Il paese che sognavo è diventato una canzone rap in una macchina lontana
I cavalli che ho allevato in tenera età mi hanno morso il braccio
E non sembra che stiano mollando la presa.
Ad ogni modo,
il mio calamaio è grande e sembra che non vivrò abbastanza a lungo per svuotarlo.
Le poesie che avrei voluto scrivere le ho cristallizzate nel suo sudario.
E ho insegnato ai polpi che sono usciti dalla mia schiena come come percepire la sua assenza.
Mi siedo sulla la roccia della nostalgia
E aspetto che il vento mi dia forma
E, dunque, diventare un merlo
dagli occhi grandi e profondi
Per vedere il nuovo disco della mia vita.
Forse non ricorderò che sono esistito
Né che questo albero, che diventerà la mia casa, era qualcosa di misterioso, come fosse mio padre.
عين الشحرور
بعد قليل
سيسقط قرص حياتي في حضني
لن يحدث الكثير بعد ذلك
الّذين تمنّيتُ لقاءهم ماتوا
البلد الّذي حلمتُ به
صار أغنية رابْ في سيّارةٍ بعيدة
الخيول الّتي ربّيتها في صغري
عضّت ذراعي
ولا يبدو أنّها ستفلتها
في كلّ الأحوال
محبرتي كبيرةٌ
ولا يبدو بأنّي سأعيش وأفرغها
القصائد الّتي تمنّيتُ كتابتها زججتُها في كفنه
والأخطبوطات الّتي نتأتْ من ظهري
علّمتُها كيف تتلمّس غيابه
أجلس فوق صخرة الشوق
وأنتظر أن تنحتني الريح
فأصير شحرورًا بعينٍ كبيرة
عينٍ كبيرةٍ وعميقة
سأرى فيها قرص حياتي الجديد
ربّما لن أذكر أنّني كنتُ أنا
وأنّ هذه الشجرة
الّتي ستصير بيتي
كانت شيئًا غامضًا كأنّه أبي.
Ninna nanna
Sono stanca di paragonare cose tra loro
E a malapena riesco a vederle per ciò che sono
Anche il gelsomino nel mio giardino è stanco
Un passante ha detto che somiglia ad un campo di cotone
E andò allargando le sue braccia e le sue gambe fino a sfibrarsi
Paragonavo la morte al buio pesto in cui abbiamo perso le chiavi della porta,
Ad un sogno dal quale non ci svegliamo,
Alla vacuità di un idolo per il quale ci umiliamo,
finché mio padre non cadde a terra e morì.
Ebbene la morte divenne morte.
Semplicemente morte.
Sono innocente nella metafora.
Ho paragonato me stessa ad una spiga di grano e ci sono rimasta incastrata,
e da allora Darwin fissa la sua scrivania
Sono innocente nella poesia.
Queste ninna nanna le scrivo per dormire
come amuleti che piego per poi scriverci ancora.
تهليلة
تعبتُ وأنا أشبّه أشياءً بأشياء
فأنا بالكاد أرى الأشياء كما هي
الفلّة في حديقتي تعبت هي الأخرى
أحدهم مرّ وقال إنّها مثل حقلٍ من القطن
فراحتْ تمدّ ذراعيها وقوائمها حتّى تمزّقت أليافها
كنتُ أشبّه الموت
بظلمةٍ سخماءَ أضعنا فيها مفتاح الباب
بحلمٍ لا يقظة منه
بجوف صنمٍ نتذلّل إليه
إلى أن ارتطم أبي بالأرض ومات
فصار الموت موتًا
موتًا فقط
أنا بريئةٌ من التشبيه
شبّهتُ نفسي بسنبلةٍ وعلقتُ فيها
فظلّ داروين، منذها، صافنًا في طاولته
أنا بريئةٌ من الشِّعر
هذه تهليلاتٌ أكتبها لأنام
هذه أَحْجِبَةٌ
أطويها لأعاود الكتابة.
Breve nota biografica di Asmaa Azaizeh
Asmaa Azaizehè una poetessa, interprete e giornalista. Nasce nel 1985 nel villaggio di Daburieh in Galilea, Palestina. Per diversi anni ha lavorato come giornalista per giornali arabi e palestinesi come presentatrice televisiva e speaker radiofonica. Nel 2012 diventa la prima direttrice del museo Mahmoud Darwish di Ramallah. Le sue poesie sono tradotte in oltre 10 lingue.
Pasquale D’Auria è laureando in Lingua e Letteratura Araba presso l’Università degli Studi di Bari, con una tesi sulla letteratura palestinese contemporanea.
La rivista «Atelier» ha periodicità trimestrale (marzo, giugno, settembre, dicembre) e si occupa di letteratura contemporanea. Ha due redazioni: una che lavora per la rivista cartacea trimestrale e una che cura il sito Online e i suoi contenuti. Il nome (in origine “laboratorio dove si lavora il legno”) allude a un luogo di confronto e impegno operativo, aperto alla realtà. Si è distinta in questi anni, conquistandosi un posto preminente fra i periodici militanti, per il rigore critico e l’accurato scandaglio delle voci contemporanee. In particolare, si è resa levatrice di una generazione di poeti (si veda, per esempio, la pubblicazione dell’antologia L’Opera comune, la prima antologia dedicata ai poeti nati negli anni Settanta, cui hanno fatto seguito molte pubblicazioni analoghe). Si ricordano anche diversi numeri monografici: un Omaggio alla poesia contemporanea con i poeti italiani delle ultime generazioni (n. 10), gli atti di un convegno che ha radunato “la generazione dei nati negli anni Settanta” (La responsabilità della poesia, n. 24), un omaggio alla poesia europea con testi di poeti giovani e interventi di autori già affermati (Giovane poesia europea, n. 30), un’antologia di racconti di scrittori italiani emergenti (Racconti italiani, n. 38), un numero dedicato al tema “Poesia e conoscenza” (Che ne sanno i poeti?, n. 50).
Direttore responsabile: Giuliano Ladolfi Coordinatore delle redazioni: Luca Ariano
Redazione Online Direttori: Eleonora Rimolo, Giovanni Ibello Caporedattore: Carlo Ragliani Redazione: Mario Famularo, Michele Bordoni, Gerardo Masuccio, Paola Mancinelli, Matteo Pupillo, Antonio Fiori, Giulio Maffii, Giovanna Rosadini, Carlo Ragliani, Daniele Costantini, Francesca Coppola.
Redazione Cartaceo Direttore: Giovanna Rosadini Redazione: Mario Famularo, Giulio Greco, Alessio Zanichelli, Mattia Tarantino, Giuseppe Carracchia, Carlo Ragliani.
Contattaci
http://www.atelierpoesia.it
La rivista «Atelier» ha periodicità trimestrale e si occupa di letteratura contemporanea.
direzioneatelierpoesiaonline@gmail.com
Per tutte le comunicazioni e proposte per Atelier Online, sia di pubblicazione di inediti che di recensioni vi preghiamo di scrivere al seguente indirizzo mail di direzione: eleonorarimolo@gmail.com
E così rimasi a casa. Sola.
A filare il filo bianco dei giorni,
il filo nero delle notti,
a tessere la tela grigia della mia solitudine.
In me si aprivano territori
popolati da mostri e da paure,
incantesimi di maghe, senza scopo,
seduzioni di ninfe, del tutto inutili,
richiami di sirene, inascoltati.
Io, moglie di eroe per usucapione,
fedele per definizione,
morirò inesplorata.
*
LA CASA NUOVA
È la casa dove andrò per morire
l’occaso, il mio occidente,
la sceglierò con cura, la renderò perfetta,
sarà ampia, luminosa e ben disposta,
avrà spazio e scaffali sul muro
per collocare presente passato e futuro.
All’orizzonte della mia cucina
potrò avvistare l’Oriente e la Cina
senza muovermi dalla finestra
porcellane e sete nella mia testa.
Darò una festa il primo giorno
per festeggiare il non ritorno
siete invitati tutti quanti
mi raccomando … guanti bianchi!
*
LUMACHINA
Lumachina bellissima
amabile sorpresa
su questa verde grumosa
foglia di ortaggio
che condividiamo per cena
nitida e matematica
morbida carne d’ostrica
in convolvolo di lucida scaglia
tu non sai nulla
della spirale logaritmica (1)
non te ne cale
della sezione aurea
di Fibonacci
tu te ne stropicci
lenta e implacabile
attraversi le età
con te porti te stessa
e ogni tua proprietà
in equilibrio fragile
tra il caso e la necessità
(1) il guscio della chiocciola (al pari di altri fenomeni del mondo naturale, quali la disposizione dei semi di girasole e delle squame dell’ananas, o la spaziatura delle foglie lungo uno stelo) presenta uno schema riconducibile a quello della sezione aurea e dei numeri di Fibonacci. L’elemento comune di questi fenomeni è rappresentato dalla spirale logaritmica detta anche “spirale aurea”, attraverso la quale lo sviluppo armonico della forma è legato alla necessità degli esseri viventi di accrescere “secondo natura” in maniera ottimale e meno dispendiosa possibile.
