Albert Camus-(1913-1960) nacque in Algeria, dove studiò e cominciò a lavorare come attore e giornalista. Affermatosi nel 1942 con il romanzo Lo straniero e con il saggio Il mito di Sisifo, raggiunse un vasto riconoscimento di pubblico con La peste (1947). Nel 1957 ricevette il premio Nobel per la letteratura per aver saputo esprimere come scrittore “i problemi che oggi si impongono alla coscienza umana”. Di questo autore, oltre ai titoli già citati, Bompiani ha pubblicato L’uomo in rivolta, L’esilio e il regno, La caduta, Il diritto e il rovescio, Taccuini 1935-1959, Caligola, Tutto il teatro, Il primo uomo, L’estate e altri saggi solari, Riflessioni sulla pena di morte, I demoni, Questa lotta vi riguarda. Corrispondenze per Combat 1944-1947, Conferenze e discorsi (1937-1958), Saremo leggeri. Corrispondenza (1944-1959). Nei Classici Bompiani è disponibile il volume Opere. Romanzi, racconti, saggi.
Quelli che si amano,
gli amici, gli amanti,
sanno che l’amore
non è solo una folgorazione
ma anche una lunga e dolorosa
lotta nelle tenebre
per la riconoscenza
e la riconciliazione definitiva.
Mia cara,
nel bel mezzo dell’odio
ho scoperto che vi era in me
un invincibile amore.
Nel bel mezzo delle lacrime
ho scoperto che vi era in me
un invincibile sorriso.
Nel bel mezzo del caos
ho scoperto che vi era in me
un’ invincibile tranquillità.
Ho compreso, infine,
che nel bel mezzo dell’inverno,
ho scoperto che vi era in me
un’invincibile estate.
E che ciò mi rende felice.
Perché afferma che non importa
quanto duramente il mondo
vada contro di me,
in me c’è qualcosa di più forte,
qualcosa di migliore
che mi spinge subito indietro.
“La Solitudine nell’Anima: Profondità e Riflessioni di Albert Camus”. Recensione a cura di Alessandria today
Il titolo stesso, semplice e diretto, introduce il tema centrale del testo, la solitudine, ma subito si pone in discussione. L’autore sostiene che non siamo mai davvero soli, portando con noi il peso del passato e del futuro, un carico composto dalle persone che abbiamo amato e da quelle che abbiamo ferito.
Camus dipinge un ritratto vivido della solitudine come un peso costante, una presenza inquietante di fantasmi e rimpianti che ci tormentano incessantemente. L’autore espone un contrasto significativo tra la solitudine desiderata, caratterizzata da un silenzio sereno e la solitudine reale, abitata dai fantasmi del passato.
La poesia è intrisa di emozioni forti e contrastanti: il rimpianto, il desiderio, il disincanto e la dolcezza, il tutto racchiuso in una solitudine inquieta e affollata da fantasmi. L’immagine della solitudine desiderata, fatta di silenzio e tremori d’alberi, rappresenta un desiderio di pace interiore, una sorta di ricerca di comprensione e tranquillità nel cuore dell’essere.
L’uso delle immagini e delle metafore, come il chiasso, i lamenti perduti e il flusso del cuore, contribuisce a creare un’atmosfera di malinconia e riflessione profonda. La poesia invita il lettore a contemplare la complessità dell’anima umana, affrontando le contraddizioni e i tormenti della solitudine.
In conclusione, “La solitudine” di Albert Camus è una poesia che offre un’immersione profonda nell’animo umano, attraverso un’esplorazione intensa e ricca di emozioni contrastanti. Camus offre uno sguardo penetrante sulla solitudine, dipingendola come un carico emotivo costante, una presenza travolgente e inquietante che pervade l’essenza umana.
La solitudine – Albert Camus
La solitudine?
Quale solitudine?
Ma lo sai che non si è mai soli?
E che comunque ci portiamo addosso il peso del nostro passato
anche quello del nostro futuro.
Tutti quelli che abbiamo ucciso sono sempre con noi.
E fossero solo loro, poco male.
Ma ci sono anche quelli che abbiamo amato e che ci hanno amato.
Il rimpianto, il desiderio
il disincanto e la dolcezza
le donne di strada, la banda degli dei.
La solitudine risuona di denti che stridono,
chiasso, lamenti perduti.
Se soltanto potessi godere la vera solitudine
non questa mia infestata di fantasmi
ma quella vera
fatta di silenzio e tremori d’alberi:
sentire tutta l’ebbrezza del flusso del mio cuore.
Arsenij Tarkovskij-Poeta russo (Elizavetgrad 1907 – Mosca 1989). Nelle sue liriche (Pered snegom “Dinanzi alla neve”, 1962; Vestnik “Il messaggero”, 1969; Stichotvorenija “Versi”, 1974; Volšebnye gory “Montagne magiche”, 1978; Zimnij den´ “Un giorno d’inverno”, 1980) unì nobiltà e modernità di ispirazione a classicità di forme. Fu anche apprezzato traduttore da varie letterature orientali.
Tre poesie di Arsenij TARKOVSKIJ, Poeta russo.
Le poesie di Arsenij TARKOVSKIJ sono un dono inaspettato e prezioso al lettore contemporaneo. Questi versi, che hanno atteso a lungo per venire alla luce , colpiscono per rare qualità, la più sorprendente delle quali è che da noi quotidianamente pronunciate si rivestono chissà come di un mistero e suscitano echi inaspettati nel cuore .
Arsenij TARKOVSKIJ Poeta russo
Anna Achmatova , dalla recensione a “Prima della neve” 1962- La prima edizione italiana fu del 1992 con la traduzione di Paola Pedicone- EdizioniTracce di Pescara- Testo cirillico digitato da Novojilov Dmitrij- pubblicazione con il contributo del Ministero Università e Ricerca Scientifica e Tecnologica-Università G.D’Annunzio-Chieti-Edizione curata da Tatjana Tarkovskaja-
Arsenij TarkovskijArsenij TARKOVSKIJ Poeta russoArsenij TARKOVSKIJ Poeta russo
Arsenij Tarkovskij-Poeta russo (Elizavetgrad 1907 – Mosca 1989). Nelle sue liriche (Pered snegom “Dinanzi alla neve”, 1962; Vestnik “Il messaggero”, 1969; Stichotvorenija “Versi”, 1974; Volšebnye gory “Montagne magiche”, 1978; Zimnij den´ “Un giorno d’inverno”, 1980) unì nobiltà e modernità di ispirazione a classicità di forme. Fu anche apprezzato traduttore da varie letterature orientali.
Arsenij Tarkovskij
Primi Incontri
Ogni istante dei nostri incontri
lo festeggiavamo come un’epifania,
soli a questo mondo. Tu eri
più ardita e lieve di un’ala di uccello,
scendevi come una vertigine
saltando gli scalini, e mi conducevi
oltre l’umido lillà nei tuoi possedimenti
al di là dello specchio.
Quando giunse la notte mi fu fatta
la grazia, le porte dell’iconostasi
furono aperte, e nell’oscurità in cui luceva
e lenta si chinava la nudità
nel destarmi: “Tu sia benedetta”,
dissi, conscio di quanto irriverente fosse
la mia benedizione: tu dormivi,
e il lillà si tendeva dal tavolo
a sfiorarti con l’azzurro della galassia le palpebre,
e sfiorate dall’azzurro le palpebre
stavano quiete, e la mano era calda.
