Poesie di Christa Wolf Poetessa e scrittrice tedesca-
Christa Wolf, nata nel 1929 a Landsberg an der Warthe, oggi in Polonia, si affermò come scrittrice nel 1963. Studiò a Jena e in Magdeburgo e sposò lo scrittore Gerhard Wolf. Sostenitrice del partito socialista, a cui si era iscritta nel 1949, fu una delle autrici più importanti della GDR (Deutsche Demokratische Republik). In seguito assunse una posizione molto critica nei confronti del regime comunista. Oltre a Trama d’infanzia, ricordiamo: Il cielo diviso (1963), Riflessioni su Christa T. (1968), Cassandra (1983), Medea.Voci (1996) e La città degli angeli (2011). Wolf è morta nel 2011, all’età di 82 anni, ed è sepolta a Berlino, nel Dorotheenstädtische Friedhof [N.d.B. lo stesso cimitero dove si trova la tomba di Bertold Brecht].
Christa Wolf,
Riconosciuta – Colpevole di Christa Wolf
ERKANNT
Das bin ich nicht
beteure ich
schuldbewußt
in die fordernden
anklagenden
enttäuschten Gesichter
Aber das bin ich doch wirklich nicht ich
Wirklich bin ich nicht
Nicht ich bin wirklich
Ich bin wirklich nicht
Bin ich nicht wirklich?
Das bist du
sagt der Tod
Ich bin es gewesen
gestehe ich
Zweifellos
30.11.88
SCHULDHAFT
Im Vortraum
sah ich
ein Doppelwesen
Er liegend
sie stehend
zusammengewachsen
an ihren Füßen
dergestalt
daß der Mann
sich nur aufrichten konnte
mit den Füßen der Frau
sie aber die Stehende
nur gehen konnte
in den Füßen des Mannes
So blieben sie
unbeweglich
14.9.87
Zentralbild Ecklecken 9.3.1963 Zum Tag des Buches – Schriftstellerin Christa Wolf Christa Wolf begann nach ihrem Germanistikstudium, als Literaturkritikerin, als Lektorin und Mitarbeiterin im deutschen Schriftstellerverbund. Als erste belletristische Arbeit erschien 1961 die “Moskauer Novelle”, die sogleich ungewöhnliche Beachtung fand. Ihre neue Erzählung “Der geteilte Himmel”, die im Mai erscheinen wird, steht zur Diskussion für den FDGB-Literaturpreis 1962-1963. Gegenwärtig arbeitet Christa Wolf an einem Filmdrehbuch für ihre Erzählung “Der geteilte Himmel”. UBz: Schriftstellerin Christa Wolf
RICONOSCIUTA
Questa non sono io
assicuro
ai volti
esigenti
che mi accusano
delusi
Certo questa non sono io
Davvero non lo sono
Non lo sono davvero
Io davvero non sono io
Vero che non sono io?
Questa sei tu
dice la morte
Lo sono stata
lo ammetto
Non c’è dubbio
COLPEVOLE
Nel dormiveglia
vedevo
un essere duplice
Sdraiato lui
e lei in piedi
uniti
così che
solo con i piedi della donna
ai suoi piedi
l’uomo
si sarebbe sollevato
e lei pur ritta
avrebbe potuto camminare
solo con i piedi dell’uomo
Restavano dunque
immobili
[ Traduzione di Anna Chiarloni e Ida Travi. Anterem 56, 1998 ]
Christa Wolf,
PRINCIPIO SPERANZA
(Christa Wolf, nata Christa Ihlenfeld)
Inchiodato
alla croce del passato
ogni movimento
spinge
i chiodi
nella carne.
SOLITARI DENTRO STANZE GRIGIE
A tastoni si cammina lungo gli steccati,
si sta seduti solitari dentro stanze grigie
come in camere nebbiogene,
ed è difficile liberarsi dalla tristezza
per tutte le occasioni mancate della vita
– per l’amore perduto,
il dolore incompreso,
la gioia sconosciuta
e il sole mai visto
di paesi stranieri.
PARLAVI DI COSE CHE NON VEDEVANO
Parlavi di cose che non vedevano
e loro ridevano.
Ma tu rema sul fiume oscuro
controcorrente;
va’ per la via sconosciuta
alla cieca, ostinato,
e cerca parole radicate
come il nodoso ulivo –
lascia che ridano.
Desidera che dimori l’altro mondo
nella soffocante solitudine odierna
in questo presente smemorato –
lasciali pure.
Il vento marino e la rugiada dell’alba
esistono senza che alcuno li cerchi.
Breve biografia di Christa Wolf –Poetessa e Scrittrice tedesca (Landsberg an der Warthe 1929 – Berlino 2011).Ha studiato e operato nella Repubblica Democratica Tedesca, cui ha aderito con spirito critico, anche se, dopo la riunificazione della Germania, ciò non è valso a stornare dalla sua figura riserve e sospetti d’ambiguità. Scrittrice problematica, incline al virtuosismo, dopo le poesie raccolte in Wir, unsere Zeit (1959) e Moskauer Novelle (1961), ottenne grande successo col romanzo Der geteilte Himmel (1963; trad. it. 1983), in cui il destino dei personaggi è segnato dalla divisione della terra tedesca. Non minore risonanza ottennero Nachdenken über Christa T. (1969; trad. it. 1973), il racconto Kein Ort. Nirgends (1979; trad. it. 1984), sulla vita e il suicidio di H. von Kleist, con significativi rimandi all’attualità, e il romanzo Kassandra (1983; trad. it. 1984). Dopo la caduta del muro di Berlino, ha raccolto una serie di testi polemici nel volume Im Dialog (1990) e nel discusso scritto autobiografico Was bleibt (1990; trad. it. 1991). Tematicamente legato al mito classico, come il precedente Kassandra, è Medea Stimmen (1996; trad. it. 1997), che riprende in chiave originale tematiche femministe. Tra le pubblicazioni più recenti sono da ricordare la raccolta Hierzulande Andernorts (1999), il romanzo Leibhaftig (2002; trad. it. 2002), i racconti Ein Tag im Jahr 1960-2000 (2003), l’opera in forma di diario Mit anderem Blick (2005) e il romanzo autobiograficoStadt der Engel oder The Overcoat of Dr. Freud. Roman (2010; trad. it. La città degli angeli, 2011). Postumi sono stati pubblicati in Germania: entrambi nel 2012, la raccolta di inediti Rede, dass ich dich e August (trad. it. 2012), ultimo racconto della scrittrice redatto sei mesi prima della morte; i diari Ein Tag im Jahr, 2001-2011, im neuen Jahrhundert (2013).
Fonte- Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani
Castelnuovo di Farfa -Il Murales della Memoria-Brano dal libro di Franco Leggeri
Castelnuovo di Farfa -Il Murales della Memoria-Brano dal libro di Franco Leggeri –Un vecchio proverbio castelnuovese dice testualmente: “’U giornale (ora anche il web) è come u somaru, quillu che jhi carichi porta…”. Assistiamo , leggiamo, a Castelnuovo a “Lezioni di Memoria e Appartenenza”. Grande lezione impartita a noi “vecchi ignoranti castelnuovesi” che, appunto, di Storia castelnuovese , non avendola vissuta, abbiamo un “disperato” bisogno di abbeverarci alla fonte “Ornischi” o “Bollica”. Noi vecchi castelnuovesi stiamo imparando cosa significa essere ignoranti. Se ben ricordo , in teoria, l’ignorante è chi dice <non so>, ma in realtà , a mio avviso, dopo aver letto vari articoli relativi alla “Memoria e Appartenenza” credo che, in verità oggi, a Castelnuovo è colui che <non sa e non conosce la Storia castelnuovese > ma la vuole spiegare ed illustrare ai protagonisti cioè a noi VERI CASTELNUOVESI. Il proverbio castelnuovese citato all’inizio è vero:” L’ignoranza della Storia castelnuovese? Grazie al web è diventata “saccenza”.A Castelnuovo assistiamo, in fatto di Storia ,a una sorta di: “liberi tutti… di sparare idiozie storiche che sono così eclatanti nella “semplicistica e ingenua” ricostruzione nella fase cronologica, date, e nei personaggi . Mnemosune (memoria) ) la madre di tutte le Muse, i greci la identificavano con la capacità di tenere a mente, rammentare, quindi con un’abilità della ragione, della testa, in prima istanza. Il “potere” castelnuovese è complice di questo “ANNO ZERO” della “nuova storia castelnuovese”. A noi castelnuovesi quello che abbiamo vissuto è entrato in circolo nel nostro sangue, è parte di noi.Noi vecchi castelnuovesi , allontanati e isolati dal “potere arrogante dell’ignoranza” ,che nome dobbiamo dare a chi offende la nostra intelligenza? Qual’è il nome corrispondente? Rabbia? O piuttosto delusione, sconforto, fastidio? A Castelnuovo l’ignoranza della vera storia castelnuovese è alla base della situazione attuale. L’inflazione d’informazione, in continua crescita ed evoluzione, fa perdere il senso di continuità del tempo, il valore della memoria, in un perpetuo “attimo presente” che cancella percorsi storici lenti, difficili, conquistati a fatica, tra passi in avanti e dolorosi ritorni al passato.Questa “ dittatura dell’informazione castelnuovese” è la causa dell’indifferenza con cui si accettano decisioni che hanno e avranno conseguenze pesanti per la società e la democrazia del nostro amato Castelnuovo.È pericoloso per il “potere castelnuove”che la gente abbia conoscenza, anzi coscienza, dei fatti storici che, in bene e in male, sono all’origine della situazione attuale. Noi castelnuovesi, quelli dell’Orgoglio castelnuovese, dobbiamo aver presente che la memoria storica non è “automatica”, deve essere tenuta viva, non “mummificata” e resa “sterile” , attualizzata , cosa ben diversa “dal racconto diverso”. La Storia , la nostra storia castelnuovese, viene “messa a tacere” per, a mio avviso, non dare ai giovani la capacità di analisi, critica, denuncia , discussione del presente alla luce del passato al fine di non far conoscere i “percorsi” in cui si sono perse conquiste e spesso anche i valori. La VERA storia di Castelnuovo ci permette, a noi tutti , di crearci una coscienza critica indispensabile per comprendere il tempo di oggi e per intervenire nella società castelnuovese con libertà, obiettività, apertura, forza intellettuale e morale. Ripeto da anni che sono pronto per un pubblico dibattito con le autorità e gli “storici castelnuovesi”.
Castelnuovo e i colori della rabbia,
Noi che abbiamo la parola interdetta
aspettiamo le stelle del cielo
per vedere ,da questo ponte della Storia,
l’ultima acqua silenziosa del nostro passato.
In questo spazio infinito dei ricordi
possiamo solo gettare i nostri sassi della rabbia.
Noi non abbiamo voce
perché oscurati e dimenticati
e il nostro respiro è nascosto al sole.
Ora l’ombra del silenzio scivola
e trascina a valle la voce dell’oblio.
A noi Castelnuovesi non resta che imparare
la trama dei racconti
nasconderli nel libro dell’anima
e custodirli nei cassetti della memoria.
Scriveremo e racconteremo
lo “schiaffo della resa”
che le sirene del potere ,
beffandosi del nostro dolore
e il non essere capaci di rifiutare le “monetine“ dell’umiliazione,
Maria Stuarda, forma italianizzata di Mary Stuart, è stata sicuramente la regina più importante della Scozia.