*
NOVELLA SPOSA
Tu mi hai fatto comprare un orologio
per prima cosa
novella sposa
tu mi hai fatto comprare un orologio
e ti sei insediato nel quadrante
hai preso a scandire le mie ore
che prima battevano presso il cuore
eccomi qua
avvinta ad una molla
che ora mi tira
e ora mi sgrolla
e non mi lascia
strettamente mi fascia
mi strozza
mi strizza la gargozza
sputo a fatica
negli ultimi sobbalzi
ore minuti
secondi vuoti
con le lancette mi percuoti
mi frusti
esulti
è straordinario
muoio
in perfetto orario!
*
COMICA FINALE
Ho il cuore vecchio questa sera,
un vecchio cuore
che indossa un parrucchino di parole,
un’assurda dentiera di metafore,
ha le labbra tinte con sangue non suo
e finge un trasporto che non c’è.
Volteggia, piroetta, ammicca,
si esibisce su un liso tappeto
di vocaboli,
si inchina,
vuole gli applausi, il meschino.
Scivola su un accento sdrucciolo,
batte la testa su un sostantivo,
è trafelato, suda,
non sa cosa dire,
non sa come dire.
Cola il cerone delle rime
e il rimmel degli artifici
gli appiccica gli occhi.
Boccheggia,
sta per piangere,
ma una vecchia solerte
-la badante di Euterpe-
lo prende sottobraccio
e passo passo lo accompagna
verso la parola: FINE
Biografia di Carla Buranello è nata a Venezia, dove ha studiato, (laureandosi presso l’Università Ca’ Foscari in Lingue e Letterature Straniere Facoltà di Anglo-Americano), e dove vive tuttora.Ha lavorato per molti anni come dirigente presso un’azienda internazionale. Lasciato il lavoro, e ritornata padrona del proprio tempo, ha deciso di dedicarsi agli interessi da lungo tempo trascurati iniziando, per pura passione, a tradurre, soprattutto poesie di autori inglesi e americani. Tramite internet, si è messa in contatto con la poetessa angloamericana Anne Stevenson, iniziando una corrispondenza trasformatasi presto in amicizia. Ne è nata la prima edizione italiana di una selezione di poesie di Stevenson, pubblicata nel 2018 dall’editore Interno Poesia. Ha tradotto anche un libro inglese di racconti ispirati alla scienza, non ancora pubblicato. Dall’amore per il linguaggio poetico, e dalla profonda vicinanza con esso che il tradurre determina, è nato anche il desiderio di cimentarsi nella scrittura. E in alcuni casi di tradurre in inglese le sue stesse poesie. Non ha mai pubblicato nulla, ma ha accettato con piacere di affidare alcuni suoi versi a Margutte.-
Ma se, dalla porta in cui appaio, fossi già scomparso?
Certi giorni, che trascorrono senza di me.
Scrivere è un atto di violenza, un magico errore, una gioia senza nome.
La poesia non nasconde e non svela.
La forma della poesia confluisce in suoni che ne cancellano l’architettura.
Prima di scrivere, maturo la gioia di tacere.
Sciolse la scena del disastro con parole che risuonarono armoniose.
Somigliando a qualcuno mi scopro inimitabile.
Lo spostamento di un avverbio è più eversivo di una rivoluzione vittoriosa.
Le opere inessenziali hanno una grazia particolare.
I fiumi si differenziano per i detriti che trascinano.
***
La pertinenza del testo: modulare una passione.
Le perfezioni sono attimi.
La poesia è abitare desideri impossibili.
Il fulmine frantuma lo specchio che riflette il lampo.
Lo scrittore ha un solo dovere: essere cosciente delle proprie visioni.
Perché la mia lingua sia vera, deve averla nutrita il buio.
L’immobilità: limite estremo del rallentamento del moto.
Lo scoglio non esaurisce il flusso delle onde.
Scrivo per prepararmi a scrivere in qualche impossibile giorno
Siamo perduti, solo se siamo stati ingiusti.
Disimpari lo stupore e cominci a morire.
Disorientare il presente: sopravvivere.
***
Allo scrittore accade di anticipare se stesso senza conoscersi ancora.
La parola è indicibile. Ma occorre scrivere per saperlo.
Morirò per non essere sopraffatto dalla morte.
Maldestri e inutili, stupidi e balordi. Eletti.
Qualcuno si crede originale per eccesso d’ignoranza.
Il linguaggio può trasformare, ma bisogna esserne all’altezza.
Non c’è nulla di conforme: mi aiuta la scienza del deforme.
Nascere sempre nel tempo sbagliato.
Scrivo per ripetere ciò che non sono. Per allontanarmi da me
Non avendo più nessun desiderio, come posso desiderare la morte?
Solo quando la casa va a fuoco, è visibile la sua architettura.
***
Chi è cieco grida di non vedere. Non scrive aforismi sulla cecità.
Distruggere quel suono solo per aprire le orecchie a un altro suono.
L’arte, consumando opere, non si annulla ma cambia forma.
La parola è trasparenza dell’io all’esperienza dell’abisso.
Non si crea verità ma la si dissotterra.
Prima necessità: esprimersi. Prima necessità: ammutolire. Da dove si inizia?
Un uomo che guardi se stesso da lontananze estreme e trovi un linguaggio possibile.
La forma dell’io, alla radice, è visione del non-io: vertigine dello specchio.
Un dio – ma simile al fumo che sale dalle macerie.
La forma più primitiva del sapere è un soffio di vento.
Il passato non è mai certo della sua estinzione.
***
La follia, come l’arte, presume di sconfiggere la morte.
La scrittura è spartito per la voce.
Troppe parole, nella pagina, e pochissimi ricordi, nella mente.
Uccidermi sarebbe perdere il flusso vivente di cui solo io sono occhio e orecchio.
Avvicinarsi alla mancanza di maschere è la via maestra per togliersi la vita.
Scrivere è parlare di un vento di cui non ricordiamo il suono.
Nessuna interiorità è personale.
Tutte le idee vengono dal sonno.
Solo chi si sveglia può osservare dormire.
Dormire è appartenere al segreto di un altro.
All’interno del sonno c’è un risveglio di cui la scrittura è complice.
Il testo è il risveglio ma il fondo della parola è il sonno.
Stile: gioco di equilibri attorno a un precipizio.
***
La scrittura è il sogno illegittimo ma reale della resurrezione.
Il sonno rende la veglia un territorio misterioso.
La vita: progressivo misconoscimento del mondo.
Ci sono fantasmi che devono esistere per noi e oltre di noi.
Farsi sopraffare dalle voci è la volontà di creare un non-luogo della letteratura.
Il punto più in ombra corrisponde al centro della luce più intensa.
Disegni fatti di fuliggine e cenere, di ciò che è esistito ed è bruciato.
Il vero incendio è dove soffochi, non nel chiarore delle fiamme.
Ricordo impossibile: il sole sotto il cuscino.
L’opera deve restare segreta, se occorre, contro il suo stesso autore.
Annotare, ma lentamente.
***
Missione impossibile ma necessaria: trovare le frasi lucide dello stordimento.
E’ l’opera stessa a inventare l’io nel quale vuole esprimersi.
La scrittura può descrivere i colori, ma ogni descrizione è un’ombra.
La musica tradisce il corpo meno della parola.
Della musica attrae il silenzio suscitato dalle note.
Scrivere: emorragia che non può essere fermata.
Ci sono ferite che richiudere sarebbe un delitto.
Aveva molto buio, nelle dita.
Accettare il fallimento personale come la linfa necessaria.
***
Perseverare nel sogno: scegliere il delirio contro l’annientamento.
Alcuni intervalli, dentro il mio sonnambulismo: gli atti vitali.
Riposare dai miei folli. Non vivere più in loro ostaggio.
Ritrovare, sotto il torace, la gaia, palpitante oppressione di creare.
Letteralmente non togliere mai la penna dal foglio.
Stupirsi per chi ti chiede cosa stai scrivendo.
I libri: la propria ferita, inarrestabile, scesa a patto con delle cicatrici.
La «cifra del tappeto» di tutta la mia opera è la necessità di vivere nonostante.
Per chi esige una certa luce, l’ombra non sarà mai sufficiente.
Non vivere neppure un attimo senza le potenzialità della parola.
Pagina mai vuota – inesauribile esorcismo.
Marco Ercolani, quando uno psichiatra è anche scrittore.
Marco Ercolani, Psichiatra e scrittore. Opere di narrativa Col favore delle tenebre, Vite dettate, Lezioni di eresia, Il mese dopo l’ultimo, Carte false, Il demone accanto, Taala, Il tempo di Perseo, Discorso contro la morte, A schermo nero, Camera fissa, Turno di guardia , Preferisco sparire, Atti di giustizia postuma, Destini minori.
Opere di saggistica: Fuoricanto, Vertigine e misura, Lopera non perfetta, Il poema ininterrotto, Fuochi complici. Per la poesia: Il diritto di essere opachi, Si minore, Nel fermo centro di polvere. Suoi testi aforistico-poetici in Sentinella e Nottario. In coppia con Lucetta Frisa dirige i Libri dell’Arca per le edizioni Joker e scrive: Latelier e altri racconti, Nodi del cuore, Anime strane, Sento le voci, Il muro dove volano gli uccelli, Diario doppio, Furto d’anima.