Nel cristallo pulsavano i fiumi,
fumigavano i monti, rilucevano i mari,
mentre assopita sul trono
tenevi in mano la sfera di cristallo,
e ” Dio mio! ” tu eri mia.
Ti destasti e cangiasti
il vocabolario quotidiano degli umani,
e i discorsi s’empirono veramente
di senso, e la parola tua svelò
il proprio nuovo significato: zar.
Alla luce tutto si trasfigurò, perfino
gli oggetti più semplici – il catino, la brocca – quando,
come a guardia, stava tra noi
l’acqua ghiacciata, a strati.
Fummo condotti chissà dove.
Si aprivano al nostro sguardo, come miraggi,
città sorte per incantesimo,
la menta si stendeva da sé sotto i piedi,
e gli uccelli c’erano compagni di strada,
e i pesci risalivano il fiume,
e il cielo si schiudeva al nostro sguardo”
Quando il destino ci seguiva passo a passo,
come un pazzo con il rasoio in mano.
(Pervye svidanija, in A. A. Tarkovskij, Poesie scelte , Milano 1989)
First meetings
We celebrated every moment
Of our meetings as epiphanies,
Just we two in all the world.
Bolder, lighter than a bird’s wing,
You hurtled like vertigo
Down the stairs, leading
Through moist lilac to your realm
Beyond the mirror.
When night fell, grace was given me,
The sanctuary gates were opened,
Shining in the darkness
Nakedness bowed slowly;
Waking up, I said:
‘God bless you!’, knowing it
To be daring: you slept,
The lilac leaned towards you from the table
To touch your eyelids with its universal blue,
Those eyelids brushed with blue
Were peaceful, and your hand was warm.
And in the crystal I saw pulsing rivers,
Smoke-wreathed hills, and glimmering seas;
Holding in your palm that crystal sphere,
You slumbered on the throne,
And – God be praised! – you belonged to me.
Awaking, you transformed
The humdrum dictionary of humans
Till speech was full and running over
With resounding strength, and the word you
Revealed its new meaning: it meant king.
Everything in the world was different,
Even the simplest things – the jug, the basin –
When stratified and solid water
Stood between us, like a guard.
We were led to who knows where.
Before us opened up, in mirage,
Towns constructed out of wonder,
Mint leaves spread themselves beneath our feet,
Birds came on the journey with us,
Fish leapt in greeting from the river,
And the sky unfurled above…
While behind us all the time went fate,
A madman brandishing a razor.
Arsenij Tarkovskij
E’ fuggita l’estate…
E’ fuggita l’estate,
più nulla rimane.
Si sta bene al sole.
Eppur questo non basta.
Quel che poteva essere
una foglia dalle cinque punte
mi si è posata sulla mano.
Eppur questo non basta.
Nè il bene nè il male
sono passati invano,
tutto era chiaro e luminoso.
Eppur questo non basta.
La vita mi prendeva,
sotto l’ala mi proteggeva,
mi salvava, ero davvero fortunato.
Eppur questo non basta.
Non sono bruciate le foglie,
non si sono spezzati i rami…
Il giorno è terso come cristallo.
Eppur questo non basta.
Now summer has passed
Now summer has passed,
As if it had never been.
It is warm in the sun.
But this isn’t enough.
All that might have been,
Like a five-cornered leaf
Fell right into my hands,
But this isn’t enough.
Neither evil nor good
Had vanished in vain,
It all burnt with white light,
But this isn’t enough.
Life took me under its wing,
Preserved and protected,
Indeed I have been lucky.
But this isn’t enough.
Not a leaf had been scorched,
Not a branch broken off…
The day wiped clean as clear glass,
But this isn’t enough.
E lo sognavo, e lo sogno
E lo sognavo, e lo sogno,
e lo sognerò ancora, una volta o l’altra,
e tutto si ripeterà, e tutto si realizzerà,
e sognerete tutto ciò che mi apparve in sogno.
Là, in disparte da noi, in disparte dal mondo
un’onda dietro l’altra si frange sulla riva,
e sull’onda la stella, e l’uomo, e l’uccello,
e il reale, e i sogni, e la morte: un’onda dietro l’altra.
Non mi occorrono le date: io ero, e sono e sarò.
La vita è la meraviglia delle meraviglie,
e sulle ginocchia della meraviglia
solo, come orfano, pongo me stesso
solo, fra gli specchi, nella rete dei riflessi
di mari e città risplendenti tra il fumo.
E la madre in lacrime si pone il bimbo sulle ginocchia
I dreamed this dream and I still dream of it
I dreamed this dream and I still dream of it
and I will dream of it sometime again.
Everything repeats itself and everything will be reincarnated,
and my dreams will be your dreams.
There, to one side of us, to one side of the world
wave after wave breaks on the shore:
there’s a star on the wave, and a man, and a bird,
reality and dreams and death – wave after wave.
Dates are irrelevant. I was, I am, I will be.
Life is a miracle of miracles, and I kneel
before the miracle alone like an orphan,
alone in the mirrors, enclosed in reflections,
seas and towns, shining brightly through the smoke.
A mother cries and takes her baby on her knee.
Arsenij Tarkovskij
Arsenij Tarkovskij nasce nel 1907 a Elizavetgrad, oggi Kirovograd, in Ucraina. È all’ambiente familiare che Arsenij deve l’amore per la letteratura e le lingue – il padre è poliglotta e autore di racconti e saggi – come anche la conoscenza del pensiero di Grigorij Skovoroda. Nella seconda metà degli anni Venti frequenta i Corsi Superiori Statali di Letteratura e scrive corsivi su «Il fischio», rivista dei ferrovieri, a cui collaborano anche Bulgakov, Olesa, Kataev, Il’f e Petrov. Tra il ’29 e il ’30 inizia a scrivere poesie e drammi in versi per la radio sovietica, ma nel ’32, accusato di misticismo, è costretto ad interrompere la sua collaborazione. Nello stesso anno nasce il figlio Andrej. Inizia a tradurre poesie dal turkmeno, ebraico, arabo, georgiano, armeno. Nel dicembre ’43, dopo essere stato insignito dell’Ordine della Stella Rossa per il suo eroismo in guerra, è ferito gravemente e gli viene amputata una gamba. Nel ’46 viene rifiutata l’edizione del suo primo libro in quanto i suoi versi vengono ritenuti ‘nocivi e pericolosi’. Solo nel ’62 esce il primo volume di poesie:Neve imminente, cui seguiranno nel ’66 Alla terra ciò che è terreno, nel ’69 Il messaggero, nel ’74 Poesie, nel ’78Le montagne incantate, nel 1980 Giornata d’inverno, nel 1982 Opere scelte. Poesie. Poemi. Traduzioni. (1929-1979), nel 1983 Poesie di vari anni. Nel 1986 muore in Francia il figlio Andrej. Nel 1987 esce Dalla giovinezza alla vecchiaia, titolo deciso dalla casa editrice contro il volere dell’autore, e Essere se stesso. Muore a Mosca il 27 maggio ’89.
Le sue opere pubblicate finora in Italia in volume sono: Poesie scelte, Milano, Scheiwiller, ’89. Poesie e racconti, Pescara, Edizioni Tracce, ’91. Poesie scelte, Roma, Edizioni Scettro del Re, ’92. Costantinopoli. Prose varie. Lettere, Milano, Scheiwiller, ’93.