Nota Biografica:
Nata l’8 dicembre 1542 da Giacomo V Re di Scozia e dalla sua seconda moglie Marie de Guise, duchessa francese imparentata con la casa reale di Francia, Maria era la nipote di Margaret Tudor, sorella di Enrico VIII d’Inghilterra, il re famoso per aver rotto i legami con la chiesa cattolica e aver istituito la fede anglicana.
Poco dopo la sua nascita, il padre morì lasciando lei come unica erede e nel 1543, nella cappella del Castello di Stirling, la piccola fu incoronata Maria, Regina di Scozia.
Ci fu una breve reggenza di James Hamilton mentre nel 1554 la madre Marie de Guise decise di rompere il fidanzamento tra la figlia ed il principe Edoardo, figlio di Enrico VIII che con questo sposalizio avrebbe messo le mani sul regno di Scozia.
Maria Stuarda
Descrizione del romanzo:
Il “brutale corteggiamento” ebbe inizio. Così venne definito quello che seguì a questa rottura, le campagne militari inglesi contro la Scozia nel tentativo di rapire Maria e farla sposare con Edoardo. Marie de Guise fuggì portando con sè la figlia di castello in castello fino ad arrivare nella corte di Francia storica alleata scozzese dove il re Enrico IIapprofittò per farla sposare con il figlio Francesco II nel 1558 che però morì poco dopo.
Cresciuta e allevata alla corte dissipata di Caterina de’ Medici, fu la legittima regina di Scozia. Nella terra che fu di William Wallace fu richiamata dai membri dell’aristocrazia, ansiosi anzitutto di assicurare al loro paese l’indipendenza dai vicini meridionali. Infatti, il Parlamento scozzese, senza l’assenso della sovrana, aveva ratificato la modifica della religione di Stato passando da quella cattolica a quella protestante sotto la spinta del furore del riformatore John Knox.
Maria sbarcò a Leith nel 1561, possedendo numerose virtù e talenti appresi dall’educazione ricevuta in Francia, ma era manchevole di quella forza per far fronte alla pericolosa situazione scozzese.
I rapporti con la cugina Elisabetta I d’Inghilterra
Nel frattempo sul trono di Inghilterra salì Elisabetta, figlia di Enrico VIII e Anna Bolena, la donna per cui il re ruppe i rapporti con la Chiesa di Roma. I rapporti tra le cugine, Maria Stuarda ed Elisabetta I, furono difficili e complicati. innanzitutto per la fedeltà che molti cattolici inglesi decisero di dare alla regina di Scozia non riconoscendo Elisabetta. Ancor di più, ad incrinare i rapporti tra le due regine, accorse la difficile situazione della successione.
Elisabetta non aveva figli e non era intenzionata ad averla. Maria invece, captando la possibilità di unire i due regni sotto la sua egida, si sposò con il cugino Lord Darnley, che grazie a sua madre vantava certi diritti di successione al trono inglese. Dal matrimonio nacque Giacomo VI di Scozia (poi Giacomo I d’Inghilterra), battezzato nel Castello di Stirlingsu una tavola rotonda, come a renderlo il nuovo re Artù che avrebbe presto unito Scozia e Inghilterra.
A rendere ulteriormente intricati i legami tra le regine fu la morte sanguinosa del marito di Maria Stuarda, accusata dalla cugina di essere complice dell’attentato. La regina scozzese aveva un segretario favorito, l’italiano Rizzio, in contrasto con Darnley e i nobili protestanti che dominavano la politica del paese. Rizzio fu ucciso dallo stesso Lord sotto gli occhi della regina. A sua volta, un anno dopo il marito di Maria fu ucciso da James Hepburn, IV conte di Bothwell, che divenne poi il marito della regina di Scozia, rendendo ancora più credibile la sua implicazione nell’assassinio del precedente marito.
I nobili scozzesi, benchè non eccessivamente morali, furono urtati da questi atti che disonoravano la nazione. Imprigionarono Maria a Lochleven per processarla. Ella fuggì per chiedere asilo alla cugina Elisabetta.
La regina d’Inghilterra, nonostante l’antipatia per Maria, odiava anche le ribellioni e la figura del calvinista Knox. Decise così di trattenerla in prigionia cercando di intavolare una trattativa ma con condizioni di pace alquanto irragionevoli, come che rinunciasse al trono a favore di Giacomo VI e che lo facesse educare in Inghilterra.
I continui rifiuti, la sete di vendetta, e l’aspirazione a sposare il re Filippo di Spagna la portarono per ben 19 anni ad essere imprigionata e ad essere accusata di complicità nelle congiure contro la regina anglicana. La prova della sua partecipazione fu trovata nella firma al documento della cospirazione di Babington che prevedeva la morte di Elisabetta. Il processo che ne seguì la condannò a morte, nonostante il figlio Giacomo chiese che la pena fosse commutata in esilio.
La condanna a morte fu firmata il 1° febbraio 1587 per quella che le Camere definirono “quel drago enorme e mostruoso ch’è la regina degli scozzesi”.
Durante il processo, Maria Stuarda, per sottolineare la sua fedeltà alla religione cattolica, alla Scozia e il non essersi piegata all’Inghilterra anglicana, disse ai suoi accusatori “guardate nelle vostre coscienze e ricordate che il teatro del mondo è più ampio del regno d’Inghilterra.” Essendo una regina straniera, nonché la prima sovrana ad essere giustiziata nonostante legittimamente unta e coronata, non poteva essere accusata di alcun tradimento.
La sua vita, divenuta così modello di eroina di romanzo, campionessa di fede, fu venerata dal mondo cattolico come santa e martire. Trascorse i suoi ultimi giorni pregando e perdonando il suo boia al quale disse “vi perdono con tutto il mio cuore, perché ora io spero che porrete fine a tutte le mie angustie”.
Morì decapitata l’8 febbraio del 1587 con ben due colpi di scure, indossando una sottoveste di raso rosso, colore liturgico del martirio per la religione cattolica usato per dimostrare la sua innocenza. La regina chiese che le dame, alla sua morte, vestissero il “nero spagnolo”. Il nero divenne il colore ufficiale del lutto per i re, i principi e nobili vari, cioè coloro che erano più vicini ai papi e agli uomini influenti della Chiesa.
Le opere a lei ispirate
La sua figura ispirò un romanzo di Alexandre Dumas in cui si concentra la malinconia per il ruolo storico per cui la Regina era nata ma che le sanguinose vicende le impedirono di essere. A lei furono anche dedicate un’opera lirica di Gaetano Donizetti e un’opera di teatro di Frederich Schiller. Vittorio Alfieri nel 1788 scrisse la tragedia “Maria Stuarda”.
A livello cinematografico sono decine i film in cui compare e due su tutti la vedono protagonista, entrambi intitolati “Mary Queen of Scots”, usciti nel 1971 e nel 2013. Nel primo la figura della regina fu recitata da Vanessa Redgrave che ottenne anche una candidatura agli Oscar per questo ruolo. Tra il 2013 e il 2017 le è stata dedicata anche una serie TV, chiamata ”Reign”, incentrata sulla sua giovinezza impersonata dall’attrice Adelaide Kane.
Nel 2018, invece, è uscito il film “Maria regina di Scozia“, diretto da Josie Rourke con protagoniste Saoirse Ronan e Margot Robbie. Si tratta dell’adattamento cinematografico di My Heart is my own: the life of Mary Queen of Scots, biografia della regina scozzese scritta da John Guy.
Biografia di Maria Stuarda-Figlia (Linlithgow 1542 – Fotheringay Castle, Northamptonshire, 1587) di Giacomo V e di Maria di Lorena. Mandata in Francia (1548) perché fosse sottratta al fidanzamento con Edoardo d’Inghilterra voluto da Enrico VIII, M. vi fu educata alla corte di Enrico II e fidanzata col delfino Francesco, che poi sposò nell’apr. 1558. Bella, di carattere energico, seppe tener testa alle difficoltà che Caterina de’ Medici, avversa al partito dei Guisa, cui M. era legata da rapporti di parentela, le opponeva, dominando il debole marito. La morte di Francesco II (5 dic. 1560) la fece però attenta alla situazione in Scozia, dove si era favorevolmente conclusa, con l’aiuto di Elisabetta d’Inghilterra, la lotta per la proclamazione del protestantesimo; M. si rifiutò di riconoscere il trattato di Edimburgo, in base al quale erano stati espulsi i Francesi, ma accettò l’invito dei lord protestanti, presto delusi dell’amicizia di Elisabetta, e nell’agosto 1561 sbarcò a Leith. Furono anni tranquilli: la collaborazione fra i lord protestanti e M. fu cementata dall’appoggio del conte di Moray e dell’ala moderata dei protestanti scozzesi, che consentì a M. la personale professione del culto cattolico e una generale politica di tolleranza religiosa. Il difficile equilibrio (la pressione dei circoli cattolici su M. non era meno forte del violento estremismo di J. Knox) fu rotto quando M., che aveva rifiutato un matrimonio col conte di Leicester proposto da Elisabetta, sposò, incurante dell’opposizione protestante, Enrico Darnley, il capo dei cattolici scozzesi (1565); poi sconfisse Moray, che si rifugiò in Inghilterra. La grave situazione fu complicata dall’ambizione del debole Darnley a farsi proclamare principe-consorte e dall’improvvisa passione di M. per il suo segretario Davide Rizzio; una breve alleanza di Darnley con i nobili protestanti, sempre più irritati dai tentativi di restaurazione cattolica di M., portò all’assassinio di Rizzio (1566) e poi si sfasciò. M. diede una nuova prova del carattere tutto passionale e non politico della sua azione; riconciliatasi col marito (il 19 giugno le nasceva il figlio Giacomo), riuscì a scindere l’opposizione dei nobili, e con l’aiuto dei conti di Bothwell, di Huntly e di Atholl tornò a Edimburgo dal suo rifugio di Dunbar, iniziando una relazione con Bothwell, che fu l’inizio della catastrofe. Darnley fu assassinato (9 febbr. 1567), e nel maggio successivo, dopo avventurose vicende, M. sposò, secondo il rito protestante, Bothwell. La violenta opposizione dei nobili, che vincitori a Carberry Hill costrinsero M. all’abdicazione e al ritiro a Lochleven, travolse la sua testarda resistenza e, sconfitta ancora a Langside, M. cercò rifugio in Inghilterra presso Elisabetta. L’avversione personale per la regina cattolica, che aveva in varie occasioni mostrato di non voler rinunciare ai suoi diritti al trono inglese, fu contenuta dall’imbarazzo politico di Elisabetta che non voleva immischiarsi nella punizione di una regina; e per un momento si pensò di risolvere la difficile situazione sposando M. col duca di Norfolk. Un progetto che fallì presto, mentre M. tentava disperati complotti con i Guisa e con Filippo II di Spagna, finché, compromessasi imprudentemente nella congiura di A. Babington, nell’ott. 1586 fu processata e (11 ottobre) condannata a morte. Dopo molte esitazioni, Elisabetta si decise a firmare il decreto di morte, che fu eseguito il 7 febbraio 1587.
After Images. L’eccidio della famiglia Einstein Mazzetti: risonanze visive-
Fotografie di Eva Krampen Kosloski-Sellerio Editore
Descrizione del libro della Sellerio Editore -Il 3 agosto 1944 nella tenuta Il Focardo di Rignano sull’Arno, circa 15 chilometri a sudest di Firenze, poche ore prima che l’avanguardia delle forze alleate raggiunga la villa, un commando tedesco giustizia Nina Mazzetti e le sue figlie Luce, 27 anni, e Anna Maria, 18. Nina è la moglie di Robert Einstein, ricco commerciante, ebreo apolide, che viveva in Italia da diversi anni. Era il cugino dello scienziato Albert. Robert, che durante la strage era in fuga nei campi, poco dopo il suo ritorno e la scoperta del massacro si suiciderà.