Nota biobibliografica–Marco Ercolaniè nato a Genova nel 1954, dove vive e lavora come psichiatra. Scrive racconti fantastici e vite immaginarie e indaga il rapporto arte/follia. Tra i suoi libri di narrativa: Col favore delle tenebre (Coliseum, 1987), Vite dettate (Liber, 1994), Lezioni di eresia (Graphos, 1996), Sindarusa (Tabula fati, 1997), Il mese dopo l’ultimo (Graphos, 1999) Carte false (Hestia, 1999), Il demone accanto (L’Obliquo, 2002), Taala (Greco & Greco, 2004) e Il tempo di Perseo (Joker, 2004.) È autore di due volumi di critica poetica, Fuoricanto (Campanotto, 2000) e Vertigine e misura (La vita felice, 2008). Ha curato il volume collettivo Tra follia e salute: l’arte come evento (Graphos, 2002) e il convegno L’arte della follia (Genova, Biblioteca Berio, 2004.) Suoi testi sono pubblicati in Riga, Poesia, Il gallo silvestre, Ipsofacto, Nuova Corrente, Anterem, La clessidra, Nuova Prosa, La mosca di Milano, Ciminiera. È stato redattore di Fanes, rivista di cultura psicoanalitica, e di Arca. Quaderni di scrittura. Con Luisella Carretta ha ideato la collezione di arte e scrittura Scriptions. In coppia con Lucetta Frisa ha scritto L’atelier e altri racconti (Pirella, 1987), Nodi del cuore (Greco & Greco, 2000) e Anime strane (ibidem, 2006) e dirige per le edizioni Joker «I libri dell’Arca».
-dalla Rivista QUINTA GENERAZIONE n°103/104 anno XI 1983-
Gilda Musa – Un incontro e Un piccolo ritratto, di Vittorio Curtoni / con intro di Nino Martino
29 agosto 2020 ~ GiuliaStudio83
Pubblichiamo oggi un post dedicato alla scrittrice Gilda Musa, poetessa, germanista e autrice di fantascienza fino alla fine degli anni ’70.
Gli articoli sono entrambi a firma di Vittorio Curtoni: uno è un’intervista a Musa, uscita sul numero 21 (anno 1977) della rivista di fantascienza ROBOT, che a quei tempi era edita da Armenia.
Nell’altro pezzo, lo scrittore e traduttore, che tanta parte ebbe a sua volta nel panorama SF italiano, ricorda la scrittrice a poco tempo dalla scomparsa della donna.
Entrambi gli articoli ci sono stati gentilmente mandati da Nino Martino, autore di racconti e romanzi e finalista al Premio Odissea, che lo ha trascritto per intero e ce lo ha inviato. Lasciamo quindi a lui la parola per introdurlo. A te, Nino, e GRAZIE!
Ogni tanto, per curiosità prendo qualche cosa dalla mia biblioteca e provo a sfogliare a caso. Un libro mi sembra di non averlo mai letto? Vado a vedere ed è fittamente annotato di mio pugno. Cose così. E l’altro giorno mi sono imbattuto in un vecchio numero di Robot, in cui il compianto Vittorio Curtoni intervistava Gilda Musa.
Di lì ho fatto un po’ di ricerche, per mettere una toppa alla mia ignoranza (o oblio di cose che conoscevo? Spero la seconda ipotesi).
Ho scoperto che Gilda Musa è stata una importante scrittrice di fantascienza degli anni ‘70 insieme al marito Inisero Cremaschi.
Ho scoperto che entrambi hanno avuto un ruolo importante per la crescita della fantascienza italiana, anche organizzativo. Ed è a loro, forse, che si deve molto della qualità oggi.
L’intervista mi è sembrata di strepitosa attualità. Gilda musa ha idee chiarissime e le esprime in modo perfetto. Ci sono, di fatto, tutti i temi che sono in dibattito presso di noi.
Buona lettura e fateci sopra qualche piccola riflessione… Serve a noi tutti.
Incontro con Gilda Musa
Vittorio Curtoni
Qual è stata la spinta che ti ha indotto a scrivere? E perché ti dedichi, da anni, alla fantascienza?
Questa è la domanda che ogni scrittore desidera sentirsi fare. Poi succede che nessuno sa veramente, seriamente, concretamente, e profondamente rispondere. Escluso forse Asimov, il quale però sembra che abbia cominciato a raccontare le proprie vicende, biografiche e letterarie, da quando era in culla.
Visto che non sono Asimov, risponderò in modo molto più conciso: la spinta che mi ha indotta a scrivere è stata la necessità di interpretare la misteriosa complessità della realtà in movimento. Quanto alla fantascienza, la spinta è stata data dal fatto che è un tipo di narrativa che con maggiore efficacia e prontezza segue, anzi anticipa, le mutazioni del nostro mondo. Ho sempre desiderato che il mondo cambiasse, da quando ho cominciato ad avere l’uso della ragione. Può darsi che la fantascienza non incida molto nelle pieghe dell’esistenza individuale e collettiva dei nostri contemporanei. Ma, se non altro, ci offre un’illusione della realtà. E non è forse questo il maggiore fascino della fantascienza?
Quale differenza esiste fra l’attività di poetessa e quella di scrittrice di sf?
La poesia agisce verticalmente, affondando nella psicologia con gli strumenti di un linguaggio-laser, privilegiando essenzialmente le immagini e le forme. La fantascienza agisce anche orizzontalmente, in lungo e in largo, in tutti gli aspetti dell’esistenza: occupa le zone della sociologia, della politica, della progettazione scientifica, della psicologia individuale e di massa. Nella fantascienza, in breve, si rispecchia l’intero crogiolo del mondo. E la narrativa di fantascienza mi consente di esprimerlo nella sua poliedricità, attraverso personaggi e vicende. Per questo motivo, nel mio lavoro, poesia e fantascienza si integrano e si completano.
Fra i tuoi racconti, quale ricordi con maggiore soddisfazione? E perché?
Sarebbe facile rispondere: tutti, quelli già pubblicati e quelli ancora inediti. Ma non sarebbe legittimo, vero? Allora restringerò la rosa a un paio: Memoria totale e Max, tutti e due raccolti in Festa sull’asteroide, dopo essere usciti in riviste e antologie.
Memoria totale rivela, di me, l’aspetto più segreto e più poetico. Max, vicenda oggettiva sul tema dell’uomo nato in laboratorio, apre la mia coscienza sul mondo esterno. I due racconti, che non a caso molti lettori preferiscono, rappresentano appunto i miei campi di ricerca. Posso aggiungere che anche fra i miei racconti inediti ho i miei prediletti.
Tu lavori in questo campo sin dai tempi di «Futuro». Come sono stati gli inizi? Quali differenze ti sembra esistano oggi, a più di dieci anni da allora ?
Come tutti sanno, quando ho cominciato a scrivere, non sono partita dalla fantascienza, ma dalla poesia, dalla letteratura tedesca moderna, dalla letteratura atipica. La fantascienza è arrivata proprio con «Futuro», quando Inìsero Cremaschi e Lino Aldani rivelarono a me stessa che Memoria totale era un racconto di science-fiction. Avevo scritto una vicenda fantascientifica, senza sapere che potesse essere definita tale. Dopo quel primo racconto, tutto si è svolto con naturalezza, per me. Quanto alla situazione odierna, direi che il lavoro dei «pionieri» sia servito a spianare la strada ai nuovi autori.
Qual è la tua concezione del racconto di sf?
Novità, anticonformismo, suspense. Se manca uno di questi elementi, è possibile scrivere, forse, un capolavoro, ma non un buon racconto di autentica fantascienza.
Con che metodo (o metodi) scrivi?
Tutti i metodi sono buoni: pensarci su, rompersi le meningi fino a scovare un buon plot, ma il metodo migliore resta ancora quello di «pensare ad altro», cioè vivere guardandosi in giro. La realtà che mi sta attorno è un’immensa miniera per immaginare, e quindi scrivere, una storia di sf. Quanto alla resa narrativa, posso dire che non mi stanco di scrivere e riscrivere la medesima pagina anche otto o dieci volte, fino alla sua trasparente chiarezza e alla sua efficacia rappresentativa.
Che cosa ti ha insegnato l’esperienza del romanzo? La ritenteresti?
Del romanzo darei questa definizione: una fatica tremenda, almeno dieci volte quella che ci vuole per un racconto. Però, alla fine, viene decuplicata anche la soddisfazione morale, quella che compensa l’autore di tutto il tempo e l’energia psichica consumata sulle pagine. Se la ritenterei? L’ho già ritentata. Ho iniziato e finito nel 1977 un romanzo psicotecnologico destinato ai giovani, dal titolo ancora provvisorio Marinella Seconda, che sarà pubblicato dalla S.E.I. Inoltre, sto lavorando a una particolarissima space-opera, un romanzo più complesso e più «avventuroso» di Giungla domestica.
