“Anima. Una pastorale selvaggia” , pubblicato da Crocetti Editore, è il quarto e ultimo volume che la scrittrice di origini bulgare Kapka Kassabova dedica alle regioni balcaniche meridionali, quelle comprese in particolare tra Macedonia e Bulgaria. Dopo avere riflettuto sul tema dei confini (in Confine), avere raccontato il versante macedone della sua famiglia (ne Il lago) ed esplorato la tradizione erboristica bulgara che ancora sopravvive nella valle formata dal fiume Mesta e racchiusa dal massiccio dei Rodopi con Elisir, qui l’autrice si concentra su un territorio più raccolto, la catena montuosa del Pirin, e su un tema in particolare, ovvero l’antico stile di vita dei pastori che lo abitano, insidiati dal capitalismo e dalla modernità. Kassabova vuole conoscere, approfondire, cercare le radici e le storie dei luoghi e di chi ci vive, perciò condivide per un certo periodo l’esistenza dei pastori e delle greggi e ne segue la transumanza, per poi descrivere l’asprezza, le difficoltà, l’isolamento, il legame quasi simbiotico tra gli uomini e i loro animali. Da tutto questo nasce un racconto profondamente empatico, più diretto e intimo rispetto ai precedenti, che mette al centro la relazione tra l’uomo e la natura, la fondamentale salvaguardia di quest’ultima e, soprattutto, l’importanza di tenere vive, non soltanto attraverso il ricordo, le antiche tradizioni popolari e culturali. In questo gran finale della sua tetralogia balcanica, straordinario ritratto della vita pastorale, Kapka Kassabova penetra più profondamente nello spirito del luogo di quanto non avesse mai fatto prima.
Traduzione: Anna Lovisolo;
Pagine: 448
Prezzo: € 22,00
ISBN: 9788883064340
Data Uscita: 03/09/2024
LA CASA EDITRICE CROCETTI
Fondata nel 1981 dal grecista e traduttore Nicola Crocetti, la casa editrice Crocetti è specializzata nella pubblicazione di opere di poesia e di letteratura neogreca, omaggio alle origini del suo fondatore.
In quasi quarant’anni di attività, la Crocetti ha pubblicato numerose opere di poeti italiani e stranieri, tra cui i Premi Nobel Ghiorgos Seferis, Odisseas Elitis, Saint-John Perse, Derek Walcott e Tomas Tranströmer. Nel catalogo figurano inoltre volumi di Emily Dickinson, Antonio Machado, Walt Whitman, Ghiannis Ritsos, Costantino Kavafis, Louis Aragon, Kahlil Gibran, Rainer Maria Rilke, Edna St. Vincent Millay, Paul Valéry, Simone Weil, Yehuda Amichai, Anne Sexton, Manolis Anaghnostakis, Adrienne Rich, Jaime Saenz, Carol Ann Duffy, Thomas Bernhard. Quasi tutti i volumi sono pubblicati con il testo originale a fronte.
Tra gli autori italiani in catalogo, troviamo Alda Merini, Franco Loi, Antonella Anedda, Giovanni Raboni, Maria Luisa Spaziani, Antonio Porta, Cesare Viviani, Milo De Angelis, Aldo Nove, Giorgio Manganelli, Mariangela Gualtieri, Maria Grazia Calandrone, Pierluigi Cappello.
Oltre alle opere di singoli autori, la Crocetti ha inoltre pubblicati alcuni volumi collettanei, come le antologie della poesia basca, svedese, russa, greca e svizzera di lingua tedesca.
Da alcuni volumi editi dalla Crocetti sono stati tratti spettacoli teatrali interpretati da importanti attori italiani. Ne sono un esempio alcuni monologhi drammatici di Ghiannis Ritsos, portati sul palcoscenico, tra gli altri, da Moni Ovadia, Paolo Rossi, Anna Bonaiuto, Elisabetta Vergani, Isabella Ragonese, Luigi Lo Cascio ed Elisabetta Pozzi.
Nel 1995 alle collane di poesia si è aggiunta la collana di narrativa neogreca “Aristea”, che ha proposto ai lettori alcuni dei romanzi greci più venduti e letterariamente più rilevanti del Ventesimo secolo, finora assolutamente sconosciuti al pubblico italiano.
Nel 2020 la Crocetti è stata acquisita dal gruppo Feltrinelli e ha inaugurato questa nuova fase cominciando a ristampare i titoli che l’hanno resa una delle più prestigiose case editrici italiane.
LA RIVISTA “POESIA”
Nel gennaio 1988 Nicola Crocetti ha fondato “Poesia”, la rivista mensile di cultura poetica più diffusa d’Europa. Fin dal primo numero, le caratteristiche principali di “Poesia” sono state: il taglio internazionale e informativo, la distribuzione capillare nelle edicole e un apparato iconografico che finalmente consentiva ai lettori di conoscere i volti dei poeti.
La distribuzione nelle edicole ha permesso alla rivista di raggiungere un pubblico molto vasto, distribuito su tutto il territorio nazionale. La tiratura di “Poesia” ha raggiunto in passato le 50.000 copie. Molte tra le maggiori Università europee e tra le più prestigiose Università americane sono abbonate alla rivista fin dal primo numero. Nei suoi trentatré anni di vita, “Poesia” ha venduto complessivamente circa tre milioni di copie.
L’alto interesse non solo italiano nei confronti di questa rivista può essere verificato digitando la parola “poesia” sul motore di ricerca Google: su oltre cento milioni di pagine la rivista “Poesia” risulta in prima posizione tra quelle regolarmente visitate.
Del comitato di redazione di “Poesia”, garante del suo alto livello culturale, fanno o hanno fatto parte sei Premi Nobel per la Letteratura (il russo-americano Joseph Brodsky, il caraibico Derek Walcott, l’irlandese Seamus Heaney, il greco Odisseas Elitis, il polacco Czesław Miłosz e lo svedese Tomas Tranströmer), oltre a poeti di fama nazionale e internazionale, come Yves Bonnefoy, Tony Harrison, Charles Wright, Adam Zagajewski, Durs Grünbein, Paul Muldoon, Antonella Anedda, Milo De Angelis, Nicola Gardini, Franco Loi, Vivian Lamarque, Silvio Ramat.
Dopo che per i primi tre anni “Poesia”è stata diretta dai poeti Patrizia Valduga e Maurizio Cucchi, nel 1991 la direzione è stata assunta da Nicola Crocetti, e la rivista si è sempre più caratterizzata per la sua vocazione internazionale. Nei 358 numeri usciti con cadenza mensile fino all’aprile 2020 e nelle sue 30.000 pagine, la rivista ha proposto centinaia di articoli su poeti tradotti per la prima volta in italiano e di nuove traduzioni di poeti ancora sconosciuti in Italia. In totale ha pubblicato quasi 3.500 poeti, tra i maggiori a livello nazionale e internazionale, e oltre 36.000 poesie tradotte da una quarantina di lingue, quasi sempre con il testo originale a fronte.
La casa editrice Crocetti ha organizzato anche diversi festival di poesia. In collaborazione con il Comune di Parma e il Teatro Due, dal 2004 al 2012 ha curato la sezione internazionale del Festival di poesia di Parma, uno dei più prestigiosi appuntamenti culturali di quegli anni, al quale sono intervenuti alcuni dei maggiori poeti del mondo.
Nel 2003 il Ministero dei Beni Culturali ha assegnato a “Poesia”un riconoscimento per la sua attività di diffusione della poesia in Italia, consegnato al direttore della rivista Nicola Crocetti il 12 maggio 2003 al Quirinale dall’allora Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi.
Con il passaggio al gruppo Feltrinelli, dal maggio 2020 “Poesia” ha cambiato veste grafica, periodicità (da mensile in bimestrale) e canale distributivo (dalle edicole alle librerie). Non è mutata, però, la passione con cui i suoi redattori e i collaboratori raccontano da trentaquattro anni il mondo poetico italiano e internazionale.
Poesie di Velimir Chlebnikov caposcuola del Futurismo russo
Secondo il grande semiologo Romàn Jakobsòn, Velimir Chlebnikov fu l’autore avanguardista più importante del ‘900. Majakovskij, viceversa, lo bollò come “poeta per poeti” ed i suoi contemporanei lo ritennero un genio squilibrato.
Di certo, fu un instancabile sperimentatore, inventore di neologismi ed artefice di una nuova lingua poetica, lo zaum o zanghesi.”I versi -affermava- somigliano a viaggi, bisogna andare lì dove nessun ancora è stato.”
Nel suo saggio ‘La Radio del Futuro’ prefigurò l’odierna civiltà digitale, ipotizzando un avvenire in cui le informazioni trasmesse dalla Radio sarebbero apparse automaticamente su enormi pannelli dislocati lungo le vie cittadine.
Spiega il critico e traduttore Paolo Nori: “Šklovskij diceva che era ‘un campione’, Jakobson diceva ‘il più grande poeta del novecento’, Tynjanov diceva ‘una direzione’, Markov diceva ‘il Lenin del futurismo russo’, Ripellino diceva ‘il poeta del futuro’, e avevan ragione, secondo me, tutti, però avevano torto, anche, secondo me, e avevano torto perché, secondo me, Chlebnikov è molto di più.”
Dal sacco si sparsero
Dal sacco
si sparsero al suolo le cose.
Ed io penso
che il mondo
è soltanto un sogghigno,
che luccica fioco
sulle labbra di un impiccato.
Poco, mi serve
Poco, mi serve.
Una crosta di pane,
un ditale di latte,
e questo cielo
e queste nuvole.
Se voi amate anche voi stessi
Se voi amate anche voi stessi,
allora in voi non sarò mai preghiera, io.
Ma uno sguardo azzurro è un dono eterno,
e l’ombra torce il tempo in querce.
PER ME
Per me è molto più piacevole
guardare le stelle
che firmare una condanna a morte.
Per me è molto più piacevole
ascoltare la voce dei fiori,
che sussurrano “È lui”
chinando la testolina,
quando attraverso il giardino,
che vedere gli scuri fucili della guardia
uccidere quelli
che vogliono uccidere me.
Ecco perché io non sarò mai,
e poi mai, un Governante.
Vento-canto
Vento-canto.
Di chi e su che cosa?
Impazienza
ha la spada d’esser palla.
Gli uomini vezzeggiano il giorno della morte,
come un fiore prediletto.
Sulle corde dei grandi, credete,
suona adesso l’Oriente.
Forse un nuovo orgoglio ci darà
il mago delle splendide montagne,
e, battistrada di molta gente,
indosserò la ragione come un bianco ghiacciaio.
Preposto al servizio delle stelle,
Io giro, come una ruota,
Che s’invola all’istante sull’abisso,
Che finisce sull’orlo del precipizio,
Io imparo le parole.
QUANDO STANNO MORENDO
Quando stanno morendo, i cavalli respirano,
quando stanno morendo, le erbe intristiscono,
quando stanno morendo, i soli si spengono,
quando stanno morendo, gli uomini cantano.
LA LEGGE DELLE ALTALENE
La legge delle altalene prescrive
che si abbiano scarpe ora larghe, ora strette.
Che sia ora notte, ora giorno.
E che signori della terra siano ora il rinoceronte, ora l’uomo.
Uma breve coletânea de poemas do poeta russo Velimir Khlébnikov (1885-1922), que foi, segundo Roman Jakobson, um dos mais inventivos autores do século XX. Khlébnikov foi mentor da vanguarda cubo-futurista e criou a linguagem zaúm, ou transmental, que é formada por sons abstratos. Seu trabalho exerceu forte influência na obra de Vladimir Maiákovski e em todo o movimento vanguardista da poesia russa.
Os poemas:
calçando botas de olhos negros,
nas flores de meu coração.
Meninas que pousam as lanças
no lago de suas pupilas.
Meninas que lavam as pernas
no lago de minhas palavras.
Девушки, те, что шагают
Сапогами черных глаз
По цветам моего сердца.
Девушки, опустившие копья
На озера своих ресниц.
Девушки, моющие ноги
В озере моих слов.
1921
– Velimir Khlébnikov (Велимир Хлебников), em “Eu e a Rússia: poemas de Khlébnikov”. [seleção, tradução e notas Marco Lucchesi; ilustrações Rita Soliéri]. Rio de Janeiro: Bem-Te-Vi, 2014.
Bem pouco me basta!
A crosta de pão
a gota de leite.
E mais este céu,
com as suas nuvens!
.
Мне мало надо!
Краюшку хлеба
И каплю молока.
Да это небо,
Да эти облака!
1912-1922
– Velimir Khlébnikov (Велимир Хлебников), em “Eu e a Rússia: poemas de Khlébnikov”. [seleção, tradução e notas Marco Lucchesi; ilustrações Rita Soliéri]. Rio de Janeiro: Bem-Te-Vi, 2014.
Anos, homens e povos
fogem para sempre,
como água corrente.
No espelho dúctil da natureza
somos os peixes – rede, as estrelas,
os deuses: fantasmas e trevas.
.
Годы, люди и народы
Убегают навсегда,
Как текучая вода.
В гибком зеркале природы
Звезды — невод, рыбы — мы,
Боги — призраки у тьмы.
1915
– Velimir Khlébnikov (Велимир Хлебников), em “Eu e a Rússia: poemas de Khlébnikov”. [seleção, tradução e notas Marco Lucchesi; ilustrações Rita Soliéri]. Rio de Janeiro: Bem-Te-Vi, 2014.
A noite é sombria,
e o álamo, frio,
o mar ressoante,
e tu, bem distante!
.
И вечер темец,
И тополь земец,
И мореречи,
И ты, далече!
1921
– Velimir Khlébnikov (Велимир Хлебников), em “Eu e a Rússia: poemas de Khlébnikov”. [seleção, tradução e notas Marco Lucchesi; ilustrações Rita Soliéri]. Rio de Janeiro: Bem-Te-Vi, 2014.
A lei dos balanços determina
o uso de sapatos ora largos, ora apertados.
Que faça dia e faça noite,
que reinem sobre a terra, ora o rinoceronte, ora o homem.
.
Закон качелей велит
Иметь обувь то широкую, то узкую.
Времени то ночью, то днем,
А владыками земли быть то носорогу, то человеку.
1912
– Velimir Khlébnikov (Велимир Хлебников), em “Eu e a Rússia: poemas de Khlébnikov”. [seleção, tradução e notas Marco Lucchesi; ilustrações Rita Soliéri]. Rio de Janeiro: Bem-Te-Vi, 2014.
EU E A RÚSSIA
A Rússia libertou milhares e milhares.
Um gesto nobre! Um gesto inesquecível!
Mas eu tirei a camisa
e cada arranha-céu espelhado de meus cabelos,
cada ranhura
da cidade do corpo
expôs seus tapetes e tecidos de púrpura.
As cidadezinhas e os cidadãos do estado Mim
juntavam-se às janelas dos cabelos,
as olgas e os ígores,
não por imposição,
para saudar o Sol olhavam através da pele.
Caiu a prisão da camisa!
Nada mais fiz que tirá-la.
Estava nu junto ao mar
Dei Sol aos povos de Mim!
Assim eu libertava
milhares e milhares
as brônzeas multidões.
.
Я И РОССИЯ
Россия тысячам тысяч свободу дала.
Милое дело! Долго будут помнить про это.
А я снял рубаху,
И каждый зеркальный небоскреб моего волоса,
Каждая скважина
Города тела
Вывесила ковры и кумачовые ткани.
Гражданки и граждане
Меня — государства
Тысячеоконных кудрей толпились у окон.
Ольги и Игори,
Не по заказу
Радуясь солнцу, смотрели сквозь кожу.
Пала темница рубашки!
А я просто снял рубашку —
Дал солнце народам Меня!
Голый стоял около моря.
Так я дарил народам свободу,
Толпам загара.
1921
– Velimir Khlébnikov (Велимир Хлебников), em “Eu e a Rússia: poemas de Khlébnikov”. [seleção, tradução e notas Marco Lucchesi; ilustrações Rita Soliéri]. Rio de Janeiro: Bem-Te-Vi, 2014.
Os homens, quando amam,
dão longos olhares
e longos suspiros.
As feras, quando amam,
turvam os olhos,
dando mordidas de espuma.
Os Sóis, quando amam,
vestem a noite com tecidos de terra,
e dançam majestosos para a amada.
Os deuses, quando amam,
prendem o frêmito do cosmos,
como Puchkin – a chama de amor da criada de Volkónski.
.
Люди, когда они любят,
Делающие длинные взгляды
И испускающие длинные вздохи.
Звери, когда они любят,
Наливающие в глаза муть
И делающие удила из пены.
Солнца, когда они любят,
Закрывающие ночи тканью из земель
И шествующие с пляской к своему другу.
Боги, когда они любят,
Замыкающие в меру трепет вселенной,
Как Пушкин — жар любви горничной Волконского.
1911
– Velimir Khlébnikov (Велимир Хлебников), em “Eu e a Rússia: poemas de Khlébnikov”. [seleção, tradução e notas Marco Lucchesi; ilustrações Rita Soliéri]. Rio de Janeiro: Bem-Te-Vi, 2014.
O camponês, deixando a enxada,
contemple o voo de um corvo
e diga: em sua voz ressoa
a Guerra de Tróia,
a ira de Aquiles,
o pranto de Hécuba,
enquanto volteia
sobre nossas cabeças.
Que a mesa empoeirada
deixe desenhos
nas pardas profundezas das ondas.
Estranhos desenhos.
Um menino curioso dirá:
Essa poeira é Moscou
talvez o pasto de Pequim ou de Chicago.
A rede de um pescador
entrama as capitais da Terra
com os laços da poeira,
na malha sonora dos séculos.
E a noiva não desejando
trajar debrum de unhas fúnebres
afirme, ao limpá-las: aqui resplandecem
vivos Sóis e tantos mundos
de todo inatingíveis,
que a unha cobriu com carne fria.
Creio que Sirius resplandece sob as unhas
rompendo com seu brilho a escuridão.
.
Пусть пахарь, покидая борону,
Посмотрит вслед летающему ворону
И скажет: в голосе его
Звучит сраженье Трои,
Ахилла бранный вой
И плач царицы,
Когда он кружит, черногубый,
Над самой головой.
Пусть пыльный стол, где много пыли,
Узоры пыли расположит
Седыми недрами волны.
И мальчик любопытный скажет:
Вот эта пыль — Москва, быть может,
А это — Пекин иль Чикаго пажить.
Ячейкой сети рыболова
Столицы землю окружили.
Узлами пыли очикажить
Захочет землю звук миров.
И пусть невеста, не желая
Носить кайму из похорон ногтей,
От пыли ногти очищая,
Промолвит: здесь горят, пылая,
Живые солнца и те миры,
Которых ум не смеет трогать.
Закрыл холодным мясом ноготь.
Я верю, Сириус под ногтем
Разрезать светом изнемог темь.
1921-1922
– Velimir Khlébnikov (Велимир Хлебников), em “Eu e a Rússia: poemas de Khlébnikov”. [seleção, tradução e notas Marco Lucchesi; ilustrações Rita Soliéri]. Rio de Janeiro: Bem-Te-Vi, 2014.
Noite cheia de constelações.
De que destino e informações,
brilhas, ó livro, intensamente?
Será por jogo ou livremente?
Ler a sorte, quando me basta,
à meia noite, em céu tão vasto?