MILANO (ITALPRESS) – Descrizione del libro di Roberto Fiorentini –“I dimenticati”- Nel Maggio 1940. Ai circa 25 mila italiani residenti in Libia, tra Tripoli, Bengasi e la Cirenaica, è notificata una circolare delle autorità locali. Invita le famiglie, con figli dai 5 ai 10 anni, a inviarli in Italia dove sarebbero stati accolti, per tutto il periodo estivo, nelle colonie marine costruite del Regime Fascista. Il 3 giugno 3000 bambini, partono così dal porto di Tripoli, a bordo della nave ‘Augustus’ Il giorno successivo per il porto di Napoli. Trasferiti nelle colonie del regime chi sul mar Adriatico, chi sulla riviera ligure di Ponente, chi in zone montane. Non torneranno mai più nelle loro famiglie.
Racconta tutta questa incredibile odissea il nuovo libro del giornalista Roberto Fiorentini dal titolo ‘I dimenticatì (Ronca Editore). Lo fa con la voce di una delle sopravvissute: Silvia Napoletano, ora 92enne e che vive nel piacentino. Una storia oscura e drammatica del regime fascista quasi mai raccontata e rimasta solo nella memoria personale dei pochi sopravvissuti.
La narrazione parte proprio dalle terre libiche e da quel terribile viaggio in nave dove 3000 bambini erano stati ammassati ‘come pecorè (così racconta Silvia) per raggiungere il porto di Napoli, sempre controllati dalle ‘educatricì e dalle ‘camice nerè. La voce della protagonista narra la sua odissea. Prima nelle colonie estive della Romagna; poi in quelle in collina sull’appennino tosco romagnolo. Vita da caserma per quei bimbi e quelle bimbe.
“Alla caduta del regime la vita diventa un vero inferno”, racconta Silvia. Cibo finito. Vestiti spariti. Scarpe inesistenti. Notti da brividi e da paura in mezzo alle sparatorie tra i partigiani, uomini allo sbando del fascismo e truppe tedesche in ritirata. A pranzo e a cena solo l’erba che, di giorno, quelle bambine raccoglievano nei campi a combattimenti sospesi.
Fiorentini traccia anche una vera mappa di questi luoghi soprattutto nell’Italia del Nord che dovevano essere di villeggiatura ma che, con il passare del tempo, si sono trasformati in grandi carceri da cui non potere più uscire. Ricostruisce l’indottrinamento a cui erano sottoposti. Lettere, canzoni, disegni : tutto era utile per far celebrare ai bimbi le ‘progressive sortì del regime.
Un viaggio nell’orrore troppo velocemente dimenticato dalla memoria collettiva del Paese. “Ho voluto dar voce a questi bambini – dice Fiorentini – perchè i bimbi, ieri come oggi, sono le principali vittime di ogni conflitto bellico. I più indifesi. I più deboli. E per questo i più ‘Dimenticatì”.
– Foto: Fiorentini –
(ITALPRESS).
Descrizione del libro di Ilse Aichinger- La speranza più grande-Sullo sfondo di una città in guerra Ellen, una ragazzina per metà ebrea, fa amicizia con un gruppo di coetanei «con i nonni sbagliati». Tra giochi, paure, sogni, desiderio di fuga e addii, Ellen e i suoi compagni fanno esperienza della crudele realtà della persecuzione razziale e della minaccia costante della deportazione e della morte, affrontando un mondo assurdo e incomprensibile. La speranza iniziale di una fuga possibile, al di là dell’oceano, sembra destinata a svanire entro gli angusti e invalicabili confini della città assediata, ma si trasforma in una speranza più grande – forse meno terrena della prima, ma non per questo meno tangibile – che dischiude la possibilità di raggiungere la terra promessa, «dove tutto diventa azzurro». Un viaggio in dieci stazioni nelle pieghe profonde dell’esistenza e di una Vienna ferita, raccontato dalla voce corale dei perseguitati, sul crinale di una quotidianità che sconfina nella dimensione del sogno. Il romanzo di Ilse Aichinger è un coraggioso atto di resistenza al nulla esistenziale, un gesto di interrogazione del mondo e della lingua volto a restituire alla realtà devastata dalla guerra un senso nuovo, e a indicare, come fa la stella di David con Ellen, una strada da seguire.
Ilse Aichinger
L’autore-Ilse Aichinger
Ilse Aichinger è nata a Vienna il 1° novembre 1921 da un’insegnante austriaca e da un medico di origine ebraica. Trascorre gli anni della Seconda guerra mondiale a Vienna insieme alla madre, mentre la sorella gemella, la pittrice Helga Michie (1921-2018), riesce a emigrare in Inghilterra. Nel 1942 gran parte della famiglia materna viene deportata e uccisa nel campo di sterminio di Malyj Trostenec. Uscito nel 1948, La speranza più grande è il primo e unico romanzo di Ilse Aichinger. Autrice di numerosi racconti, radiodrammi, poesie, aforismi e diari, Aichinger partecipa agli incontri del Gruppo 47, vincendo il premio nel 1952 con il racconto Spiegelgeschichte (Storia allo specchio). Nel 1953 sposa il poeta e drammaturgo tedesco Günter Eich. Insignita di molti e prestigiosi premi, nel 1995 riceve il Großer Österreichischer Staatspreis, premio di Stato austriaco per la letteratura. Muore a Vienna l’11 novembre 2016
Ilse Aichinger-La speranza più grande
Traduzione di Ervino Pocar A cura di Matteo Iacovella
Breve biografia di Roberto Juarroz nasce nella Provincia de Buenos Aires, il 5 ottobre del 1925 e muore il 31 di Marzo del 1995. Laureato in Lettere e Filosofia all’ Università di Buenos Aires, ricevette dalla stessa istituzione una borsa di studio che gli offrì l’opportunità di perfezionare i suoi studi alla Sorbona. Da questa prestigiosa università ottenne successivamente l’incarico di professore titolare. Dal 1958 al 1965 fu direttore della rivista Poesía;. Fu critico del giornale La Gaceta (Tucumán, 1958-63), critico cinematografico della rivista Esto e traduttore di vari libri. Ricevette, tra tante distinzioni, il Gran Premio d’Onore della Fondazione Argentina per la Poesia (1984) e il Premio Esteban Echeverría.
Poesia Verticale
Un giorno troverò una parola
che penetri il tuo corpo e ti fecondi,
che si posi sul tuo seno
come una mano aperta e chiusa al tempo stesso.
Penso che in questo momento
Penso che in questo momento
forse nessuno pensa a me nell’universo,
che solo io mi penso,
e se morissi ora,
nessuno, neppure io, mi penserebbe.
E qui inizia l’abisso,
come quando mi addormento.
Sono il mio sostegno e me lo tolgo.
Contribuisco a rivestire tutto di assenza.
Sarà per questo
che pensare ad un uomo
assomiglia a salvarlo.
L’estremo di un segno
Si deve cadere e non si può scegliere dove
Ma c’è una forma del vento nei capelli,
una pausa del colpo,
un certo angolo del braccio
che possiamo piegare mentre cadiamo
È soltanto l’estremo di un segno,
la punta impreveduta di un pensiero
Ma basta ad evitare il fondo avaro di alcune mani
e la miseria azzurra di un Dio deserto
Si tratta di piegare un po’ di più una virgola
in un testo che non possiamo correggere.