Scrivere un romanzo è un’esperienza importante, che consiglio. Ci si sente più maturi, dopo.
Quali sono, a tuo giudizio, i migliori autori nel campo della sf oggi in attività?
In Italia? All’estero? In ogni caso, non mi è possibile dare una risposta. Nel campo della sf avviene uno strano fenomeno: quasi tutti gli autori, anche i meno bravi, offrono sempre suggestioni, incantesimi, proposte, idee inedite; un fenomeno che avviene con minore frequenza nel campo della narrativa normale.
La tua opinione sul fandom in genere e in particolare?
Il fandom è l’habitat dello scrittore di fantascienza. Ci è indispensabile, come l’aria che respiriamo. A volte, ma non troppo spesso, l’aria è un pochino inquinata. Ma non per questo è meno preziosa.
Segui le vicende della sf americana? Se sì, come giudichi gli ultimi sviluppi del settore?
Seguo la sf americana anche da un punto di vista critico: infatti fin dal 1976 collaboro con il quotidiano “Paese Sera” con l’incarico della narrativa fantascientifica straniera e italiana.
Ho letto, su ROBOT, che alcuni scrittori americani intendono abbandonare la fantascienza. Li capisco. A casa loro, la sf è considerata ancora da molti come un «genere», una sottocategoria letteraria. Forse è per questo che, in generale, la sf statunitense sta prendendo strade meno ortodosse della sf delle origini: fantasy, speculative fiction, un pizzico di horror, una spruzzata di sesso, eccetera. Secondo me, però, lo sviluppo più interessante è dato da quegli autori che affondano i bisturi nei rapporti fra scienza e potere.
La tua reazione ai racconti del premio ROBOT?
Quando, insieme con Aldani, Cremaschi, Raiola, Anna Rinonapoli e altri, cominciai a scrivere, eravamo in pochi. Ora ci troviamo davanti a un reggimento di nuovi scrittori, o aspiranti scrittori. Quasi cinquecento racconti, al premio ROBOT! E l’aspetto più interessante è che il valore medio degli esordienti sia cosi alto, così maturo.
Che epitaffio vorresti per la tua vita?
Esiste una mia poesia, intitolata Tu, lontano lettore: è una sorta di coraggiosa epigrafe e un messaggio al futuro.
Però, per brevità, ne invento un altro:
Visse in tempi di mutamenti / e amò quei mutamenti.
Un piccolo ritratto di Gilda Musa
Vittorio Curtoni
È recentemente scomparsa Gilda Musa, una delle autrici più importanti per la storia della fantascienza italiana. Vittorio Curtoni ne traccia un ricordo.
Non ho incontrato Gilda Musa poi troppe volte in vita mia, e non la vedevo da almeno una quindicina d’anni; ma la notizia della sua morte, avvenuta a fine febbraio, mi ha lasciato un vuoto dentro. Se n’è andata in punta di piedi, con discrezione, com’era nello stile di questa signora minuta, tanto amabile, sempre pronta ad accendersi in discussioni vivacissime sulla natura del lavoro letterario, sul senso e sul perché della scrittura. Per questo, forse, ne conservo un ricordo così vivido: Gilda era una di quelle persone che puoi vedere poco, magari in occasioni particolari come una convention o la riunione di una giuria di un premio letterario, ma quegli incontri ti restano impressi per la vigoria, il calore intellettuale che sprigionano.
Gilda era un vulcano d’idee, di proposte, di voglia di fare; sembrava un po’ la metà, come dire?, iper-attiva della coppia che formava con Inisero Cremaschi. Anche Inisero è sempre stato una fucina intellettuale d’alto livello, come dimostra la sua produzione letteraria, come si vede benissimo dai suoi troppo rari racconti di fantascienza, ma il suo comportamento è più pacato, tranquillo. Inisero porge con garbo, suggerisce, propone; Gilda era irruenta, sicura di sé, assertiva. Forse (l’ho sempre pensato) è stato proprio grazie a questa diversità d’indole che i due hanno dato vita a un matrimonio tanto riuscito; o almeno, diciamo che entrando in casa loro si aveva l’impressione di una coppia in grande sintonia e armonia. Il che è bellissimo in linea generale ed è, mi si permetta dirlo, piuttosto raro in un universo come quello della letteratura, dove tanta gente è perennemente pronta a scannare tanta altra gente. Basta, ad esempio, rileggere l’introduzione di Inisero a “Giungla domestica” (Dall’Oglio, 1975) per rendersi conto di come il marito scrittore si tiri in disparte per lasciare tutto lo spazio possibile alla moglie scrittrice: io di coppie così ben assortite ne ho conosciute poche.
Il mio rapporto con Gilda Musa è iniziato molto prima che avessi il piacere di conoscerla di persona. Lei era di una generazione precedente alla mia, sicché io, da ragazzo, mi sono spesso trovato a incontrare quei bellissimi racconti seminati tra le pagine della rivista Futuro e delle antologie Interplanet: storie come “Memoria totale”, “Trenta colonne di zeri”, o “Max” mi si sono stampate nel cervello, colmandomi di meraviglia e reverente ammirazione. Non l’ho ancora detto, ma Gilda è sempre stata uno degli autori italiani di science fiction più dotati di capacità stilistiche; una grande autrice e narratrice nel senso più pieno dei termini. Non a caso era anche poetessa e germanista: una personalità multiforme incentrata su una consapevolezza dei mezzi letterari che ben pochi hanno eguagliato. Era l’epitome (e lo dico con la consapevolezza di esporre me e lei a critiche anche feroci, ma tant’è, la verità si impone da sé, non si discute) di quella “fantascienza umanista” che in Italia ha dato per anni frutti non indifferenti. Il rigore stilistico era per lei condizione necessaria e imprescindibile, sulla quale innestare lo sviluppo di idee fantastiche tanto innovative quanto pregnanti sul versante dei contenuti. Era scrittrice dotata di capacità di discernimento in sommo livello, sino ad arrivare alla rigorosa meticolosità di distinguo sottilissimi. C’è un episodio che ricordo molto bene e che illustra in maniera esemplare, credo, il concetto. Quando scrissi il capitolo a lei dedicato del mio volume “Le frontiere dell’ignoto”, glielo portai a leggere per avere il suo placet (sì, lo so, con tanti altri non l’ho fatto, ma Gilda era una signora, e che signora), e lei approvò tutto, fu molto contenta, mi ringraziò. Mi chiese però una lievissima modifica: dove, parlando della sua antologia “Strategie”, avevo scritto che si trattava di “strategie letterarie”, lei mi chiese di mettere invece (e io obbedii, s’intende) “strategie narrative”.
Questioni di pelo caprino? Non credo proprio. Questo è rigore. È attenzione spasmodica alla singola parola. È quello che uno scrittore veramente scrittore dovrebbe sempre fare, quando maneggia la lingua. È quello che tanti sedicenti autori non hanno mai imparato e che invece per lei era una sorta di seconda natura.
Se ben rammento, il primo contatto diretto con lei l’ho avuto allo SFIR (così si chiamavano all’epoca le convention nazionali: Science Fiction Italian Rundabout) di Ferrara del 1976. Gilda trattò mia moglie e me con una cordialità, una familiarità che davvero mi riempì di gioia. Un pochino anche d’orgoglio, lo confesso: essere accettato alla pari, di primo acchito, senza discussioni, da uno dei miei scrittori preferiti! Ancora oggi la ringrazio di questo. Gilda era nel pieno della sua querelle con la RAI, che aveva mandato in onda uno sceneggiato, “La traccia verde”, che a suo giudizio plagiava il suo romanzo “Giungla domestica”. Non so come si sia risolta, a livello legale, la questione, ma di certo ho sempre pensato che Gilda avesse ottime ragioni: per quanto sia vero che all’epoca le ricerche sulla supposta “sensibilità delle piante” fossero uno dei piatti forti della parapsicologia mondiale, è altrettanto vero che le due trame rivelavano coincidenze sconcertanti. E il suo romanzo era uscito prima che venisse prodotto lo sceneggiato. In sostanza, in entrambe le storie il colpevole di un delitto viene smascherato grazie alle reazioni “emotive” di una pianta… Vedete un po’ voi. Come minimo, il suo sacro furore era pienamente giustificato.
Con lei e con Inisero, Giuseppe Caimmi, Giuseppe Lippi e io siamo stati compagni di giuria per le due edizioni del “Premio Robot”. Ci siamo ritrovati negli uffici dell’Armenia, e dopo un pranzo in compagnia abbiamo passato il pomeriggio a discutere in maniera piuttosto accesa delle virtù e dei vizi dei racconti che avevamo letto. Debbo dire, riandando a quegli anni, che se nella seconda edizione Mauro Gaffo si impose all’unanimità, la vittoria di Morena Medri con “In morte di Aina” il primo anno fu dovuta soprattutto ai coniugi Cremaschi: loro due puntavano senza la minima esitazione su quel racconto, e invece noialtri tre avevamo una rosa di papabili troppo estesa e variegata. E non riuscimmo a trovare una piattaforma d’accordo. Non che mi dispiaccia, intendiamoci; ma insomma, se volete, anche questa è una riconferma delle ferree convinzioni e delle capacità di persuasione di Gilda Musa (e Inisero Cremaschi, come no). Una donna straordinaria, lasciatemelo dire.