.
Ночь, полная созвездий.
Какой судьбы, каких известий
Ты широко сияешь, книга?
Свободы или ига?
Какой прочесть мне должно жребий
На полночью широком небе?
1912
– Velimir Khlébnikov (Велимир Хлебников), em “Eu e a Rússia: poemas de Khlébnikov”. [seleção, tradução e notas Marco Lucchesi; ilustrações Rita Soliéri]. Rio de Janeiro: Bem-Te-Vi, 2014.
Dostoievismo de nuvens fugaz!
Puchkínotas de um lento meio-dia!
A noite tiucheviza sempre mais,
cobrindo de infinito as cercanias.
.
О, достоевскиймо бегущей тучи!
О, пушкиноты млеющего полдня!
Ночь смотрится, как Тютчев,
Безмерное замирным полня.
1908-1909
– Velimir Khlébnikov (Велимир Хлебников), em “Eu e a Rússia: poemas de Khlébnikov”. [seleção, tradução e notas Marco Lucchesi; ilustrações Rita Soliéri]. Rio de Janeiro: Bem-Te-Vi, 2014.
NÚMEROS
Eu vos contemplo, ó números!,
E vós me vedes, vestidos de animais, em suas peles,
As mãos sobre carvalhos destroçados,
Ofereceis a união entre o serpear
Da espinha dorsal do universo e a dança da balança.
Permitis a compreensão dos séculos, como os dentes numa breve gargalhada.
Meus olhos se arregalam intensamente.
Aprender o destino do Eu, se a unidade é seu dividendo.
.
ЧИСЛА
Я всматриваюсь в вас, о, числа,
И вы мне видитесь одетыми в звери, в их шкурах,
Рукой опирающимися на вырванные дубы.
Вы даруете единство между змееобразным движением
Хребта вселенной и пляской коромысла,
Вы позволяете понимать века, как быстрого хохота зубы.
Мои сейчас вещеобразно разверзлися зеницы
Узнать, что будет Я, когда делимое его — единица.
1912
– Velimir Khlébnikov (Велимир Хлебников), em “Eu e a Rússia: poemas de Khlébnikov”. [seleção, tradução e notas Marco Lucchesi; ilustrações Rita Soliéri]. Rio de Janeiro: Bem-Te-Vi, 2014.
Rá vê seus olhos no pântano ferruginoso e avermelhado,
contemplando a si mesmo e a seu sonho
no ratinho que rouba delicado o cereal pantanoso,
na jovem rã que incha bolhas brancas em sinal de desafio,
na grama verde que corta com escrita vermelha o corpo
[da moça curvada como a foice,
enquanto reúne carriços para o fogo e para a casa,
na correnteza de peixes que movem as matas e soltam
[pequenas bolhas para a superfície,
cercado por um Volga de olhos.
Rá – prolongado em milhares de plantas e animais;
Árvore de folhas vivas, fugazes, pensantes, que sibilan e gemem.
Um Volga de olhos,
mil olhos o seguem, mil raios.
E Rázin
após lavar os pés,
ergue a cabeça contemplando Rá,
até que o pescoço se adelgace num filete avermelhado.
.
Ра — видящий очи свои в ржавой и красной болотной воде,
Созерцающий свой сон и себя
В мышонке, тихо ворующем болотный злак,
В молодом лягушонке, надувшем белые пузыри в знак мужества,
В траве зеленой, порезавшей красным почерком стан у
[девушки, согнутой с серпом,
Собиравшей осоку для топлива и дома,
В струях рыб, волнующих травы, пускающих кверху пузырьки,
Окруженный Волгой глаз,
Ра — продолженный в тысяче зверей и растений,
Ра — дерево с живыми, бегающими и думающими листами,
[испускающими шорохи, стоны.
Волга глаз,
Тысячи очей смотрят на него, тысячи зир и зин.
И Разин,
Мывший ноги,
Поднял голову и долго смотрел на Ра,
Так что тугая шея покраснела узкой чертой.
1921
– Velimir Khlébnikov (Велимир Хлебников), em “Eu e a Rússia: poemas de Khlébnikov”. [seleção, tradução e notas Marco Lucchesi; ilustrações Rita Soliéri]. Rio de Janeiro: Bem-Te-Vi, 2014.
O CARVALHO DA PÉRSIA
Na trama de espessas raízes,
como um cântaro vazio,
ergue o carvalho as flores seculares
com uma gruta para anacoretas.
Ao som dos ramos
sibila a consonância
de Marx e Mazda.
“Chamau, chamau!
Uach, uach, chagan!”
Quais lobos açulados
Espalham-se os chacais.
E o ressoar da ramagem recorda
a melodia dos tempos de Báty.
.
ДУБ ПЕРСИИ
Над скатертью запутанных корней
Пустым кувшином
Подымает дуб столетние цветы
С пещерой для отшельников.
И в шорохе ветвей
Шумит созвучие
С Маздаком Маркса.
«Хамау, хамау,
Уах, уах, хаган!» —
Как волки, ободряя друг друга,
Бегут шакалы.
Но помнит шепот тех ветвей
Напев времен Батыя.
1921
– Velimir Khlébnikov (Велимир Хлебников), em “Eu e a Rússia: poemas de Khlébnikov”. [seleção, tradução e notas Marco Lucchesi; ilustrações Rita Soliéri]. Rio de Janeiro: Bem-Te-Vi, 2014.
– Senta, Gul Mulá!
Uma bebida quente banhou o meu rosto.
– Água negra? Olhou-me Ali Mohammed, pondo-se a rir:
– Eu sei quem você é.
– Quem?
– Um Gul Mulá.
– Um sacerdote das flores?
– Sim-sim-sim,
Rema e sorri.
Navegamos num golfo espelhado
junto a uma nuvem de amarras e monstros de ferro
chamados “Trotski” e “Rosa Luxemburgo”.
.
— Садись, Гуль-мулла.
Черный горячий кипяток, брызнул мне в лицо?
Черной воды? Нет — посмотрел Али-Магомет, засмеялся:
— Я знаю, ты кто.
— Кто?
— Гуль-мулла.
— Священник цветов?
— Да-да-да.
Смеется, гребет.
Мы несемся в зеркальном заливе
Около тучи снастей и узорных чудовищ с телом железным,
С надписями «Троцкий» и «Роза Люксембург».
– Velimir Khlébnikov (Велимир Хлебников), em “Eu e a Rússia: poemas de Khlébnikov”. [seleção, tradução e notas Marco Lucchesi; ilustrações Rita Soliéri]. Rio de Janeiro: Bem-Te-Vi, 2014.
Leia aqui a entrevista de Marco Lucchesi PRESTES, Zóia. Marco Lucchesi e a tradução. in: Agulha Revista de Cultura, 30 de agosto de 2017. Disponível no link. (acessado em 19.4.2018)
Nacque nel villaggio di Malye Derbety (in russo: Ма́лые Дербе́ты; in calmucco: Баһ Дөрвд, Bağ Dörvd), situato nell’Oblast’ di Astrachan’. Nel 1909 incontrò Vladimir Majakovskij, Aleksej Kručënych, David Burljuk e Benedikt Livšic,[2] con cui entrò successivamente a far parte del gruppo futurista Gileja. Già in precedenza aveva scritto però molte opere significative. Tra i contemporanei, era considerato “un poeta per poeti” (così Majakovskij nel suo necrologio) e un genio squilibrato.
Nella sua opera abbondano le sperimentazioni linguistiche, con l’invenzione di un numero enorme di neologismi. Insieme a Kručënych, diede vita alla lingua poetica “trasmentale”, detta zaum o zanghesi (Зангези).[3]
Scrisse anche saggi sulle future, possibili evoluzioni dei mezzi di comunicazione (“La Radio del Futuro”), dei trasporti e delle abitazioni (“Noi stessi e i nostri edifici”). Descrisse un mondo in cui la gente vive e viaggia in cubi di vetro mobili e in cui tutta la conoscenza umana può essere diffusa attraverso la radio e mostrata automaticamente su giganteschi pannelli simili a libri collocati per strada.
“Zangezi” traduzione e note di Carla Solivetti, Carte Segrete 53, marzo 1987, Serafini Editore, nello stesso numero due “mostre libro”, Mario Coppola “Adventum”, Zao Wou-Ki “Il Pittore Di Due Mondi”.
Su Chlebnikov
Nel romanzo Pancetta (2004) di Paolo Nori si descrivono la vita e le opere del poeta; lo stesso autore racconta ampiamente di Chlébnikov nel suo romanzo Vi avverto che vivo per l’ultima volta che parla di Anna Achmàtova.
al Teatro Mancinelli di Orvieto l’VIII Edizione dell’Orvieto Festival della Piana del Cavaliere
“Metamorfosi” il tema di questa stagione
ORVIETO-Le luci si accendono al Teatro Mancinelli per l’VIII edizione dell’Orvieto Festival della Piana del Cavaliere, dedicata quest’anno all’onirico tema della Metamorfosi. Dal 5 al 15 settembre 2024 artisti di fama internazionale si alterneranno sul palco dello storico teatro di Orvieto in un ricco parterre di appuntamenti tra concerti, spettacoli, conferenze a tema, arti figurative e teatrali, facendo interagire tra loro le diverse forme d’arte. Un programma che si arricchisce di anno in anno con artisti, musiche e rappresentazioni in grado di attrarre il pubblico delle grandi occasioni e proiettando Orvieto nel panorama artistico-culturale nazionale e internazionale.
Un tema, quello della Metamorfosi, che si lega al fluire inesorabile degli eventi, al modificarsi delle forme, al continuo divenire che, da sempre, scandisce il ritmo atavico della vita. Da Ovidio, ad Apuleio, a Kafka, la metamorfosi ha, da sempre, affascinato il pensiero di filosofi e pensatori spingendo alla riflessione sull’evolversi della vita che porta con sé curiosità, meraviglia, voglia di conoscere e, a volte, anche un pizzico di paura, dovuta all’incertezza del futuro e alla certezza dell’irreversibilità del tempo. Un’incognita che può essere un’opportunità e uno slancio verso un nuovo e più potente modo di essere e di stare al mondo, adattandosi ad esso e, al tempo stesso, adattando esso a noi stessi. Sensazioni che il Festival mira a far vivere allo spettatore che, seduto in sala, attende l’accendersi delle luci e l’inizio della rappresentazione.
Metamorfosi è il respiro profondo dell’anima culturale. È il filo invisibile che tesse insieme i frammenti di storie antiche e moderne, fondendoli in un caleidoscopio di significati sempre nuovi. Trasfigura tradizioni, linguaggi e visioni in un perpetuo rinnovamento rivelando la forza del cambiamento. È il mistero che abita il cuore dell’arte, della letteratura, della musica, dove ogni creazione è un passo verso l’ignoto, un viaggio che ridefinisce l’essenza stessa del nostro essere, spiega così il tema di questa VIII edizione la direttrice artistica Anna Leonardi.
Al via giovedì 5 settembre, ore 21, con “Ensemble InCanto” con la soprano Elisa Cenni e il direttore Fabio Maestri. Gli spettatori saranno incantati dalle note dell’Adagetto di Giacomo Puccini, in versione per
ensemble a cura del direttore Maestri, e della IV Sinfonia di Gustav Mahler, nella versione di Erwin Stein, in questo progetto che nasce dalla collaborazione con l’Associazione In Canto di Terni. Venerdì 6 settembre, ore 21, si entra nel vivo della kermesse con l’Anteprima del Festival, “Ludwig van Beethoven, Sinfonia n. 9”, nella versione per due pianoforti di uno dei più grandi capolavori della storia della musica sinfonica, nonché, con l’ultimo movimento, simbolo universale di unità e fratellanza tra gli uomini. Sabato 7 settembre, alle 17, appuntamento con la Conferenza Letteraria tenuta dal Prof. Bruno Milone e dedicata al tema “Metamorfosi”, leitmotiv di quest’anno e, a seguire, alle 21, su il sipario del Festival 2024 con il concerto d’inaugurazione “Tre Fenomeni”, a firma del premio Oscar Nicola Piovani che dirigerà l’Orchestra Filarmonica Vittorio Calamani in collaborazione con Umbria Green Festival, il primo festival umbro a impatto zero.
Domenica 8 settembre alle 17.30 in scena la rappresentazione multisensoriale “Ladre di sabbia” con la sand artist Gabriella Compagnone, la voce narrante di Guido Barbieri e la musica dell’Orchestra Filarmonica Vittorio Calamani. L’artista, con le dita e i palmi delle mani, modellerà la sabbia su di un piano luminoso proiettando lo spettatore in un suggestivo viaggio scandito dalle note musicali in una forma d’arte che crea, attraverso luci e ombre, immagini in continuo divenire. A seguire, alle 21, il Gruppo Swing “Cherries on a Swing Set” si esibirà in uno concerto che spazia dal jazz alla musica moderna pop e d’autore.
Giovedì 12 settembre, ore 21, sarà la volta dello spettacolo “Il Diario di Gian Burrasca”, liberamente tratto da Il giornalino di Gian Burrasca di Vamba, con gli attori Camilla Berardi e Marco Saccomandi e musiche di Nino Rota eseguite dell’Orchestra Filarmonica Vittorio Calamani. Uno spettacolo sempre attuale che vuole toccare, con la tipica irriverenza e, a volte, inconsapevolezza del personaggio, la distanza tra ragazzi e adulti spingendo quest’ultimi ad affrontare le numerose incoerenze che spesso contraddistinguono il mondo dei grandi.
Ed ancora venerdì 13 settembre, ore 21, appuntamento con Giacomo Puccini nell’anniversario dei 100 anni dalla morte del celebre compositore. “Amate, disperate donne mie”, un excursus tra le dive di Puccini, accomunate dal destino della morte, che sia naturale o violenta, voluta dall’autore. Lucia Poli e Sandro Cappelletto ripercorrono, con la soprano Cinzia Forte e il pianoforte di Marco Scolastra, le famose arie e brani strumentali di Puccini, tratti da La Bohème, Tosca, Manon Lescaut, Suor Angelica, Madama Butterfly e Turandot.
Sabato 14 settembre alle 21, “Rita”, opéra-comique in un atto di Gaetano Donizetti, libretto di Gustavo Vaez, a cura dell’Accademia del Teatro Carlo Felice di Genova. Un’opera che è considerata un piccolo gioiello sia
per la sua vivacità che per la perfetta rispondenza fra tempi musicali e tempi scenici. Ultimi appuntamenti in calendario domenica 15 settembre. Alle 11, “Il granchio e l’onda”, un racconto poetico per grandi e piccini, a cura de La Corelli, che ricorda una favola classica e narra di un granchio che affronta le sue paure e scopre l’amore per un’onda. Alle 18.30 gran finale con l’Orchestra di Fiati dell’Umbria diretta da Giovanni Ieie che riunirà le bande dell’Umbria in un progetto unico di ampio respiro.
In attesa di questa ottava edizione, che prenderà il via tra poche settimane – afferma il Presidente del Festival Stefano Calamani – sono orgoglioso di poter affermare che il Festival sta diventando parte sempre più integrante di Orvieto, confermandosi un punto di riferimento tra gli eventi del territorio e garantendo un ampio respiro di internazionalità, che trova in questa città una cornice ideale. Orvieto e il Teatro Mancinelli rappresentano infatti per noi non solo una casa, ma anche il luogo in cui il nostro Festival ha rafforzato prestigio e attrattività negli anni”.
Dunque, un programma ricco di appuntamenti eterogenei e di elevata qualità, uniti tutti da un unico filo conduttore: l’elevazione della musica e dell’arte in tutte le sue sfaccettature, diventando punto di riferimento della città e proiettando Orvieto e il suo Festival sempre più in alto nel panorama musicale italiano e straniero.
L’Orvieto Festival della Piana del Cavaliere gode dell’Alto Patrocinio del Parlamento Europeo e della Regione Umbria. A suo sostegno anche il Ministero della Cultura, la Città di Orvieto e la Fondazione Cassa di Risparmio di Orvieto, nonché le collaborazioni con la Fondazione per il Centro Studi “Città di Orvieto”, Cittaslow Orvieto, l’Università delle Tre Età, l’Opera del Duomo e la Scuola Comunale di Musica “Adriano Casasole”. Main sponsor del Festival continua ad essere AISICO, realtà imprenditoriale che promuove l’arte, credendo fortemente nel suo valore sociale, formativo e di sviluppo culturale puntando, in particolare, sulla musica quale linguaggio universale.
Lo sguardo di una donna nella Resistenza: L’Agnese va a morire di Renata Viganò
Un titolo che anticipa l’esito di una vicenda straziante ma al contempo necessaria per cogliere un inedito sguardo sulla Resistenza.
Articolo di Elisabetta BIEMMI
Alcuni nomi di donne partigiane, come Renata Viganò, risuonano nella nostra mente come conosciuti, tra cui Nilde Iotti, la prima donna Presidente della Camera dei deputati, e Lidia Menapace, scomparsa lo scorso anno, oltre alla bresciana Agape Nulli e alla cuneese Margherita Mo. Tuttavia per molto tempo la storiografia ha taciuto il ruolo che molte donne ebbero durante la Resistenza, che è stata considerata per lo più un momento di lotta e di rivendicazione prettamente maschile. L’umiltà di molte donne nel dopoguerra non ha cancellato il ruolo essenziale che spesso molte di loro ebbero all’interno delle bande partigiane, come staffette, vere e proprie combattenti ed anche con ruoli importanti in ambiti istituzionali.
Molti nomi maschili, inoltre, si riscontrano sugli scaffali delle librerie e delle biblioteche rispetto al tema della Resistenza, tra cui Italo Calvino, Beppe Fenoglio, Luigi Meneghello, Carlo Cassola, Cesare Pavese. Voci sicuramente autorevoli e stilisticamente incisive, che con le loro parole hanno saputo trasporre storie reali o fittizie, ma sicuramente importanti per rendere viva la memoria della Resistenza.
Un’altra voce che ha contribuito a quest’intento è sicuramente quella di Renata Viganò, che ha il merito di proporre al lettore la prospettiva di una donna, Agnese, negli anni drammatici tra il ’43 e il ’45. La stessa Viganò fu partigiana e partecipò come infermiera ma anche come staffetta e collaboratrice per la stampa clandestina. Già nel 1949 il romanzo L’Agnese va a morire fu pubblicato per Einaudi, ottenendo grande successo: oltre all’attribuzione del Premio Viareggio nello stesso anno, fu realizzata una trasposizione cinematografica, nel 1976, con la regia di Giuliano Montaldo.