Dimenticare
Talvolta dimentico l’amore,
come dimentico la mia mano
Solo loro possono prendere il mondo
e mettermelo davanti
perché possa toccarlo,
ma non mi ricordano il suo compito.
Cercare una cosa
Cercare una cosa
è sempre incontrarne un’altra.
Così, per trovare qualcosa,
bisogna cercare quello che non è.
Cercare l’uccello per incontrare la rosa,
cercare l’amore per trovare l’esilio,
cercare il nulla per scoprire un uomo,
tornare indietro per andare avanti.
La chiave del cammino,
più che nelle sue biforcazioni,
il suo incerto inizio
o il suo dubbio finale,
è nel caustico umore
del suo doppio senso.
Si arriva sempre,
ma da un’altra parte.
Tutto passa.
Però al contrario.
Roberto Juarroz
Breve biografia di Roberto Juarroz nasce nella Provincia de Buenos Aires, il 5 ottobre del 1925 e muore il 31 di Marzo del 1995. Laureato in Lettere e Filosofia all’ Università di Buenos Aires, ricevette dalla stessa istituzione una borsa di studio che gli offrì l’opportunità di perfezionare i suoi studi alla Sorbona. Da questa prestigiosa università ottenne successivamente l’incarico di professore titolare. Dal 1958 al 1965 fu direttore della rivista Poesía;. Fu critico del giornale La Gaceta (Tucumán, 1958-63), critico cinematografico della rivista Esto e traduttore di vari libri. Ricevette, tra tante distinzioni, il Gran Premio d’Onore della Fondazione Argentina per la Poesia (1984) e il Premio Esteban Echeverría.
Queste “ombre bianche”, cioè “storie brevi, divertimenti e dialoghi; infine occasioni, satire scritte negli ultimi quindici anni” che Flaiano radunò nel 1972 nella certezza che la realtà avesse ormai superato la satira, raccontano di «un “io” che detesta l’inesattezza ed è stato sopraffatto dalla menzogna». Vi ritroviamo dunque il Flaiano più risentito, impassibile e feroce, capace come pochi di mostrarci le allucinazioni di cui siamo vittime: e mentre legge e sorride è come se uno spiffero gelido investisse d’improvviso il lettore, perché nei mostri messi in scena riconosce, non solo la realtà che lo circonda, ma a tratti, e con raccapriccio, un po’ di se stesso.
Ennio Flaiano
Flaiano scrisse all’editor che l’apparente disordine delle parti del libro era voluto, calcolato. Ma così non sembra al lettore.
C’è un fil rouge che è il disincanto, la delusione, l’oppressione della condanna a un’esistenza che, per Flaiano, era diventata una gabbia; quel dolore interno che gli spezzò il cuore insomma.
Ma gli elementi che compongono questo pout-pourri, anche se scritti in un arco di tempo lungo – vent’anni più o meno – hanno in comune il lato lunare del pescarese, la sua famosa malinconia “canina”.
Non mancano guizzo e invenzione linguistica, battute e freddure. Ma prevale lo straniamento: il futuro è impossibile perchè lo sarebbe anche il presente, se non fosse umanizzato dalla parodia. Ed ecco cadere nella pretestuosità la fantasia: si tratti della vita su Marte, della corrispondenza impossibile, della cancellazione degli affetti verso quello che un giorno si immaginava sarebbe stato il mondo futuribile. “Nel duemila (cantava Bruno Martino) noi non mangeremo più le bistecche”, e Flaiano lo scrive e forse lo pensa.
I continui riferimenti erotici appartengono invece al Flaiano cinematografico, mente lucida del Fellini visionario, e gratta gratta anche qui sotto trovi la delusione personale di una vita familiare distrutta.
In sintesi, sembra di leggere il lungo percorso del brillante scrittore che si estingue giorno dopo giorno, non senza lo sberleffo che lo ha reso grande.
Ennio Flaiano
Flaiano scriveva col privilegiato disincanto di chi ormai si sente alieno a ogni passione, affrancato da ogni compromesso in una realtà che è riuscita a superare la satira, vittima di una quotidianità dove consumismo, conformismo e utilitarismo ormai non risparmiano nessuno.
Le sue ombre bianche disegnano sul muro i mostri di una commedia tutta italiana, da cui anche il mondo intellettuale ormai non è più esente, prigioniero di ghetti dorati da Basso Impero, lascivo di interminabili feste da Dolce Vita, dove il profumo delle “rose di Eliogabalo” segna il declino di quella grande bellezza, preda di marziani extraterrestri.
Perché è proprio in quel boom, le cui contraddizioni già denunciava Bianciardi nella sua “Vita agra”, che si intravedono i sinistri squarci di un Mondo Nuovo di barbari costruttori, di iene senza scrupoli a caccia di carogne, dove tutto fa notizia, tendenza, basta premere sull’acceleratore per non essere superati.
Non c’è curaro negli elzeviri di Flaiano, giacché anche il veleno è finito, non c’è speranza, si passa in rassegna ogni vizio endemico per enumerazioni, per mistificazioni, per aforismi. Per sconfinata desolazione, in odor di involontaria chiaroveggenza.
Bertolt Brecht IL PEGGIOR ANALFABETA È L’ANALFABETA POLITICO
Bertolt Brecht:”La nostra civiltà è intrisa di un profondo analfabetismo, eppure tutti sanno leggere e scrivere. Bertolt Brecht, grande poeta e drammaturgo della prima metà del ’900, traccia il profilo del nuovo analfabeta, per l’appunto l’analfabeta politico, il peggiore della categoria”.
L’ANALFABETA POLITICO (BRECHT) “Il peggiore analfabeta è l’analfabeta politico. Egli non sente, non parla, nè s’importa degli avvenimenti politici. Egli non sa che il costo della vita, il prezzo dei fagioli, del pesce, della farina, dell’affitto, delle scarpe e delle medicine dipendono dalle decisioni politiche. L’analfabeta politico è così somaro che si vanta e si gonfia il petto dicendo che odia la politica. Non sa l’imbecille che dalla sua ignoranza politica nasce la prostituta, il bambino abbandonato, l’assaltante, il peggiore di tutti i banditi, che è il politico imbroglione, il mafioso corrotto, il lacchè delle imprese nazionali e multinazionali.” (Bertolt Brecht)
Bertolt Brecht
-Bertolt Brecht IL PEGGIOR ANALFABETA È L’ANALFABETA POLITICO – La nostra civiltà è intrisa di un profondo analfabetismo, eppure tutti sanno leggere e scrivere. Bertolt Brecht, grande poeta e drammaturgo della prima metà del ’900, traccia il profilo del nuovo analfabeta, per l’appunto l’analfabeta politico, il peggiore della categoria. Oltre la porta di casa tutto ciò che c’è è affare che non riguarda se stessi. Eppure questa ignoranza produce effetti drammaticamente deleteri perché fa regredire l’uomo da cittadino a suddito il quale non fa altro che apprendere apaticamente e subire le decisioni dall’alto. Brecht ci riporta anche degli atteggiamenti esteriori del nostro analfabeta. “Si vanta e si gonfia il petto dicendo che odia la politica”. La frase è tipica e, ahimè, troppo diffusa nella nostra società. La politica è affare di tutti e non si manifesta solo in senso stretto prendendo parte a questo o quel partito politico. Essere politicizzati significa comprendere di far parte di una società complessa, di una realtà che non può e non deve rimanerci indifferente. “Zoon politikon” diceva Aristotele, l’uomo è un “animale politico” e questa caratteristica è insita nella natura dell’essere umano. Rimanere indifferenti dinanzi alla società in cui si vive, riempendosi la bocca di espressioni come: “la politica è sporca”, “lo stato è corrotto”, “è già tutto deciso”, ci preclude di essere parte attiva, di avere un ruolo. Chi non pone rimedio alla propria ignoranza politica non sa scindere il bene dal male di una comunità. Brecht in maniera probabilmente anche molto forte fa una carrellata di esempi lampanti delle conseguenze del considerare la politica altro da sè, fuori dalla propria sfera di interessi. “Il bambino abbandonato, la prostituta, l’assaltante, il mafioso corrotto” sono solo alcuni esiti. Certamente la politica oggi non ci invita ad un suntuoso banchetto, ma nello stesso tempo non possiamo non partecipare alla mensa perchè i piatti non sono di nostro gradimento.
