e interpreta la miniserie in quattro puntate Sì, vendetta…, diretta da Mario Ferrero. La vicenda è una riflessione sul mondo degli anni settanta e sui cambiamenti avvenuti in seno alla società italiana in conseguenza alla rivoluzione sessuale, vissuta attravers o gli occhi di una signora borghese e della di lei figlia hippy. Ogni episodio infatti affronta un argomento diverso (l’emancipazione dei ragazzi italiani, il femminismo, il rapporto della borghesia con le mode dei giovani, ecc.), attraverso personaggi femminili, in parte già affrontati precedentemente da Franca Valeri nei suoi sketch: ad esempio l’episodio nel quale Sandra Mondaini interpreta la ricca signora che ha votato la sua esistenza alle stravaganze del mondo dell’arte, riecheggia il personaggio della traccia La donna del mondo hippy, presente nell’album La signora Cecioni e le altre, del 1968, che vuole convincere il marito ad indossare abiti stravaganti per non sfigurare alla festa che lei sta organizzando. Sempre nel 1974 Franca Valeri prende parte allo sceneggiato Nel mondo di Alice, diretto da Guido Stagnaro e interpretato da Milena Vukotic (Alice).
Il 12 giugno 1978, su Rete2 viene mandato in onda lo speciale Bistecca, insalatina, del programma di Claudio Barbati e Francesco Bortolini, Videosera. Franca Valeri fa da conduttrice intervistando vari personaggi celebri sul tema dell’alimentazione e delle diete dimagranti. Tra gli altri vengono intervistati Agostina Belli, Margherita Boniver e Maurizio Costanzo
Anni ottanta e novanta
Nel 1982 è nuovamente in TV nel varietà di Enzo Trapani Due di tutto.
Dal 1989 fino al 1993 nell’ampio spazio all’aperto del Museo della civiltà romana, vengono organizzate e prodotte le stagioni Eurmuse dal regista Massimiliano Terzo in collaborazione con Franca Valeri, grande appassionata di opere liriche, e il direttore d’orchestra Maurizio Rinaldi; Eurmuse ebbe risonanza a livello internazionale. Durante questa manifestazione Franca Valeri cura la regia nelle opere: Il Barbiere di Siviglia di Gioachino Rossini e Rigoletto di Giuseppe Verdi.
Nel 1993, dopo un’assenza di circa un decennio, riappare sugli schermi televisivi partecipando alla trasmissione Magazine 3, in onda su Raitre.[17] Nel 1995 ritorna a recitare per la fiction, partecipando alla sit-com Norma e Felice accanto al comico Gino Bramieri (con cui aveva già collaborato ai tempi di Felicita Colombo, durante gli anni sessanta), a cui fanno seguito le due serie di Caro maestro (1996-1997), nelle quali interpretava il ruolo della bidella della scuola elementare nella quale era ambientato il telefilm.
Nel 1998 ritorna al varietà partecipando a La posta del cuore, in cui riporta in auge il personaggio della “Sora Cecioni”. Nel 1999 interpreta a teatro Alcool, commedia sulla decadenza dell’alta borghesia diretta da Adriana Asti[
Ultimi anni
Oltre che attrice famosa è autrice di commedie di successo, come Lina e il cavaliere, Meno storie, Tosca e altre due (portata anche sul grande schermo nel 2003) e Le Catacombe.
Nel 2000 prende poi parte alle fiction Linda e il brigadiere e Come quando fuori piove. A gennaio 2007 la trasmissione di Raiuno TV7 le dedica un approfondimento. Durante la lunga intervista, l’attrice racconta un aspetto inedito della sua vita: i suoi primi anni e la sua esperienza di componente di una famiglia ebraica durante le leggi razziali del 1938 e la seconda guerra mondiale. Il 25 settembre 2009 prende parte a una puntata del varietà I migliori anni su Raiuno. Ospitata ed intervistata da Carlo Conti viene tributata dal pubblico con lunghi e calorosi applausi in ricordo della sua fulgida carriera.[senza fonte]
Tornerà al doppiaggio nel 2001 prestando la voce a uno dei personaggi principali del film d’animazione Disney Atlantis – L’impero perduto, la Signora Wilhelmina Bertha Packard. Nel 2003 Franca Valeri collabora con il rapper Frankie hi-nrg mc, prestando la sua voce per i pezzi prologo ed epilogo dell’album Ero un autarchico. Nel 2005 ha pubblicato Animali e altri attori. Nel 2006 ha recitato in Les bonnes di Jean Genet.