Presenti all’esecuzione sono Lorenza e Paola Mazzetti, cugine di Luce e Anna Maria, che da alcuni anni, di fatto adottate, vivono con la famiglia degli zii. Vengono risparmiate perché non ebree. All’epoca sono poco più che bambine.
Lorenza e Paola diventeranno, ognuna a suo modo, personaggi importanti della stagione culturale del dopoguerra. Lorenza trasferitasi a Londra sarà una delle protagoniste – se non la vera artefice – del Free Cinema inglese, una delle «onde nuove» più trascinanti della cultura europea che vede protagonisti registi del calibro di Lindsay Anderson, Karel Reisz e Tony Richardson. Tornata in Italia negli anni Sessanta sarà anche pittrice, giornalista, intellettuale influente. Dei mesi che precedettero quella terribile esperienza scriverà nel libro Il cielo cade, mentre dal mondo cinematografico della Londra del dopoguerra nascerà il Diario londinese (entrambi pubblicati da questa casa editrice).
La sorella Paola sarà scrittrice, illustratrice, artista.
Sua figlia, Eva Krampen Kosloski, fotografa, tornerà nei luoghi dell’infanzia e della tragedia con la madre e la zia e ne documenterà l’atmosfera, la bellezza, la nostalgia. E fotograferà le due sorelle pochi anni prima della loro scomparsa: nella tenuta di Monte Malbe in Umbria, nella villa del Focardo, a Roma…
Queste toccanti immagini, con altre storiche che documentano quell’infanzia dal tragico epilogo, insieme ai documenti che registrano la strage, sono oggetto di un’importante mostra che fino al 25 febbraio 2024 è visitabile in anteprima assoluta presso il Memoriale della Shoah di Milano, e che in seguito sarà portata a New York al Centro Primo Levi.
After Images. L’eccidio della famiglia Einstein Mazzetti: risonanze visive
Edizione bilingue (italiano e inglese) Brossura, formato 17×24 cm Con 74 illustrazioni a colori
La casa editrice Sellerio
Quello che è diventata la casa editrice Sellerio era in un certo modo già presente nel carattere di chi l’ha ispirata come impresa culturale e fondata come impresa economica. Il centro guardato dalla periferia, per scoprire che la periferia è il centro.
La casa editrice Sellerio nasce nel 1969, con un piccolo investimento da parte di Elvira ed Enzo Sellerio celebre fotografo, sulla base di una idea nata parlando assieme a Leonardo Sciascia e Antonino Buttitta, l’antropologo. I quattro sono amici e sono protagonisti della vita culturale palermitana. Palermo negli anni Sessanta è una strana città. Da mille anni una delle capitali dell’Occidente, da mille anni alla periferia dell’Occidente. Crocevia e crogiuolo di tutti gli elementi fondamentali assorbiti dalla cultura occidentale. Ne è legata e distaccata insieme. In ogni sua stagione di fervore culturale (e gli anni Sessanta sono anni di fervore) produce un tipo di intellettuale, egocentrico e presuntuoso quando è un piccolo intellettuale; originale e creativo quando è un grande intellettuale. È un intellettuale segnato da un particolare movimento dialettico: dal suo cantuccio guarda il centro del mondo. Osserva quanto fragili e piene di eccezioni sono sempre diventate in Sicilia le mode e le verità altrove proclamate di volta in volta infallibili e assolute. Considera tutto questo dapprima con risentimento per esserne escluso, con sufficienza, con desiderio; poi scopre che il suo cantuccio è il mondo. Così, fin dall’inizio Sellerio è una casa editrice periferica e interessata alle periferie. Ma è questo essere una specie di provincia dell’anima che le consente di esprimere una generalità. Di non essere una nicchia, ma un soggetto. Perché il soggetto è inevitabilmente un punto di vista, cioè una provincia che si fa centro.
Il programma all’origine della casa editrice è il ritorno a una cultura che Sciascia definisce «amena», cioè una cultura in cui il cosiddetto impegno è implicito e non esplicito, quindi una cultura della leggerezza, che non rinuncia all’eleganza, una cultura delle idee, sì, ma in forma di cose belle.
La fine degli anni Sessanta segna l’apice del grande impegno ideologico e politico della cultura italiana. Ma come sempre, dall’apice, dalla sommità comincia la discesa. Alla fondazione della casa editrice vi è, volontario o involontario, l’intuito che sta per cominciare quello che allora si chiamerà riflusso. Tutti leggono soltanto di politica. Tutto è politico, in quegli anni, perfino la letteratura, perfino l’arte. Tutto è essenziale, ascetico, importante e ostentatamente povero. Se è colto, è sperimentale. La prima collana Sellerio si chiama invece La civiltà perfezionata. È fatta di carta pregiata, con le pagine intonse. E pubblica testi di «belle lettere»: ricercata letteratura, rarefatta, distante anni luce da ogni tempesta politica. Sono testi caratterizzati da due linee apparentemente parallele, in realtà convergenti: la letteratura siciliana, e la letteratura europea meno nota e più raffinata. Due linee che convergono perché si dipartono da un illuminismo di base: il credere che la cultura non ha bisogno di aggettivi, che è di per sé trasformatrice. I due primi titoli sono infatti Mimi siciliani del nobile letterato Lanza e Lettere sulla Sicilia di Eugène Viollet Le Duc, scrittore francese (nonché architetto) malinconico e di sensibilità autobiografica. Ogni volume è accompagnato da incisioni di grandi illustratori (Mino Maccari, Tono Zancanaro, Bruno Caruso) e da una introduzione che in casa editrice si prende l’abitudine (in parte per il gusto della modestia, in parte per la vanità della modestia) a chiamare Nota. Le Note sono testi che hanno come modello gli scritti occasionali di Sciascia stesso, che non prendono mai di petto il loro oggetto, ma vi alludono alla ricerca di connessioni e suggestioni apparentemente lontane ma che in realtà centrano più di ogni zelante documentazione. Così le Note sono introduzioni ma costituiscono, se si vuole, letture autonome. Lanza, per esempio, è introdotto da Calvino.
La prima svolta: la pubblicazione de L’affaire Moro di Leonardo Sciascia.
Dentro la casa editrice, nei primi anni serpeggia un dissenso. C’è chi vuole conservare una dimensione minima e riservata, un carattere strettamente amatoriale (sull’esempio del milanese Scheiwiller, o dell’editore nisseno Salvatore Sciascia). Altri invece vorrebbero misurarsi col mare aperto, con una presenza editoriale più marcata e pubblica, forse nazionale. Nel 1978, senza che nessuno lo abbia programmato volontariamente, arriva un libro di Sciascia come la spada di Alessandro Magno che taglia il nodo gordiano. L’affaire Moro è un classico libro Sellerio (forse il primo tipico). Pubblicato in una collana per pochi com’è La civiltà perfezionata, vende più di centomila copie. È un libro di denuncia, senza parrocchie, coraggioso, scritto nella prosa magnifica di Sciascia. Non teme di essere un libro di grande responsabilità ideale; ma è fatto per essere letto e goduto. Insomma è nato lo stile di una casa editrice e il suo spazio a livello nazionale.
La seconda svolta: la collanina blu della Memoria. Nasce la piccola editoria. Mentre circola lo slogan «piccolo è bello». Tra la casa editrice e l’immaginario dell’italian style si crea un involontario circolo virtuoso.
Fortunato, fortunoso e fortuito – avrebbe detto Sciascia – fu dunque il presentarsi di Sellerio sulla scena nazionale. Ma fu vissuto come una occasione da non mancare. E nell’autunno del 1979 nacque la collana che mancava. Il blu della Memoria. Prima di tutto la grafica. Fu una piccola rivoluzione, nel grigiore metallico delle copertine di quegli anni l’irrompere della macchia blu, della carta vergata, dell’immagine pittorica figurativa al centro della sovraccoperta, dentro una cornicetta colorata che richiamava il colore delle lettere del titolo. Un effetto cromatico accentuato da quella che era allora una originalità audace: i colori delle lettere e della cornice che cambiavano di numero in numero: una volta gialli, una volta celesti, una volta grigi, una volta rossi, quasi mai bianchi. Il libro tornava ad essere anche un oggetto elegante, anche per quel suo formato tendente al quadrato, studiato per essere su misura per la tasca di una giacchetta. Un’unica legge per i contenuti: la curiosità intelligente (intelligente, diceva Sciascia nel senso di intelligenza col lettore «come si dice intelligenza col nemico», cioè intesa rapida, sotterranea, forse complice) che il libro doveva comunicare al lettore, resa con stile letterario. Leggerezza. Una collana amena, appunto. Per quell’accavallarsi di casi fortunati che contornano le buone imprese, La memoria accompagnò – forse incoraggiò, addirittura, si può azzardare, inaugurò – una serie di novità in ciò che allora cominciava a chiamarsi «immagine». Nasceva allora lo stile della piccola editoria. Nasceva dentro l’idea dei prodotti italiani come esempio di cose belle fatte bene e con stile. La memoria, nella sua fortuna di lettori e di critica, sosteneva queste tendenze e ne era sostenuta.
La consacrazione nazionale: il caso Bufalino. Difficilmente un altro editore avrebbe scoperto Diceria dell’untore. Perché quella scoperta fu il frutto dello stile di lavoro di Sellerio.
Un uomo già anziano. Un tipico professore di Liceo siciliano. Coltissimo ma impenetrabilmente schivo. Poco appariscente, sembrava più un erudito che uno scrittore di talento. E poi la sua scrittura barocca, ricercata allo spasimo, figlia, apparentemente, dell’altra metà del secolo. Nel 1981 l’incontro con Bufalino fu casuale e solo il fatto che lo stile di lavoro di Elvira Sellerio (che allora cominciava a occuparsi a tempo pieno, da direttore editoriale, della sua impresa) è poco programmato e molto guidato dalla curiosità, poté produrre quella piccola inchiesta alla fine della quale nel cassetto di Bufalino fu scovato Diceria dell’untore. Una casa editrice più ordinata, un direttore editoriale più tradizionale, uno stile di lavoro più efficiente avrebbe mai trovato Diceria dell’untore? Comunque, quel romanzo che fu la consacrazione di Sellerio tra gli editori nazionali, vinse un meritatissimo Campiello nel 1981 e segnò un cambiamento anche nella cultura italiana. La narrativa italiana girò pagina. E cominciò la stagione dei nuovi scrittori italiani. Almeno per Sellerio.
Saggi legati soprattutto alla storia, alle scienze del linguaggio e a quella che una volta si chiamava varia umanità. Rigore scientifico ma anche il tentativo perenne di rinverdire il vecchio saggio di lettura – che non è la divulgazione o la volgarizzazione ma la capacità di mantenere lo stile, la curiosità e l’innocenza di fronte alle tematiche più teoriche ed erudite.