Bertolt Brecht
Bertolt Brecht -Scrittore e uomo di teatro tedesco (Augusta 1898 – Berlino 1956). Nato da genitori di agiata borghesia, frequentò gli ambienti dell’avanguardia artistica monacense e berlinese abbandonando, senza concluderli, gli studi di medicina e volgendosi all’attività letteraria. Sullo scorcio degli anni Venti venne maturando il decisivo incontro, sia teorico sia politico, con il marxismo. Andato in esilio nel 1933, fu successivamente in Svizzera, Danimarca, Svezia, Finlandia e Stati Uniti, da dove nel 1948 rientrò in Europa, stabilendosi a Berlino Est. Qui, insieme alla moglie Helene Weigel, fondò nel 1949 il Berliner Ensemble, cui dedicò quasi per intero gli ultimi anni. Formatosi nel clima dell’espressionismo patetico e umanitario nonché dei giochi paradossali e provocanti del dadaismo, seppe trovarvi uno spazio poetico autonomo sin dai primi esperimenti originali (i drammi Baal, 1918; Trommeln in der Nacht, 1918-20; Leben Eduards des Zweiten von England, 1924; alcune liriche riunite più tardi nella Hauspostille, 1927), in cui circola una considerazione del mondo e delle cose che è disincantata e nello stesso tempo piena di umana curiosità, una ironia corrosiva che si diverte a demolire i valori più tradizionali della borghesia guglielmina, una ricerca delle ragioni materiali che sollecitano azioni e comportamenti degli individui. Sbocco naturale di tale posizione critica è una prospettiva sociologica, che se da un lato mette a fuoco il tema della massificazione nella società moderna (Im Dickicht der Städte, 1921-24; Mann ist Mann, 1924-26), dall’altro illustra la tesi proudhoniana della proprietà come furto e il processo capitalistico di feticizzazione del denaro (Die Dreigroschenoper, 1928, e Aufstieg und Fall der Stadt Mahagonny, 1927-29, nate dal felice incontro con l’estro musicale di Kurt Weill). Della prima egli darà una replica in prosa con il Dreigroschenroman, 1934). Prende anche corpo, in questo periodo, la teoria del teatro epico che Brecht contrappone allo psicologismo tradizionale: con spezzature di vario genere del crescendo drammatico, ne imbriglia gli effetti emotivi e crea un solido margine alla presenza attiva e cosciente delle facoltà razionali dello spettatore. Lo studio del marxismo, e la congiunta espansione dei suoi interessi ideologici, sono documentati dai cosiddetti “drammi didattici” (Das Badener Lehrstück vom Einverständnis, 1929; Der Jasager e Der Neinsager, 1929-30; Die Massnahme, 1930; Die Ausnahme und die Regel, 1930; Die Horatier und die Kuriatier, 1933-34, con la significativa appendice del Verhör des Lukullus, 1939). Ma attraverso l’asciuttezza della Heilige Johanna der Schlachthöfe (1929-31) e della Mutter (1930-32), e mentre le vicende politiche europee dall’avvento del nazismo allo scoppio della guerra gli ispirano opere di appassionata denuncia (Die Rundköpfe und die Spitzköpfe, 1932-34; Die Gewehre der Frau Carrar, 1937; Furcht und Elend des Dritten Reiches, 1935-38; Der aufhaltsame Aufstieg des Arturo Ui, 1941; Die Gesichte der Simone Machard 1941-43; Schweyk im zweiten Weltkrieg, 1942-43), egli matura quella sintesi di ragioni ideologiche e pienezza espressiva che si riflette non solo nelle conclusive formulazioni teoriche del Kleines Organon fu̇r das Theater (1948), ma anche nella drammatica limpidezza della tarda lirica, nella precisa dialettica dei Flüchtlingsgespräche (1940), e soprattutto nella produzione teatrale degli anni 1937-44 (Leben des Galilei, 1a stesura 1937-39; Mutter Courage und ihre Kinder, 1939; Der gute Mensch von Sezuan, 1938-41; Herr Puntila und sein Knecht Matti, 1940; Der kaukasische Kreidekreis, 1943-44): testi non slegati mai dalle vive occasioni storiche e dalle suggestioni del presente, ma pur capaci di proiettarle (meglio di quanto accada nell’incolore Die Tage der Commune, 1948-49) in una più lunga durata poetica e umana.
Fonte-Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani
-Interno Poesia Editore-A cura e traduzione di Andrea Sirotti-
Travolgente, disorientante, genuinamente «civile», la poesia di Tishani Doshi arriva per la prima volta in Italia con un libro in cui intimo, pubblico e sacro si intrecciano e danno vita ad una voce unica e originale. Una lingua composita e meticcia, assertiva, non di rado bizzarra, colta e popolare al tempo stesso, ricca di espressioni e parole che raramente trovano cittadinanza in poesia. Una formidabile eloquenza e vitalità in cui i versi liberi, cadenzati, pensati per essere letti ad alta voce, sono disposti con estro e consapevolezza sulla pagina.
Tishani Doshi- POESIE- Un dio alla porta-
Tishani Doshi libro Un dio alla porta–Interno Poesia Editore-traduzione di Andrea Sirotti
Cella
Se anche potessi percorrere i corridoi del tuo corpo, non sapresti in quali stanze entrare, quali siano piene di pietra. Dentro di te c’è tantissima acqua – una catena montuosa a nord per tener lontani gli invasori, un deserto nelle colonie batteriche del sud. Qui ci sono edifici cittadini, ingialliti, senza finestre, occupati nella fabbricazione di vaccini e borse. Qui una doppia elica infilata lungo tutta la tua spina come una sequela di stendardi tibetani. Tra questi avamposti sfrecciano i messaggeri, trasportando tubi di pelle animale, piccioni sulla schiena. C’è chi cavalca arieti, c’è chi viaggia con ombre consorti sui carri attraverso i cieli senza fermarsi una volta a guardare le stelle. Una volta arrivati è quasi sempre lo stesso. Devono togliersi i sandali e aspettare all’ingresso della grotta – la sua piega di pelle, una tenda per intrappolare il vento. Vogliono dirti che i grandi fuochi bruciano ancora, le api non rinunceranno alle loro unioni, il raccolto è sia luna che autunno. Tu non sei sola.