Nel dicembre 2010 Franca Valeri pubblica il libro autobiografico Bugiarda no, reticente, un racconto di un centinaio di pagine nel quale traccia i principali avvenimenti della sua esistenza, che l’hanno portata a intraprendere la carriera artistica come autodidatta. A gennaio 2011 l’attrice torna sul palco del Teatro Valle di Roma con due lavori: Non tutto è risolto (commedia diretta da Giuseppe Marini, con Licia Maglietta, confermata anche nella stagione successiva), la nuova commedia di cui è autrice e protagonista, e La vedova Socrate, un testo liberamente ispirato a La morte di Socrate di Dürrenmatt che aveva debuttato nel 2003; vi farà ritorno il 16 giugno durante l’occupazione[19]. Nell’aprile dello stesso anno aveva già sostenuto quella della Sala Arrigoni (ex Cinema Palazzo) nel quartiere di San Lorenzo, partecipandovi con un intervento insieme con Sabina Guzzanti.
Insieme a Luciana Littizzetto scrive il libro L’educazione delle fanciulle, per poi essere ospite della seconda serata del Festival di Sanremo 2014, condotto dalla stessa Littizzetto insieme a Fabio Fazio.
IL MIGLIOR ROMANZO STORICO POLIZIESCO DI QUESTO ANNO. The Times
Londra, 1782. È una tiepida sera d’agosto e i vialetti lastricati dei Vauxhall Pleasure Gardens sono gremiti di londinesi che passeggiano allegramente sotto le stelle. L’animo gravato da un doloroso segreto, il cappuccio del mantello ben calato sulla testa, Caroline Corsham, moglie del Capitano Henry Corsham, si addentra nel Dark Walk, un sentiero stretto tra gli alberi, dove ha appuntamento con una nobildonna italiana, Lucia di Caracciolo, che ha promesso di aiutarla. Lungo il sentiero incrocia una figura singolare, un uomo con un cappotto nero e una maschera da medico della peste, che procede a passo spedito nella direzione opposta. Giunta sul luogo dell’incontro, una scena raccapricciante si schiude davanti ai suoi occhi: l’amica è riversa a terra, ferita gravemente e agonizzante. Caro fa in tempo a raccogliere le sue ultime, misteriose parole: «Lui lo sa», prima di assistere alla sua morte.
L’indomani, interrogata da Sir Amos Fox, giudice di Bow Street, scopre con sgomento che la donna che credeva amica non era affatto una nobildonna italiana, né si chiamava Lucia di Caracciolo. Tra i pergolati di Vauxhall e nelle taverne e nei caffè di Londra era nota come Lucy Loveless, il nome di una prostituta d’alto bordo. Benché profondamente turbata, quando Sir Amos Fox liquida il caso come una faccenda di poca importanza, Caro insorge. Racconta dell’uomo col cappotto nero, del documento macchiato di sangue che giaceva accanto a Lucy e che sembra svanito nel nulla, ma le sue parole cadono nel vuoto. A Bow Street non si curano certo della morte di una giovane donna nota come prostituta. Caro decide allora di affidarsi a
. Ex giudice di Deptford, Child in passato ha goduto di prestigio e rispetto. Ora è ufficialmente un detective privato ridotto a dar la bassa lega e a perdere tempo tra i balordi del Red Lion, una taverna di furfanti da tempo immemorabile. Che il caso di Lucy Loveless, un caso che sembra celare un intricato mondo di artifici, inganni e vite segrete, possa rappresentare, finalmente, il suo riscatto?