Renata Viganò costruisce un personaggio sfaccettato e duplice, con una narrazione in prima persona che immerge maggiormente il lettore nell’animo di Agnese. È una donna pratica e pragmatica, che nonostante l’apparente durezza esteriore, dimostra inizialmente insicurezza nel rapportarsi con i compagni partigiani. Anche la sua partecipazione alla Resistenza non è immediata: è proprio dalle parole di Agnese che traspare un suo iniziale attutito interesse per le questioni politiche o di partito, che contrariamente riguardavano il marito. Da queste parole si riscontra la precedente distanza ma anche il momento di trasformazione, in particolare a seguito della cattura del marito da parte di un gruppo di soldati tedeschi:
«Vennero a trovarla tre uomini che abitavano a poca distanza dal paese […] – Voi certo sapete che Palita è del nostro partito. […] L’Agnese li guardava, uno dopo l’altro, e la sua grossa faccia esprimeva un timore attento, quasi uno sforzo di stare in ascolto per togliere da quelle parole l’eco della lontana voce di Palita. Rispose: – Mio marito ne parlava, ma erano cose di politica e di partito, cose da uomini. Io non ci badavo. So che ha sempre voluto male ai fascisti, e dopo anche ai tedeschi, e diceva che i comunisti ci avrebbero pensato loro per tutti, anche per i padroni che ci sfruttano, a fare piazza pulita -. Appena l’ombra di un sorriso passò nei suoi occhi: – Diceva proprio così: piazza pulita. I tre annuirono con forza, e il più giovane disse: – Per far questo, bisogna lavorare. Palita è un bravo compagno. Faceva molto per noi –. L’Agnese lo interruppe: – Se c’è qualcosa che posso fare io… – Arrossì, come se si fosse azzardata a dir troppo, e si strinse il fazzoletto sotto il mento: – Chissà se sarò buona, – aggiunse. Allora le spiegarono che cosa avrebbe dovuto fare, e lei diceva di sì, meravigliata che fossero cose tanto facili. Si vedeva che era contenta, che prendeva coraggio. Si attentò anche a suggerire qualche suo parere e i compagni l’approvarono […] – Se “loro” vi pescano, ci rimettete la pelle […] Palita deve ritrovarvi, quando ritornerà – […] – Io non mi farò prendere da “loro”, ma Palita non ritornerà –. […] Le lacrime le segnarono due righe sul viso largo ed immobile; se le asciugò con le punte del fazzoletto, indispettita di farsi vedere piangere»[1].
Attraverso lo sguardo di Agnese e la penna dell’autrice, con la sua capacità evocativa e con la scelta di pochi elementi descrittivi, è possibile avere una piccola sensazione dell’atmosfera cupa e straziante di quegli anni. Anche le Valli di Comacchio, in cui è ambientata la vicenda e che l’autrice conosce a fondo, partecipano a quest’atmosfera, diventando anch’esse l’ennesimo ostacolo con cui i partigiani devono confrontarsi:
«Fuori era un freddo terribile. Il sole gelido cadeva sulla neve dura come la pietra. La tramontana precipitava a tratti, scuotendo la nuda immobilità della campagna, il cielo curvo e vuoto. Clinto arrivò al canale, proseguì lungo l’argine. […] Guardava lontano, con i suoi occhi avvezzi ai colori della valle, e, proprio dai colori, a conoscerne i segreti. Presso la riva l’acqua era torbida, grigia, si muoveva col vento, ma al largo appariva lucida e ferma, con un riflesso quasi azzurro: senza nebbia, una trasparenza di vetro spesso, un pauroso senso di continuità, di saldezza, di peso. Clinto sapeva che cosa era, l’aveva visto tante volte: l’acqua di tutta la valle non era più acqua ma ghiaccio»[2].
La durezza della quotidianità è ovviamente determinata dalla presenza dei fascisti, vili e che «spadroneggiavano con prepotenza, cogliendo l’occasione di vendicarsi di vecchi rancori e di umiliazioni recenti»[3], e dei soldati tedeschi, la cui altrettanta meschinità porta la protagonista a compiere un gesto estremo, violento e sulla cui descrizione l’autrice non indugia ma piuttosto rivela come la sua repentinità fosse determinata quasi da uno strazio interiore:
«Era stata un’azione che le somigliava tanto poco, che era venuta dal di fuori, come il comando di un estraneo. Adesso se la trascinava dietro come un peso, un fagotto scuro, e aveva voglia di svolgerla, di rivederla, ma non ne era capace»[4].
Tra le ultime pagine del romanzo, emergono con forza le parole di Agnese, che con la sapienza e la consapevolezza dei partigiani, testimoni di quegli anni fondamentali, enuncia queste parole, che in alcuni punti appaiono innocenti e portatrici di quell’illusione che la fine di un conflitto porta sempre con sé: l’impossibilità che possano accadere nuovamente uguali atrocità
«Io sono vecchia e non ho più nessuno. Ma voialtri tornerete a casa vostra. Potrete dirlo quello che avete patito, e allora tutti ci penseranno prima di farne un’altra, di guerra. E a quelli che hanno avuto paura, e si sono rifugiati, e si sono nascosti, potrete sempre dirla la vostra parola; e sarà bello anche per me»[5].
[1] Renata Viganò, L’Agnese va a morire, Einaudi, 2014, p. 23
[2] Renata Viganò, L’Agnese va a morire, Einaudi, 2014, p. 174.
[3] Renata Viganò, L’Agnese va a morire, Einaudi, 2014, p. 40
[4] Renata Viganò, L’Agnese va a morire, Einaudi, 2014, p. 55
[5] Renata Viganò, L’Agnese va a morire, Einaudi, 2014, p. 229.
Immagine di copertina: Al centro: Renata Viganò, L’Agnese va a morire, Einaudi, 2014. Partendo dall’alto, da sinistra a destra: Lidia Menapace, Margherita Mo detta Meghi, Carla Capponi, Nilde Iotti, Irma Bandiera, Gina Galeotti Bianchi, Agape Nulli Quilleri.
Lettere e poesie di Emily Dickinson in un film capolavoro Il regista esalta l’espressività dell’attrice Cynthia Nixon
Il dolore di vivere si stempera nelle delicatezze fraterne
Il film di Terence Davies raccont a l grande Poetessa Emily Dickinson, otto regie in poco più di trent’anni, ha realizzato almeno due storie che non si dimenticano, “Voci lontane, sempre presenti”, e “Il lungo giorno finisce”, centrate entrambe sulla famiglia, dominata da un padre violento, e in particolare sull’infanzia, ripiegata nella frequentazione delle sale cinematografiche.
La sua poetica è inconfondibile: uno sguardo freddo, movimenti lenti e solenni, che assorbono il respiro del tempo e dell’infelicità, filtrandoli ora con una fitta rete di canzoni intonate in coro al pub, ora con una ricerca visiva che parla la magia dei sogni. Ha creato poemi di sofferenza e sopravvivenza, di immagini e suoni. “A Quiet Passion” appartiene di diritto al novero dei capolavori del 73eenne regista di Liverpool. Davies lo ha sceneggiato utilizzando le lettere e le poesie scritte dalla maggior poetessa americana dell’Ottocento, Emily Dickinson (Cynthia Nixon), che risuonano (over) di continuo nel corso della storia. Di Emily ha fatto un alter ego della sua concezione del mondo: per l’orrore della pazza folla, un’esistenza trascorsa nella casa del padre (Keith Carradine), ad Amherst, Massachusetts, accanto all’amata sorella Vinnie (Jennifer Ehle), e ad un’amica di forte humour (Catherine Bailey). A Emily viene attribuito un solo fremito d’amore, intellettuale, per il pastore della chiesa locale, peraltro sposato, e del quale inibendosi sceglie di evidenziare la sua intransigenza vestendosi di bianco, fino alla morte (nel 1886, a 56 anni).
Emily, una fanciulla puritana, ma dotata di grande temperamento e consapevolezza: fin da giovinetta, nel collegio femminile di Mount Holyoke, richiesta di schierarsi tra le cristiane, o le laiche, non si pronuncia, preferendo elaborare la questione nell’ambito della sua coscienza, e con il consenso paterno, di poetare di notte, nel silenzio della casa. Una scelta analoga compirà come donna, quando rinuncia al pastore: «Se non c’è uguaglianza tra uomo e donna, non voglio saper nulla dell’amore». Così si nega ai contatti esterni, ma gli uomini padroni sa controbattere, specie certi voleri del padre, e fustiga il comportamento del fratello con la moglie. L’Autore compie un’analisi psicologica della poetessa straordinariamente fine, e non solo esalta l’espressività dell’attrice, Cynthia Nixon, che intravista in personaggi fatui, qui sorprende con una performance degna delle grandi del passato, Davies ha anche l’accortezza di riportare i pensieri reali della Dickinson, evidenziando la loro organizzazione logica, la forma mentis di una donna eccezionale, e ne rivela i lampi d’ironia, o più rara l’aggressività.
Anche se sa correggersi dialogando con la sorella, Jennifer Ehle, di una dolcezza ammirevole. Ogni personaggio della famiglia è tratteggiato con bella e incisiva precisione. Apparentemente statica, muove la macchina da presa con piani sequenza impercettibili, lungo le pareti, alla ricerca dell’eroina, talora alla fessure di una porta da cui ascolta Schubert. Ed eccellente è l’intervento sul décor degli interni, intonati a sobrietà puritana, al confronto dei fiori che illustrano a meraviglia il prato di casa. Un film di grande intelligenza, e come nei precedenti, il dolore di vivere si stempera nelle delicatezze fraterne, nelle parole che eufemizzano il congedo.
Articolo di Alberto Cattini
Articolo scritto da Serena di Battista- 15-05-2018
Oggi, 15 maggio, nel 1886 moriva Emily Dickinson, una delle poetesse più famose al mondo. Quali sono le sue frasi e poesie più belle? Per capirle e apprezzarle meglio andiamo a scoprire la vita e la personalità di questa donna davvero fuori dal comune.
La vita di Emily Dickinson
Nata nel 1830 a Amherst, Massachusetts, da una famiglia borghese di tradizioni puritane, manifesta sin dalla giovinezza un carattere contraddittorio e complesso. Infatti, non si sa ancora per quale motivo, a venticinque anni decide di trascorrere una vita solitaria e appartata nella sua camera, nella quale si reclude. Parliamo dunque di una vita di certo ben diversa da quella delle sue coetanee.
Studia per lo più come autodidatta, grazie all’aiuto di un assistente del padre chiamato Benjamin Newton, e per un periodo frequenta il College Femminile di Mount Holyoke, che però abbandona. Il suo carattere introverso, e il bisogno di estraniarsi dal mondo, fanno sì che stringa pochi legami affettivi e professionali nella sua vita. Anche se non manca qualche profonda amicizia: si lega a Susan Gilbert con la quale scambia numerose lettere e Samuel Bowles, direttore del giornale Springfield Daily Republican.
Dal punto di vista sentimentale sembra che Emily Dickinson abbia vissuto dei grandi amori platonici, perché si innamora di un reverendo sposato, Charles Wadsworth, e sembrerebbe anche dello stesso Bowles. Compie pochi viaggi nella sua vita, durante i quali però incontra alcune personalità importanti nel mondo culturale, come lo scrittore e filosofo trascendentalista Ralph Waldo Emerson.
La sua forte vocazione poetica e il suo talento rimangono per lo più nascosti con lei nella sua stanza: soltanto sette dei suoi componimenti vengono pubblicati durante la sua vita. Ma alla sua morte, nel 1886, la sorella Lavinia scopre nella camera in cui si era autoreclusa ben 1775 poesie. Tutte scritte su foglietti ripiegati e cuciti con ago e filo, contenuti ordinatamente in un raccoglitore. La prima raccolta di poesie viene pubblicata nel 1890.
Oggi Emily Dickinson viene giustamente considerata una delle poetesse più sensibili di tutti i tempi, e anche una delle più rappresentative. Le sue opere vengono tradotte ancora oggi, sulle sue opere vengono prodotti testi di critica sempre più approfonditi. Vediamo insieme le frasi e poesie più belle di questa poetessa immensa.
Curiosità su Emily Dickinson: gli abiti bianchi e la sua stanza
Dunque il suo carattere singolare, un approccio complicato al mondo che la circondava e un’assoluta necessità di solitudine spinsero l’autrice a vivere gran parte della sua vita in reclusione nella sua stanza. Non solo: la Dickinson vestiva solo di bianco, in segno di purezza. Un distacco totale, fisico e simbolico, dal mondo.
Mise in opera un allontanamento dalla sua stessa famiglia, il suo universo di amore. Pensate che la Dickinson non uscì dalla sua stanza al piano superiore della casa paterna neanche alla morte dei genitori, che pure amava. Il suo unico accesso all’esterno era l’immaginazione, il suo talento e la vocazione poetica. Forse per questo le sue parole ci sembrano tanto profonde e vere.
Emily Dickinson: le frasi e poesie più belle per celebrarla
Quando sentiamo il bisogno di un abbraccio, dobbiamo correre il rischio di chiederlo.
Perché nasca un prato, bastano un trifoglio, un’ape e un sogno. E se non ci sono le api e il trifoglio, può bastare anche il sogno.
Noi che abbiamo l’anima moriamo più spesso.
La speranza è qualcosa con le ali, che dimora nell’anima e canta la melodia senza parole, e non si ferma mai.
Conosco vite della cui mancanza non soffrirei affatto – di altre invece ogni attimo di assenza mi sembrerebbe eterno.
Fa’ che per te io sia l’estate anche quando saran fuggiti i giorni estivi.
Che l’amore è tutto, è tutto ciò che sappiamo dell’amore.
Non conosciamo mai la nostra altezza finché non siamo chiamati ad alzarci. E se siamo fedeli al nostro compito arriva al cielo la nostra statura
Non sono solo sogni tutti i fatti, non appena ce li lasciamo alle spalle?
Nessun vascello c’è che, come un libro, possa portarci in contrade lontane.
E ancora:
Ho preso un Sorso di Vita
Ho preso un Sorso di Vita − Vi dirò quanto l’ho pagato − Precisamente un’esistenza − Il prezzo di mercato, dicono. M’hanno pesata, Granello per Granello − Bilanciata Fibra con Fibra, Poi m’han dato il valore del mio Essere − Un solo Grammo di Cielo!
Il nuovo romanzo di Serena McLeen- “IL PESO DELLA VERGOGNA”
Sinossi del libro di Serena McLeen. Dopo la morte dell’amata nonna Angela Bramante, Annabella viene a conoscenza dell’esistenza di Villa dei Conti Bramante, la maestosa e vecchia dimora nella quale, in un piccolo paese della bassa pianura padana, proprio la nonna ha vissuto la sua giovinezza, per poi scappare alcuni anni dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale lasciandosi quel passato alle spalle per sempre.Annabella dovr&agrvae; accettare quel lascito e ristrutturare la casa, oppure rinunciarvi: ad aiutarla a scegliere cosa fare sarà una lettera che la nonna le ha lasciato. Ma cosa si nasconde tra le righe di quello scritto? Quando Annabella finalmente scioglierà i propri dubbi, imbarcandosi nel compito affidatole dalla nonna, si immergerà fra le pagine del diario e fra i più dolorosi ricordi di quella parte della vita di Angela, a lei sconosciuta e legata agli anni bui del Fascismo e della guerra. In un momento di crisi artistica e professionale, Annabella troverà nuova ispirazione nella ricerca della verità e nell’incontro con Francesco, che gestisce con la madre la locanda di paese, ma allo stesso tempo scoprirà che dell’eredità della nonna fa parte anche l’inconfessabile storia della sua stessa famiglia: un capitolo torbido e pregno di segreti per colpa del quale Angela ha vissuto tutta la vita sotto il peso della vergogna.Una giovane donna in cerca di se stessa, i terribili segreti di un passato sepolto ma non morto: nel contesto storico della Seconda Guerra Mondiale, un romanzo psicologico che rivela le pieghe più oscure dell’animo umano.
Cesare Pavese è senza ombra di dubbio uno degli autori più importanti della letteratura italiana In questa pagina vi proponiamo una selezione delle sue poesie più belle, con accanto a ogni poesia l’indicazione della raccolta a cui appartiene.A detta di molti lettori la poesia più bella di Cesare Pavese è “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”. A ispirare la poesia fu l’infelice storia d’amore con l’attrice americana Constance Dowling, l’ultimo amore di Cesare Pavese, prima della morte.
Cesare Pavese nasce il 9 SETTEMBRE 1908 a Santo Stefano Belbo, un paesino delle Langhe in provincia di Cuneo, e muore suicida il 27 agosto 1950, in una camera d’albergo a Torino.scrittore, poeta, traduttore e critico letterario è considerato uno dei maggiori intellettuali italiani del XX secolo. Esordisce con la traduzione di Moby Dick di Herman Melville, nel 1932; due anni più tardi prende avvio la collaborazione, durata tutta una vita, con la casa editrice Einaudi, che stampa, nel 1943, l’edizione aumentata della sua prima raccolta poetica, Lavorare stanca, uscita per Solaria nel ’36. Oltre la sua attività di redattore, traduttore e americanista, pubblica romanzi e racconti: Paesi tuoi (1941), Feria d’agosto (1946), Dialoghi con Leucò (1947), La bella estate (1949) per cui riceverà il premio Strega. L’ultimo romanzo, La luna e i falò, uscirà nella primavera del ’50. Nell’agosto dello stesso anno si toglierà la vita all’albergo Roma di Torino. Usciti postumi Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, apice della sua poesia, e il diario che lo ha accompagnato dal 1935 fino alla morte, Il mestiere di vivere.
La sua opera si colloca tra realismo e simbolismo lirico: la realtà delle natìe langhe e della Torino della vita adulta diventa teatro delle proiezioni interiori, del profondo disagio esistenziale, dei miti immaginativi, della ricerca di autenticità, delle ossessioni psichiche. Così le colline e la città vedono come protagonista più la coscienza dell’autore che non la realtà esterna, ambientale e storica. Per questo va dissipato l’equivoco di un Pavese padre del neorealismo post-bellico. Le componenti esistenziali hanno un cospicuo rilievo ed entrano direttamente come materia di scrittura nell’opera di Pavese.
L’aspetto forse più vistoso del suo appartenere al decadentismo è offerto dalla crisi del rapporto tra arte e vita. E’ l’epoca della noluntas l’artista si lascia vivere, è pieno di contraddizioni e di conflitti. Sua unica ricchezza è una sensibilità che non serve a nulla e agisce soltanto in senso negativo, corrodendo ogni certezza sul destino del mondo, della storia, dell’individuo. C’è uno scompenso fondamentale tra il sentire, il capire e l’agire, per cui il primo elemento determina una specie di paralisi degli altri due. L’artista decadente, smarrita assieme ai valori tradizionali ogni volontà di agire, si trova nell’incapacità di affrontare l’esistenza, gravemente handicappato nei rapporti umani, sempre a disagio in ogni situazione esistenziale, con grosse tare nevrotiche originate proprio da questa situazione di inadeguatezza nei confronti della vita. Ecco allora che vivere diventa mestiere da apprendere con grande pena e spesso senza risultati. In tale situazione di sradicamento l’arte appare come sostituto integrale dell’esistenza «Ho imparato a scrivere, non a vivere», ma anche come unico rimedio, la sola possibilità di sentirsi vivi e, per un attimo, persino felici “Quando scrivo sono normale, equilibrato, sereno”, dice Pavese. Per la letteratura del Novecento, il grado di autenticità poetica è determinato dalla misura di aderenza alla sconsolata visione dell’uomo, colto nel suo destino di angoscia. Autenticità e morte diventano sinonimi, vivere è essere per la morte.
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi
questa morte che ci accompagna
dal mattino alla sera, insonne,
sorda, come un vecchio rimorso
o un vizio assurdo. I tuoi occhi
saranno una vana parola,
un grido taciuto, un silenzio.
Così li vedi ogni mattina
quando su te sola ti pieghi
nello specchio. O cara speranza,
quel giorno sapremo anche noi
che sei la vita e sei il nulla.