Mandala
Chiunque creda che una foglia sia solo una foglia non coglie il punto. C’è una fotografia in soffitta, un gingko che ingiallisce sempre più, mentre il corpo del gingko rimane sempreverde. Si apre la strada attraverso fumerie d’oppio e bordelli. Ti vorrei dire di non preoccuparti. La realtà sa come sistemare se stessa, ma il panico è contagioso. Lo spavento arriva quando fai i jumping jack o organizzi le posate, in un momento di basso dramma cosmologico. Interrotto dalla scoperta di un nodulo. O dal TG delle 9. Di colpo, ogni maniglia di porta è una sentenza di morte. Quanto si devono essere sentiti soli i primi astronomi, congelati in terrazza, cercando di afferrare la luce di lune lontane. Qualche volta è difficile capire se state rallentando o accelerando. Il trampolino del tempo ci confonde. Cuciamo i nostri giorni e le notti, gli uni alle altre, ed è come ricamare una galassia, ma pure le galassie arretrano l’una dall’altra. Una volta, una donna mi ha suonato il corpo come se fosse un’arpa. Ho dormito su una tavola di legno e lei strimpellava le corde sotto finché non son diventata uno squalo balena, che batte gli oceani. Ne sono riaffiorata come da un tunnel gravitazionale, integra, più o meno. Per giorni ho sentito le pinne al posto delle guance. Parliamo di corpi come se non potessimo comprendere l’universo che hanno dentro, anche se stiamo tutti a bocca aperta davanti al ceppo di un albero e abbiamo capito che il tempo si sposta verso l’esterno in un cerchio. E mentre tutto appare infinito, c’è sempre un anello di una cosa permeabile che ci trattiene dentro. A volte usciamo di casa senza maschera ed è un sollievo fare una pausa da ciò che siamo. Stella nana, campana di preghiera, cervo solitario che si nutre nella ginestra – qualcosa ci terrà uno specchio davanti alla faccia, quando ci serve solo che qualcuno ci porti al piano di sopra.
Macroeconomia
Un uomo siede su un altro se ce la fa. Il cuore di un uomo batte più forte. Un uomo va in miniera perché un altro uomo risplenda. Un uomo muore così la famiglia che vive in cima alla collina può mangiare panini sul prato. Il salvadanaio di un uomo ottiene un bailout. Un uomo rovescia il carretto della verdura di un estraneo. Un uomo resta a casa e gioca a tombola finché tutto questo non si placa. Un uomo si avvia come un pellegrino allo Shambala47, con un bimbo sulle spalle. Un uomo chiede chi andrà fuori a comprare il latte e le uova? La casa di un uomo è oltre l’orizzonte. Un uomo decide di andarci a piedi anche se ci vorranno giorni e notti sull’asfalto con poco cibo e acqua. Un uomo viene fermato per vagabondaggio e costretto a fare piegamenti per penitenza. Un uomo riferisce che i pesci saltano fuori dal mare e succhiano avidamente l’aria. Un uomo mangia la tessera del pane. Uno osserva come gli storni hanno preso il volo come un mal di denti, una bassa fame continua, librandosi attraverso i campi. Un uomo carica la pistola. Un uomo ha in carico l’altalena. Uno vuole ridistribuire le prugne. Uno sa che non esistono pranzi gratuiti. Uno alla fine vede il crepaccio. Uno dà la sua coperta all’uomo seduto nel crepaccio. Uno dice che dovrebbe esserci una tassa per aver fatto una cosa del genere e la riprende. La fossa si allarga.
Forse quello che ti manca sono le cose semplici, che non è l’infanzia, ma quell’uccello rapace che afferra l’aria con gli artigli. Se tu sapessi che non costerebbe nulla tenere le ali aperte come un albatro, che potresti andare per diecimila miglia senza un solo battito d’ali, che deve essere così, questo glissando tra impennata e caduta, potresti impacchettare le tue indignazioni e andare verso la cabina telefonica nel cielo. Un dio alla porta seduto su un bufalo gigante ti offre un sorso di vino per far passare l’amarezza. La tua ultima telefonata è verso il futuro, Stiamo bene, dici. Staremo tutti bene.
Un dio alla porta (Interno Poesia Editore, 2022), cura e traduzione di Andrea Sirotti
DESCRIZIONE
Travolgente, disorientante, genuinamente «civile», la poesia di Tishani Doshi arriva per la prima volta in Italia con un libro in cui intimo, pubblico e sacro si intrecciano e danno vita ad una voce unica e originale. Una lingua composita e meticcia, assertiva, non di rado bizzarra, colta e popolare al tempo stesso, ricca di espressioni e parole che raramente trovano cittadinanza in poesia. Una formidabile eloquenza e vitalità in cui i versi liberi, cadenzati, pensati per essere letti ad alta voce, sono disposti con estro e consapevolezza sulla pagina. Quella di Doshi è una militanza a 360° gradi. Nessuna questione di scottante attualità è esclusa, in India come altrove nel mondo. Le poesie sgorgano dalla cronaca e dalla storia, dalle ultime notizie come dai vecchi rancori e contrapposizioni, lo spunto può essere un articolo di giornale, un video su YouTube, una foto, un dipinto, un libro. Poesie sempre pronte a denunciare le disuguaglianze, il mancato rispetto dei diritti civili. Tra i temi ricorrenti: la condizione della donna, le diseguaglianze economiche e sociali, le trasformazioni esistenziali in tempo di Covid, le relazioni sentimentali, la malattia, le difficoltà quotidiane del singolo individuo; il tutto mediato dalla contrapposizione di due visioni del mondo, tra laica indifferenza e fanatismo religioso, tra spiritualità e materialismo.
Autore: Tishani Doshi
Curatela e traduzione: Andrea Sirotti
Collana: Interno Books
ISBN: 978-88-85583-71-9 Data di pubblicazione: 1 giugno 2022
Pagine: 236
Formato: 15×21 cm
Cell
Even if you could walk through the corridors
of your body, you would not know which rooms
to enter, which were full of stone. Inside you
there is so much water —a mountain range
in the north to stave off invaders, a desert
in the bacterial colonies of the south. Here
are city buildings, yellowed, without windows,
busy with the making of vaccines and handbags.
Here a double helix strung up the length
of your spine like a flurry of Tibetan prayer flags.
Between these outposts the messengers dart,
carrying tubes of animal hide, pigeons on their backs.
Some ride rams, some travel with consort shadows
in chariots across the skies without once stopping
to look at stars. When they arrive it is almost always
the same. They must remove their sandals and wait
by the mouth of the cave —its fold of skin,
a curtain to trap the wind. They want to tell
you the great fires are still burning, the bees
won’t give up their unions, the harvest is both
moon and autumn. You are not alone.
Mandala
Anyone who believes a leaf is just a leaf is missing
the point. In the attic, there’s a picture of gingko
growing steadily yellow, while the body
of gingko remains evergreen. He works his way
through opium dens and bordellos. I’d like to tell you
not to worry. Reality has a way of sorting itself out,
but panic is infectious. The scare arrives when you’re doing
jumping jacks or organising the cutlery, some moment of low
cosmological drama. Interrupted by the discovery of a lump.
Or the 9 o’clock news. Suddenly, every door handle is a death
sentence. How lonely it must have been for the first astronomers,
freezing on their terraces, trying to catch the light of faraway moons.
Sometimes it’s hard to know whether you’re slowing down
or speeding up. Time’s wobbly trampoline confuses us.