Sono stato un po’ di volte a casa loro, sempre accolto con estrema cordialità. Avevano sotto casa una pizzeria che era un punto di ritrovo per gli scrittori milanesi, e oltre tutto la pizza era anche ottima! (Be’, io sono fanatico di pizza e ho canoni piuttosto rigorosi in merito.) Una volta andai da loro, ai mitici tempi di ROBOT, con Giuseppe Lippi, e quel che ricordo più di tutto è il fatto che non mi avvidi, a pianterreno, della presenza di una vetrata ORRIBILMENTE trasparente e mi ci fiondai contro col non indifferente peso del mio corpo. Una craniata fantozziana da restarci secco! Arrivai all’appartamento dei Cremaschi suonato come una campana e, suppongo, apparentemente sbronzo, anche se in realtà non avevo bevuto un goccio… Ma fu una serata ugualmente bella, calorosa, nell’ormai consueta pizzeria. Anche la botta disumana alla fronte è entrata a fare parte dei miei ricordi più dolci. Visto che mi trovai in fulgida compagnia.
So che, per anni, Gilda e Inisero sono stati il fulcro di riunioni periodiche (settimanali, credo) di autori che si davano convegno a casa loro per discettare dell’arte di scrivere. Un cenacolo, in parole povere.
Nonostante i loro ripetuti inviti, non ho partecipato una sola volta a questi incontri, per banali questioni logistiche: io vivo a Piacenza, loro a Milano. Talora la geografia e’ d’intoppo. E come non ricordare l’antologia “I labirinti del terzo pianeta” (Nuova Accademia, 1964), curata da loro due in anni in cui il semplice parlare di sf italiana era atto di smisurato orgoglio? Un’antologia nella quale riuscirono a coinvolgere nomi come Mario Soldati e Libero Bigiaretti, oltre a quelli che potremmo definire i “professionisti” indigeni della fantascienza. E un’altra impresa notevole è stata, negli anni Settanta, la serie “La Collina”, pubblicata dalla Nord: quattro intensi volumi a metà tra saggistica e narrativa nei quali si è tentato di lanciare la nuova etichetta di “neofantastico” per i narratori italiani. Il termine non ha avuto, è vero, grande successo, e le vendite non sono state eccezionali, come d’altronde è quasi sempre accaduto in Italia alle iniziative “diverse” in un campo tutto sommato molto conservatore; ma provate a sfogliare quelle pagine e vedrete quanto fervore, quanto attivismo, quanto discutere. Il curatore ufficiale di “La Collina” è stato Inisero, ma non è difficile vedere dietro la mano complice della moglie, che con lui condivideva la passione smisurata per il lavoro letterario.
Rammento queste cose per testimoniare l’importanza che la presenza di Gilda Musa ha avuto, nel farsi della fantascienza italiana, non solo per le sue virtù d’autrice ma anche per le attività concomitanti ideate e gestite col compagno della sua vita. E chissà quanto ho dimenticato. Ma non volevo offrire di lei un ritratto globale quanto piuttosto un’immagine, un’impressione; l’istantanea che rimarrà fissata nella mia memoria. Quel che penso di lei come narratrice l’ho detto nello scritto che potete leggere su questo numero di DELOS. Per il resto, che aggiungere? Carissima Gilda Musa, tu hai arricchito la mia esistenza con quello che hai scritto e con la tua presenza umana. Cose delle quali non si può mai essere grati a sufficienza.
Grazie di tutto, e a rivederci prima o poi, chi lo sa?
SCRITTRICI: E’ MORTA GILDA MUSA, SIGNORA DELLA FANTASCIENZA
AVEVA 72 ANNI ED ERA LA MOGLIE DELLO SCRITTORE CREMASCHI
Milano, 26 feb. (Adnkronos)- E’ morta ieri notte in una clinica a Milano, a causa di un tumore, all’eta’ di 72 anni, la scrittrice e poetessa Gilda Musa, autrice di libri per ragazzi, conosciuta come ”la signora italiana della fantascienza”. Condivideva la sua grande passione per le storie fantascientifiche con il marito, lo scrittore Inisiero Cremaschi, insieme al quale piu’ di vent’anni fa scrisse ”Dossier extraterrestri” (Rusconi).
Nata a Forlimpopoli (Forli’) nel 1926, dopo la laurea in lettere si era dedicata interamente all’insegnamento, ma nel tempo libero ha sempre coltivava la passione per la poesia e gli studi di letteratura tedesca. Grazie alla vita in comune con Cremaschi, si decise, ormai in eta’ matura, a 49 anni, a pubblicare il suo primo romanzo: ”Giungla domestica”, stampato da Dall’Oglio nel 1975, che ottenne il premio Citta’ di Ferrara. Nel ’79 dette alle stampe ”Esperimento donna”, mentre il primo lavoro di fantascienza e’ di due anni piu’ tardi, ”Fondazione Id”. Alcuni dei suoi racconti sono tradotti in inglese, francese, russo e tedesco: il piu’ fortunato e’ ”Marinella super” (’92), destinato ai ragazzi, ristampato oltre venti volte dall’editore torinese Sei. E sempre da Sei e’ uscito il suo ultimo libro, ”La grotta della musica” (’94).
(Pam/As/Adnkronos)
MUSA GILDA – Nata in Emilia Romagna, a Forlimpopoli, nel 1926, figlia dello xilografo Romeo Musa, Gilda Musa si laurea in Lettere a Milano e si specializza in Germanistica a Heidelberg, per poi diplomarsi in lingua inglese a Cambridge. Considerata una delle voci più rilevanti del panorama fantascientifico italiano, la sua forma espressiva originaria è rappresentata dall’attività poetica: la raccolta d’esordio, dal titolo ungarettiano, è Il Porto quieto (1953), a cui faranno seguito Amici e nemici (1961), Gli onori della cronaca (1964)e La notte artificiale (1965), attraverso le quali Gilda Musa passa a un maggior coinvolgimento morale e a un’attenzione sempre più precisa per quegli aspetti malati e violenti della società neocapitalistica, per arrivare infine alla rappresentazione della totale alienazione del soggetto. All’accresciuta importanza che assume la riflessione critico-ideologica sulla realtà contemporanea, si lega l’esigenza di estendere il proprio pubblico, cui è derivativo l’avvicinamento alla fantascienza, con il racconto Memoria totale (apparso sulla rivista «Futuro» nel 1963), cui si affiancheranno la partecipazione all’antologia I labirinti del terzo pianeta. Nuovi racconti italiani di fantascienza (1964)e la collaborazione alla rivista «La collina», la quale ha contribuito a delineare il filone narrativo del neofantastico. Lungo tutto questo percorso di lavoro, Gilda Musa non utilizza mai alcuno pseudonimo: un fattore significativo di una fantascienza italiana in grado di rivendicare un proprio spazio e una propria autonomia dai modelli stranieri. Con il racconto L’unico abitabile (1963), Gilda Musa segna l’inizio di una serie di racconti concentrati su un singolo protagonista e sul suo dramma interiore; seguiranno poi Giungla domestica (1975), Fondazione «ID» (1976), Marinella super (1978), Esperimento donna (1979) e L’arma invisibile (1982),opere in cui l’autrice cerca di promuovere un progetto di crescita e civiltà nel pieno rispetto della risorse umane e naturali: in una società basata sempre più sull’individuo e sullo sfruttamento delle sue risorse naturali, con l’arroganza di piegare il proprio habitat al servizio dell’uomo e della scienza, il messaggio ecologico veicolato da Musa diventa mezzo di riavvicinamento alla propria Terra, ritrovando un rapporto armonico e naturale con essa, e di riscoperta di se stessi in una dimensione più “umana” e innocente. Gilda Musa muore a Milano nel febbraio del 1999.
Uno scrittore algerino immagina il contraltare del celebre romanzo-
Articolo di Alberto Corsani-
Un arabo uccide un francese, apparentemente senza motivo, pochi giorni o poche settimane dopo l’indipendenza ottenuta dagli algerini nei confronti della Francia. È il ribaltamento della situazione che innescava, nel 1942, Lo straniero di Albert Camus, dove, nelle prime pagine, un francese d’Algeria sparava a un arabo sulla spiaggia, apparentemente senza motivo. Ma il libro iniziava in maniera inattesa, secca, brutale: «Oggi la mamma è morta…». E la madre è assolutamente centrale, sia pure in termini diversi, anche nel romanzo, ora uscito anche in Italia, dello scrittore-giornalista Kamel Daoud*, che davvero prosegue, rovesciandola, l’«inchiesta» legata allo Straniero e al suo protagonista Meursault(Meursault: contre-enquête è il titolo originale).