Per tutti la morte ha uno sguardo.
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.
Sarà come smettere un vizio,
come vedere nello specchio
riemergere un viso morto,
come ascoltare un labbro chiuso.
Scenderemo nel gorgo muti.
Cesare Pavese
Cesare Pavese, (da) “La Luna e i Falò”, 1950.
L’altro anno, quando tornai la prima volta in paese, venni quasi di nascosto a rivedere i noccioli. La collina di Gaminella, un versante lungo e ininterrotto di vigne e di rive, un pendìo così insensibile che alzando la testa non se ne vede la cima – e in cima, chi sa dove, ci sono altre vigne, altri boschi, altri sentieri – era come scorticata dall’inverno, mostrava il nudo della terra e dei tronchi. La vedevo bene, nella luce asciutta, digradare gigantesca verso Canelli dove la nostra valle finisce. Dalla straduccia che segue il Belbo arrivai alla spalliera del piccolo ponte e al canneto. Vidi sul ciglione la parete del casotto di grosse pietre annerite, il fico storto, la finestretta vuota, e pensavo a quegli inverni terribili. Ma intorno gli alberi e la terra erano cambiati; la macchia dei noccioli sparita, ridotta una stoppa di meliga. Dalla stalla muggì un bue, e nel freddo della sera sentii l’odore del letame. Chi adesso stava nel casotto non era dunque più così pezzente come noi.M’ero sempre aspettato qualcosa di simile, o magari che il casotto fosse crollato; tante volte m’ero immaginato sulla spalletta del ponte a chiedermi com’era stato possibile passare tanti anni in quel buco, su quei pochi sentieri, pascolando la capra e cercando le mele rotolate in fondo alla riva, convinto che il mondo finisse alla svolta dove la strada strapiombava sul Belbo. Ma non mi ero aspettato di non trovare più i noccioli. Voleva dire ch’era tutto finito. La novità mi scoraggiò al punto che non chiamai, non entrai sull’aia. Capii lì per lì che cosa vuol dire non essere nato in un posto, non averlo nel sangue, non starci già mezzo sepolto insieme ai vecchi, tanto che un cambiamento di colture non importi. Certamente, di macchie di noccioli ne restavano sulle colline, potevo ancora ritrovarmici; io stesso, se di quella riva fossi stato padrone, l’avrei magari roncata e messa a grano, ma intanto adesso mi faceva l’effetto di quelle stanze di città dove si affitta, si vive un giorno o degli anni, e poi quando si trasloca restano gusci vuoti, disponibili, morti. Così questo paese, dove non sono nato, ho creduto per molto tempo che fosse tutto il mondo. Adesso che il mondo l’ho visto davvero e so che è fatto di tanti piccoli paesi, non so se da ragazzo mi sbagliavo poi di molto. Uno gira per mare e per terra, come i giovanotti dei miei tempi andavano sulle feste dei paesi intorno, e ballavano, bevevano, si picchiavano, portavano a casa la bandiera e i pugni rotti. Si fa l’uva e la si vende a Canelli; si raccolgono i tartufi e si portano in Alba. C’è Nuto, il mio amico del Salto, che provvede di bigonce e di torchi tutta la valle fino a Camo. Che cosa vuol dire? Un paese ci vuole, non fosse per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti. Ma non è facile starci tranquillo. Da un anno che lo tengo d’occhio e quando posso ci scappo da Genova, mi sfugge di mano. Queste cose si capiscono col tempo e l’esperienza. Possibile che a quarant’anni,e con tutto il mondo che ho visto, non sappia ancora che cos’è il mio paese?
Cesare Pavese, (da) “La Luna e i Falò”, 1950.
Maternità
Questo è un uomo che ha fatto tre figli: un gran corpo
poderoso, che basta a se stesso; a vederlo passare
uno pensa che i figli han la stessa statura.
Dalle membra del padre (la donna non conta)
debbon esser usciti, già fatti, tre giovani
come lui. Ma comunque sia il corpo dei tre,
alle membra del padre non manca una briciola
né uno scatto: si sono staccati da lui
camminandogli accanto.
La donna c’è stata,
una donna di solido corpo, che ha sparso
su ogni figlio del sangue e sul terzo c’è morta.
Pare strano ai tre giovani vivere senza la donna
che nessuno conosce e li ha fatti, ciascuno, a fatica
annientandosi in loro. La donna era giovane
e rideva e parlava, ma è un gioco rischioso
prender parte alla vita. È così che la donna
c’è restata in silenzio, fissando stravolta il suo uomo.
I tre figli hanno un modo di alzare le spalle
che quell’uomo conosce. Nessuno di loro
sa di avere negli occhi e nel corpo una vita
che a suo tempo era piena e saziava quell’uomo.
Ma, a vedere piegarsi un suo giovane all’orlo del fiume
e tuffarsi, quell’uomo non ritrova più il guizzo
delle membra di lei dentro l’acqua, e la gioia
dei due corpi sommersi. Non ritrova più i figli
se li guarda per strada e confronta con sé.
Quanto tempo è che ha fatto dei figli? I tre giovani
vanno invece spavaldi e qualcuno per sbaglio
s’è già fatto un figliolo, senza farsi la donna.
Il paradiso sui tetti
Sarà un giorno tranquillo, di luce fredda
come il sole che nasce o che muore, e il vetro
chiuderà l’aria sudicia fuori del cielo.
Ci si sveglia un mattino, una volta per sempre,
nel tepore dell’ultimo sonno: l’ombra
sarà come il tepore. Empirà la stanza
per la grande finestra un cielo più grande.
Dalla scala salita un giorno per sempre
non verranno più voci, né visi morti.
Non sarà necessario lasciare il letto.
Solo l’alba entrerà nella stanza vuota.
Basterà la finestra a vestire ogni cosa
di un chiarore tranquillo, quasi una luce.
Poserà un’ombra scarna sul volto supino.
I ricordi saranno dei grumi d’ombra
appiattati così come vecchia brace
nel camino. Il ricordo sarà la vampa
che ancor ieri mordeva negli occhi spenti.
Lavorare stanca
Traversare una strada per scappare di casa
lo fa solo un ragazzo, ma quest’uomo che gira
tutto il giorno le strade, non è più un ragazzo
e non scappa di casa.
Ci sono d’estate
pomeriggi che fino le piazze son vuote, distese
sotto il sole che sta per calare, e quest’uomo, che giunge
per un viale d’inutili piante, si ferma.
Val la pena esser solo, per essere sempre più solo?
Solamente girarle, le piazze e le strade
sono vuote. Bisogna fermare una donna
e parlarle e deciderla a vivere insieme.
Altrimenti, uno parla da solo. È per questo che a volte
c’è lo sbronzo notturno che attacca discorsi
e racconta i progetti di tutta la vita.
Non è certo attendendo nella piazza deserta
che s’incontra qualcuno, ma chi gira le strade
si sofferma ogni tanto. Se fossero in due,
anche andando per strada, la casa sarebbe
dove c’è quella donna e varrebbe la pena.
Nella notte la piazza ritorna deserta
e quest’uomo, che passa, non vede le case
tra le inutili luci, non leva più gli occhi:
sente solo il selciato, che han fatto altri uomini
dalle mani indurite, come sono le sue.
Non è giusto restare sulla piazza deserta.
Ci sarà certamente quella donna per strada
che, pregata, vorrebbe dar mano alla casa.
Cesare Pavese L’OPERA POETICA-Testi editi, inediti e traduzioni
Poesia Mondadori
«L’archivio conservato presso il Centro Studi «Gozzano-Pavese» dell’Università di Torino custodisce migliaia di carte che testimoniano un’attività febbrile impensabile [sul Pavese poeta]. Grazie alla lungimiranza di Mariarosa Masoero (e del suo maestro, il compianto Marziano Guglielminetti) queste carte sono state digitalizzate e sono da anni a disposizione di tutti. Masoero, con pochi altri studiosi (da Dughera a Pietralunga, da Bàrberi Squarotti a Cavallini), aveva meritoriamente cominciato a farle emergere. Ora, l’edizione mondadoriana dell’Opera poetica consente l’esplorazione integrale di questo continente immenso».
Antonio Sichera su
Testi editi, inediti, traduzioni
A cura di Antonio Sichera e Antonio Di Silvestro
Con la collaborazione di
Liborio Pietro Barbarino, Christian D’Agata, Miryam Grasso, Maria Concetta Trovato, Eliana Vitale
te e avrà i tuoi occhi” sarà pubblicata nella raccolta omonima ed edita postuma nel 1951 dopo il suicidio dell’autore.
Estate
C’è un giardino chiaro, fra mura basse,
di erba secca e di luce, che cuoce adagio
la sua terra. È una luce che sa di mare.
Tu respiri quell’erba. Tocchi i capelli
e ne scuoti il ricordo.
Ho veduto cadere
molti frutti, dolci, su un’erba che so,
con un tonfo. Così trasalisci tu pure
al sussulto del sangue. Tu muovi il capo
come intorno accadesse un prodigio d’aria
e il prodigio sei tu. C’è un sapore uguale
nei tuoi occhi e nel caldo ricordo.
Ascolti.
Le parole che ascolti ti toccano appena.
Hai nel viso calmo un pensiero chiaro
che ti finge alle spalle la luce del mare.
Hai nel viso un silenzio che preme il cuore
con un tonfo, e ne stilla una pena antica
come il succo dei frutti caduti allora.
Mania di solitudine
Mangio un poco di cena alla chiara finestra.
Nella stanza è già buio e si vede nel cielo.
A uscir fuori, le vie tranquille conducono
dopo un poco, in aperta campagna.
Mangio e guardo nel cielo – chi sa quante donne
stan mangiando a quest’ora – il mio corpo è tranquillo;
il lavoro stordisce il mio corpo e ogni donna.
Fuori, dopo la cena, verranno le stelle a toccare
sulla larga pianura la terra. Le stelle son vive,
ma non valgono queste ciliegie, che mangio da solo.
Vedo il cielo, ma so che tra i tetti di ruggine
qualche lume già brilla e che, sotto, si fanno rumori.
Un gran sorso e il mio corpo assapora la vita
delle piante e dei fiumi, e si sente staccato da tutto.
Basta un po’ di silenzio e ogni cosa si ferma
nel suo luogo reale, così com’è fermo il mio corpo.
Ogni cosa è isolata davanti ai miei sensi,
che l’accettano senza scomporsi: un brusìo di silenzio.
Ogni cosa nel buio la posso sapere
come so che il mio sangue trascorre le vene.
La pianura è un gran scorrere d’acque tra l’erbe,
una cena di tutte le cose. Ogni pianta e ogni sasso
vive immobile. Ascolto i miei cibi nutrirmi le vene
di ogni cosa che vive su questa pianura.
Non importa la notte. Il quadrato di cielo
mi sussurra di tutti i fragori, e una stella minuta
si dibatte nel vuoto, lontana dai cibi,
dalle case, diversa. Non basta a se stessa,
e ha bisogno di troppe compagne. Qui al buio, da solo,
il mio corpo è tranquillo e si sente padrone.
***
Tu sei come una terra
che nessuno ha mai detto.
Tu non attendi nulla
se non la parola
che sgorgherà dal fondo
come un frutto tra i rami.
C’è un vento che ti giunge.
Cose secche e rimorte
t’ingombrano e vanno nel vento.
Membra e parole antiche.
Tu tremi nell’estate.
Lavorare stanca
Traversare una strada per scappare di casa
lo fa solo un ragazzo, ma quest’uomo che gira
tutto il giorno le strade, non è più un ragazzo
e non scappa di casa.
Ci sono d’estate
pomeriggi che fino le piazze son vuote, distese
sotto il sole che sta per calare, e quest’uomo, che giunge
per un viale di inutili piante, si ferma.
Val la pena esser solo, per essere sempre più solo?
Solamente girarle, le piazze e le strade
sono vuote. Bisogna fermare una donna
e parlarle e deciderla a vivere insieme.
Altrimenti, uno parla da solo. È per questo che a volte
c’è lo sbronzo notturno che attacca discorsi
e racconta i progetti di tutta la vita.
Non è certo attendendo nella piazza deserta
che s’incontra qualcuno, ma chi gira le strade
si sofferma ogni tanto. Se fossero in due,
anche andando per strada, la casa sarebbe
dove c’è quella donna e varrebbe la pena.
Nella notte la piazza ritorna deserta
e quest’uomo, che passa, non vede le case
tra le inutili luci, non leva più gli occhi:
sente solo il selciato, che han fatto altri uomini
dalle mani indurite, come sono le sue.
Non è giusto restare sulla piazza deserta.
Ci sarà certamente quella donna per strada
che, pregata, vorrebbe dar mano alla casa.
***
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi –
questa morte che ci accompagna
dal mattino alla sera, insonne,
sorda, come un vecchio rimorso
o un vizio assurdo. I tuoi occhi
saranno una vana parola,
un grido taciuto, un silenzio.
Così li vedi ogni mattina
quando su te sola ti pieghi
nello specchio. O cara speranza,
quel giorno sapremo anche noi
che sei la vita e sei il nulla.
Per tutti la morte ha uno sguardo.
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.
Sarà come smettere un vizio,
come vedere nello specchio
riemergere un viso morto,
come ascoltare un labbro chiuso.
Scenderemo nel gorgo muti.
Gente spaesata
Troppo mare. Ne abbiamo veduto abbastanza di mare.
Alla sera, che l’acqua si stende slavata
e sfumata nel nulla, l’amico la fissa
e io fisso l’amico e non parla nessuno.
Nottetempo finiamo a rinchiuderci in fondo a una tampa,
isolati nel fumo, e beviamo. L’amico ha i suoi sogni
(sono un poco monotoni i sogni allo scroscio del mare)
dove l’acqua non è che lo specchio, tra un’isola e l’altra,
di colline, screziate di fiori selvaggi e cascate.
Il suo vino è così. Si contempla, guardando il bicchiere,
a innalzare colline di verde sul piano del mare.
Le colline mi vanno, e lo lascio parlare del mare
perché è un’acqua ben chiara, che mostra persino le pietre.
Vedo solo colline e mi riempiono il cielo e la terra
con le linee sicure dei fianchi, lontane o vicine.
Solamente, le mie sono scabre, e striate di vigne
faticose sul suolo bruciato. L’amico le accetta
e le vuole vestire di fiori e di frutti selvaggi
per scoprirvi ridendo ragazze più nude dei frutti.
Non occorre: ai miei sogni più scabri non manca un sorriso.
Se domani sul presto saremo in cammino
verso quelle colline, potremo incontrar per le vigne
qualche scura ragazza, annerita di sole,
e, attaccando discorso, mangiarle un po’ d’uva.
***
Terra rossa terra nera,
tu vieni dal mare,
dal verde riarso,
dove sono parole
antiche e fatica sanguigna
e gerani tra i sassi –
non sai quanto porti
di mare parole e fatica,
tu ricca come un ricordo,
come la brulla campagna,
tu dura e dolcissima
parola, antica per sangue
raccolto negli occhi;
giovane, come un frutto
che è ricordo e stagione –
il tuo fiato riposa
sotto il cielo d’agosto,
le olive del tuo sguardo
addolciscono il mare,
e tu vivi rivivi
senza stupire, certa
come la terra, buia
come la terra, frantoio
di stagioni e di sogni
che alla luna si scopre
antichissimo, come
le mani di tua madre,
la conca del braciere.
Pensieri di Dina
Dentro l’acqua che scorre ormai limpida e fresca di sole,
è un piacere gettarsi: a quest’ora non viene nessuno.
Fanno rabbrividire, le scorze dei pioppi, a toccarle col corpo,
più che l’acqua scrosciante di un tuffo. Sott’acqua è ancor buio
e fa un gelo che accoppa, ma basta saltare nel sole
e si torna a guardare le cose con occhi lavati.
È un piacere distendersi nuda sull’erba già calda
e cercare con gli occhi socchiusi le grandi colline
che sormontano i pioppi e mi vedono nuda
e nessuno di là se ne accorge. Quel vecchio in mutande
e cappello, che andava a pescare, mi ha vista tuffarmi,
ma ha creduto che fossi un ragazzo e nemmeno ha parlato.
Questa sera ritorno una donna nell’abito rosso
– non lo sanno che sono ora stesa qui nuda quegli uomini
che mi fanno i sorrisi per strada – ritorno vestita
a pigliare i sorrisi. Non sanno quegli uomini
che stasera avrò fianchi più forti, nell’abito rosso,
e sarò un’altra donna. Nessuno mi vede quaggiù:
e di là dalle piante ci son sabbiatori più forti
di quegli altri che fanno i sorrisi: nessuno mi vede.
Sono sciocchi gli uomini – stasera ballando con tutti
io sarò come nuda, come ora, e nessuno saprà
che poteva trovarmi qui sola. Sarò come loro.
Solamente, gli sciocchi, vorranno abbracciarmi ben stretta,
bisbigliarmi proposte da furbi. Ma cosa m’importa
delle loro carezze? So farmi carezze da me.
Questa sera dovremmo poter stare nudi e vederci
senza fare sorrisi da furbi. lo sola sorrido
a distendermi qui dentro l’erba e nessuno lo sa.
***
E allora noi vili
che amavamo la sera
bisbigliante, le case,
i sentieri sul fiume,
le luci rosse e sporche
di quei luoghi, il dolore
addolcito e taciuto –
noi strappammo le mani
dalla viva catena
e tacemmo, ma il cuore
ci sussultò di sangue,
e non fu più dolcezza,
non fu più abbandonarsi
al sentiero sul fiume –
– non più servi, sapemmo
di essere soli e vivi.
Mito
Verrà il giorno che il giovane dio sarà un uomo,
senza pena, col morto sorriso dell’uomo
che ha compreso. Anche il sole trascorre remoto
arrossando le spiagge. Verrà il giorno che il dio
non saprà più dov’erano le spiagge d’un tempo.
Ci si sveglia un mattino che è morta l’estate,
e negli occhi tumultuano ancora splendori
come ieri, e all’orecchio il fragore del sole
fatto sangue. Ѐ mutato il colore del mondo.
La montagna non tocca più il cielo; le nubi
non s’ammassano più come frutti; nell’acqua
non traspare più un ciottolo. Il corpo di un uomo
pensieroso si piega, dove un dio respirava.
Il gran sole è finito, e l’odore di terra,
e la libera strada, colorata di gente
che ignorava la morte. Non si muore d’estate.
Se qualcuno spariva, c’era il giovane dio
che viveva per tutti e ignorava la morte.
Su di lui la tristezza era un’ombra di nube.
Il suo passo stupiva la terra.
Ora pesa
la stanchezza su tutte le membra dell’uomo,
senza pena: la calma stanchezza dell’alba
che apre un giorno di pioggia. Le spiagge oscurate
non conoscono il giovane, che un tempo bastava
le guardasse. Né il mare dell’aria rivive
al respiro. Si piegano le labbra dell’uomo
rassegnate, a sorridere davanti alla terra.
Testi selezionati da Le poesie (Einaudi, 1998)
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Cesare Pavese (1908-1950) è senza ombra di dubbio uno degli autori più importanti della letteratura italiana In questa pagina vi proponiamo una selezione delle sue poesie più belle, con accanto a ogni poesia l’indicazione della raccolta a cui appartiene.