We stitch our days and nights, one to the other,
and it’s like embroidering a galaxy, but even galaxies
recede from one another. Once, a woman played my body
as though it were a harp. I slept on a wooden plank
and she strummed the strings below until I became
a whale shark, pounding through the oceans. I emerged
as if out of a wormhole, more or less intact. For days I felt fins
where my cheeks should have been. We talk of bodies
as though we could not understand the universe within them,
even though we’ve all gaped at the stump of a tree
and understood that time moves outwards in a circle.
And while everything seems endless, there’s always a ring
of something permeable holding us in. Sometimes we leave
the house without our masks and it’s a relief to take a break
from who we are. Dwarf star, prayer bell, lone stag
feeding in the gorse—something will hold a mirror
to our faces, when all we need is to be led upstairs.
Macroeconomics
One man sits on another if he can.
One man’s heart beats stronger. One man goes
into the mines for another man to sparkle.
One man dies so the family living at the top of the hill
can eat sandwiches on the lawn. One man’s piggy bank
gets a bailout. One man tips over a stranger’s vegetable cart.
One man stays home and plays tombola till all this blows over.
One man hits the road like a pilgrim to Shambala, child
on shoulders. One man asks who’s going to go out and buy
the milk and eggs? One man’s home is across the horizon.
One man decides to walk there even though it will take days
and nights on tarmac with little food and water.
One man is stopped for loitering and made to do squats
for penance. One man reports fish are leaping
out of the sea and sucking greedily from the air.
One man eats his ration card. One man notices how starlings
have taken to the skies like a toothache,
a low continuous hunger, searing across the fields.
One man loads his gun. One man’s in charge of the seesaw.
One man wants to redistribute the plums. One man knows
there’s no such thing as a free lunch. One man finally sees
the crevasse. One man gives his blanket to the man
sitting in the crevasse. One man says there should be a tax
for doing such a thing and takes it back. The ditch widens.
Maybe what you miss is what’s simple,
which isn’t childhood, but that bird
of prey holding the air with its claws.
If you knew it would cost nothing
to keep your wings open like an albatross,
that you could go ten thousand miles without
a single flap, that it has to be this way,
this glissando between soaring and falling,
you could pack up your indignations
and move towards the phone booth
in the sky. A god at the door sitting
on a giant buffalo offers you a sip
of wine to make the bitterness go away.
Your final phone call is to the future,
We’re fine, you say. We’re all going to be just fine.
Autore: Tishani Doshi
Curatela e traduzione: Andrea Sirotti
Collana: Interno Books
ISBN: 978-88-85583-71-9 Data di pubblicazione: 1 giugno 2022
Pagine: 236
Formato: 15×21 cm
CHIETI – Il 2025 vedrà il lancio del prestigioso progetto “Casanova 300”, ideato per celebrare il tricentenario della nascita di Giacomo Casanova, una delle figure più affascinanti e poliedriche del XVIII secolo.
Il Direttore Scientifico del progetto culturale é il Prof. Pierfranco Bruni, curatrice delle pubblicazioni Franca De Santis, presidente di “Terra dei Padri”. Invece, il logo ufficiale è stato ideato da Anna Montella.
Il progetto “Casanova 300” mira a esplorare e valorizzare l’eredità culturale di Giacomo Casanova attraverso una serie di iniziative che spaziano dalla ricerca accademica alla divulgazione culturale, passando per eventi artistici e mostre. Saranno organizzati convegni, tavole rotonde, esposizioni e pubblicazioni dedicate alla vita e alle opere di Casanova, con l’obiettivo di offrire una visione innovativa e approfondita del celebre avventuriero, scrittore e diplomatico.
Un punto di forza del progetto sarà l’assegnazione del prestigioso Premio Terra dei Padri, edizione 2025, che si inserisce all’interno delle celebrazioni di “Casanova 300”. Il premio sarà conferito a personalità, istituzioni e studenti che si sono distinte nel campo della cultura, della letteratura e delle arti, in linea con lo spirito e l’eredità di Casanova.
Il progetto “Casanova 300” si distingue per il coinvolgimento di esperti di altissimo livello. Sotto la direzione scientifica del Prof. Pierfranco Bruni, rinomato studioso di letteratura e storia, la curatela di Franca De Santis, e il design innovativo di Anna Montella, l’iniziativa promette di offrire un’esperienza culturale e intellettuale di un certo spessore.
Il progetto è supportato dalla Casa Editrice Solfanelli e dal Gruppo Tabula Fati, che garantiranno la pubblicazione e la diffusione delle opere legate al progetto
Per ulteriori informazioni e aggiornamenti sul progetto “Casanova 300” e sul Premio Terra dei Padri edizione 2025, si prega di contattare l’indirizzo e-mail casanova300@blu.it.
‘LEE MILLER’: in arrivo il film sulla grande fotografa americana-
Articolo di Elisabetta Colla. Rivista NOI DONNE-
Nelle sale da inizio 2025, distribuita da Vertice 360, la pellicola sulla straordinaria figura di Lee Miller è interpretata e prodotta da Kate Winslet
– Quella della fotografa, fotoreporter e modella statunitense Elizabeth, detta ‘Lee’, Miller è stata certamente una vita fuori dell’ordinario.
Lee era la figlia prediletta del padre Theodore, che si dilettava con la fotografia e che insegnò ai propri figli numerose tecniche fotografiche quando erano ancora molto piccoli: in particolare Lee, oltre ad essere sua allieva, fin dall’infanzia era stata anche la sua modella preferita e veniva spesso ritratta nelle sue fotografie stereoscopiche.
Un’infanzia anticonvenzionale e in parte drammatica (subì una violenza sessuale a soli sette anni, forse da un parente o da un marinaio), poi gli studi all’ École nationale supérieure des beaux-arts e, nel 1926, a 19 anni, la frequenza all’Art Students League di New York per studiare scenografia.
Poi la carriera da modella a seguito dell’incontro casuale con Condé Nast, editore di Vanity Fair e di Vogue, tra new York e Parigi, città dove diventò una fotografa affermata di arte e moda e di arte. La sua relazione con Man Ray e successivamente il matrimonio con Roland Penrose le diedero accesso ai circoli artistici e letterari più interessanti del ventesimo secolo.
Proprio per raccontare la storia di questa donna e artista unica, sfuggente a ogni definizione, uscirà a gennaio, distribuito da Vertice 360, diretto dalla direttrice della fotografia e regista statunitense Ellen Kuras (collaboratrice abituale di Spike Lee e Michel Gondry) il film “Lee Miller”, ispirato all’opera ‘Le molte vite di Lee Miller’ di Antony Penrose, figlio di Miller e del surrealista Roland Penrose.
Accanto a Kate Winslet, nei panni della protagonista (che aveva già lavorato in “Se mi lasci ti cancello” con la Kuras, quest’ultima in veste di direttrice della fotografia) e in veste anche di produttrice, sono presenti nel cast Alexander Skarsgård, Marion Cotillard, Andrea Riseborough, Josh O’Connor, Noémie Merlant, Andy Samberg.
Alla fine degli anni ’30, Elizabeth “Lee” Miller lascia la sua cerchia di amici e la sua vita artistica in Francia e va a Londra dopo essersi innamorata del mercante d’arte Roland Penrose. I due iniziano una relazione appassionata, proprio mentre in Europa scoppia la guerra.