Nel frattempo nel 1976 erano nate due collane di saggistica. Biblioteca siciliana di storia e letteratura e Prisma. La Biblioteca è la prima collana di storia della Sellerio. Il titolo è vagamente crociano. C’è Croce infatti, forse senza che se ne abbia esplicita intenzione, sotto tutta la storia di Sellerio. Perché non possiamo non dirci crociani? Perché Croce era forse prima di tutto un grande letterato. La storia che cerca di fare Sellerio è storia con la S maiuscola, quella che Les Annales chiamavano storia evenemenziale, dei grandi avvenimenti. (Non che non sia presente anche una storia sociale e materiale, una microstoria: essa è raccolta nella collana Quaderni, fondata nel 1984). Storia di grandi avvenimenti, storia siciliana ma non solo. Ma soprattutto libri di storia fatti, o almeno questo è il tentativo perenne, per essere letti più che studiati (è in questa collana che compare il libro dello storico Francesco Renda Storia della Sicilia dal 1860 al 1970, la più completa storia della Sicilia postunitaria). Prisma invece è la collana di saggistica più classica e più specialistica: essa è destinata agli studi dei linguaggi e delle letterature intesi nel senso più ampio. Nel corso degli anni a queste prime si aggiunsero altre collane: La diagonale e La nuova diagonale, Fine secolo, destinate rispettivamente a saggi di varia, a lettere diari biografie e memorie di viaggio, alla letteratura dei diritti civili (Fine secolo, fu inventata ed è diretta da Adriano Sofri). Ma la cifra che le unifica tutte quante è sempre quella. Non perdere mai l’innocenza e la curiosità. Non perdere mai di vista che la conoscenza è un orizzonte non un traguardo. Se non è incanto, la conoscenza è tecnicismo per i tecnici. Un esempio è la Sentenza, di Luciano Canfora, che indaga sul caso della esecuzione del filosofo del fascismo Gentile e del coinvolgimento del grecista Marchesi. Canfora è intellettualmente coinvolto, per le sue posizioni politiche di sinistra per il suo antifascismo e per essere grecista; ma questo coinvolgimento non prevale sulla obiettività e dà al libro, semmai, un di più di passione. Canfora dal 1990 dirige la collana La città antica, l’unica collezione di scritti classici con studi critici e testi a fronte diretti al vasto ambito dei lettori non specialisti.
Gli anni Ottanta di Tabucchi, di Consolo, di Adorno, di Maria Messina. Sellerio è in prima fila in quella stagione in cui con un nuovo orgoglio la narrativa italiana scopre (riscopre) un’altra generazione di scrittori.
Dopo Diceria dell’untore il nome della casa Sellerio si salda in qualche modo con la vena dei nuovi scrittori italiani. Sellerio, nel suo piccolo, contribuisce a riprendere l’esportazione della cultura italiana all’estero. Accanto a Bufalino, sono richiestissimi i diritti di traduzione di scrittori che la casa editrice va scoprendo. Antonio Tabucchi, Maria Messina, Luisa Adorno, sono i nomi più interessanti. Ed è indicativo che non di inediti si tratti. Ma di scrittori caduti nel dimenticatoio, che Sellerio scopre e rilancia. Segno che gli anni Ottanta sono proprio la stagione della piccola editoria che esercita una funzione di svecchiamento, contro la pigrizia e il letargo dei giganti dell’editoria. E di questa stagione, la stagione della nuova generazione di narratori italiani, assieme a un paio di altri, Sellerio è protagonista e traino.
Il risveglio dei giganti. I grandi gruppi editoriali riassorbono i piccoli, con i manager al posto dei vecchi leoni. Fine della piccola editoria. Sellerio resiste, assieme a pochi altri. E lancia un nuovo genere di giallo all’italiana. Un piccolo editore, Sellerio?
Nel 1990 esce da Sellerio un librettino. Racconta di un commissario di polizia che indaga su un torbido delitto, nel passaggio dalla repubblica di Salò alla repubblica italiana. Il commissario, De Luca si chiama, è un funzionario del regime fascista onesto e molto scettico, in un’epoca in cui le due qualità – onestà e scetticismo – non possono andare d’accordo. Sembra il primo giallo «revisionista», in quanto presenta il volto umano di un’epoca e un momento storicamente perversi. Ma il suo autore ha abbastanza cultura, talento e onestà intellettuale per far argine a quello che potrebbe essere uno scandaluccio e per farne un caso letterario. Con Carta bianca di Carlo Lucarelli si può dire che nasca un nuovo genere di giallo italiano. Seguirà un profluvio di letteratura poliziesca, para o similpoliziesca, italiana e straniera, di grandissimo interesse e successo. Quasi a conferma di una profezia di un grande scrittore svizzero importato in Italia da Sellerio. Nel 1985 la casa editrice aveva pubblicato il romanzo di uno strano giallista svizzero e irregolare Glauser (Il grafico della febbre, giunto a una decina di ristampe), che diceva: «il racconto poliziesco è il miglior mezzo per diffondere idee ragionevoli». E a questo motto profetico oggi – che sembra più nulla possa dirsi se non in forma di giallo – pare obbedire il giallo Sellerio. All’apice di questa avventura con il poliziesco c’è la scoperta di un vero e proprio genere nuovo. Il poliziesco di scuola siciliana, e due nomi senza commento: Andrea Camilleri e Santo Piazzese. Sono titoli di successo e di grande diffusione. Sull’onda di questi anni Novanta, Sellerio inaugura altre collane, più marginali e divaganti. Come Il castello che viaggia nei grandi libri della letteratura del mondo non globalizzato – dall’Irlanda all’America latina, all’Africa, agli Afroamericani. Come Il divano che butta qui e là sotto gli occhi del lettore le più diverse stranezze, da collezionisti di oggetti inesistenti o da eruditi di cose perdute o da manualistica di pratiche del tutto inutili. Un ventaglio di grande ricchezza intellettuale, di spirito ed eleganza, di suggestioni, che consente a Sellerio di sfuggire a quello che è il grande vento editoriale degli anni Novanta. Il risveglio dei giganti. Le nuove immani concentrazioni editoriali. Le cosiddette sinergie che tolgono i libri dalle mani degli editori, e ne fanno gadget. Sellerio è così ormai un caso più unico che raro di piccola editoria. Un artigiano robusto come una industria. Un gruppo di dilettanti più bravi del miglior professionista. Una follia con dentro il metodo più rigoroso. Ma stiamo parlando ancora di un piccolo editore?
Gli anni del Duemila per Sellerio sono stati gli anni di un’esperienza nuova: i cinque milioni di copie di libri di Camilleri, oggi diventati trenta milioni, prodotti a Palermo e venduti in Italia, più i diritti di traduzione venduti fino al Giappone. Ma non c’è solo questo.
C’è prima di tutto che questa esperienza capace di travolgere e di tramutare non ha travolto e tramutato. E non è solo l’esperienza dei grandi numeri. È ancora una volta, negli anni dei giganti multimediali e multinazionali della comunicazione, l’esperienza di lanciare ovunque nel mondo la cultura in lingua italiana da una provincia siciliana in cui si prende ancora il gelato al gelsomino e si investe ancora il tempo a perdere tempo felicemente. Forse bisogna ancora accorgersi che in questi primi anni del Duemila la Sicilia ha esportato ovunque due cose, due cose sole ma cariche di significato e di speranza: il vino siciliano e i libri blu di Sellerio. E non solo libri. Nell’autunno del Duemila la casa editrice ha cercato una via nel nuovo campo del multimediale. Sellerio ha prodotto, per la prima volta in Italia, un cartone animato interattivo dal Cane di terracotta. Un libro video e gioco interattivo insieme: un’invenzione, premiata con la menzione d’onore al «Bologna New Media Prize». Oltre Camilleri, poi, tornando ai libri, gli anni Duemila sono stati anni di scrittori dal mondo di cui si parla molto e se ne parlerà per molto. La canadese Margaret Doody: aveva pubblicato un libro e poi il suo editore americano si era dimenticato di lei. Ma Margaret aveva creato un nuovo detective nel filosofo Aristotele, un detective deduttivo e realistico, rimandando indietro nel tempo il genere del giallo speculativo. E con questa operazione ironica di proiettarlo nel passato ha tolto ogni anacronismo a un genere, appunto la detection speculativa, che sembrava oggi impossibile: un best seller, il primo libro, seguito da altri due in prima mondiale e venduti in più di centomila copie. Ancora un miracolo editoriale: un’anziana signora inglese, caso letterario europeo degli ultimi anni, Penelope Fitzgerald, che parla delle cose profonde e invisibili e forti della vita, con una grazia colorita di tinte tenui che è stata paragonata alle tele di Turner. Il divertimento triste e trascinante del russo Dovlatov, che parla della sua esperienza di russo a cavallo della caduta del muro, con un umorismo acuto e dissacrante che ha la forza – è stato detto – di Čechov. Bolaño, cileno e giramondo, un Borges dei tempi di Tarantino (è un critico francese a definirlo così nella commemorazione per la sua recente scomparsa), che trae dal passato di ieri delle dittature sudamericane, e dal presente della diaspora della sua generazione di sudamericani, cronache vere, ma che sembrano uscite dalla smorfia dada e surrealista. E le scoperte più recenti. Due giallisti di grande qualità e di grande successo. Gianrico Carofiglio (Testimone inconsapevole e Ad occhi chiusi) l’inventore del «legal thriller» italiano, con un personaggio così vero, l’avvocato Guerrieri, che solo un magistrato di lungo corso com’è lui poteva scolpire. E la spagnola Alicia Giménez-Bartlett: l’ispettrice Petra Delicado e il vice Garzón sono due piedipiatti così indimenticabili, nel loro umorismo dolceamaro, nella loro durezza dal cuore tenero, che il grande critico Cesare Cases parla dell’autrice come «geniale scrittrice mediterranea».
– Rosa Leveroni-(1910-1985)-Poetessa spagnola legata alla Resistenza culturale catalana nel periodo franchista. La sua poesia, influenzata dall’opera di Carles Riba, è caratterizzata dal tema amoroso e dalla riflessione sul destino umano.
Rosa Leveroni i Valls neix a Barcelona l’1 d’abril del 1910 en el si d’una família de la mitjana burgesia. El seu pare, descendent d’una família d’armadors de vaixells de Gènova, fa de gerent d’un magatzem de metalls, i la seva mare, de mestra. Fa els primers estudis al col·legi Príncep d’Astúries i, posteriorment, fins als dotze anys, a les Dames Negres del passeig de Gràcia.
Rosa Leveroni
Als quinze anys publica els seus primers versos a la revista Patufet, i comença a tenir clara la seva vocació literària. Tot i que el seu pare la pressiona perquè es dediqui al negoci familiar, als dinou anys, coincidint amb la caiguda de la dictadura de Primo de Rivera, entra a l’Escola de Bibliotecàries, que aleshores dirigeix Jordi Rubió. Aquesta institució, fundada per Eugeni d’Ors, té com a professors alguns dels intel·lectuals catalans més brillants del moment (Carles Riba, Ferran Soldevila, Nicolau d’Olwer, Rafael de Campalans). L’estada a l’Escola de Bibliotecàries i, en especial, la coneixença de Carles Riba, és cabdal en la formació intel·lectual i personal de Leveroni.
L’any 1933 rep una beca per anar a Madrid a fer una tesina sobre literatura infantil. En tornar, entra a treballar a la biblioteca de la Universitat Autònoma de Barcelona. Durant la guerra civil fa dos cursos de la carrera de Filosofia i Lletres. L’any 1937 és finalista al premi Joaquim Folguera amb el llibre Epigrames i cançons, que publica l’any 1938, prologat per Carles Riba. La influència ribiana i, en general, de tota la generació postsimbolista és molt present en aquest volum. Els temes que hi apareixen seran els que es repetiran durant tota la seva obra: la tristesa, la desolació amorosa, la melangia…, sentiments continguts i objectivats gràcies a la disciplina del vers.