A detta di molti lettori la poesia più bella di Cesare Pavese è “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”. A ispirare la poesia fu l’infelice storia d’amore con l’attrice americana Constance Dowling, l’ultimo amore di Cesare Pavese, prima della morte.
“Verrà la morte e avrà i tuoi occhi” sarà pubblicata nella raccolta omonima ed edita postuma nel 1951 dopo il suicidio dell’autore.
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Le 25 poesie più belle di Cesare Pavese
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi (Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, 1951)
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi –
questa morte che ci accompagna
dal mattino alla sera, insonne,
sorda, come un vecchio rimorso
o un vizio assurdo. I tuoi occhi
saranno una vana parola
un grido taciuto, un silenzio.
Così li vedi ogni mattina
quando su te sola ti pieghi
nello specchio. O cara speranza,
quel giorno sapremo anche noi
che sei la vita e sei il nulla.
Per tutti la morte ha uno sguardo.
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.
Sarà come smettere un vizio,
come vedere nello specchio
riemergere un viso morto,
come ascoltare un labbro chiuso.
Scenderemo nel gorgo muti.
22 marzo 1950
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In the morning you always come back (Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, 1951)
Lo spiraglio dell’alba
respira con la tua bocca
in fondo alle vie vuote.
Luce grigia i tuoi occhi,
dolci gocce dell’alba
sulle colline scure.
Il tuo passo e il tuo fiato
come il vento dell’alba
sommergono le case.
La città abbrividisce,
odorano le pietre
sei la vita, il risveglio.
Stella sperduta
nella luce dell’alba,
cigolio della brezza,
tepore, respiro
è finita la notte.
Sei la luce e il mattino.
20 marzo 1950
**
Passerò per Piazza di Spagna (Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, 1951)
Sarà un cielo chiaro.
S’apriranno le strade
sul colle di pini e di pietra.
Il tumulto delle strade
non muterà quell’aria ferma.
I fiori spruzzati
di colori alle fontane
occhieggeranno come donne
divertite. Le scale
le terrazze le rondini
canteranno nel sole.
S’aprirà quella strada,
le pietre canteranno,
il cuore batterà sussultando
come l’acqua nelle fontane –
sarà questa la voce
che salirà le tue scale.
Le finestre sapranno
l’odore della pietra e dell’aria
mattutina. S’aprirà una porta.
Il tumulto delle strade
sarà il tumulto del cuore
nella luce smarrita.
Sarai tu – ferma e chiara.
28 Marzo 1950
**
Anche tu sei collina (La terra e la morte 1945-1946)
Anche tu sei collina
e sentiero di sassi
e gioco nei canneti,
e conosci la vigna
che di notte tace.
Tu non dici parole.
C’è una terra che tace
e non è terra tua.
C’è un silenzio che dura
sulle piante e sui colli.
Ci son acque e campagne.
Sei un chiuso silenzio
che non cede, sei labbra
e occhi bui. Sei la vigna.
E’ una terra che attende
e non dice parola.
Sono passati giorni
sotto cieli ardenti.
Tu hai giocato alle nubi.
E’ una terra cattiva
la tua fronte lo sa.
Anche questo è la vigna.
Ritroverai le nubi
e il canneto, e le voci
come un’ombra di luna.
Ritroverai parole
oltre la vita breve
e notturna dei giochi,
oltre l’infanzia accesa.
Sarà dolce tacere.
Sei la terra e la vigna.
Un acceso silenzio
brucerà la campagna
come i falò la sera.
30-31 ottobre 1945
**
Sei la terra e la morte (La terra e la morte 1945-1946)
Sei la terra e la morte.
La tua stagione è il buio
e il silenzio. Non vive
cosa che più di te
sia remota dall’alba.
Quando sembri destarti
sei soltanto dolore,
l’hai negli occhi e nel sangue
ma tu non senti. Vivi
come vive una pietra,
come la terra dura.
E ti vestono sogni
movimenti singulti
che tu ignori. Il dolore
come l’acqua di un lago
trepida e ti circonda.
Sono cerchi sull’acqua.
Tu li lasci svanire.
Sei la terra e la morte.
3 dicembre 1945
**
Tu non sai le colline (La terra e la morte 1945-1946)
Tu non sai le colline
dove si è sparso il sangue.
Tutti quanti fuggimmo
tutti quanti gettammo
l’arma e il nome. Una donna
ci guardava fuggire.
Uno solo di noi
si fermò a pugno chiuso,
vide il cielo vuoto,
chinò il capo e morì
sotto il muro, tacendo.
Ora è un cencio di sangue
il suo nome. Una donna
ci aspetta alle colline.
Novembre 1945
**
Hai un sangue, un respiro (Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, 1951)
Hai un sangue, un respiro.
Sei fatta di carne
di capelli di sguardi
anche tu. Terra e piante,
cielo di marzo, luce,
vibrano e ti somigliano;
il tuo riso e il tuo passo
come acque che sussultano;
la tua ruga fra gli occhi
come nubi raccolte;
il tuo tenero corpo
una zolla nel sole.
Hai un sangue, un respiro.
Vivi su questa terra.
Ne conosci i sapori
le stagioni i risvegli,
hai giocato nel sole,
hai parlato con noi.
Acqua chiara, virgulto
primaverile, terra,
germogliante silenzio,
tu hai giocato bambina
sotto un cielo diverso,
ne hai negli occhi il silenzio,
una nube, che sgorga
come polla dal fondo.
Ora ridi e sussulti
sopra questo silenzio.
Dolce frutto che vivi
sotto il cielo chiaro,
che respiri e vivi
questa nostra stagione,
nel tuo chiuso silenzio
è la tua forza. Come
erba viva nell’aria
rabbrividisci e ridi,
ma tu, tu sei terra.
Sei radice feroce.
Sei la terra che aspetta.
21 marzo 1950
**
Ascolteremo nella calma stanca (Il mestiere di vivere: Diário 1935-1950)
Ascolteremo nella calma stanca
la musica remota
della nostra tremenda giovinezza
che in un giorno lontano
si curvò su se stessa
e sorrideva come inebriata
dalla troppa dolcezza e dal tremore.
Sarà come ascoltare in una strada
nella divinità della sera
quelle note che salgono slegate
lente come il crepuscolo
dal cuore di una casa solitaria.
Battiti della vita,
spunti senz’armonia,
ma che nell’ansia tesa del tuo amore
ci crearono, o anima,
le tempeste di tutte le armonie.
Ché da tutte le cose
siamo sempre fuggiti
irrequieti e insaziati
sempre portando nel cuore
l’amore disperato
verso tutte le cose.
**
The cats will know (Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, 1951)
Ancora cadrà la pioggia
sui tuoi dolci selciati,
una pioggia leggera
come un alito o un passo.
Ancora la brezza e l’alba
fioriranno leggere
come sotto il tuo passo,
quando tu rientrerai.
Tra fiori e davanzali
i gatti lo sapranno.
Ci saranno altri giorni,
ci saranno altre voci.
Sorriderai da sola.
I gatti lo sapranno.
Udrai parole antiche,
parole stanche e vane
come i costumi smessi
delle feste di ieri.
Farai gesti anche tu.
Risponderai parole;
viso di primavera,
farai gesti anche tu.
I gatti lo sapranno,
viso di primavera;
e la pioggia leggera,
l’alba color giacinto,
che dilaniano il cuore
di chi più non ti spera,
sono il triste sorriso
che sorridi da sola.
Ci saranno altri giorni,
altre voci e risvegli.
Soffieremo nell’alba,
viso di primavera.
10 aprile 1950
**
The night you slept (Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, 1951)
Anche la notte ti somiglia,
la notte remota che piange
muta, dentro il cuore profondo,
e le stelle passano stanche.
Una guancia tocca una guancia;
è un brivido freddo, qualcuno
si dibatte e t’implora, solo,
sperduto in te, nella tua febbre.
La notte soffre e anela l’alba,
povero cuore che sussulti.
O viso chiuso, buia angoscia,
febbre che rattristi le stelle,
c’è chi come te attende l’alba
scrutando il tuo viso in silenzio.
Sei distesa sotto la notte
come un chiuso orizzonte morto.
Povero cuore che sussulti,
un giorno lontano eri l’alba.
4 aprile 1950
**
I mattini passano chiari (Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, 1951)
I mattini passano chiari
e deserti. Così i tuoi occhi
s’aprivano un tempo. Il mattino
trascorreva lento, era un gorgo
d’immobile luce.
Taceva. Tu viva tacevi; le cose
vivevano sotto i tuoi occhi
(non pena non febbre non ombra)
come un mare al mattino, chiaro.
Dove sei tu, luce, è il mattino.
Tu eri la vita e le cose.
In te desti respiravamo
sotto il cielo che ancora è in noi.
Non pena non febbre allora,
non quest’ombra greve del giorno
affollato e diverso. O luce,
chiarezza lontana, respiro
affannoso, rivolgi gli occhi
immobili e chiari su noi.
È buio il mattino che passa
senza la luce dei tuoi occhi.
30 marzo 1950
**
Sempre vieni dal mare (La terra e la morte 1945-1946)
Sempre vieni dal mare
e ne hai la voce roca,
sempre hai occhi segreti
d’acqua viva tra i rovi,
e fronte bassa, come
cielo basso di nubi.
Ogni volta rivivi
come una cosa antica
e selvaggia, che il cuore
già sapeva e si serra.
Ogni volta è uno strappo,
ogni volta è la morte.
Noi sempre combattemmo.
Chi si risolve all’urto
ha gustato la morte
e la porta nel sangue.
Come buoni nemici
che non s’odiano più
noi abbiamo una stessa
voce, una stessa pena
e viviamo affrontati
sotto povero cielo.
Tra noi non insidie,
non inutili cose –
combatteremo sempre.
Combatteremo ancora,
combatteremo sempre,
perché cerchiamo il sonno
della morte affiancati,
e abbiamo voce roca
fronte bassa e selvaggia
e un identico cielo.
Fummo fatti per questo.
Se tu od io cede all’urto,
segue una notte lunga
che non è pace o tregua
e non è morte vera.
Tu non sei più. Le braccia
si dibattono invano.
Fin che ci trema il cuore.
Hanno detto un tuo nome.
Ricomincia la morte.
Cosa ignota e selvaggia
sei rinata dal mare.
19-20 novembre 1945
**
You, wind of March (Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, 1951)
Sei la vita e la morte.
Sei venuta di marzo
sulla terra nuda;
il tuo brivido dura.
Sangue di primavera
anemone o nube,
il tuo passo leggero
ha violato la terra.
Ricomincia il dolore.
Il tuo passo leggero
ha riaperto il dolore.
Era fredda la terra
sotto povero cielo,
era immobile e chiusa
in un torpido sogno,
come chi più non soffre.
Anche il gelo era dolce
dentro il cuore profondo.
Tra la vita e la morte
la speranza taceva.
Ora ha una voce e un sangue
ogni cosa che vive.
Ora la terra e il cielo
sono un brivido forte,
la speranza li torce,
li sconvolge il mattino,
li sommerge il tuo passo,
il tuo fiato d’aurora.
Sangue di primavera,
tutta la terra trema
di un antico tremore.
Hai riaperto il dolore.
Sei la vita e la morte.
Sopra la terra nuda
sei passata leggera
come rondine o nube,
e il torrente del cuore
si è ridestato e irrompe
e si specchia nel cielo
e rispecchia le cose,
e le cose, nel cielo e nel cuore
soffrono e si contorcono
nell’attesa di te.
È il mattino, è l’aurora,
sangue di primavera,
tu hai violato la terra.
La speranza si torce,
e ti attende ti chiama.
Sei la vita e la morte.
Il tuo passo è leggero.
25 marzo 1950
**
Tu sei come una terra (La terra e la morte 1945-1946)
Tu sei come una terra
che nessuno ha mai detto.
Tu non attendi nulla
se non la parola
che sgorgherà dal fondo
come un frutto tra i rami.
C’è un vento che ti giunge.
Cose secche e rimorte
t’ingombrano e vanno nel vento.
Membra e parole antiche.
Tu tremi nell’estate.
29 ottobre 1945
**
Hai viso di pietra scolpita (La terra e la morte 1945-1946)
Hai viso di pietra scolpita,
sangue di terra dura,
sei venuta dal mare.
Tutto accogli e scruti
e respingi da te
come il mare. Nel cuore
hai silenzio, hai parole
inghiottite. Sei buia.
Per te l’alba è silenzio.
E sei come le voci
della terra – l’urto
della secchia nel pozzo,
la canzone del fuoco,
il tonfo di una mela;
le parole rassegnate
e cupe sulle soglie,
il grido del bimbo – le cose
che non passano mai.
Tu non muti. Sei buia.
Sei la cantina chiusa,
dal battuto di terra,
dov’è entrato una volta
ch’era scalzo il bambino,
e ci ripensa sempre.
Sei la camera buia
cui si ripensa sempre,
come al cortile antico
dove s’apriva l’alba.
5 Novembre 1945
**
Paternità (Lavorare stanca, 1943)
Fantasia della donna che balla, e del vecchio
che è suo padre e una volta l’aveva nel sangue
e l’ha fatta una notte, godendo in un letto, bel nudo.
Lei s’affretta per giungere in tempo a svestirsi,
e ci sono altri vecchi che attendono. Tutti
le divorano, quando lei salta a ballare, la forza
delle gambe con gli occhi, ma i vecchi ci tremano.
Quasi nuda è la giovane. E i giovani guardano
con sorrisi, e qualcuno vorrebbe esser nudo.
Sembran tutti suo padre i vecchiotti entusiasti
e son tutti, malfermi, un avanzo di corpo
che ha goduto altri corpi. Anche i giovani un giorno
saran padri, e la donna è per tutti una sola.
È accaduto in silenzio. Una gioia profonda
prende il buio davanti alla giovane viva.
Tutti i corpi non sono che un corpo, uno solo
che si muove inchiodando gli sguardi di tutti.
Questo sangue, che scorre le membra diritte
della giovane, è il sangue che gela nei vecchi;
e suo padre che fuma in silenzio, a scaldarsi,
lui non salta, ma ha fatto la figlia che balla.
C’è un sentore e uno scatto nel corpo di lei
che è lo stesso nel vecchio, e nei vecchi. In silenzio
fuma il padre e l’attende che ritorni, vestita.
Tutti attendono, giovani e vecchi, e la fissano;
e ciascuno, bevendo da solo, ripenserà a lei.
**
Ti ho sempre soltanto veduta (1927)
Ti ho sempre soltanto veduta,
senza parlarti mai,
nei tuoi istanti più belli.
Ma ho l’anima ormai tanto tesa,
schiantata dalla tua figura,
che non trovo più pace
al suo brivido atroce.
E non posso parlarti,
nemmeno avvicinarmi,
ché cadrebbero tutti i miei sogni.
Oh se tale è il tremore orribile
che ho nell’anima questa notte,
e non ti conoscerò mai,
che cosa diverrebbe il mio povero cuore
sotto l’urto del sangue,
alla sublimità di te?
Se ora mi par di morire,
che vertigine folle,
che palpiti moribondi,
che urli di voluttà e di languore
mi darebbe la tua realtà?
Ma io non posso parlarti,
e nemmeno avvicinarmi:
nei tuoi istanti più belli
ti ho sempre soltanto veduta,
sempre soltanto sognata.
**
Mattino (Lavorare stanca, 1943)
La finestra socchiusa contiene un volto
sopra il campo del mare. I capelli vaghi
accompagnano il tenero ritmo del mare.
Non ci sono ricordi su questo viso.
Solo un’ombra fuggevole, come di nube.
L’ombra è umida e dolce come la sabbia
di una cavità intatta, sotto il crepuscolo.
Non ci sono ricordi. Solo un sussurro
che è la voce del mare fatta ricordo.
Nel crepuscolo l’acqua molle dell’alba
che s’imbeve di luce, rischiara il viso.
Ogni giorno è un miracolo senza tempo,
sotto il sole: una luce salsa l’impregna
e un sapore di frutto marino vivo.
Non esiste ricordo su questo viso.
Non esiste parola che lo contenga
o accomuni alle cose passate. Ieri,
dalla breve finestra è svanito come
svanirà tra un istante, senza tristezza
né parole umane, sul campo del mare.
**
Estate (Lavorare stanca, 1943)
È riapparsa la donna dagli occhi socchiusi
e dal corpo raccolto, camminando per strada.
Ha guardato diritto tendendo la mano,
nell’immobile strada. Ogni cosa è riemersa.
Nell’ímmobile luce dei giorno lontano
s’è spezzato il ricordo. La donna ha rialzato
la sua semplice fronte, e lo sguardo d’allora
è riapparso. La mano si è tesa alla mano
e la stretta angosciosa era quella d’allora.
Ogni cosa ha ripreso i colori e la vita
allo sguardo raccolto, alla bocca socchiusa.
È tornata l’angoscia dei giorni lontani
quando tutta un’immobile estate improvvisa
di colori e tepori emergeva, agli sguardi
di quegli occhi sommessi. È tornata l’angoscia
che nessuna dolcezza di labbra dischiuse
può lenire. Un immobile cielo s’accoglie
freddamente, in quegli occhi.
Fra calmo il ricordo
alla luce sommessa dei tempo, era un docile
moribondo cui già la finestra s’annebbia e scompare.
Si è spezzato il ricordo. La stretta angosciosa
della mano leggera ha riacceso i colori
e l’estate e i tepori sotto il vivido cielo.
Ma la bocca socchiusa e gli sguardi sommessi
non dan vita che a un duro inumano silenzio.
**
La casa (Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, 1951)
L’uomo solo ascolta la voce calma
con lo sguardo socchiuso, quasi un respiro
gli alitasse sul volto, un respiro amico
che risale, incredibile, dal tempo andato.
L’uomo ascolta la voce antica
che i suoi padri, nei tempi, hanno udito, chiara
e raccolta, una voce che come il verde
degli stagni e dei colli incupisce a sera.
l’uomo solo conosce una voce d’ombra,
carezzante, che sgorga nei toni calmi
di una polla segreta: la beve intento,
occhi chiusi, e non pare l’abbia accanto.
È la voce che un giorno ha fermato il padre
di suo padre, e ciascuno del sangue morto.
Una voce di donna che suona segreta
sulla soglia di casa, al cadere del buio.
**
Paesaggio VIII (Lavorare stanca, 1943)
I ricordi cominciano nella sera
sotto il fiato del vento a levare il volto
e ascoltare la voce del fiume. L’acqua
è la stessa, nel buio, degli anni morti.
Nel silenzio del buio sale uno sciacquo
dove passano voci e risa remote;
s’accompagna al brusio un colore vano
che è di sole, di rive e di sguardi chiari.
Un’estate di voci. Ogni viso contiene
come un frutto maturo un sapore andato.
Ogni occhiata che torna, conserva un gusto
di erba e cose impregnate di sole a sera
sulla spiaggia. Conserva un fiato di mare.
Come un mattino notturno è quest’ombra vaga
di ansie e brividi antichi, che il cielo sfiora
e ogni sera ritorna. Le voci morte
assomigliano al frangersi di quel mare.
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L’amico che dorme (Lavorare stanca, 1943)
Che diremo stanotte all’amico che dorme?
La parola più tenue ci sale alle labbra
dalla pena più atroce. Guarderemo l’amico,
le sue inutili labbra che non dicono nulla,
parleremo sommesso.