Già fotografa riconosciuta, Lee ottiene un lavoro per British Vogue, ma rimane scioccata dalle restrizioni imposte alle fotografe donne.
Mentre il regime di Hitler conquista l’Europa, Lee è sempre più frustrata dal fatto che il suo lavoro sia limitato da regole patriarcali. Determinata a essere dove c’è l’azione, è in prima linea nella Seconda Guerra Mondiale.
Costretta a documentare la verità, volge il suo obiettivo verso la sofferenza e inizia lentamente a rivelare la spaventosa perdita di vite umane dovuta ai diabolici crimini di Hitler contro le vittime innocenti del suo regime. Lee Miller svolse questo pericoloso lavoro per il bene delle lettrici della rivista Vogue, alle quali la realtà della guerra era in gran parte tenuta nascosta, e nel processo produsse una serie indelebile di immagini che ancora oggi continuano a plasmare il nostro modo di vedere e documentando eventi quali il bombardamento strategico della battaglia d’Inghilterra, la Battaglia di Normandia, la liberazione di Parigi, i campi di concentramento di Buchenwald e di Dachau.
Celeberrimo, fra gli altri scatti, il suo autoritratto nella vasca da bagno di Hitler. Donna indipendente, determinata e libera, amica di Picasso e Man Ray, fu l’unica fotografa donna a documentare la liberazione dei campi di concentramento di Dachau e Buchenwald denunciandone con forza e lucidità la tragedia e gli orrori.
Nel corso di una carriera di oltre tre decenni entrò in contatto con personalità di ogni tipo, molte delle quali divennero soggetti dei suoi ritratti fotografici, come gli studi su Pablo Picasso, Max Ernst, Fred Astaire, Colette, Maurice Chevalier e Marlene Dietrich.
Nel panorama editoriale italiano ed europeo ‘NOIDONNE’ rappresenta un raro esempio di continuità editoriale che dal 1944 racconta – con espressioni professionali di alto livello e con attenzione al contesto culturale e politico nazionale ed internazionale – le attività, le conquiste, i pensieri e i movimenti delle donne. Lo sguardo di genere sulla realtà, attraverso le sue molteplici sfaccettature, è la scelta di campo che ha sempre scandito un percorso giornalistico scritto da donne.
LE ORIGINI E LE EDIZIONI CLANDESTINE.
Le prime edizioni di ‘Noi Donne’ risalgono al 1937 a Parigi – sotto la direzione di Marina Sereni – e sono espressione dell’associazione (facente capo all’Unione popolare) che raccoglieva le donne antifasciste emigrate in Francia. Nel 1944, nel pieno della Resistenza e della lotta contro il nazifascismo, le pubblicazioni riprendono in Italia con edizioni regionali prodotte e diffuse clandestinamente, in condizioni difficili e di altissimo rischio personale. Nella Sezione Archivio storico queste edizioni sono oggi consultabili.
1944: INIZIA IL CAMMINO.
A partire dal luglio 1944 ‘Noi Donne’ esce dalla clandestinità ed è stampato a Napoli sotto la direzione di Laura Bracco, con l’infaticabile apporto di Nadia Spano e la collaborazione di Rosetta Longo. Già al terzo numero redazione e amministrazione sono trasferite a Roma e a Laura Bracco si affianca Vittoria Giunti, insegnante che usciva dalla lotta antifascista clandestina. “Gli intendimenti con cui il giornale usciva – scrive Marisa Rodano in un reprint del 1977 – erano chiari: essere un giornale per tutte le donne, costituire un legame per tutte le energie femminili vogliose di battersi per sconfiggere il fascismo e partecipare direttamente alla costruzione di un’Italia diversa, far conoscere la lotta delle donne nell’Italia occupata, sollecitare nell’Italia liberata lo sviluppo di un movimento di donne”. La formula scelta è quella di un foglio politico che però non rinuncia a parlare di temi che “tradizionalmente le donne sono abituate a trovare nei periodici ad esse diretti: narrativa, moda, cucina…”. L’attenzione è dedicata alle lotte alle contadine per abolire la consuetudine feudale delle regalie dovute ai padroni, alle azioni di rivendicazione per il cibo, all’impegno fattivo delle donne per riaprire le scuole in una Roma distrutta dai bombardamenti, ma insieme alla ripresa della vita democratica e associativa delle donne. Inizialmente mensile, negli anni successivi la periodicità diventerà quindicinale e poi settimanale sotto la lunga direzione di Giuliana Dal Pozzo e di Miriam Mafai. Tornerà ad essere mensile nel 1981, mantenendo tale cadenza fino al dicembre 2016 quando, sospese le edizioni in versione cartacea, si potenziano le varie declinazioni diffuse attraverso la rete virtuale: dal sito al settimanale on line fino ai social. Fino agli ani Novanta ‘Noi Donne’ è stata la rivista dell’Udi (Unione Donne in Italia), un rapporto dinamico che dal 1944 nel tempo si è modificato arrivando alla completa autonomia.
TUTTE LE DIRETTORE.
Elenchiamo, in progressione cronologica, le giornaliste che hanno diretto ‘NOIDONNE’ dal 1944: Rina Piccolato, Nadia Spano, Luara Bracco, Vittoria Giunti, Dina Rinaldi, Maria Antonietta Macciocchi, Milla Pastorino, Benedetta Galasi-Beria, Miriam Mafai, Giuliana Dal Pozzo, Vania Chiurlotto, Anna Maria Guadagni, Mariella Gramaglia, Franca Fossati, Bia Sarasini, Tiziana Bartolini.
‘NOIDONNE’ NEL TERZO MILLENNIO.
Il giornale arriva alle soglie del 2000 nel pieno di una pesante crisi finanziaria che è superata – dopo una profonda riorganizzazione – grazie ad un riassestamento interno e ad un riposizionamento nel mercato editoriale. Tale fase è stata espressione della generosità e professionalità che tante amiche hanno messo a disposizione di una rinnovata rete di contatti e contaminazioni avviata sotto la direzione di Tiziana Bartolini.<
NOIDONNE ONLINE
– www.noidonne.org. Il sito e il settimanale on line (diretto da Tiziana Bartolini) sono la conferma dell’impegno al servizio di un progetto editoriale di genere che ha mostrato di saper essere dinamico, aperto alle innovazioni anche tecnologiche e sensibile alle potenzialità della rete e dei social media (Facebook https://www.facebook.com/Noidonne-38907601699/ – twitter @noidonnemag).
ARCHIVIO STORICO DIGITALIZZATO.
L’Archivio storico di ‘NOIDONNE’ è un patrimonio nazionale culturale e giornalistico. La possibilità di consultarlo è preziosa occasione – soprattutto per le giovani generazioni – di conoscere la storia contemporanea e alcuni particolari aspetti quali le lotte delle donne, che sono parte importante dell’evoluzione della nostra democrazia. Rendere fruibile on line tale Archivio è un grande obiettivo per il quale siamo impegnate, anche allo scopo di tutelare le edizioni cartacee originali che cominciano a deteriorarsi.
Sono già consultabili on line le annate più recenti (2006 / 2016). Nel 2017 è stata avviata la digitalizzazione dell’Archivio storico, a cominciare dalle edizioni clandestine del 1944/45.
Con nuovi progetti e campagne mirate continueremo a raccogliere fondi per completare la digitalizzazione dell’Archivio.
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