El 1939, després de la Guerra Civil, la depuració de funcionaris de la Generalitat fa que perdi la feina com a bibliotecària de la Universitat Autònoma. Durant la dècada dels quaranta, Leveroni dedica tota la seva energia a la resistència cultural catalana enfront de la repressió franquista, i es converteix en l’ànima del grup intel·lectual que Carles Riba forma al seu voltant. És ella qui distribueix clandestinament les Elegies de Bierville de Riba, qui actua de contacte entre els intel·lectuals catalans de l’interior i els de l’exili, i és una de les primeres col·laboradores de la revista Poesia (fundada el 1940) i de la revista Ariel (fundada el 1946).
Rosa Leveroni per al suple Foto: Ferran Sendra
L’any 1952 publica un segon volum de poesia, Presència i record, prologat per Salvador Espriu. La mort del seu pare, l’obliga a centrar-se en el negoci familiar. En aquesta època assisteix assíduament als congressos de literatura catalana que se celebren a Anglaterra, organitzats per la Catalan Society, entitat de la qual és membre. Durant les dècades dels seixanta i dels setanta, la seva figura es manté cada vegada més apartada i aïllada de l’escena literària catalana, fet al qual també contribueix el seu silenci poètic.
L’any 1981 publica el volum Poesia, que recull tota la seva obra poètica, amb pròleg de Maria Aurèlia Capmany i dos epílegs de Carles Riba i Salvador Espriu, escrits respectivament el 1938 i el 1950 i que havien prologat els dos reculls poètics. L’any següent, el conjunt de la seva obra és reconegut amb l’atorgament de la Creu de Sant Jordi de la Generalitat de Catalunya.
Mor el 4 d’agost del 1985, poc abans que es publiqui un volum de contes que recull la seva producció narrativa. És enterrada a Port-Lligat.
Rosa Leveroni
Rosa Leveroni-Poesia”PRESENZA E RICORDO”
*
Con il grigiore di questo cielo,
l’argento dell’ulivo
deve sembrare il tocco di un pennello
dalla fine trasparenza.
Un mare di piombo sullo sfondo
condensava l’oscurità.
Tutta la luce è rimasta
sul ramo d’ulivo.
Rosa Leveroni-(1910-1985)-Poetessa spagnola legata alla Resistenza culturale catalana nel periodo franchista. La sua poesia, influenzata dall’opera di Carles Riba, è caratterizzata dal tema amoroso e dalla riflessione sul destino umano.
(Presència i record. Barcelona: Edicions de l’Óssa Menor, 1952)
* * *
Elegies dels dies obscurs
III
Desmai de cap al tard damunt de l’aigua
adormida del port. Els núvols grisos
deixaven la tristesa de sentir-se
orfes del seu rosat botí de posta,
sobre el mirall opac. L’ala del somni
ratllava les cobertes treballades
d’un íntim cansament. Ja cap bandera
no ornava els mastelers. I les desferres
dels bots abandonats eren la muda
crida del desesper. Els nostres passos
ressonaven pel moll i les paraules
foren el lent sospir de la nostàlgia
d’un viatge mai fet… Ah! les inútils
veles del mort desig, ¿com desplegar-les
al vent que no vindrà per a portar-nos
al goig del mar obert, a l’alegria
de les ones batents, si els braços àvids
d’aquest port desolat ens retenien?
VIII
Aquest so greu de corda adolorida
que subratlla el meu cant, és la penyora
deixada per la mort perquè et recordi,
amor adolescent. És la teva ombra
que en l’alta solitud dels camins aspres,
el braç acollidor, va fer-me ofrena
d’aquest repòs segur, oh flama pura
del meu amor passat, present encara
en el somriure las d’un món que porta
el pes de tots els morts en les florides
de cada primavera renovada.
Ets el meu port tancat on de l’inútil
navegar porcel·lós veig la tristesa
i el conhortament… Ombra benigna
que m’acompanya el cant atemperant-lo
amb unes notes greus, serva’m els braços
eternament oberts…
(Poesia. Barcelona: Edicions 62, 1981, p. 105-108)
Rosa Leveroni
* * *
Plau-me seguir els camins que els camps parteixen,
ignorant cap a on van,
amarats d’un perfum de terra molla
i d’un errívol cant.
I prenen uns colors de coure càlid
d’un bes del sol ponent,
i celen amb amor, sota les branques,
el festeig de la gent.
Plau-me seguir els camins que per la vinya
s’enfilen costa amunt,
i tenen per la set i la mirada
un bell gotim a punt.
Plau-me seguir els camins entre pollancres
vetllant un rierol,
i coneixen el vol de les becades,
el joc de pluja i sol…
Amo tots els camins, fins els més aspres,
mentre siguin oberts
i posin tremolor de fruita nova
als meus sentits desperts.
(Poesia. Barcelona: Edicions 62, 1981, p. 80-81)
* * *
Jo porto dintre meu
per fer-me companyia
la solitud només.
La solitud immensa
de l’estimar infinit
que voldria ésser terra,
aire i sol, mar i estrella,
perquè fossis més meu,
perquè jo fos més teva.
(Epigrames i cançons. Barcelona: Gustau Gili, 1938)
Antologia
Alcune poesie
Con il grigiore di questo cielo
l’argento de l’olivera
deve sembrare il tocco di un pennello
di una raffinata trasparenza.
Un mare di piombo sullo sfondo
condensava la tenebra.
Tutta la luce è andata
al brancam de l’olivera.
(Presenza e ricordo. Barcellona: Edizioni dell’orso minore, 1952)
* * *
Elegies dels muore oscurs
III
Svenendo nel pomeriggio in acqua
sonno dal porto. Le nuvole grigie
hanno lasciato la tristezza dei sentimenti
Orfani con il loro sedere rosa,
sullo specchio opaco. L’ala del sogno
graffiato i ponti lavorati
di una stanchezza intima. Nessuna bandiera più
niente Ornava els Mastelers. I les desferres
delle barche abbandonate erano i muti
grido di disperazione. I nostri passi
risuonava attraverso il molo e le parole
Erano il lento sospiro della nostalgia
da un viaggio mai fatto… Ah! Ah! quelli inutili
candele del desiderio di morte, come aprirle
al vento che non verrà a prenderci
alla gioia del mare aperto, alla felicità
delle onde battenti, se l’avidità braccia
Ci hanno tenuti lontano da questo porto desolato?
VIII
Quel serio suono di corda dolorante
che sottolinea il mio canto, è la penyora
lasciato alla morte per ricordarti,
amore adolescenziale. È la tua ombra
che nell’alta solitudine delle strade aspre,
il braccio di accoglienza, mi ha fatto un’offerta
di questo riposo sicuro, oh fiamma pura
dal mio amore passato, presente ancora
nel sorriso quelli di un mondo che porta
il peso di tutte le morti in Florida
di ogni primavera rinnovata.
Sei il mio porto chiuso dove dell’inutilità
surf in porcellana vedo la tristezza
I el conhortament… Ombra benigna
che mi accompagna la canzone temprandola
Sul serio, servi le mie braccia
eternamente aperto…
(Poesia. Barcellona: Edizioni 62, 1981, p. 105-108)
* * *
Seguite i sentieri che conducono i campi,
ignorante cappuccio a sul furgone,
amato da un profumo di terra morbida
Non posso errívol.
E prendono i colori caldi del rame
con un bacio dal sole che tramonta,
e cieli d’amore, sotto i rami,
la festa del popolo.
Seguite i sentieri per la vigna
stanno allineando la costa,
E hanno la sete e lo sguardo
un bell gotim un punt.
Per favore seguite i sentieri tra pollancre
vegliare su un torrente,
E conoscono il volo delle borse di studio,
il gioco della pioggia e del sole…
Amo tutte le strade, anche le più dure,
purché siano aperti
E hanno messo un nuovo tremore alla frutta
nei miei sensi svegli.
(Poesia. Barcellona: Edizioni 62, 1981, p. 80-81)
Rosa Leveroni
* * *
Porto dentro di me
per farmi compagnia
solo la solitudine.
La solitudine immensa
amarla infinitamente
Voglio essere la terra,
Aire i sol, mar i estrella,
perché tu eri più mio,
in modo che potessi essere più come te.
(Epigrammi e canzoni. Barcellona: Gustau Gili, 1938)
Rosa Leveroni-Poetessa spagnola
Rosa Leveroni (Barcelona, 1910-1985). Poeta i narradora. La seva poesia es troba influïda pel mestratge de Carles Riba, tant en els models formals com en el refús de la superficialitat i el barroquisme. La seva obra és breu i es troba recollida en dos volums: Poesia (1981) i Contes (1985). Conrea també l’assaig i la crítica literària (sobre Ausiàs March, especialment). Durant la postguerra desenvolupa una tasca important en la represa de la cultura i la llengua catalanes. L’any 1982 és reconeguda amb la Creu de Sant Jordi de la Generalitat de Catalunya.
Va ser una de les primeres membres i, posteriorment, sòcia d’honor de l’Associació d’Escriptors en Llengua Catalana.
Rosa Leveroni (Barcellona, 1910-1985). Il poeta e il cantastorie. La sua poesia è influenzata dalla maestria di Carles Riba, sia nei modelli formali che nel rifiuto della superficialità e del barocco. Il suo lavoro è breve ed è raccolto in due volumi: Poesia (1981) e Racconti (1985). Coltiva anche saggio e critica letteraria (soprattutto su Ausiàs March) Nel dopoguerra sviluppa un importante compito nel restauro della cultura e della lingua catalana. L’anno 1982 è riconosciuta con la Croce di San Giorgio della Generalitat di Catalogna.
POEMES DE ROSA LEVERONI
VI TARDA DE POESIA
20 D’ABRIL DE 2022
AULES DE DIFUSIÓ CULTURAL DE LA GARROTXA
POEMES DE ROSA LEVERONI
PÒRTIC
del llibre Epigrames i cançons, 1938
Jo porto dintre meu per fer-me companyia la solitud només.
La solitud immensa
de l’estimar infinit
que voldria ésser terra, aire i sol, mar i estrella, perquè fossis més meu, perquè jo fos més teva.
ELS RECORDS III
Jo fos per tu aquesta cançó tan dolça que desgrana el molí;
aquest oreig suau que t’agombola perfumant-te el matí.
Fos el flauteig dels tòtils a la tarda en la calma dels horts.
Si fos aquesta pau que t’acompanya en el repòs dels ports …
o fos la punxa de la rosa encesa d’un desig abrandat; aquell record d’una hora de follia, d’aguda voluptat.
Si fos l’enyorament d’uns braços tendres que varen ser-te amics,
o bé la revifalla rancorosa d’aquells menyspreus antics.
Si jo no fos per tu record amable, fos almenys un neguit,
un odi o un dolor, una recança … Ho fos tot, menys l’oblit.
(del llibre Presència i record, 1952)
CANÇÓ DE LES BESADES
El primer bes que florí,
te’n recordes?, jo el donava. Tu em prengueres el segon vora del riu que cantava.
I després ja començà
el rosari de besades.
Unes amb regust de sol
i neu dalt de la muntanya. Altres amb claror d’estels
i perfum de lluna clara.
Totes d’un encantament
que ens feia les hores calmes …
D’aquell rosari passat,
sols el record m’acompanya i la recança també,
amor, si tu l’oblidaves.
(del llibre Epigrames i cançons, 1938)
ABSÈNCIA I
Rosa encesa del desig,
com m’esgarrinxes els llavis,
i sóc tan lluny de l’amat!… Sols tinc la mar per companya; ella bé prou que em somriu dins la cala arredossada.