La notte avrà il volto
dell’antico dolore che riemerge ogni sera
impassibile e vivo. Il remoto silenzio
soffrirà come un’anima, muto, nel buio.
Parleremo alla notte che fiata sommessa.
Udiremo gli istanti stillare nel buio
al di là delle cose, nell’ansia dell’alba,
che verrà d’improvviso incidendo le cose
contro il morto silenzio. L’inutile luce
svelerà il volto assorto del giorno. Gli istanti
taceranno. E le cose parleranno sommesso.
**
Terre bruciate (Lavorare stanca, 1943)
Parla il giovane smilzo che è stato a Torino.
Il gran mare si stende, nascosto da rocce,
e dà in cielo un azzurro slavato. Rilucono gli occhi
di ciascuno che ascolta.
A Torino si arriva di sera
e si vedono subito per la strada le donne
maliziose, vestite per gli occhi, che camminano sole.
Là, ciascuna lavora per la veste che indossa,
ma l’adatta a ogni luce. Ci sono colori
da mattino, colori per uscire nei viali,
per piacere di notte. Le donne, che aspettano
e si sentono sole, conoscono a fondo la vita.
Sono libere. A loro non rifiutano nulla.
Sento il mare che batte e ribatte spossato alla riva.
Vedo gli occhi profondi di questi ragazzi
lampeggiare. A due passi il filare di fichi
disperato s’annoia sulla roccia rossastra.
Ce ne sono di libere che fumano sole.
Ci si trova la sera e abbandona il mattino
al caffè, come amici. Sono giovani sempre.
Voglion occhi e prontezza nell’uomo e che scherzi
e che sia sempre fine. Basta uscire in collina
e che piova: si piegano come bambine,
ma si sanno godere l’amore. Più esperte di un uomo.
Sono vive e slanciate e, anche nude, discorrono
con quel brio che hanno sempre.
Lo ascolto.
Ho fissato le occhiaie del giovane smilzo
tutte intente. Han veduto anche loro una volta quel verde.
Fumerò a notte buia, ignorando anche il mare.
**
Donne appassionate (Lavorare stanca, 1943)
Le ragazze al crepuscolo scendono in acqua,
quando il mare svanisce, disteso. Nel bosco
ogni foglia trasale, mentre emergono caute
sulla sabbia e si siedono a riva. La schiuma
fa i suoi giochi inquieti, lungo l’acqua remota.
Le ragazze han paura delle alghe sepolte
sotto le onde, che afferrano le gambe e le spalle:
quant’è nudo, del corpo. Rimontano rapide a riva
e si chiamano a nome, guardandosi intorno.
Anche le ombre sul fondo del mare, nel buio,
sono enormi e si vedono muovere incerte,
come attratte dai copi che passano. Il bosco
è un rifugio tranquillo, nel sole calante,
più che i greto, ma piace alle scure ragazze
star sedute all’aperto, nel lenzuolo raccolto.
Stanno tutte accosciate, serrando il lenzuolo
alle gambe, e contemplano il mare disteso
come un prato al crepuscolo. Oserebbe qualcuna
ora stendersi nuda in un prato? Dal mare
balzerebbero le alghe, che sfiorano i piedi,
a ghermire e ravvolgere il corpo tremante.
Cl son occhi nel mare, che traspaiono a volte.
Quell’ignota straniera, che nuotava di notte
sola e nuda, nel buio quando muta la luna,
è scomparsa una notte e non torna mai più.
Era grande e doveva esser bianca abbagliante
perché gli occhi, dal fondo del mare, giungessero a lei.
**
Mania di solitudine (Lavorare stanca, 1943)
Mangio un poco di cena seduto alla chiara finestra.
Nella stanza è già buio e si vede nel cielo.
A uscir fuori, le vie tranquille conducono
dopo un poco, in aperta campagna.
Mangio e guardo nel cielo – chi sa quante donne
stan mangiando a quest’ora – il mio corpo è tranquillo;
il lavoro stordisce il mio corpo e ogni donna.
Fuori, dopo la cena, verranno le stelle a toccare
sulla larga pianura la terra. Le stelle son vive,
ma non valgono queste ciliegie, che mangio da solo.
Vedo il cielo, ma so che fra i tetti di ruggine
qualche lume già brilla e che, sotto, si fanno rumori.
Un gran sorso e il mio corpo assapora la vita
delle piante e dei fiumi e si sente staccato da tutto.
Basta un po’ di silenzio e ogni cosa si ferma
nel suo luogo reale, così com’è fermo il mio corpo.
Ogni cosa è isolata davanti ai miei sensi,
che l’accettano senza scomporsi: un brusìo di silenzio.
Ogni cosa, nel buio, la posso sapere
come so che il mio sangue trascorre le vene.
La pianura è un gran scorrere d’acque tra l’erbe,
una cena di tutte le cose. Ogni pianta e ogni sasso
vive immobile. Ascolto i miei cibi nutrirmi le vene
di ogni cosa che vive su questa pianura.
Non importa la notte. Il quadrato di cielo
mi sussurra di tutti i fragori, e una stella minuta
si dibatte nel vuoto, lontano dai cibi,
dalle case, diversa. Non basta a se stessa,
e ha bisogno di troppe compagne. Qui al buio, da solo,
il mio corpo è tranquillo e si sente padrone.
– Anna Maria ORTESE– Poesie da “Terra oltre il mare”
Copia anastatica da NUOVI ARGOMENTI-numero dicembre 1974
Rivista diretta da
ALBERTO MORAVIA-PIER PAOLO PASOLINI-ENZO SICILIANO
Anna Maria ORTESE nasce a Roma il 13 giugno da una famiglia numerosa e molto povera, che si trasferisce in diverse città prima di stabilirsi nel 1928 a Napoli.Quasi autodidatta – la formazione scolastica costituita solo dalle scuole elementari e da un anno di una scuola commerciale – Anna Maria Ortese si cimenta nel disegno e nello studio del pianoforte, ma infine si appassiona alla letteratura e scopre la propria vocazione di scrittrice. La mancata formazione scolastica fa risaltare ancor più la perfezione stilistica della sua opera, e lo stupore e la meraviglia che essa suscita, in chi vi si accosta, sono se possibile amplificati da questo dato. Nel 1933 il fratello marinaio Manuele muore al largo dell’isola di Martinica; l’eco della tragedia, velata di rimpianto e ricordo, ricorrerà in tutta l’opera della scrittrice. Il 1933 è anche l’anno del debutto con la pubblicazione di tre poesie su «La Fiera Letteraria», tra cui una intitolata Manuele: «(…)Tutto/ che ci rimane ormai di te, Manuele, è un nome solo; e dentro al petto un male/ che a questo nome si confonde» (La Luna che trascorre, ed. Empiria). Anche un altro fratello marinaio, Antonio, da lì a poco morirà al largo delle coste dell’Albania e dal 1952, a seguito della morte di entrambi i genitori, il nucleo familiare della scrittrice si ridurrà alla sorella Maria, con la quale Anna Maria vivrà tutta la vita.
Tra il 1945 e il 1950 comincia a collaborare con la rivista «Sud», il che non le impedirà di trasferirsi da una città all’altra inseguendo un lavoro che le permetta di sopravvivere, quasi sempre accompagnata dalla sorella. Il rapporto sororale, essenziale nella vita della Ortese, sarà per lei anche fonte di perenne rimorso per la vita sacrificata della sorella. Infatti Maria non si sposerà per rimanerle accanto e il suo lavoro, e successivamente la pensione (da impiegata alle poste), saranno quasi le sole fonti di sostentamento per entrambe, essendo i ricavi delle pubblicazioni sempre molto modesti. La sorella Maria, così come gli altri componenti della famiglia, prenderà corpo trasfigurandosi in alcuni personaggi dolorosi, eterei e senza tempo, fondamentali nell’opera della scrittrice (uno su tutti, Juana de Il Porto di Toledo). La stessa Ortese, forse, si trasporrà nell’iguana dell’opera omonima: in un’isola perduta nell’Oceano, una piccola iguana, fatta serva da una famiglia di miseri antichi nobili spagnoli, parla e si veste come una donna e si innamora di un uomo, un nobile milanese venuto a comprare l’isola per farne un paradiso per ricchi; presto saprà quanto è crudele il mondo degli uomini, di chi si ritiene arbitro di tutto e tutti. L’iguana e le altre creature della Natura hanno sempre tratti “umani” (Il Cardillo Addolorato, il puma di Alonso e i visionari) mentre i rari umani nell’opera della Ortese sono angelici e bestiali (il monaciello, le persone incontrate in Silenzio a Milano o nei reportage giornalistici di «La Lente Oscura»).
Tra una città e l’altra, Ortese comincia a pubblicare alcune opere che non avranno mai un vero successo di vendite, solo qualche «eco di polemica», come avrà modo di ricordare in Corpo Celeste, ultima opera, anzi opera-testamento che condensa lucidamente il pensiero e la vita della scrittrice: «[…]E penso di non essere un vero scrittore se, finora, non mi è riuscito di dire neppure lontanamente in quale terrore economico – e quindi impossibilità di scrivere – viva, in Italia, uno scrittore che non prenda gli Ordini. E che non abbia avuto, nascendo, nulla di suo, neppure un tetto». Poco successo di pubblico e scarsa attenzione da parte della critica non le impediranno di avere però dei sostenitori nel mondo letterario, uno fra tutti Pietro Citati che la definirà “la zingara sognante”, cogliendo l’essenza stessa della Ortese: «Malgrado la mia vita non sia ciò che si dice una vita realizzata, devo considerarmi fortunata perché, su un totale di almeno cinquant’anni di vita adulta, riuscii qualche volta ad accostare questa riva luminosa – io che mi considero un eterno naufrago – dell’espressione o espressività che avevano per scopo questo eterno interesse: cogliere e fissare… il meraviglioso fenomeno del vivere e del sentire[…].Tale sentimento può essere meglio definito dalle parole: estasi, estatico, fuggente, insondabile.» (Corpo Celeste). Quella descritta da Ortese è l’esperienza della realtà in cui non è possibile separare la veglia dal sogno. «[…]questo, donna, è il mondo: una cosa fatta di vento e voci – fatta di attese e rimpianto di apparizioni, fatta di cose che non sono il mondo» ( In Sonno e In Veglia) È la “stranezza” continua che suscita l’esperienza della vita stessa, che in Ortese non è mai egocentrata, ma sempre “cosmica”, una viva relazione fra tutte le creature viventi, da cui non è esclusa la pietra (e dunque la terra e i suoi abitanti come “corpo celeste”, mai separato dall’universo): la scrittura può raccogliere e restituire questa relazione solo assecondandone il movimento, quindi operando nello stesso senso della vita e della natura, per somiglianze, per spostamenti, per metafore.
«Potrei ricominciare da capo, se volessi, aggiungendo tante altre cose che mi sono sfuggite. Ma tutto quello ch’è passato davanti ai miei occhi, in tutti questi anni, si stende già in un solo tono uniforme, in un solo colore azzurro, dove questo o quel particolare non hanno più importanza di un vago arricciarsi di spume o brillare di pagliuzze d’argento. Il mare! Ecco cos’è una vita quando gli anni si mettono a correre tra noi e la riva diafana sulla quale siamo apparsi la prima volta: assopito, remoto, mormorante mare» (Il Porto di Toledo). Sarà il mare e il movimento marino, che tanto ricorda il flusso di coscienza di Virginia Woolf e le intermittenze del cuore di Proust, ad avere un ruolo centrale nell’opera della Ortese, indubbiamente per il segno portato nella biografia dalla morte dei fratelli e il pensarsi “naufraga” o per le città marine che sceglierà; in secondo luogo come analogo del Tempo, “insondabile” e insieme superficie e sostanza sempre identica e sempre diversa; e inoltre come figura analoga al lavoro della sua scrittura, sulla quale pensieri, ricordi, percezioni, agiscono con un moto continuo, modellando, aggiungendo, levigando la frase, nella struttura e nella sostanza, fino a farne una concrezione mirabile in cui sembra impossibile distinguere i singoli elementi.
Con Il Mare Non Bagna Napoli, nel 1953, arriverà una labile notorietà, non scevra da forti polemiche per via delle critiche mosse nel libro al gruppo di intellettuali napoletani che si raccoglie intorno alla rivista «Sud»; la scrittrice mai rinuncerà a posizioni critiche nei confronti del mondo letterario dal quale si sente ingiustamente respinta e a cui sente di appartenere a tutti gli effetti. Dalle lettere agli amici, dalle rare interviste concesse, il desiderio di essere riconosciuta come “scrittrice”, come “narratrice”, sarà sempre un punto dolente nella vita di Ortese. Dagli intensi scambi epistolari fra la scrittrice e amici, quali Citati e Dario Bellezza, si possono cogliere momenti intimi e aneddoti, di alcuni dei quali è possibile trovare un’eco nell’opera della Ortese. Sarà Bellezza a raccontare, con discrezione, l’amore per Marcello Venturi, «una delusione d’amore» come avrà modo di dirgli la stessa Ortese (che la farà apparire agli occhi del poeta, nell’occasione del loro primo incontro, con un aspetto “monacale”, “senile”, sebbene non lo fosse). Sarà ancora Bellezza nel 1986 a promuovere la raccolta di firme fra amici e intellettuali affinché le venga assegnata la pensione prevista dalla legge Bacchelli. La scrittrice confessò, in una lettera al poeta-amico, di essere stata sfrattata dalla casa di Rapallo, città scelta come ultimo porto. Bellezza rese pubblico quanto successo e avviò la petizione. Solo in tarda età, esattamente nel 1993 a 79 anni, la Ortese riuscirà ad avere un maggior successo di pubblico con Il Cardillo Addolorato, edito da Adelphi, casa editrice che già dal 1986 cominciò a ristampare tutte le sue opere (in collaborazione con l’autrice stessa) in modo da formare un corpus rivisitato e organico. La Ortese muore il 9 marzo nel 1998, tre anni dopo la sorella Maria.
Biografia scritta da Emanuele Pozzi-Da tempo immemorabile studente fuori corso di Storia all’università Stataledi Milano, è appassionato di letteratura femminile e di storia del pensierofemminile. Melomane, jazzofilo e amante dei viaggi in Oriente.Nessun merito accademico, forse un giorno nell’età senile si metterà astudiare seriamente tutto quello che in corso di laurea si deve studiare enon solo quello che gli piace. Ha una nipote bellissima, Sofia.
FONTE -Enciclopedia delle donne-
Fonti, risorse bibliografiche, siti
Referenze iconografiche: Ritratto di Anna Maria Ortese, Creative Commons CC0 1.0 Universal Public Domain Dedication.
Biografia di Anna Maria Ortese
scritta da Emanuele Pozzi- FONTE -Enciclopedia delle donne
David Maria Turoldo- Poesie di un prete “ Resistente”
Biografia di David Maria Turoldo nasce il 22 novembre del 1916 a Coderno, in Friuli, nono di dieci fratelli. Nato come Giuseppe Turoldo, a tredici anni entra nel convento di Santa Maria al Cengio per far parte dei Servi di Maria, a Isola Vicentina, là dove si trova la sede del Triveneto della Casa di Formazione dell’Ordine Servita. È qui che trascorre l’anno di noviziato; dopo avere assunto il nome di fra’ David Maria, emette la professione religiosa il 2 agosto del 1935. Nell’ottobre del 1938 pronuncia i voti solenni a Vicenza.
Gli studi accademici
Intrapresi gli studi di teologia e di filosofia a Venezia, nell’estate del 1940 Turoldo viene ordinato presbitero nel santuario della Madonna di Monte Berico dall’arcivescovo di Vicenza ,monsignor Ferdinando Rodolfi. Nello stesso anno viene inviato a Milano, al convento di Santa Maria dei Servi in San Carlo al Corso.
Per circa un decennio si occupa di tenere la predicazione della domenica in Duomo, su invito dell’arcivescovo Ildefonso Schuster, mentre insieme con il suo confratello Camillo de Piaz, compagno di studi nell’Ordine dei Servi, si iscrive all’Università Cattolica di Milano. Qui David Maria Turoldo si laurea l’11 novembre del 1946 in filosofia con una tesi intitolata “La fatica della ragione – Contributo per un’ontologia dell’uomo”, con il professor Gustavo Bontadini. Quest’ultimo successivamente gli propone di diventare suo assistente presso la cattedra di Filosofia Teoretica. Anche Carlo Bo gli offre un ruolo come assistente, ma per l’Università di Urbino, cattedra di Letteratura.
Dopo aver collaborato in modo attivo con la resistenza antifascista in occasione dell’occupazione nazista di Milano, David Maria Turoldo dà vita al centro culturale Corsia dei Servi e sostiene il progetto del villaggio Nomadelfia fondato nell’ex campo di concentramento di Fossoli da don Zeno Saltini.
David Maria Turoldo negli anni ’50
Tra la fine degli anni Quaranta e l’inizio degli anni Cinquanta pubblica la raccolta di liriche “Io non ho mani”, con cui si aggiudica il Premio letterario Saint Vincent, e l’opera “Gli occhi miei lo vedranno”, proposta nella collana Lo Specchio di Mondadori.
Nel 1953 Turoldo è costretto a lasciare Milano, e si trasferisce prima in Austria e poi in Baviera, dove soggiorna presso i conventi dei Servi locali. Nel 1955 viene trasferito a Firenze, al convento della Santissima Annunziata, dove ha modo di conoscere il sindaco Giorgio La Pira e padre Ernesto Balducci.
Obbligato ad andare via anche dal capoluogo toscano, dopo un periodo di peregrinazioni lontano dall’Italia torna in patria e viene assegnato a Udine, al convento di Santa Maria delle Grazie. Nel frattempo si dedica alla realizzazione di un film, con la regia di Vito Pandolfi, intitolato “Gli ultimi” e tratto dal suo racconto Io non ero fanciullo. La pellicola, che rappresenta la povertà della vita rurale in Friuli, viene presentata nel 1963 ma non apprezzata dal pubblico locale, che la considera poco rispettosa.
Gli ultimi anni
In seguito Turoldo individua nell’antico Priorato cluniacense di Sant’Egidio in Fontanella un luogo in cui dare vita a un’esperienza religiosa comunitaria nuova, che coinvolga anche i laici: vi si insedia il 1° novembre del 1964, dopo aver ricevuto il consenso di Clemente Gaddi, il vescovo bergamasco.
Qui fa costruire una casa per l’ospitalità, che prende il nome di Casa di Emmaus in riferimento all’episodio biblico della cena di Emmaus, con Gesù che si manifesta ai discepoli dopo essere risorto.
Alla fine degli anni Ottanta David Maria Turoldo si ammala per un tumore al pancreas: muore all’età di 75 anni il 6 febbraio del 1992 a Milano, nella clinica San Pio X. I funerali vengono celebrati dal cardinale Carlo Maria Martini, che pochi mesi prima aveva assegnato a Turoldo il Premio Giuseppe Lazzati.
“Il caso Turoldo” di Davide Toffoli, (Ladolfi, 2021)
A cura di Gisella Blanco
Due occhi che puntavano come spade, così come fa la dolcezza più tagliente. David Maria Turoldo, il poeta prete “rosso”, è stato l’autore su cui è ricaduta la scelta del titolo della tesi di Davide Toffoli, laureando in Lettere a Roma con Biancamaria Frabotta. Con questa curiosa narrazione, una “anomala prefazione”, formata attraverso gli scambi su Whatsapp della stessa Frabotta con Toffoli, inizia il saggio “Il caso Turoldo – Liturgia e poesia di un uomo”, pubblicato per Ladolfi Editore nel 2021.