Dai bordelli di Covent Garden alle eleganti case di Mayfair, “Figlie della notte” è un avvincente giallo storico ambientato nella Londra georgiana e, insieme, il vivido affresco di un’e¬poca in cui soprusi, vizi e bugie si annidano sotto la maschera della virtù.
AUTORE
Laura Shepherd-Robinson
Laura Shepherd-Robinson è nata a Bristol nel 1976. Ha una laurea in scienze politiche all’Università di Bristol e un master in teoria politica alla London School of Economics. Ha lavorato in politica per quasi vent’anni prima di dedicarsi alla scrittura. È autrice del romanzo Blood and Sugar, sempre con protagonista Caroline Corsham.
Claude Simon “Il Discorso di Stoccolma” Premio Nobel 1985
Edizioni Tracce di Pescara
Biografia di Claude SIMON-Nato nel 1913 in Madagascar, figlio di militare, Claude Simon partecipa attivamente agli sconvolgimenti politici e sociali che attraversano la prima parte del XX secolo. Nel 1936 è a Barcellona per osservare da vicino la Guerra Civile spagnola. Tra la fine degli anni ’40 e gli anni ’50 pubblica, La Corde raide, Gulliver, Le Sacre du printemps, Le Vent e L’Herbe.
Impegnato sul fronte politico contro la guerra di Algeria e su quello letterario nel dibattito animato dai “nouveaux romanciers”, negli anni ’60 pubblica alcune delle sue opere più significative, La Route des Flandres, ispirato alle esperienze vissute durante la Seconda Guerra Mondiale, Le Palace, Histoire e La Bataille de Pharsale.
Dopo un lungo periodo di silenzio artistico, nel 1981 pubblica Les Géorgiques in cui condensa la ricerca sperimentale di una vita per ricreare – in una forma originalissima di narrazione dell’io come pluralità – la complessità dell’esistenza umana.
Nel 1985 gli viene conferito il Premio Nobel per la letteratura e pronuncia il suo celebre “Discours de Stockholm”, in cui espone i principi che informano la sua scrittura della complessità.
Nella tarda maturità scrive L’Invitation, L’Acacia, Jardin des Plantes, Tramway, prima di spegnersi a Parigi nel 2005.Scrittore francese (Antananarivo 1913 – Parigi 2005). Dopo un romanzo di chiara tessitura esistenzialista, Le tricheur (1946), e un volume di ricordi, La corde raide (1947), si impegnò in una ricerca di tecnica narrativa (Gulliver, 1952; Le sacre du printemps, 1954), per giungere a una nuova forma di romanzo con Le vent (1957), L’herbe (1958; trad. it. 1961), e soprattutto con La route des Flandres (1960; trad. it. 1962), che lo ricollegarono alla corrente del nouveau roman. Anche nelle opere successive S. privilegiò le leggi autonome della scrittura sulla realtà, sul personaggio, sulla trama. Al di là di ogni possibile separazione fra passato, presente, visione e ricordo, le sue pagine presentano il fluire incessante, frammentario e magmatico di sensazioni, di immagini, di parole: Le palace (1962; trad. it. 1965); Histoire (1967; trad. it. 1971); La bataille de Pharsale (1969; trad. it. 1987); Triptyque (1973; trad. it. 1975); Leçon des choses (1976); Géorgiques (1981); La chevelure de Bérénice (1984); L’acacia (1989; trad. it. 1994). In occasione della consegna del Nobel per la letteratura, conferitogli nel 1985, pronunciò il Discours de Stockholm (pubbl. 1986), in cui analizzò le analogie della propria scrittura con le tecniche e le peculiarità espressive della pittura. La riflessione teorica sulla scrittura-pittura ricorre anche in Orion aveugle (1970), mentre il suo costante interesse per la pittura è testimoniato dai saggi di critica d’arte Femmes (1996) e dalla Correspondance 1970-1984 (1994) con il pittore J. Dubuffet.
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