Em somriuen els estels i la lluna niquelada,
el campanar cimejant
i la vela ben inflada,
i la gavina en ple vol,
i el peix fugint de la xarxa…
Rosa encesa del desig,
com m’esgarrinxes els llavis! Si sóc tan lluny de l’amat
res dintre meu ja no canta.
(del llibre Presència i record, 1952)
TEMA AMB VARIACIONS
No vull el mirall del mar, ni l’estelada florida;
ni claror de cels novells, ni encetar cap nova via.
Vull la dolçor del teu braç abraçant la meva vida; vull la claror dels teus ulls i la teva veu amiga.
XXIII
ABSÈNCIA VII
Em pren la calma dels camps quan l’hora esdevé rogenca.
I la quietud de la mar
quan els vents dormen la sesta. I mentre vola l’ocell
l’ànima esdevé lleugera …
Saber-te lluny sense dol
em fa ressò de miracle.
Ara, però, veig el món
amb la claror que m’encanta de tenir-te dintre meu,
que fa que no em cal pensar-te.
(del llibre Epigrames i cançons, 1938)
CANÇÓ D’UN SETEMBRE
Era una coma d’oliveres
amb una casa i un camí,
al capdavall dues figueres
fent ombra fresca a un doll molt fi.
Era migdia. Reposava
la vinya negra de gotims; vora el portal un gall cantava; es feinejava porta endins.
Aquella font era tan clara, era tan net aquell cel blau … Omplia el pit la joia avara
i la llangor fou tan suau!…
Jo no sabia que l’amava
però en sos ulls em vaig mirar … Des d’aleshores l’estimava,
ja no he sabut què és oblidar.
(del llibre Presència i record, 1952)
Vull sentir-te com arrel
dins la foscor beneïda d’aquesta terra vivent
de nostra amor compartida.
(del llibre Presència i record, 1952)
Rosa Leveroni
CLAROR DAURADA
És la claror daurada de la posta d’un dia de tardor
que veig en els teus ulls i que m’ofrenen la teva tremolor.
És aquell deix cansat, com d’arribada després de tràngols forts
a l’esperat recer, on tots els somnis troben la pau dels ports.
És el somriure lleu, la veu sonora d’haver estimat ja tant,
que em prenen dolçament i se m’emporten sense saber on van…
(del llibre Presència i record, 1952)
ELS CAMINS III TEMA AMB VARIACIONS
Plau-me seguir els camins que els camps parteixen ignorant cap on van,
amarats d’un perfum de terra molla
i d’un errívol cant.
I prenen uns colors de coure càlid
d’un bes del sol ponent,
i celen amb amor, sota les branques,
el fresseig de la gent.
Plau-me seguir els camins que per la vinya s’enfilen costa amunt,
i tenen per la set i la mirada
un bell gotim a punt.
Plau-me seguir els camins entre pollancres vetllant un rierol,
i coneixent el vol de les becades,
el joc de pluja i sol…
Amo tots els camins, fins els més aspres, mentre siguin oberts
i posin tremolor de fruita nova
als meus sentits desperts.
(del llibre Presència i record, 1952)
COLOR DEL TEMPS
Clavellines als balcons,
parets blanques, fustes blaves. Esclat de llum: campanar; randes albes a les platges. Tocs de mel en la claror;
verds i blaus, joies de l’aigua …
Quin perfum primaveral ofrenaves, vila amable! …
(del llibre Presència i record, 1952)
Si jo tingués un veler sortiria a pesca d’albes. Encalçaria els estels
per posar-me’n arracades.
Si jo tingués un veler, totes les illes i platges
em serien avinents
per al somni i les besades.
Si jo tingués un veler,
en cap port faria estada. El món fóra dintre seu,
ai amor, si tu hi anaves …
(del llibre Presència i record, 1952)
TEMA AMB VARIACIONS
Són les illes del record
les que m’ofrenen les platges on d’aquest meu navegar pugui reposar les ales.
Tots els camins de la mar un a un se’m refusaven; sols els ports resten oberts amb l’agombol de les cases.
Les veles han desertat
tots els vents que les tibaven. L’estrella signa el retorn
al vell sofrir delectable.
Són les illes del record
les que m’ofrenen les platges …
(del llibre Poesia, 1981)
GLOSES MALLORQUINES
Si bastiment hi havia
que fadrines se’n dugués vestides de mariners,
jo la de davant seria.
Tota la mar trescaria, estimat meu, sols que us ves.
Totes les illes hauria
per a bescanvi d’un bes. Pirates i bandolers
a tots ells jo robaria,
i res no m’aturaria
si els teus braços jo trobés.
Els teus llavis jo tindria com a més segur recés. Pirates i mariners
i moros de moreria,
res ja no m’espantaria
si en els teus ulls em negués…
Rosa Leveroni
III
GLOSES MALLORQUINES VII
Vós heu robat i robeu
i vós sou la robadora;
el cor m’heu robat, senyora, i l’ànima em pledegeu.
Vós teniu tot l’amor meu,
no en voleu ser sabedora. Vós jugueu amb mi, senyora, i potser vos arrisqueu.
El cor m’heu robat, senyora, potser el vostre hi perdereu. És molt cara la penyora, mireu, senyora, el que feu!
L’enamorar enamora
i, si l’ànima em voleu, mireu-me als ulls, missenyora, que dins ells la trobareu.
El cor m’heu robat, senyora. Ara el vostre me’l deveu.
(del llibre Presència i record, 1952)
Tota la mar trescaria
si prop meu sempre et tingués!
(del llibre Presència i record, 1952)
VOLDRIA QUE EL MEU CANT FOS COM UNA ALBA
Voldria que el meu cant fos com una alba secreta per a tots,
i només un de sol capís els signes
dels inefables mots.
Voldria que el meu cant fos com l’alosa o com el dia clar,
que posen en el cel la seva joia
sense res esperar.
Voldria que el meu cant fos com un himne de gràcies per la sort
de trobar dintre meu tot el misteri
de la vida i la mort.
(del llibre Poesia, 1981)
TESTAMENT
Quan l’hora del repòs hagi vingut per a mi vull tan sols el mantell d’un tros de cel marí. Vull el silenci dolç del vol de la gavina dibuixant el contorn d’una cala ben fina; l’olivera d’argent, un xiprer més ardit
i la rosa florint al bell punt de la nit;
la bandera d’oblit d’una vela ben blanca
fent més neta i ardent la blancor de la tanca. I saber-me que sóc, en el redós suau,
un bri d’herba només de la divina pau.
(del llibre Poesia, 1981)
Donem les gràcies a totes les persones que han fet possible aquesta VI Tarda de Poesia:
ALS QUI HAN LLEGIT TEXTOS EN PROSA:
Reflexions i records de Rosa Leveroni Carta de Salvador Espriu
A LES LECTORES I LECTORS DE POEMES:
Pòrtic
Els records
Cançó de les besades
Rosa encesa del desig …
No vull el mirall del mar …
Els camins
Color del temps
Claror daurada
Si jo tingués un veler …
Glosses mallorquines: Si bastiment hi havia … Voldria que el meu cant fos com una alba Testament
A L’ÀNGEL GIRONA, MÚSIC VERSIONADOR I INTÈRPRET:
Em pren la calma dels camps
Cançó d’un setembre
Glosses mallorquines: Vós heu robat i robeu … Són les illes del record …
A L’EDITOR DEL POWER POINT:
Glòria Llinàs Francesc Bragulat
Maria Biarnés Montse Delgà Conxita Ayats Margarida Arau Tura Tarrús Roser Melià Montse Trubat M. Teresa Roura Pilar Gurt
Descrizione-Harold Bloom ha scritto che “con l’eccezione di Shakespeare” Emily Dickinson dimostra più originalità cognitiva di qualsiasi altro poeta occidentale dopo Dante, e che i critici quasi sempre sottovalutano la sua sorprendente complessità intellettuale. Forse anche per questa complessità, quasi un prisma che moltiplica immagini, luci, sensi, la poetessa che dalla sua stanza ha inviato una “lettera al mondo” colma di verità distillate in solitudine, continua ad attirare ovunque “biografi, filologi, docenti, studiosi, traduttori, critici” (Vivian Lamarque). E soprattutto lettori, catturati e conquistati dall’enigma di Emily, “piccola come lo scricciolo” e vestita sempre di bianco. I suoi versi concisi, intensi e misteriosi ritraggono ciò che la circonda: animali, fiori, piante, voci di una poesia spesso definita oracolare. Da un isolato punto di osservazione lo sguardo acutissimo di Emily ha saputo individuare e ampliare i limiti dell’espressione e della comprensione, indicare nuovi significati, vedere oltre la vita. Ha saputo creare un linguaggio nuovo per suggerire sensi inediti, pause come improvvise deviazioni nel volo degli uccelli: forse indecifrabili, ma ipnotiche, libere.
Emily Dickinson
Crocetti Editore
Traduzione: Barbara Lanati;
Pagine: 96
Prezzo: € 7,00
ISBN: 9788883064326
Data Uscita: 02/07/2024
LA CASA EDITRICE CROCETTI
Fondata nel 1981 dal grecista e traduttore Nicola Crocetti, la casa editrice Crocetti è specializzata nella pubblicazione di opere di poesia e di letteratura neogreca, omaggio alle origini del suo fondatore.
In quasi quarant’anni di attività, la Crocetti ha pubblicato numerose opere di poeti italiani e stranieri, tra cui i Premi Nobel Ghiorgos Seferis, Odisseas Elitis, Saint-John Perse, Derek Walcott e Tomas Tranströmer. Nel catalogo figurano inoltre volumi di Emily Dickinson, Antonio Machado, Walt Whitman, Ghiannis Ritsos, Costantino Kavafis, Louis Aragon, Kahlil Gibran, Rainer Maria Rilke, Edna St. Vincent Millay, Paul Valéry, Simone Weil, Yehuda Amichai, Anne Sexton, Manolis Anaghnostakis, Adrienne Rich, Jaime Saenz, Carol Ann Duffy, Thomas Bernhard. Quasi tutti i volumi sono pubblicati con il testo originale a fronte.
Tra gli autori italiani in catalogo, troviamo Alda Merini, Franco Loi, Antonella Anedda, Giovanni Raboni, Maria Luisa Spaziani, Antonio Porta, Cesare Viviani, Milo De Angelis, Aldo Nove, Giorgio Manganelli, Mariangela Gualtieri, Maria Grazia Calandrone, Pierluigi Cappello.
Oltre alle opere di singoli autori, la Crocetti ha inoltre pubblicati alcuni volumi collettanei, come le antologie della poesia basca, svedese, russa, greca e svizzera di lingua tedesca.
Da alcuni volumi editi dalla Crocetti sono stati tratti spettacoli teatrali interpretati da importanti attori italiani. Ne sono un esempio alcuni monologhi drammatici di Ghiannis Ritsos, portati sul palcoscenico, tra gli altri, da Moni Ovadia, Paolo Rossi, Anna Bonaiuto, Elisabetta Vergani, Isabella Ragonese, Luigi Lo Cascio ed Elisabetta Pozzi.
Nel 1995 alle collane di poesia si è aggiunta la collana di narrativa neogreca “Aristea”, che ha proposto ai lettori alcuni dei romanzi greci più venduti e letterariamente più rilevanti del Ventesimo secolo, finora assolutamente sconosciuti al pubblico italiano.
Nel 2020 la Crocetti è stata acquisita dal gruppo Feltrinelli e ha inaugurato questa nuova fase cominciando a ristampare i titoli che l’hanno resa una delle più prestigiose case editrici italiane.