Scegliere ciò che poteva essere “altro da sé” in modo radicale era uno degli intenti di Toffoli che, di certo, al momento della decisione, non avrebbe immaginato la “comunione”, seppur laicissima, che si sarebbe venuta a creare tra lui e questo misterioso poeta del Novecento italiano. Con la vestitura, Turoldo scelse due nomi emblematici con i quali da quel momento in poi si sarebbe fatto chiamare: David, il giovane pastore vittorioso su Golia, e Maria, la madre di tutti da cui apprendere l’arte della parola, il “linguaggio dell’Amore”.
Turoldo era un frate antifascista che, però, vedeva nella vita un valore da tutelare in senso sovrapartitico, era un innovatore che desiderava cambiare l’inaccessibilità linguistica della funzione religiosa, era un frate per cui la fede è “entrare in conflitto”.
La sua poesia era un tutt’uno con la vita, le azioni, la resistenza, le iniziative filantropiche, il cinema, gli articoli di giornale, le omelie: “Nessuno creda che si possa staccare la poesia dalla vita; la poesia non è un esercizio letterario”. E, in effetti, come ha specificato Fernando Bandini, “parlare della poesia di padre David coi puri strumenti della critica letteraria, esaminare i suoi testi come mero discorso poetico separandoli dalla testimonianza della sua vita, non sarebbe un’operazione legittima”. Se interpretare i testi di un autore anche attraverso la sua biografia è atto di per sé insidioso, poiché può condurre a rintracciare nelle parole ciò che in effetti non vi risiede, in linea per altro con il pensiero strutturalista, nel caso di Turoldo non si potrebbe fare altrimenti, essendo la sua poetica legata a doppia mandata alle vicende e alle attività di un vissuto sorprendente ed estremamente ricco di esperienze.
“Il poeta è un crocefisso, è un profeta, un povero e grande uomo, molto raro. Così sarà la poesia a salvare il mondo, o meglio, anche la poesia”, e ancora: “Essere cristiani vuol dire essere uomo che resiste anche in funzione della società”, affermava Turoldo, fermamente convinto di come la fede cristiana, e Dio, potessero non risiedere sempre nei dettami della Chiesa. D’altronde, non gli interessavano la figura istituzionalizzata del prete, i giochi di potere istituzionalizzati, i ruoli stereotipati che non avessero una reale base sociale: Turoldo portava scompiglio, metteva in dubbio le piramidi ecclesiastiche e pungolava le coscienze a tutte le latitudini:
“Finalmente ho disturbato la quiete di questo convento altrove devo fuggire a rompere altre paci”.
Con l’amico, confidente e compagno di avventure Padre De Piaz, tra le varie imprese condivise, c’è la proposta della messa in italiano, affinché il sacerdote non fosse l’unica parte attiva della celebrazione. Pur non essendo un prete moderno, poiché era molto attaccato alla tradizione come necessaria sorgente di novità, le sue idee non avevano timore di andare in contrasto con dogmi, preconcetti e ingiuste disuguaglianze. Come specifica Frabotta, tra le voci poetiche per lui più incisive Toffoli individua un poeta come Giorgio Caproni, la sua patoteologia ultima, la sua ricerca dell’inesistenza di Dio per rintracciarne la radice più profonda – e per questo nascosta – nel dramma della condizione umana.
“Sia in Caproni sia in Turoldo si respira la necessità di perdersi, di smarrirsi, per cercare di trovarsi realmente e la consapevolezza che mai si può approdare a qualcosa di effettivamente definitivo. Anche il paesaggio, del resto, li accomuna: una sorta di non luogo che potrebbe essere ovunque (di sicuro lontano dal caos cittadino) e che mette l’uomo in ascolto e al cospetto di se stesso”, sostiene convintamente Toffoli.
Un esistenzialismo kierkegaardiano che non si limitava all’osservazione del disfacimento del reale ma provava a trovare non solo una chiave di lettura teologale ma anche fattiva, in quell’operosità concreta per la quale il suo insegnamento risulta sincero anche alle analisi più scettiche.
I suoi versi, la cui scrittura proteiforme si mostra incredibilmente coesa a livello formale, nonostante il lasso temporale ampio – gran parte della sua vita – che ha interessato la sua attività letteraria, è ricca di umanissime palinodie e continui, legittimi ripensamenti ideali su Dio, sul concetto di divinità, sull’uomo e sul rapporto tra dio e l’uomo.
Lungo l’asse – articolato e fin troppo eterogeneo, forse, per essere unificato – della poesia religiosa del Novecento, tra Rebora, Betocchi, Guidacci e Testori per fare solo alcuni dei nomi più rilevanti tra cui, di certo, c’è anche Turoldo, ma senza dimenticare lo stesso Caproni, e Ungaretti e Luzi, si possono indagare, nella poesia di Turoldo, grandi ascendenze da quell’ermetismo esistenziale che ha fatto emergere alcuni dei linguaggi più eleganti e più penetranti del Secolo Breve.
Eppure, è all’Infinito di Leopardi che Turoldo si riferisce per individuare nel suo contraddittorio e talvolta lugubre Nulla una specie d’eternità che atterrisce e incanta gli esseri viventi, protési in un continuo spasmo verso la speranza, che talvolta coincide con la bellezza, forma più compassionevole e gioiosa del sublime leopardiano. Ma per Turoldo, “se vuoi vedere Dio, devi guardare in faccia un uomo”.
Un uomo, non l’uomo bensì un singolo individuo qualunque, mostruoso e peccatore che sia. Un messaggio che, in favore di una misericordia profondamente fondata sulla realtà, propone un’immagine di dio che soffre e compartecipa delle fragilità del proprio creato. Tutti concetti che sono compatibili con l’altra linea stilistica che, pur non coincidendo pienamente con la scrittura di Turoldo, ne sanciva alcuni degli aspetti formali e, cioè, un “rarefatto realismo”, come ebbe a commentare Zanzotto.
Anche in base a ciò, non stupisce la grande amicizia con Pasolini, con cui condividevano molti topoi delle loro poetiche, seppur con svariate differenze di postura autoriale. Il tema della madre, per esempio, se per Pasolini era elaborato come dramma di non sentirsi mai del tutto uscito dall’utero materno, per Turoldo era la ricerca di una figura originativa, dalle sembianze marianiche e dal timbro non solo educativo ma anche rassicurante. Il Friuli, terra d’origine di entrambi i poeti, era un paesaggio idilliaco, insieme interiore ed esteriore, da cui ritrovare nuovi approdi luminosi.
Il profetismo engagé, pregnante in ambo le poetiche, era forse semplicemente una riflessione così imperniata nel presente da mettere in luce il probabile futuro di tutti. Il cinema era una passione comune, e la ricerca disperata di Dio non lasciava scampo né a Pasolini né a Turoldo, ciascuno con il proprio modo di intendere la divinità anche in base alla percezione del corpo personale e di quello sociale. Se la parola poetica di Pasolini, secondo lo stesso Zanzotto e Agosti, era “fuori di sé”, distorcente anche per via delle ibridazioni con la cronachistica, quella di Turoldo rimase “in sé”, seppur sempre mutevole ed eterodossa.
Le esperienze di Turoldo, dalla missione nei lager, assieme a Camillo De Piaz, in cui sperimentò di camminare sulla “sabbia dolente” degli intrasportabili, uomini bruciati sul posto e, soprattutto, durante la quale si rese conto non solo dell’ostruzionismo ma della corruzione delle autorità italiane, americane ed ecclesiastiche, fino all’avventura di Nomadelfia come vita comunitaria che non piacque al Vaticano per lo “scandalo della fratellanza”, furono molteplici e attivamente politiche, e, per questo, misero in luce gli aspetti più biechi dell’organizzazione della Chiesa, nonché i suoi rapporti non sempre lineari con lo Stato.
Anche l’incontro con Don Milani, altro prete tutt’altro che canonico, fu di grande rilievo, così come l’opinione di Turoldo sul caso Moro e, in generale, sulla possibilità che la cristianità non fosse monopartitica e non si identificasse in modo cieco e ben poco spirituale con una sola fazione politica. La sinistra cattolica, esperienza breve ma significativa cui Turoldo aderì con convinzione, fu l’emblema di come sia possibile, benché complicato, mantenere la propria integrità valoriale contro il pensiero imposto dai gruppi di potere, finanche quelli religiosi.
Nelle opere inerenti all’ultima parte della sua vita, in cui Turoldo fu colto da una grave malattia, il referente, il tu, è sempre più chiaro e, insieme, più dubitativo: dio o non dio?
È dio, ma è anche il sé annichilito – o esaltato – dai sovrumani silenzi leopardiani in cui l’infinito è sostituito da un nulla che atterrisce sia l’uomo che la divinità. Una “alterità che incombi dentro la parte più profonda di noi”. Il Nulla li inerisce entrambi, uomini e divinità, li spaura e ne fa emergere il valore reciproco. Il Grande Male, onnipresente, è anche il piccolo “mio male” di ogni giorno.
Il timore della inutilità del quotidiano fa da contraltare alla paura della morte, un calice amaro necessario, talvolta salvifico, che avvicina il poeta all’esperienza di Cristo (“un volto cercato da tutte le fedi”, ecco che Turoldo dà una soluzione al rapporto tra i non fedeli e Cristo), pur rimanendo uomo e vivendo il dubbio che ha attraversato tutta l’esistenza turoldiana e ne ha reso l’opera trasversale a credenze e fedi.
Il dubbio, d’altronde, “è gravido”, sprona non solo al dialogo con il dio ma anche e soprattutto al confronto. Un confronto violento, reso con l’audace metafora degli amanti (tema comune con Testori) che non trovano pace, e rintracciano nella tensione al tradimento e al peccato gli estremi gesti di richiesta d’amore:
“O forse il peccato è un gesto folle per cercarti? Pace non c’è per gli amanti,
lo sai!”.
E ancora:
“Almeno un poeta ci sia per ogni monastero: qualcuno che canti le follie di Dio”:
Così compare un dio che si strugge per l’infelicità e la malattia dei suoi uomini, insalvabili per il loro stesso agognato libero arbitrio. E il poeta è sempre più vicino alla figura cristica, terrena, carnale, disperata.
Turoldo torna all’idea tormentata della necessità di distruggere la divinità per riacquisirne la prossimità ontologica, in un percorso condiviso con il fratello ateo: ecco che Padre Turoldo, sul letto di morte, ha saputo parlare al proprio dolore, e a quello di tutte le donne e di tutti gli uomini, anche non credenti – compresa chi scrive – ma che condividono con lui, cercatore del Verbo tra le parole del creato, il difficile cammino nella coscienza, fideistica e non, in un moto di compassionevole empatia sovrareligiosa e profondamente spirituale da cui tutti dovremmo imparare.
“Dal dubbio germinano le mie radici
* * *
Le madri sono oggetti contundenti
la mano armata del dio
che vuole in pugno ogni bambino
e vuole romperlo in due – una metà
da stringere forte, l’altra da lasciare
all’abbandono –, sono le madri
un opaco paradiso una promessa
non mantenuta, sono la voce petulante
e cruda che risuona l’ora prima della morte.
Impara presto, bambina, che la crudeltà
è l’ultima salvezza, ricomponi la frattura,
vomita via ogni nome che non sia il tuo,
cercati due occhi nuovi, uccidi la madre
cattiva e poi rinnega quella buona:
non è mai esistita.
*
Il bianco coniglietto di Alice
si è ammalato, non ha più tempo
non ha più corse, la bambina lo guarda
preoccupata, lo pettina con una spazzola
cento e più volte, lo bagna in un’acqua
di sapone e di lacrime, lo accarezza piano
sulla testa, gli sfiora le zampe che si aprono
come piccoli ventagli quando l’aria calda
del fon gli smuove il mantello, bianco
cotone che sprigiona aroma di fieno,
adesso guarisci, gli dice contro il musetto
ingiallito, mentre pensa che dio non esiste,
altrimenti non potrebbe guardare morire
le anime candide, bambini che perdono i denti
da latte coniglietti affamati, le prede del mondo,
corri e nasconditi, gli sussurra, ma lui è già altrove,
nel paese senza meraviglie la Regina di Cuori
ha tagliato il cordone e la bambina precipita,
diventa sempre più piccola, le si apre un vortice
dentro la pancia, al posto dell’ombelico: ora
conosce il bianco orrore della perdita, o della nascita.
*
Occhi neri a precipizio
sempre paura sempre sola
bambina piccina cuore friabile
sbranato a morsi, cresce pane
nel tuo petto per il pettirosso
del libro delle fiabe, cresci obliqua
per non farti male, ferita dal vento in pieno
volto, volo d’ali spiumate, piccola scintilla
di fuoco brucia la città dei balocchi
il dio dei bambini rotti non ti ascolta:
e tu corri a nasconderti dalla fame,
nel luogo segreto dei bottoni
̶ mettili in fila, inghiottili ̶
prima che ti chiudano la bocca.
Va scomparendo
Va scomparendo perfino
l’intelligenza dei fanciulli,
e gli adulti non hanno più memoria:
anche la lingua va morendo,
né ci sarà la Neolingua a salvarci:
ci saranno solo dei segni
e dei grugniti…
se appena qualcuno mostrerà
di comprendere, si dirà:
“è intelligente”!
E continueremo
ad ingannarci:
illusi di aver capito.
*
David Maria Turoldo
“O sensi miei…”
Poesie 1948-1988
Biblioteca Universale Rizzoli (Milano, 2002)
Note introduttive di Andrea Zanzotto e Luciano Erba
Da: Mia Apocalisse
Tempo verrà
Tempo verrà che non avrete un metro
di spazio per ciascuno:
lo spazio di un metro
che sia per voi. Tutti
vi dovrete rannicchiare:
nemmeno coricati!
Se pure non sarete
accatastati uno sull’altro.
Allora uno resterà soffocato
dal ribrezzo dell’altro.
Non avrà spazio
neppure il pensiero
e tutto sarà nel Panottico:
pupilla di un
Polifemo
fissa al centro del cielo:
non ci sarà un solo angolo,
un remoto angolo
per il più segreto
dei pensieri.
Il cuore sarà cavo
come il buco nero
in mezzo alle galassie.
La mente di tutti
una lavagna nera…
Un groviglio di fili
senza corrente
i sentimenti
a terra.
*
David, è scaduto il tempo
David, è scaduto il tempo d’imbarco!
Ora il tuo posto
è la lista d’attesa.
Grazia rara è
se ancora qualcuno conservi
(con molte incertezze) memoria
del tuo nome, almeno
il sospetto
che tu sia esistito.
Premono formicai di anonimi
alle stazioni della metropolitana.
Moltitudini che urlano
invocando di salire,
a grappoli.
Tutti sconosciuti l’uno all’altro
ignoto il proprio volto
perfino a te stesso,
e il volto del proprio padre:
anche lui sbarcato
a forza dal predellino dell’ultimo tram
nella notte.
*
E non hanno
E non hanno neppure
la gioia di andare
come tu andavi (oh David)
imperioso alla conquista!
E non importava sapere di cosa,
bastava la fede
almeno nell’uomo!
Ora nessuno sa
in quale direzione andare,
e tutti cercano una maniglia
nel vuoto:
o appena si affacciano
alla linea gialla della strada
subito vengono
da forze misteriose.
ribattuti indietro.
e continuano a urlare
ma nessuno sa cosa.
Tutti dentro una luce sempre uguale,
al neon:
e sola
continuerà a brillare,
appena sorridente
la gigantografia
in fosforescenza
del GRANDE FRATELLO
onnivedente,
COME STA SCRITTO!
E anche in piccole foto,
o di varia grandezza,
ma sempre uguali, a miriadi
a ogni pulsante appese:
appese agli stipiti e agli archi delle vie,
appese, le più grandi ai frontali dei palazzi
e negli stadi
e dai rosoni delle chiese,
COME STA SCRITTO:
anche le chiese
saranno allora
la STESSA COSA.
Né alcuno che possa dire
che nome porta o chi sia!
E tutti nel feroce
invincibile sospetto
l’uno dell’altro…
Non due fedi
O papa, sorridi
(non ridano solo le tue labbra)
sorridi dentro
spera
confida.
Pace a te, o papa,
non temere!
Allora non affonderai
camminando sulle acque:
altri crederanno per te
nella cruciata ora della decisione.
Non sentirti solo, o papa,
nel giardino dei dubbi.
Credi, ti amiamo
e ti «compatiamo»
filialmente.
Da te stesso liberati, o papa,
uccidi la tua ombra che t’insegue:
il mondo non ti è nemico,
abbi fede in lui
e nel Dio che l’ama
fino alla fine,
e sia un’unica fede.
Non due fedi, o papa.
Credi all’unità
dei giorni e delle opere,
alla creazione che è unica.
Puoi essere voce di due infallibilità
che tutto, chiesa e fabbrica e studi
è inesauribile invenzione
di un medesimo Spirito:
uno è l’uomo,
uno e amorosamente operante
Iddio nell’uomo.
(da “O SENSI MIEI… POESIE 1948-1988” )
ALTRA SALMODIA ALLA PACE
a «Testimonianze» e a tutti i comitati di pace
La pace è l’Eden,
l’Armonia da sempre agognata,
giardino dell’Alleanza
che sta nel cuore della terra,
giardino da sempre rimpianto.
Anche le fiere dei campi ti piangono, o Pace,
anche il leone e la tigre ti piangono,
con ululati dalle selve piangono
l’orrendo disordine
non necessario.
La coesione della pietra è santa,
la massa compatta delle acque,
santa la coesione degli astri.
Uomini, non violate il Sacrario dell’atomo,
non entrate nel Santo dei santi
perché morirete: Scienziati,
non fate della sua casa
una spelonca di ladri.
La pace è l’Eden che deve inverarsi,
il Sogno reale e necessario
che attraversa l’intera creazione.
Creature tutte all’opera:
che deve venire la Pace
che deve farsi la Pace;
che si faccia la Pace su tutta la terra:
e l’uomo è la sola coscienza
a proclamare che Egli esiste.
Francesco, riprendi a cantare
per frate sole e sora luna
«et per aere et nubilo et sereno»,
perfino alla morte diciamo: o sorella!
Ma siano tutte le creature a cantare.
Uomini, tornate fanciulli,
rompete le spade e nessuno
continui a trafiggere il cuore alle cose
come han trafitto il costato di Cristo.
Questo è l’irreparabile Male
il Male che non ha nome:
l’incubo non della morte,
dell’«0ltre-morte»,
il Grande Nulla che incombe.
Abbiamo violato il Sacrario
profanato il Santo dei santi:
messe le mani sull’atomo,
rotta la diga sull’abisso,
ci siamo creduti «Despoti».
Abbiamo perduta l’Amicizia delle cose,
la Grande Comunione:
tornare indietro
sarà ancora possibile?
Questo è l’Eden che deve inverarsi
il giardino dell’Alleanza,
il Sogno dell’universo.