La vicenda dello Straniero è stata conosciuta da molti anche sui banchi di scuola: forse Meursault, abbacinato dal sole, ha visto l’arabo avvicinarsi minaccioso, forse era comparsa la lama di un coltello. Dunque, il delitto. E poi tutto quel che ne segue: il protagonista-assassino (che è anche il narratore) non si difende, anzi il suo comportamento sarà alla base della sua condanna a morte. Era defunta la madre, in un ospizio, e lui non se ne era occupato, anzi era andato con una donna. Tutto gli sembrava assurdo, Meursault si «lascia vivere addosso»: non gli resta che farsi condannare, sperando che tanta gente assista, odiandolo, alla sua esecuzione.
Daoud rifiuta questa impostazione, perché essa non rende giustizia alla vittima: vestendo i panni del fratellino dell’arabo ucciso, l’autore lamenta che nel romanzo di Camus la vittima esca di scena senza neppure aver avuto la dignità di un nome. Poteva essere stato ucciso chiunque altro, ciò che interessa lo scrittore francese è solo il disagio interiore, il rovello metafisico, il mal de vivre del sig. Meursault. Un lusso (il disagio esistenziale) che i poveracci non si possono permettere, dovendosi piuttosto arrabattare per tirare avanti e crescere nei vicoli andando a scuola quando capita.
Sembrerebbe una polemica rivendicativa e dettata dall’identità di un popolo liberatosi dal dominio coloniale, che ora volesse liberarsi anche della cappa culturale impostagli dalla Francia. Ma ci sono anche elementi più sottili. Intanto il romanzo di Daoud è tutto pervaso dai libri di Camus, di cui l’autore dimostra una grande conoscenza. Non solo per alcune frasi che ricalcano Lo straniero (per analogia o per via contraria, quasi parodistica). Se nello Straniero il protagonista tiene un atteggiamento di totale insensibilità nei confronti del suo delitto e della sua vittima, qui è tutta la società che assolve l’assassino-narratore: il suo crimine viene considerato un colpo di coda della guerra anticoloniale.
Ma poi c’è anche lo stile – altra operazione interessante: Daoud non si limita a usare frasi brevi ed essenziali come Camus, il suo tono quasi dimesso e una certa brevità del racconto; in un buon terzo del libro scrive rivolgendosi direttamente a un interlocutore, con stile oratorio e dimostrativo, che riecheggia quello di una successiva, complessa opera di Camus come è La caduta. Chi si addentra a questi livelli nello stile del predecessore non può che averlo ammirato.
Inoltre è centrale e molto evocativa la figura della madre. Camus parlò sempre di sua madre come di un modello (povera, di scarsissima istruzione, ma maestra di umanità); per il giovane protagonista invece la mamma è tutto (è già orfano di padre quando gli viene ucciso il fratello), ma è anche una cappa che gli impedisce di crescere, finché l’incontro con una ragazza alle prese con una tesi di laurea sul delitto non lo farà svincolare dalle sue ali protettive.
Un’opera complessa, dunque, che rimanda inevitabilmente all’opera complessiva di Camus, al suo umanesimo che non fu toccato direttamente dalla grazia della fede, ma che ne fu intrigato. Durante la guerra mondiale, nella Francia occupata, lo scrittore entrò in contatto con il mondo protestante. La morte in un incidente d’auto (assurdo, questo sì), quindici anni dopo, ha impedito questo ulteriore, eventuale sviluppo di una vita e carriera dedicate a promuovere la causa dell’umanità: contro ogni oppressione, contro la povertà, la pena di morte, contro la solitudine, e anche contro l’arroganza umana che pretende di creare autonomamente l’uomo nuovo.
*K. Daoud, Il caso Meursault, Milano, Bompiani, 2015, pp. 130, euro 16,00.
Breve biografia di William Stanley Merwin (1927-2019)-
Poeta statunitense, autore di oltre trenta libri di poesia, traduzioni e prosa. Sostenitore del movimento contro la guerra, si distingueva per lo stile delle sue narrazioni caratterizzate con maestria unica dall’uso del discorso indiretto e assenza di punteggiatura. Vinse il Pulitzer nel 1971 e nel 2009.
Gabriela Mistral: Le poesie più belle della poetessa cilena-
-Premio Nobel per la Letteratura nel 1945-
Prima donna sudamericana a vincere il Premio Nobel, nei suoi versi si fondono idealismo, anticonformismo e femminismo.
MADRE PIU’ DI UNA MADRE
Fa che io sia più madre di una madre nel mio amore e nella difesa del bambino che non è sangue del mio sangue. Aiutami affinché ognuno dei “miei” bambini diventi la poesia migliore. E nel giorno in cui non canteranno più le mie labbra, lascia dentro di lui o di lei, la più melodiosa delle melodie
Canto che amavi
Io canto ciò che tu amavi, vita mia, nel caso ti avvicini e ascolti, vita mia, nel caso ti ricordi del mondo che hai vissuto, nel rosso del tramonto io canto te, ombra mia.
Io non voglio restare più muta, vita mia. Come senza il mio grido fedele puoi trovarmi?
Quale segnale, quale mi svela, vita mia?
Sono la stessa che fu già tua, vita mia. Né infiacchita né smemorata né spersa. Raggiungimi sul fare del buio, vita mia; vieni qui a ricordare un canto, vita mia; se tu questa canzone riconosci a memoria e se il mio nome infine ancora ti ricordi.
Ti aspetto senza limiti né tempo. Tu non temere notte, nebbia o pioggia. Vieni per strade conosciute o ignote. Chiamami dove sei, anima mia, e avanza dritto fino a me, compagno.
Traduzione di Matteo Lefèvre Da Gabriela Mistral, Sillabe di fuoco, a cura di Matteo Lefèvre, con uno scritto di Octavio Paz, Bompiani 2020
Desolazione
La bruma spessa, eterna, affinché dimentichi dove
mi ha gettato il mare nella sua onda di salamoia.
La terra nella quale venni non ha primavera:
ha la sua notte lunga che quale madre mi nasconde.
Il vento fa alla mia casa la sua ronda di singhiozzi
e di urlo, e spezza, come un cristallo, il mio grido.
E nella pianura bianca, di orizzonte infinito,
guardo morire immensi occasi dolorosi.
Chi potrà chiamare colei che sin qui è venuta
se più lontano di lei solo andarono i morti ?
Tanto solo loro contemplano un mare tacito e rigido
crescere tra le sue braccia e le braccia amate!
Le navi le cui vele biancheggiano nel porto
vengono da terre in cui non ci sono quelli che sono miei;
i loro uomini dagli occhi chiari non conoscono i miei fiumi
e recano frutti pallidi, senza la luce dei miei orti.
E l´interrogazione che sale alla mia gola
al vederli passare, mi riscende, vinta:
parlano strane lingue e non la commossa
lingua che in terre d´oro la mia povera madre canta.
Guardo scendere la neve come la polvere nella fossa;
guardo crescere la nebbia come l´agonizzante,
e per non impazzire non conto gli istanti,
perché la notte lunga ora solo comincia.
Guardo il piano estasiato e raccolgo il suo lutto,
perché venni per vedere i paesaggi mortali.
La neve è il sembiante che svela i miei cristalli;
sempre sarà il suo biancore che scende dal cielo!
Sempre essa, silenziosa, come il grande sguardo
di Dio su di me; sempre la sua zagara sopra la mia casa;
sempre, come il destino che non diminuisce ne passa,
scenderà a coprirmi, terribile e estasiata.
La donna forte
Ricordo il tuo viso, fissato nei miei giorni,
donna con gonna azzurra e con fronte abbronzata;
quando nella mia infanzia, in terra mia d’ambrosia,
ti vidi aprire un solco nero in un ardente aprile.
Nella fonda taverna, l’impura coppa alzava,
chi un figlio appiccicò al tuo petto di giglio;
sotto questo ricordo, che t’era bruciatura,
cadeva dalla mano, serena, la semente.
Io ti vidi in gennaio segare il grano al figlio,
e in te, senza capire, trovai quegli occhi fissi,
ugualmente ingranditi da meraviglia e da pianto.
E ancora bacerei il fango dei tuoi piedi,
perché tra cento donne non ho visto il tuo volto,
e l’ombra tua nei solchi,
seguo ancora nel mio canto.
Dammi la mano
Dammi la mano e danzeremo
dammi la mano e mi amerai
come un solo fior saremo
come un solo fiore e niente più.
Lo stesso verso canteremo
con lo stesso passo ballerai.
Come una spiga onduleremo
come una spiga e niente più.
Ti chiami Rosa ed io Speranza
però il tuo nome dimenticherai
perché saremo una danza
sulla collina e niente più.
DAMMI LA MANO
Dammi la mano e danzeremo
Dammi la mano e mi amerai
come un solo fior saremo
come un solo fiore e niente più.
Lo stesso verso canteremo
allo stesso passo danzerai
Come una spiga onduleremo
come una spiga e niente più.
Ti chiami rosa e io speranza
ma il tuo nome dimenticherai
perchè saremo una danza
sulla collina e niente più.
Gocce di fiele
Non cantare: resta sempre attaccato
sulla tua lingua un canto;
quello che doveva essere trasmesso.