LA RIVISTA “POESIA”
Nel gennaio 1988 Nicola Crocetti ha fondato “Poesia”, la rivista mensile di cultura poetica più diffusa d’Europa. Fin dal primo numero, le caratteristiche principali di “Poesia” sono state: il taglio internazionale e informativo, la distribuzione capillare nelle edicole e un apparato iconografico che finalmente consentiva ai lettori di conoscere i volti dei poeti.
La distribuzione nelle edicole ha permesso alla rivista di raggiungere un pubblico molto vasto, distribuito su tutto il territorio nazionale. La tiratura di “Poesia” ha raggiunto in passato le 50.000 copie. Molte tra le maggiori Università europee e tra le più prestigiose Università americane sono abbonate alla rivista fin dal primo numero. Nei suoi trentatré anni di vita, “Poesia” ha venduto complessivamente circa tre milioni di copie.
L’alto interesse non solo italiano nei confronti di questa rivista può essere verificato digitando la parola “poesia” sul motore di ricerca Google: su oltre cento milioni di pagine la rivista “Poesia” risulta in prima posizione tra quelle regolarmente visitate.
Del comitato di redazione di “Poesia”, garante del suo alto livello culturale, fanno o hanno fatto parte sei Premi Nobel per la Letteratura (il russo-americano Joseph Brodsky, il caraibico Derek Walcott, l’irlandese Seamus Heaney, il greco Odisseas Elitis, il polacco Czesław Miłosz e lo svedese Tomas Tranströmer), oltre a poeti di fama nazionale e internazionale, come Yves Bonnefoy, Tony Harrison, Charles Wright, Adam Zagajewski, Durs Grünbein, Paul Muldoon, Antonella Anedda, Milo De Angelis, Nicola Gardini, Franco Loi, Vivian Lamarque, Silvio Ramat.
Dopo che per i primi tre anni “Poesia”è stata diretta dai poeti Patrizia Valduga e Maurizio Cucchi, nel 1991 la direzione è stata assunta da Nicola Crocetti, e la rivista si è sempre più caratterizzata per la sua vocazione internazionale. Nei 358 numeri usciti con cadenza mensile fino all’aprile 2020 e nelle sue 30.000 pagine, la rivista ha proposto centinaia di articoli su poeti tradotti per la prima volta in italiano e di nuove traduzioni di poeti ancora sconosciuti in Italia. In totale ha pubblicato quasi 3.500 poeti, tra i maggiori a livello nazionale e internazionale, e oltre 36.000 poesie tradotte da una quarantina di lingue, quasi sempre con il testo originale a fronte.
La casa editrice Crocetti ha organizzato anche diversi festival di poesia. In collaborazione con il Comune di Parma e il Teatro Due, dal 2004 al 2012 ha curato la sezione internazionale del Festival di poesia di Parma, uno dei più prestigiosi appuntamenti culturali di quegli anni, al quale sono intervenuti alcuni dei maggiori poeti del mondo.
Nel 2003 il Ministero dei Beni Culturali ha assegnato a “Poesia”un riconoscimento per la sua attività di diffusione della poesia in Italia, consegnato al direttore della rivista Nicola Crocetti il 12 maggio 2003 al Quirinale dall’allora Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi.
Con il passaggio al gruppo Feltrinelli, dal maggio 2020 “Poesia” ha cambiato veste grafica, periodicità (da mensile in bimestrale) e canale distributivo (dalle edicole alle librerie). Non è mutata, però, la passione con cui i suoi redattori e i collaboratori raccontano da trentaquattro anni il mondo poetico italiano e internazionale.
Per attivare l’abbonamento a “Poesia” scrivi a info@poesia.it . Otterrai tutte le informazioni.
I numeri arretrati di “Poesia” (nuova serie) sono ordinabili in libreria (certamente nelle Librerie Feltrinelli) e nei principali store online (lafeltrinelli.it, ibs.it, Amazon.it ecc).
Nel nostro magazzino sono disponibili molti titoli del catalogo Crocetti, chiedi al tuo libraio di fiducia di ordinarteli. In caso di difficoltà o per ulteriori informazioni scrivi a info@poesia.it
Franco Leggeri-brano da Murales Castelnuovesi-Sulla vecchia cote dei ricordi affiliamo lame di impossibili rivolte. Abbiamo grattato terre incolte con il chiodo del primitivo, seminando speranze di poveri. Spartendo i raccolti con il padrone è rimasta la rabbia dei figli e l’aia deserta.
Anche in noi, questo furore taciuto riporta a scelte lontane, quando vita, giovinezza e volti di ragazzi inebriati di troppa ingenuità tutto bruciammo. Solo per amore. Bastasse questo pugno di anni (paura e speranza della sera) per ritoccare quella bilancia e non imbastire cupi silenzi su mani stanche, ma golose di sole.
A Castelnuovo mattini uguali e incerti come aste sul quaderno di stagioni incolori, quando il silenzio diventa eresia, e l’antico ripetersi scava sentieri tra le pietre scritte, e il rito del ritrovarsi tra il vuoto di assenze che pesano – già affiora il dire: questa è l’ultima volta – resta, ancora, da capire la somma dei perché, mentre la nebbia nasconde l’oblio.
Non ha senso la Storia , anche quella che si scrive nel bronzo e le stagioni rigano di una patina verde (ora, che dissolti i cristalli di lacrime, alza soltanto steli di pietra e grovigli di lamiere), anche quello che è stato, e furono parole e musica e canti nati nei bivacchi e folla e bandiere, e tutti a premere l’erba sul cuore dei morti: anche l’amore di allora e le schegge di verità ( forse, anche i giuramenti), adesso, non hanno più senso.
Il tempo, con il volto di rigattiere, ha raccolto le cose vecchie districando dai rami brandelli incolori, lembi di aquiloni e frammenti di foglie stinte di speranza. Castelnuovo nel cuore, i ricordi, le speranze, le lotte vecchie e nuove e ancora giorni senza tregua ,bivacchi per nuove battaglie e strategie per nuovi obiettivi”.
I luoghi sono memoria, radici, punti di vista – di Luigi Oliveto-
Editore Feltrinelli
Federica Manzon-“Alma”-Premio Campiello
Reduce dal successo del Premio Campiello, ecco il romanzo “Alma” di Federica Manzon. Pagine intense, dove geografie reali e interiori (fino a che punto le seconde possono prescindere dalle prime?), vicende personali e Storia, vanno a costruire un racconto che, per quanto riferito a un recente passato, fa pensare molto al presente. A come, nel nostro oggi, ci si voglia aprire o chiudere al futuro, ragionando – non senza apprensione – di radici e strappi, confini e spaesamenti, patrie e apolidia. Del resto tutto questo ha a che fare con il ‘chi sono’, in quale luogo (fisico e mentale) posso dire di trovarmi a casa, poiché i luoghi sono anche ‘punti di vista’. Il romanzo di Federica Manzon pare avere le sue ragioni proprio in questa intelligente inquietudine, mossa da memorie, sentimenti, visioni del mondo. La protagonista, Alma, torna tre giorni a Trieste per gli adempimenti relativi a una inaspettata eredità lasciatale dal padre. Uomo di grande fascino, pressoché assente dalla famiglia in un continuo andirivieni oltre confine, su un’isola della ex Jugoslavia del maresciallo Tito, senza che si sapesse quale lavoro vi andasse a fare: “andava e veniva da casa senza che si potesse mai essere sicuri del suo ritorno. Era uno di cui non fidarsi. Fuggiva sempre verso est e a lei e sua madre non restava che attenderlo, un’attesa eterna.” Sono anni che Alma ha lasciato Trieste per rifarsi una vita altrove. Ora ritrova la città e, con essa, una parte di sé: l’infanzia, il viale di platani che portava alla bella casa dei nonni, gli eleganti caffè dove si respirava mondanità e mitteleuropa. Ritrova la casa sul Carso nella quale, da un giorno all’altro, si erano trasferiti e dove, da Belgrado, era arrivato Vili, figlio di due intellettuali amici di suo padre. Destino vuole che sia proprio Vili a consegnarle l’eredità, lui che era stato “un fratello, un amico, un antagonista” e che oggi sarebbe stata l’ultima persona che desiderava rivedere. Sono dunque per Alma tre giorni emotivamente impegnativi, di sovrapposti pensieri su quanto è accaduto nella sua vita e nelle esistenze altrui; in un prima e in un dopo, qui e oltre. Non è un caso che tutto ciò sia avvenuto – e adesso si riproponga – in una terra di confine, nella seducente Trieste, che, per dirla con Saba, è città di “scontrosa grazia”, di “aria strana, tormentosa”. Un posto che bene accondiscende desideri di altrove e sconfinamenti. Terra di furioso vento che vorrebbe portar via cose e anime. Passa, sconquassa, non si ferma. Poi torna, nuovamente arriva, e fugge.
Federica Manzon-
Federica Manzon-“Alma”-Premio Campiello
Federica Manzon-
Ad aprile sono poche le barche che fanno la spola dalla terraferma all’isola. Lei cammina nel paese chiuso: una donna con gambe da cicogna e rughe ai lati degli occhi azzurrini come chi è cresciuto in una città ventosa, se ne va in giro sola tra case di vacanza disabitate, qualche facciata sfoggia una bandiera della Dinamo Zagabria appesa ai fili del bucato, qualche altra un muro decorato da fori di proiettile. Alma alza gli occhi verso il campanile e vede un gabbiano che si sgranchisce le ali. Stamattina ha telefonato all’albergo sull’isola, ha chiesto se era possibile prenotare una camera. È possibile, le hanno risposto con riluttanza. Sono cambiati i tempi ma l’isola conserva la sua scortesia. Il cielo intanto è schiarito, c’è un sole baltico. Le sembra di aver passato la vita sotto cieli come questo, a inseguire qualcosa che non aveva chiaro. Un inverno nella sua città a est, doveva essere la fine di febbraio, camminava nel bosco del barone Revoltella e gli alberi sobbalzavano per la bora, lei stringeva la mano di un uomo che si era intrufolata nella tasca del suo cappotto e tremava. Accadevano cose del genere, conosceva persone con cui passava del tempo, scrutavano il cielo insieme, facevano un pezzo di strada, poi lei se ne andava. Le campane battono l’ora, il capitano della barca è entrato in cabina a controllare che tutto sia pronto. Alma si affretta a raggiungere la passerella, nessuno le controlla il biglietto: è l’unica passeggera, e ha l’aria da straniera del nord. Ovunque abbia vissuto l’hanno sempre scambiata per una che viene da un altrove, c’è qualcosa di provvisorio nei suoi gesti, come se fosse sempre sul punto di partire, o perché dà l’impressione di aspettare un attimo di troppo prima di rispondere alle domande e la gente pensa che lei non capisca la lingua, nessuna lingua, anche se lei ne capisce e ne parla diverse.