(da “O SENSI MIEI… POESIE 1948-1988” )
Il trattato dal titolo “David Maria Turoldo, il Resistente”, a cura di Guerino Dalola, in collaborazione con Donatella Rocco, Antonio Santini, Mino Facchetti, Pierino Massetti, Gian Franco Campodonico e di ANPI Franciacorta, consiste in un importante saggio autoprodotto con il patrocinio di vari enti e associazioni, tra cui la Città di Chiari, il Comune di Coccaglio, il Comune di Cologne, i Servi di Maria – provincia di Lombardia e Veneto e l’associazione Gervasio Pagani.
Padre David Maria Turoldo è un frate morto nel 1992. Su padre David Maria Turoldo, che fu poeta, filosofo, sacerdote, autore, traduttore, fondatore di riviste e giornali, sono stati pubblicati centinaia di libri e documenti, ma senza dare ampia notizia sulla sua partecipazione alla Resistenza del 1943-45 contro il nazifascismo. Padre David Maria Turoldo è stato un grande Resistente a Milano, ma era in contatto anche con la Resistenza bresciana, soprattutto nella zona della Franciacorta.
Secondo Turoldo la figura del Partigiano riveste certamente una eccezionale e fondamentale importanza, ma in uno specifico momento e in una determinata situazione. Invece, sempre secondo Turoldo, essere Resistente è una scelta di vita che non può verificarsi solo in un determinato tempo e in uno spazio contingente. La Resistenza, i Resistenti attuano un impegno quotidiano, da realizzarsi nel percorso di ogni giorno, senza distrazioni, nel corso di una intera esistenza. La liberazione autentica dell’umanità, oltre che dal nazifascismo e dalle dittature, richiede una militanza, una acribia nel tempo, un impegno molto più profondo sul piano culturale, relazionale, politico, sociale, familiare. L’impegno del Resistente non ha fine e scadenze, perché la libertà non si rinnova da sola, ma deve essere sempre riconquistata con l’impegno di ognuno di noi. Infatti la Resistenza non è mai finita.
Turoldo non ha mai voluto schierarsi con nessun partito politico, perché, lui stesso spiegherà, la libertà, la costruzione di un mondo migliore, i diritti delle persone, la solidarietà, il progresso alternativo che non è tale se non è per tutti, il soccorso a chi vive nell’indigenza, a chi vive nelle difficoltà, a chi vive nel bisogno, il rispetto di tutte le fedi politiche e religiose, non sono istanze appartenenti all’uno o all’altro schieramento partitico, ma sono valori appartenenti alla nostra comune umanità.
Per il Resistente il vero campo di lotta è la normalità, la testimonianza, non solo con le parole, ma con esempi di vita. Il Resistente non è solo antifascista. La vera scelta del Resistente è un’alternativa totale, a favore di una società, di un contesto sociale, completamente diversi, per una nuova presente e futura umanità, perché la pace non è solo mancanza di guerra, ma è nonviolenza, è costruzione di convivenza solidale e fraterna.
Le esperienze di Turoldo furono molteplici come Partigiano in una delle vicende più importanti della sua vita: la Resistenza. Ma le fonti storiche non danno ricostruzione storiografica editata di ampio respiro di padre Turoldo per la sua attività nella lotta di Liberazione nazionale e per il contributo notevole che ha offerto nella ricostruzione morale e materiale del nostro Paese. “Una lacuna nella storia del pensiero democratico e antifascista di impronta cattolica alla quale bisognerebbe pensare di porre rimedio”, così scrive Aldo Aniasi, comandante partigiano, assessore e sindaco di Milano, deputato e ministro socialista e presidente della FIAP federazione italiana associazioni partigiane. Scrive sempre Aldo Aniasi, che come uomo della Resistenza padre Turoldo privilegiò sempre una scelta unitaria, lo spirito unitario della Resistenza, lo spirito dell’unità antifascista. Intrattenne rapporti con comunisti, socialisti, azionisti e incontrava personaggi come Eugenio Curiel, Rossana Rossanda e altri importanti dirigenti della sinistra.
Uno dei risultati più significativi dell’intero lavoro di confronto e dialogo realizzato nel convento di San Carlo a Milano per iniziativa di padre Turoldo e padre De Piaz è la nascita e la diffusione – soprattutto da parte di Teresio Olivelli, Claudio Sartori ed altri collaboratori bresciani – del giornale clandestino antifascista “Il ribelle”. Anche la predicazione in Duomo su incarico del Cardinale Schuster diventa espressione della Resistenza di padre Turoldo. Appena dopo la Liberazione del 25 Aprile 1945, saranno ventinove i Lager visitati da padre Turoldo alla ricerca di sopravvissuti e riuscirà a riportare in salvo a casa circa duecento prigionieri. Scrive Turoldo “Una sola possibilità affinché non si ripeta quanto è avvenuto: ricordare e capire, far ricordare e far capire… Così ho visto la sola Europa possibile, quella della solidarietà dei sopravvissuti”. Scrive Ernesto Balducci “Il grande dono di David è di essere nato povero, in mezzo ai poveri, agli ultimi… David è rimasto un povero. I poveri sono fuori del perimetro della storia”. In occasione degli appositi referendum, padre Turoldo vota contro l’abrogazione del divorzio e dell’aborto, perché i principi religiosi non possono essere imposti a chi non crede: la religione va spiegata e proposta, mai imposta con una legge. Nella primavera del 1978, padre Turoldo, insieme al confratello De Piaz, avvia una trattativa con le Brigate Rosse, per la liberazione di Aldo Moro, presidente della Democrazia Cristiana. L’iniziativa a cui partecipa anche il vescovo di Ivrea monsignor Luigi Bettazzi, presidente di Pax Christi, viene bloccata dall’opposizione delle autorità ecclesiastiche.
La Corsia dei Servi e Nomadelfia furono le iniziative più care sia a Turoldo sia a padre De Piaz, basate su concetti di primaria importanza: tanto la fede che le scelte politiche diventano operative e efficaci solo nell’ambito di una cultura che permetta di uscire dall’inerzia di una fede accolta solo per tradizione e pregiudizio, per tentare invece una rigenerazione dalla vera cultura con maggior impulso possibile.
Invitato a un congresso sul disarmo nel febbraio 1978, Turoldo ebbe l’occasione di incontrare Carlo Cassola, che lo invitò al convegno nazionale della LDU- Lega per il Disarmo Unilaterale. Gli aderenti attuali della Lega per il Disarmo Unilaterale sotto la sigla “Disarmisti Esigenti” stanno lavorando all’interno della campagna ICAN – International Campaign to Abolish Nuclear Weapons e con molte altre associazioni del panorama italiano affiliate a ICAN, tra cui anche PeaceLink- Telematica per la Pace, alla ratifica del trattato ONU, il TPAN, per la proibizione delle armi nucleari, varato a New York a palazzo di vetro nel luglio 2017 da 122 nazioni e dalla società civile organizzata in ICAN. ICAN grazie alla costituzione del trattato Onu per l’abolizione delle armi nucleari è stata insignita Premio Nobel per la Pace 2017. E poi ricordiamo la Salmodia della Speranza che attraversa la drammatica esperienza dell’Europa prima e durante la Seconda Guerra Mondiale: il trionfo dei dittatori, il nazismo, il fascismo, il razzismo, i grandi massacri, i Lager, Hiroshima e Nagasaki, la Resistenza. Per una Chiesa che accoglie i diversi, gli emarginati, gli oppressi, gli ultimi, le vittime di cui tutti siamo parte nel contesto sociale, comunitario, culturale e nel mondo, nel terribile deserto della sopraffazione e della violenza dove tante voci chiedono libertà, giustizia e verità per tutti quegli innocenti che ancora nascono solo per morire.
Laura Tussi – PeaceLink, Campagna “Siamo tutti Premi Nobel per la Pace con ICAN” Fabrizio Cracolici – ANPI sezione Emilio Bacio Capuzzo Nova
LUIS CERNUDA-La poesia di C. si caratterizza agli inizî per l’aspirazione a una forma nitida, “pura”, sull’esempio di J. R. Jiménez, col concorso di un’esperienza metrica che guarda a modelli classici (“décimas, cuartetas”), ma si inquadra presto in una dimensione più precisa, “neoromantica”, per un’ansia di interrogare la propria coscienza, alimentata dal mito di una solitudine insormontabile, tutta percorsa da accenti nostalgici e cupi riflessi sentimentali. Vicino piuttosto all’opera di D. Alonso e V. Aleixandre in questo tentativo di sfuggire, in ultima analisi, alle soluzioni metafisiche di molta poesia pura (J. Guillén, G. Diego), C. si è andato lentamente disimpegnando dalle premesse estetizzanti della sua poesia (Las nubes, Buenos Aires 1943; Como quien espera el Alba, Buenos Aires 1947), dimostrando la propria inquietudine anche in tentativi di prosa poetica (Ocnos, Londra 1942, 2ª ed. accresciuta, Madrid 1949; Tres narraciones, Buenos Aires 1948; Variaciones sobre tema mexicano, Messico 1952) e continuando a esercitare il proprio influsso anche sulla più giovane poesia spagnola, tutta indirizzata verso esperienze realistiche e politico-sociali. C. ha scritto anche interessanti volumi di saggi (Estudios sobre poesía española contemporánea, Madrid 1957; Pensamiento poético en la lírica inglesa, Messico 1958; Poesia y literatura, Barcellona-Messico, 1960) e ha tradotto Hölderlin (Messico 1942) e il Troilo e Cressida di Shakespeare (Madrid 1953). In Spagna si è stampata recentemente un’opera di poesia di C., Poemas para un cuerpo, Malaga 1957, e nel Messico è apparsa nel 1958 una nuova ed. accresciuta di La realidad y el deseo. Poesie di C. tradotte in ital. da O. Macrì in Poesia spagnola del Novecento, Parma 1952.
Poesie di LUIS CERNUDA
SE L’UOMO POTESSE DIRE
Se l’uomo potesse dire ciò che ama,
se l’uomo potesse levare al cielo il suo amore
come nube nella luce;
se come mura che crollano,
accogliendo la verità eretta in mezzo,
potesse abbattere il corpo, lasciando solo la verità del suo amore,
la verità di se stesso,
che non è gloria, fortuna o ambizione,
ma amore o desiderio,
io sarei quel che immaginavo;
quel che con la lingua, gli occhi, le mani
proclama agli uomini la verità che ignorano,
la verità del suo amore vero.
Libertà non conosco se non quella d’esser prigioniero in qualcuno
di cui non posso udire il nome senza brivido;
qualcuno per cui dimentico questa esistenza meschina,
con cui il giorno e la notte sono per me quel che vuole,
e il mio corpo e spirito navigano nel suo corpo e spirito
come legni perduti che il mare solleva o annega
liberamente, con la libertà dell’amore,
l’unica libertà che m’esalta,
l’unica libertà per cui muoio.
Tu giustifichi la mia esistenza:
se non ti conosco, non ho vissuto;
se muoio senza conoscerti, non muoio, perché non ho vissuto.
(da I piaceri proibiti, 1931)
—-
«Elegía anticipada»
Por la costa del sur, sobre una roca
alta junto a la mar, el cementerio
aquel descansa en codiciable olvido,
y el agua arrulla el sueño del pasado.
Desde el dintel, cerrado entre los muros,
huerto parecería, si no fuese
por las losas, posadas en la hierba
como un poco de nieve que no oprime.
Hay troncos a que asisten fuerza y gracia,
y entre el aire y las hojas buscan nido
pájaros a la sombra de la muerte;
hay paz contemplativa, calma entera.
Si el deseo de alguien que en el tiempo
dócil no halló la vida a sus deseos,
puede cumplirse luego, tras la muerte,
quieres estar allá solo y tranquilo.
Ardido el cuerpo, luego lo que es aire
al aire vaya, y a la tierra el polvo,
por obra del afecto de un amigo,
si un amigo tuviste entre los hombres.
Y no es el silencio solamente,
la quietud del lugar, quien así lleva
tu memoria hacia allá, mas la conciencia
de que tu vida allí tuvo su cima.
Fue en la estación cuando la mar y el cielo
dan una misma luz, la flor es fruto,
y el destino tan pleno que parece
cosa dulce adentrarse por la muerte.
Entonces el amor único quiso
en cuerpo amanecido sonreírte,
esbelto y rubio como espiga al viento.
Tú mirabas tu dicha sin creerla.
Cuando su cetro el día pasa luego
a su amada la noche, aún más hermosa
parece aquella tierra; un dios acaso
vela en eternidad sobre su sueño.
Entre las hojas fuisteis, descuidados
de una presencia intrusa, y ciegamente
un labio hallaba en otro ese embeleso
hijo de la sonrisa y del suspiro.
Al alba el mar pulía vuestros cuerpos,
puros aún, como de piedra oscura;
la música a la noche acariciaba
vuestras almas debajo de aquel chopo.
No fue breve esa dicha. ¿Quién pretende
que la dicha se mida por el tiempo?
Libres vosotros del espacio humano,
del tiempo quebrantasteis las prisiones.
El recuerdo por eso vuelve hoy
al cementerio aquel, al mar, la roca
en la costa del sur : el hombre quiere
caer donde el amor fue suyo un día.
Luis Cernuda
De: «La realidad y el deseo» – 1924- 1962
Recogido en su “poesía completa” Volumen I
Ed.Siruela 1993.
ISBN: 84-7844-185-5 (Del volumen I)
«…El destierro y la muerte para mi están adonde no estés tú.»
LC
«Cómo llenarte, soledad…»
Cómo llenarte, soledad,
sino contigo misma…
De niño, entre las pobres guaridas de la tierra,
quieto en ángulo oscuro,
buscaba en ti, encendida guirnalda,
mis auroras futuras y furtivos nocturnos,
y en ti los vislumbraba,
naturales y exactos, también libres y fieles,
a semejanza mía,
a semejanza tuya, eterna soledad.
Me perdí luego por la tierra injusta
como quien busca amigos o ignorados amantes;
diverso con el mundo,
fui luz serena y anhelo desbocado,
y en la lluvia sombría o en el sol evidente
quería una verdad que a ti te traicionase,
olvidando en mi afán
cómo las alas fugitivas su propia nube crean.
Y al velarse a mis ojos
con nubes sobre nubes de otoño desbordado
la luz de aquellos días en ti misma entrevistos,
te negué por bien poco;
por menudos amores ni ciertos ni fingidos,
por quietas amistades de sillón y de gesto,
por un nombre de reducida cola en un mundo fantasma,
por los viejos placeres prohibidos
como los permitidos nauseabundos,
útiles solamente para el elegante salón susurrado,
en bocas de mentira y palabras de hielo.
Por ti me encuentro ahora el eco de la antigua persona
que yo fui,
que yo mismo manché con aquellas juveniles traiciones;
por ti me encuentro ahora, constelados hallazgos,
limpios de otro deseo,
el sol, mi dios, la noche rumorosa,
la lluvia, intimidad de siempre,
el bosque y su alentar pagano,
el mar, el mar como su nombre hermoso;
y sobre todo ellos,
cuerpo oscuro y esbelto,
te encuentro a ti, tú, soledad tan mía,
y tú me das fuerza y debilidad
como el ave cansada los brazos de la piedra.
Acodado al balcón miro insaciable el oleaje,
oigo sus oscuras imprecaciones,
contemplo sus blancas caricias;
y erguido desde cuna vigilante
soy en la noche un diamante que gira advirtiendo a los hombres,
por quienes vivo, aún cuando no los vea;
y así, lejos de ellos,
ya olvidados sus nombres, los amo en muchedumbres,
roncas y violentas como el mar, mi morada,
puras ante la espera de una revolución ardiente
o rendidas y dóciles, como el mar sabe serlo
cuando toca la hora de reposo que su fuerza conquista.
Tú, verdad solitaria,
transparente pasión, mi soledad de siempre,
eres inmenso abrazo;
el sol, el mar,
la oscuridad, la estepa,
el hombre y su deseo,
la airada muchedumbre,
¿qué son sino tú misma?
Por ti, mi soledad, los busqué un día;
en ti, mi soledad, los amo ahora.
«…Perdidamente te alejas, dejando erguido al deseo con sus vagas ansias tercas.»
LC
«Deseo»
Por el campo tranquilo de septiembre,
del álamo amarillo alguna hoja,
como una estrella rota,
girando al suelo viene.
Si así el alma inconsciente,
Señor de las estrellas y las hojas,
fuese, encendida sombra,
de la vida a la muerte.
Luis Cernuda: Lamento y esperanza
«Contempla ahora a través de las lágrimas: Mira cuántos traidores, Mira cuántos cobardes…»
«Lamento y esperanza»
Soñábamos algunos cuando niños, caídos
En una vasta hora de ocio solitario
Bajo la lámpara, ante las estampas de un libro,
Con la revolución. Y vimos su ala fúlgida
Plegar como una mies los cuerpos poderosos.
Jóvenes luego, el sueño quedó lejos
De un mundo donde desorden e injusticia,
Hinchando oscuramente la ávidas ciudades,
Se alzaban hasta el aire absorto de los campos.
Y en la revolución pensábamos: un mar
Cuya ira azul tragase tanta fría miseria.
El hombre es una nube de la que el sueño es viento.
¿Quién podrá al pensamiento separarlo del sueño?
Sabedlo bien vosotros, los que envidiéis mañana
En la calma este soplo de muerte que nos lleva
Pisando entre ruinas un fango con rocío de sangre.
Un continente de mercaderes y de histriones,
Al acecho de este loco país, está esperando
Que vencido se hunda, solo ante su destino,
Para arrancar jirones de su esplendor antiguo.
Le alienta únicamente su propia gran historia dolorida.
Si con el dolor el alma se ha templado, es invencible;
Pero, como el amor, debe el dolor ser mudo:
No lo digáis, sufridlo en esperanza. Así este pueblo iluso
Agonizará antes, presa ya de la muerte,
Y vedle luego abierto, rosa eterna en los mares.»
«…Sabes bien, recuerdos de siglos, Como el amor el lucha Donde se muerden dos cuerpos iguales…»
LC
«Déjame esta voz»
Déjame esta voz que tengo,
Lo mismo que a la pampa le dejan
Sus matorrales de deseo,
Sus ríos secos colgando de las piedras.
Déjame vivir como acero mohoso
Sin puño, tirado en las nubes;
No quiero saber de la gloria envidiosa
Con rabo y cuernos de ceniza.
Un anillo tuve de luna
Tendida en la noche a comienzos de otoño;
Lo di a un mendigo tan joven
Que sus ojos parecían dos lagos.
Me ahogué en fin, amigos;
Ahora duermo donde nunca despierto.
No saber más de mí mismo es algo triste;
Dame la guitarra para guardar las lágrimas.
CERNUDA, Luis Carmelo SAMONA’ (Siviglia 1902 – Città di Messico 1963)-Poeta spagnolo. Impostosi giovanissimo fra i poeti della “generazione del 1925” (Perfil del airex, Malaga 1927, Donde habite el olvido, Madrid 1934), C. visse a contatto dei maggiori maestri della “poesia pura” a Madrid, dove nel 1936 pubblicò un’intera raccolta dei suoi versi, col titolo La realidad y el deseo. Dopo la guerra civile è emigrato prima in Inghilterra (1938-1947) poi negli Stati Uniti (1947-1952), infine nel Messico, e ha continuato la sua attività di poeta e di saggista, insegnando anche in università inglesi ed americane.
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