Non baciare: resta sempre per una strana maledizione
il bacio che non viene su dal cuore.
Prega: pregare è dolce: però sappi
che la tua lingua avara non giunge
a dire il solo Padre Nostro che ti salvi.
E non chiamare come clemente la morte,
perché nel corpo di bianchezza immensa
resterà un vivo brandello che sente
la pietra che ti soffoca
ed il vorace verme che ti fora.
NINNA NANNA
Il mare le sue mille onde culla divino; odo i mari innamorati mentre cullo il mio piccino. L’errabondo vento, a notte, culla le spighe; odo i venti innamorati mentre cullo il mio piccino. Iddio Padre i mille mondi culla senza un brusio. Sento il gesto suo nell’ombra mentre cullo il bimbo mio.
L’amore che tace
Se ti odiassi, il mio odio ti darei
con le parole, rotondo e sicuro;
ma ti amo e il mio amore non si affida
a questa lingua umana, così oscura!
Tu lo vorresti mutato in un grido,
e vien così dal fondo che ha disfatto
la sua ardente fiumana, sfinito
prima ancora della gola e del petto.
Io sono come uno stagno ricolmo
ed a te sembro una sorgente inerte,
per questo mio silenzio tormentoso
più atroce che entrare nella morte!
Intima
Non stringere le mie mani.
Verrà il tempo infinito
di riposare con molta polvere
ed ombra tra le dita intrecciate.
E tu dirai:
‘Non posso
più amarla; le sue dita
si sgranarono come le spighe’.
La mia bocca non baciare.
Verrà l’istante pieno
di spenta luce, senza labbra
starò sotto un umido suolo.
E tu dirai: ‘L’amai, ma non posso
amarla più, ora che non aspira
l’odore di ginestre del mio bacio’.
E mi rattristerò nell’udirti;
tu parlerai come un cieco ed un pazzo,
perché la mia mano sarà sulla tua fronte
quando le dita si spezzino,
e scenderà sopra il tuo volto
pieno d’ansia, il mio respiro.
Non mi toccare dunque. Mentirei
nel dirti che ti dono
il mio amore nelle braccia mie protese,
nella mia bocca, nel mio collo,
e tu, credendo d’averlo esaurito
ti sbaglieresti come un bambino ingenuo.
Perché il mio amore non è solo questo
stanco e restio covone del mio corpo,
che trema tutto offeso dal cilicio
e in ogni volo mi resta indietro.
È ciò che sta nel bacio e non nel labbro,
ciò che spezza la voce e non il petto:
ma è un vento di Dio, che passa lacerando
nel suo volo, la polpa delle carni.
AMO LE COSE CHE NON EBBI MAI
Amo le cose che mai non ebbi,
insieme alle altre che non ho più:
tocco un’acqua silenziosa,
distesa su freddi prati,
che senza vento rabbrividiva
in un orto che era il mio orto.
La guardo come la guardavo;
mi viene uno strano pensiero
e lenta gioco con quest’acqua
come con pesce o mistero.
Paradiso
Distesa lamina d’oro
e nell’adagiarsi dorato
due corpi come gomitoli d’oro;
un corpo glorioso che
ascolta e un corpo
glorioso che parla nel
prato in cui nulla parla;
un respiro che va al respiro e
un volto che trema d’esso, in un prato in cui nulla trema.
Ricordarsi del triste tempo in
cui entrambi avevano
Tempo e da esso vivevano
afflitti,
nell’ora del chiodo d’oro
in cui il Tempo restò alla
soglia
come i cani vagabondi…
-Biografia di Gabriela Mistral-
Lucila de María del Perpetuo Socorro Godoy Alcayaga, passata alla storia con il nome d’arte di Gabriela Mistral, nasce il 7 aprile 1889 a Vicuna, Cile del nord. La sua vita si rivela piena di complicazioni fin dall’infanzia: il padre Jeronimo Godoy Alcayaga Villanueva abbandona lei, la madre Petronila e la sorella Emelina quando Lucila ha appena 3 anni. Si trova quindi fin da subito a dover combattere una condizione di estrema povertà ma ciò nonostante, le difficoltà che deve affrontare nel quotidiano sembrano non riuscire ad affievolire la sua predisposizione per lo studio, per la letteratura e per la scrittura. I suoi testi sono avanguardisti, Lucila si schiera per l’istruzione gratis e la parità dei diritti, posizioni moderne che qualche anno più tardi le costeranno il rifiuto della sua domanda d’ammissione alla Scuola Normale per insegnanti. I suoi articoli, pubblicati da un quotidiano locale El Coquimbo de la Serena vengono infatti giudicati troppo sovversivi.
Il primo riconoscimento per l’arte poetica
Ma Lucila non si arrende e non abbandona né la vocazione di scrittrice né quella per l’insegnamento. Grazie all’aiuto della sorella Emelina, già maestra, riesce ad ottenere un posto come docente in alcuni istituti minori. È in questi anni che conosce un impiegato delle ferrovie, Romeo Ureta Carvajal, con cui dà vita a una relazione tormentata e controversa. Il suicidio dell’amato sarà al centro di un’opera, Sonetos de la Muerte, che le varrà il primo premio in una competizione letteraria nazionale svoltasi a Santiago nel dicembre del 1904. Lucila ora è Gabriela Mistral, una poetessa destinata al successo. Lo testimonia anche il suo nome d’arte del resto, un omaggio a due figure letterarie molto amate, il Vate Gabriele D’Annunzio e Frederic Mistral, poeta, quest’ultimo, insignito del Premio Nobel per la Letteratura nel 1904.
Gabriela Mistral è stata la prima donna sudamericana a ricevere un premio Nobel ed è anche una delle poche (tredici donne totali) che fino ad ora hanno avuto questo onore (contro i 101 vincitori uomini). Ma sarebbe forse potuto essere differente, del resto, il destino di una scrittrice che con il suo nome d’arte omaggia due tra i più grandi poeti della storia? Probabilmente no. Gabriela Mistral è passata alla storia senza dubbio per la sua eccelsa arte poetica ma soprattutto in quanto intellettuale idealista, appassionata, impegnata, sincera e soprattutto avanguardista.
Finalmente il Nobel
Il 10 dicembre 1945 l’arte poetica di Gabirela Mistral le vale il Premio Nobel per la Letteratura, la sua vittoria è accompagnata da queste parole di motivazione: “La sua opera lirica che, ispirata da potenti emozioni, ha reso il suo nome un simbolo delle aspirazioni idealiste di tutto il mondo latino americano”.
Gli ultimi anni (anticonformisti)
Anche negli ultimi anni della sua vita Gabirela Mistral ha fatto scalpore e si è dimostrata come sempre anticipatrice dei tempi futuri, in particolare a dare adito a critiche e pettegolezzi in questo caso fu la sua relazione con una donna, Doris Dana, non vista di buon occhio. È il 10 gennaio 1957 quando la poetessa si spegne all’età di 67 anni a Long Island, sconfitta da un cancro al pancreas. La sua eredità più grande sopravvive nelle sue meravigliose poesie. Femministe, appassionate, intrise di amore per i suoi affetti più cari, la sua terra, le figure chiave della sua vita. Ma anche segnate dal dolore, dagli ideali disillusi e a volte anche da una certa spiritualità.
Si nasce soli e soli anche si muore.
Si dorme soli in letti condivisi.
Soli si mangia pane di poesia.
Soli con noi ci si trova stranieri.
Soli a sognare graviti lo spazio,
soli a sentire l’io di carne e sangue,
soli a voler trattenere l’istante,
a passare senza voler passare.
(da L’aloe, 1983)
Come dirlo semplicemente
Come dirlo semplicemente
sui miliardi di istanti della nostra vita
quasi tutti sono bolle
che scoppiano subito
Altri – ben pochi – durano per sempre
presi nel fiume che ci porta
sono già l’eternità
Gli istanti in cui
ci si può sentire vicini
agli alberi, agli uccelli
e agli uomini, talvolta
Gli istanti meravigliosi
in cui si crede di essere in sintonia
con l’universo intero
e – forse – con Dio
(da Gli ultimi fuochi sulla terra, 2014)
Per vivere
Per vivere, bisogna piantare un albero fare un figlio, costruire una casa. Io ho soltanto guardato l’acqua che passa dicendo che tutto scorre. Io ho soltanto cercato il fuoco che brucia dicendo che tutto si consuma. Io ho soltanto seguito il vento che fugge dicendo che tutto si disperde. Io non ho seminato nulla nella terra che riposa e ci dice: ti aspetto.
Liliane Wouters – due poesie Traduzione di Gabriele Belletti
1.
Pas rien, pas rien, le petit vent de l’aube,
le petit rose du petit matin,
changé en pourpre, en noir, en nuit de taupe.
Je suis la taupe et le ciel est lointain.
Pas rien, pas rien, les flaques sur la plage,
la dune blonde et la blonde clarté,
la mer sans fin et les vagues sans âge.
Nous n’y aurons dansé qu’un seul été.
Pas rien, pas rien, même si l’on décompte
les vaches maigres, les années de chien.
J’aurai vécu tel jour, telle seconde.
C’était trop peu, mais ce ne fut pas rien.
*
Quale nulla, quale nulla, il venticello dell’alba,
l’incerto rosa di primo mattino,
mutato in porpora, in nero, in notte di talpa.
Io sono la talpa e il cielo mai è vicino.
Quale nulla, quale nulla, le pozze sulla spiaggia,
la duna bionda e la bionda visione,
il mare senza fine dall’onda fatta saggia.
Lì la nostra danza di un’unica stagione.
Quale nulla, quale nulla, anche se nascondo
le vacche magre, gli anni da cani.
Avrò vissuto quel giorno, quel secondo.
Sempre pochi furono, ma mai furono vani.
[da L’Aloès, “L’Aloe”, Paris, Luneau-Ascot,1983]
2.
Le bois sec
Brûler Je songe à ma cendre
quand m’appellent des forêts
Ô feux Mais à leur voix tendre
répond votre chant secret
Je suis né pour cette fête
barbare ces rites purs
ce mortel assaut de bêtes
contre le défi des murs
J’aime la gloire soudaine
des flammes j’aime le bref
sursaut de passion de haine
du feu saluant son chef
Brûler Mon sang me calcine
Pas un coin de chair ombreux
Et si pourtant mes racines
trouvaient un sol généreux
un peu d’eau de sel Le sable
d’où je sors verrait des fruits
Non De cette paix durable
la fin seule me séduit
Je ne porte ni lumière
ni chaleur en mon corps mais
ce n’est qu’au centre des pierres
qu’on trouve un feu qui dormait
Verdoyez branches dociles
aux commandements des dieux
Je montre mon bois fossile
C’est lui qui flambe le mieux.
*
Il bosco secco
Bruciare Penso alla mia cenere
quando mi chiamano dei boschi
O fuochi Ma alle loro voci tenere
rispondono i vostri canti foschi
Io sono nato per questa festa
barbara questi riti puri
questo mortale assalto di bestia
contro la sfida dei muri
Amo la gloria immediata
delle fiamme amo il lesto
sussulto di passion crociata
del fuoco in onor del suo maestro
Bruciare Il mio sangue mi ustiona
Nessun angolo di carne ombroso
E se nonostante ciò il mio rizoma
trovasse un terreno generoso
un po’ d’acqua di sale La rena
da cui esco vedrebbe frutto
No Di questa pace cantilena
io voglio portare il lutto
Io non porto né lucentezza
né calore nel mio corpo tuttavia
è solo al centro della pietra grezza
che si trova un fuoco in prigionia
Verdeggiate rami docili
ai comandamenti degli dei
Io mostro il mio bosco fossile
Lui brucia come io vorrei.
Carteggi Letterari -[da Le Bois sec, “Il Bosco secco”, Paris, Gallimard, 1960]
Biografia di Liliane Wouters (1)-(Ixelles, 1930 – 2016).Poetessa, drammaturga, antologista e traduttrice belga (soprattutto di testi fiamminghi), membro dell’Académie de langue et littérature françaises de Belgique. La sua carriera poetica inizia grazie a Roger Bodart, al quale invia il manoscritto de La Marche forcée, che diventerà la sua prima raccolta di poesie (Éd. des Artistes, Georges Houyoux, 1956). A questa seguiranno, tra le altre, Le Bois sec (Gallimard, 1960), Le Gel (Pierre Seghers, 1966), L’Aloès (Luneau-Ascot, 1983) e l’ultima Trois visage de l’écrit (Espace Nord, 2016). La sua opera teatrale più conosciuta, La salle des profs, è una riflessione arguta e al contempo tenera sul mestiere dell’insegnante, mestiere esercitato dalla Wouters per oltre trent’anni. Grande rilevanza rivestono, inoltre, le antologie da lei curate di poesia belga, sia di lingua francese (con Alain Bosquet e Yves Namur) sia di lingua fiamminga. Tra i tanti riconoscimenti ricevuti, ricordiamo il premio Goncourt de la poésie (2000).
Torna a abitarmi la paura
nell’isola che mai il vento doma.
Sono quel vento…
nuvola di turbamento.
Tra orme e ombre – segno degli dei –
la tela si sfilaccia a larghe trame
d’antiche lontananze…
S’illivida il pensiero come piuma
che si fa barca in mare. Vibra
in silenzio e lentamente spare.
Mi insegue ovunque la mia terra
e punge d’ingombro un sentimento
nei boschi e nei declivi di olivi
dai contorti fili. Come in un sacro
tempio sembra che all’acqua si leghi
il cielo. E di bellezza m’assale
uno sgomento.
(poesia inedita)
Il giorno resta vuoto come appeso
al fragile sentiero del pensiero.
Il mondo s’è fermato su una foglia
vaga di sogni stinta è la corolla.
Altro non chiedi del viaggio amaro
che rimembrare la melodia di ieri.
Non i sorrisi mancano ma gli anni
a spalancare impensabili segreti.
Nel dubbio che ogni cosa senza forma
sia guscio morto di bellezza.
(poesia inedita)
In un viavai di indugi e di pensieri
liane oscillano della memoria.
in ombra taciturne si passano
parola e filigrane intessono
a una canzone nuova.
Quale filo t’incatena nella valle
oscura? Eri farfalla d’oro.
Brucavi l’erbe in orizzonti estremi-.
Io non ricordo questo vuoto appeso
non ricordo turbamento e peso.
in angoli smarriti
la vita trema come rena sparsa.
Indecisione estrema come seme
d’erba in un cristallo di neve.
Da “Un asciugar di tempo” (Noubs 2014)
Più nessuna fronda fa garrula
corona alla stagione delle ombre.
La levità del tempo ci attraversa
la muta cognizione del dolore.
Mentre sentiamo scorrere le ore
lampi vediamo aprirsi di momenti
come se per miracolo la forma
intonasse di luce un ritornello.
E un mondo s’aprisse di bellezza.
(poesia inedita)
Incautamente sulla tua via
in lembi battuti dal vento
dove cactus non nudi del tempo
fioriscono nere scintille,
non lascerò che tu varchi la porta
per inseguire di Alentejo
la scia. Via me n’andrò
tra crocchi di lappole amare
dove l’alba promessa m’attende.
(poesia inedita)
Mi dici “bello il tuo costume
con la fascia colorata”
e io “solo quando soffia il vento”.
Due monadi silenti
– un grillo e una farfalla bianca –
l’una ferma sul lettino
l’altra in volo frettoloso verso l’oltre.
Felice di ritrovare il mare
dell’infanzia – un raggio d’aria
in piccola barca su lunghe onde
nella nebbia della fine.
(poesia inedita)
Nessun cielo di smalto sull’arida
sponda. La luna tremula sull’onda.
Sento frusciare anemoni di mare
nell’alveo verdeazzurro di memorie.
Vorrei snodare il grembiule
alle maree – scrutare l’abisso
dentro un bisso ma l’onda come il tempo
resta viandante perso sulla riva.
Care sembianze d’acque chiare
delle dolci primavere
Sognare rive labili di mondo
discendere dall’ugola del tempo
su varchi di cielo senza luce.
Babelico squilibrio di memorie.
Fuori dal tempo perdersi sognare
da finte ombre e da pensieri umani.
La luce li attraversa li fa vani
come dissolti nodi di esistenza.
Da “Un asciugar di tempo” (Noubs 2014)
L’alba nascente
s’è lasciata cullare
aprendo gli occhi
ai colori del mondo.
Arcobaleno raro.
*
Giochi di luce
sopra i tetti innevati,
arcobaleni.
Un pesante fardello
colorato di luce.
*
Pesa la terra –
ghirigoro di ghiaccio –
fascino arcano
d’armoniosa bellezza
di mutevoli forme.
*
Oh le violette
germogliate anzi tempo
sotto la neve.
Come luci nell’ombra
d’una muta stagione.
*
Osservo andare
sonnolenta la luna.
Fiore di luce
nel viaggio incantato
sotto lampi di neve.
Questo sito usa i cookie per migliorare la tua esperienza. Chiudendo questo banner o comunque proseguendo la navigazione nel sito acconsenti all'uso dei cookie. Accetto/AcceptCookie Policy
This website uses cookies to improve your experience. We'll assume you're ok with this, but you can opt-out if you wish.Accetto/AcceptCookie Policy
Privacy & Cookies Policy
Privacy Overview
This website uses cookies to improve your experience while you navigate through the website. Out of these, the cookies that are categorized as necessary are stored on your browser as they are essential for the working of basic functionalities of the website. We also use third-party cookies that help us analyze and understand how you use this website. These cookies will be stored in your browser only with your consent. You also have the option to opt-out of these cookies. But opting out of some of these cookies may affect your browsing experience.
Necessary cookies are absolutely essential for the website to function properly. This category only includes cookies that ensures basic functionalities and security features of the website. These cookies do not store any personal information.
Any cookies that may not be particularly necessary for the website to function and is used specifically to collect user personal data via analytics, ads, other embedded contents are termed as non-necessary cookies. It is mandatory to procure user consent prior to running these cookies on your website.