Federica Manzon-
Sul ponte appoggia i gomiti al parapetto e si sporge a vedere l’acqua che si increspa appena i motori iniziano a rullare. Una volta, in braccio a suo padre, le era caduto il cappello in acqua. Un cappellino di paglia con il nastro blu comprato a Venezia. Per consolarla lui l’aveva portata sotto coperta, dove molti nel vederlo si erano alzati a stringergli la mano, aveva detto qualcosa al capitano e quello aveva fatto spuntare dall’armadietto sotto i comandi un rettangolo di tessuto blu con una stella rossa cucita su un lato e gliel’aveva sistemato sulla testa. Lei aveva detto grazie, e il capitano e suo padre si erano scambiati uno sguardo significativo. Il cappello dei giovani pionieri di Jugoslavia non è sopravvissuto all’infanzia e non esistono foto di quel giorno: pochi di noi sono stati immortalati nelle occasioni di festa, se non si aveva la fortuna di entrare nelle parate nazionali e di finire sul “Vjesnik” o sul “Novi list”. Alma ricorda che portava sandali blu e una maglietta alla marinara. Per anni ha creduto che quel ricordo fosse una suggestione della fantasia, cresciuto nel deserto della memoria familiare con l’ostinazione di un’acacia nel Sahara, poi aveva smesso di pensarci.
Federica Manzon-
A quel tempo suo padre la portava due o tre volte l’anno sull’isola. C’era un’aria da festa del cinema e coppe di champagne, l’aria sbarazzina dei Paesi non allineati. Uomini in giacca e cravatta o con il cappello bianco passeggiavano lungo i viali o sfilavano su piccole macchine decappottabili; branchi di cerbiatti brucavano l’erba del campo da golf. Alma si tuffava dagli scogli piatti e nuotava in apnea tra i pomodori di mare grossi come un pugno e i cefali, e i saraghi. Aveva il divieto di rivolgere la parola a chicchessia, e d’altra parte si chiedeva come avrebbe potuto farlo dal momento che parlavano lingue indistinguibili diverse dalla sua, solo ogni tanto riconosceva qua e là dei suoni che assomigliavano a quelli che sentiva sugli autobus di casa sua, o alla spiaggia dopo la Pineta dove scendevano al bagno gli sloveni di Contovello. A volte sull’isola c’erano anche altri bambini, il cappellino blu con la stella rossa come il suo, camicie bianche e un fazzoletto rosso attorno al collo. Suo padre le aveva spiegato che erano i giovani pionieri, e lei gli aveva detto che voleva essere una pioniera. E perché mai? Per avere la divisa come loro! In realtà detestava le volte in cui sull’isola c’erano i pionieri. Erano una banda, una tribù. Parlavano una lingua esoterica, possedevano un codice di gesti che lei ignorava: battevano palmo contro palmo, pugno contro pugno, urlavano, si tuffavano dalle scogliere a sud, le più pericolose, fischiavano con due dita in bocca. A volte la trascinavano nelle loro spedizioni alle ville e dai buchi nelle recinzioni spiavano i camerieri in divisa preparare il fuoco per la griglia mentre sui grandi tavoli di pietra i vasi aspettavano di essere riempiti dai fiori e i militari piantonavano i cancelli. Nessuno dei soldati li minacciava mai, né li scacciava quando diventavano molesti, perché il Maresciallo adorava i bambini, si faceva fotografare con loro ogni volta che appariva alle cerimonie pubbliche, li baciava e accettava i loro doni, finanziava i giochi atletici a cui presenziava con la moglie e i funzionari che negli anni sopravvivevano alle epurazioni. Ad Alma capitava di imbattersi in suo padre che passeggiava lungo i viali dell’isola in compagnia di donne con collane di perle e uomini che fumavano, le strizzava l’occhio a dire che non era il momento per ricordare a tutti che era un padre. Passandogli accanto lo sentiva parlare ogni volta lingue diverse, le parole uscivano agili dalla sua bocca, accavallate le une sulle altre così che diventava difficile per chiunque attribuirgli un accento, capire da dove veniva o, meglio ancora, da che parte stava. (Dov’era nato? Chi erano i suoi genitori? E il nome che portava?) Non sapevano, quelle donne e quegli uomini eleganti, che suo padre era uno zingaro capace di imbastire storie che stordivano e di cantare ninne nanne che mettevano paura – andava e veniva da casa senza che si potesse mai essere sicuri del suo ritorno. Era uno di cui non fidarsi. Fuggiva sempre verso est e a lei e sua madre non restava che attenderlo, un’attesa eterna.
Luigi Oliveto
Federica Manzon-“Alma”-Premio Campiello
Federica Manzon-
L’infanzia di Alma, che durò più o meno fino al trasferimento nella casa sul Carso, era stata un alternarsi di attese e pomeriggi carichi di tensione in cui sua madre rientrava con vaschette di alluminio colme di ćevapčići arrostiti e ajvar, kipferl e biete cucinate con le patate, la cena per il ritorno di suo padre che finivano per sbocconcellare da sole. E se da adulta Alma ha sviluppato una certa irritazione per il rumore di tacchi femminili che avanzano sul parquet, è perché in quei giorni di vana speranza sua madre indossava il vestito di raso verde che le lasciava le ginocchia e le spalle scoperte e i tacchi che risuonavano tormentosamente dalla cucina alla finestra del salotto, per ore, fino a quando non si arrendevano al buio e venivano lanciati nello sgabuzzino lasciando nell’aria uno strascico di trepidazione e dolore.
Articolo di Luigi Oliveto-Giornalista, scrittore, saggista-[da Alma di Federica Manzon, Feltrinelli, 2024]-Fonte-toscanalibri.it
Luigi Oliveto
Luigi Oliveto-Giornalista, scrittore, saggista.Inizia giovanissimo l’attività pubblicistica su giornali e riviste scrivendo di letteratura, musica, tradizioni popolari. Filoni di interesse su cui, nel corso degli anni, pubblica numerosi libri tra cui: La grazia del dubbio (1990), La festa difficile (2001), Siena d’autore. Guida letteraria della città e delle sue terre (2004), Giosuè Carducci. Una vita da poeta (2011), Giovanni Pascoli. Il poeta delle cose (2012), Il giornale della domenica. Scritti brevi su libri, vita, passioni e altre inezie (2013), Il racconto del vivere. Luoghi, cose e persone nella Toscana di Carlo Cassola (2017). Cura la ristampa del libro di Luigi Sbaragli Claudio Tolomei. Umanista senese del Cinquecento (2016) ed è co-curatore dei volumi dedicati a Mario Luzi: Mi guarda Siena (2002) Toscana Mater (2004), Mario Luzi. Un segno indelebile (2016). Esce nel 2020 la raccolta di racconti Le rose di Kathryn. Nell’album Indy e Lib (cinque ristampe) adatta, per i bambini della scuola primaria, il testo della «Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo», edizione patrocinata dalla Federazione Italiana dei Club Unesco. E’ autore di trasmissioni culturali per la televisione e di docufilm pubblicati in Dvd. È direttore del portale Toscanalibri.it.
Kate Clanchy –Nata a Glasgow nel 1965, Kate Clanchy ha studiato ad Edimburgo e Oxford, città in cui oggi vive e lavora come insegnante, giornalista e scrittrice freelance. Ha vinto numerosi premi prestigiosi con diversi libri di poesia tra cui “Newborn”, una raccolta dedicata ai temi della gravidanza, della nascita e della cura di un bambino. Il suo ultimo libro è la biografia “What Is She Doing Here?: A Refugee’s Story”, con cui ha vinto il Writer’s Guild Best Book Award for 2008 e che è stato mandato in onda dalla BBC
Patagonia
Dissi forse la Patagonia, e immaginavo
una penisola, grande abbastanza
per un paio di sedie a sdraio
su cui dondolare nell’alta marea. Pensavo
a noi in un freddo mozzafiato, davanti
a un orizzonte tondo come una moneta, avvolti
nell’intreccio del ripiglino che i gabbiani giocano
dal mare fino al sole. Pensavo di aspettare
finché le onde non si fossero addormentate
dalla noia.
Posa
Ora faccio sedere mio figlio
sull’anca e reggo
il suo peso con la curva
della vita, come un albero
diviso da una forcella,
come amanti inclinati in un valzer.
Niente è perduto. Mai stata
una di quelle ragazze
rimaste magre come un fuscello.
Ai balli spesso ero da sola.
* * *
Amore
Non ne avevo mai incontrati così prima.
Una faccia da sollievo – davvero,
come una battuta su suo padre – sfocata
come da anni di lucidatura;
mani aggrinzite come foglie secche;
il calore licenzioso che emetteva,
emetteva, i suoi respiri corti,
prudenti: pensavo
che i suoi filamenti esplodessero,
pensavo fosse un imperatore,
morente su cuscini di seta.
Non sapevo come tenerlo
avvolto, non sapevo
come allattarlo, non avevo
alcuna idea su di lui. Di notte
cercavo di ricordare la sensazione
della sua testa sul mio collo, il cranio
piccolo come un gatto, quell’affetto
caldo come un soldo fuso,
e i capelli, la peluria, fine
come lo strato più interno nel pelo
di qualche rara creatura delle nevi,
un’aureola di pelliccia, se mai
incontrassi una bestia così potresti
andarci vicino. Ho cominciato da lì.
* * *
Il ponte oltre il confine
Qui, dovrei senz’altro pensare a casa:
il mio paese e la città ripida e pulita
dove sono cresciuta: i suoi banchi di nubi,
i venti e la luce cangiante, teatrale,
i suoi scrosci di pioggia burbera e gelida, o altrimenti,
la volta che il treno rimase qui un’ora e mezza.
Era caldo, per una volta. Il motore sembrava
borbottare e respirare con noi,
e nel silenzio, il suonatore sul retro
strimpellava Scotland the Brave. C’era
una luce dorata, da film, e l’uomo di fronte
soffriva, diceva, per amore.
Vide un paese nei miei occhi.
Ma era di Los Angeles,
e io pensavo a un altro ponte.
Era ottobre. Io correvo a incontrare un uomo
con cui le cose non erano proprio stabili,
e in effetti non lo sarebbero mai state, e mi fermai
a mezza strada per guardare gli uccelli – rondini
in lontane migliaia, trascinate
verso l’Africa, o il caldo, o la casa, senza sapere
cosa, ma certamente come. Scivolavano sul cielo di carta
erano croci sui grafici del mercato azionaio,
erano sabbia in un canestro scosso,
e io le fissavo, come a setacciare l’oro.
* * *
Un uomo sposato
L’uomo sposato la notte scorsa sognava
di una casa che gli era stata lasciata: una casa come quelle che hai nei sogni,
mille stanze, un corridoio. Vagava
in giro da solo, mi disse, sorrideva
con suo sorriso quieto e interiore. Trovavo
un giardino segreto, mura alte, chiuso, uno strano verde vellutato. Lì, una finestra guardava verso l’oceano. Piegava le mani pallide,
avevo, diceva, la chiave. Sua moglie toccava
la figlia addormentata, pesante lussuoso animale,
e lo guardava, d’intesa, soddisfatta.
traduzioni di Sergio PASQUANDRA
Breve biografia di Kate Clanchy –Nata a Glasgow nel 1965, Kate Clanchy ha studiato ad Edimburgo e Oxford, città in cui oggi vive e lavora come insegnante, giornalista e scrittrice freelance. Ha vinto numerosi premi prestigiosi con diversi libri di poesia tra cui “Newborn”, una raccolta dedicata ai temi della gravidanza, della nascita e della cura di un bambino. Il suo ultimo libro è la biografia “What Is She Doing Here?: A Refugee’s Story”, con cui ha vinto il Writer’s Guild Best Book Award for 2008 e che è stato mandato in onda dalla BBC
Antonio Fogazzaro: Le Poesie, Baldini, Milano, 1908, pp. 431–432.Antonio Fogazzaro: Le Poesie, Baldini, Milano, 1908, pp. 431–432.
A COLORO CHE MI AMANO.
Ne l’ora in che si affaccian caute ed escono
Da i nascondigli de la casa l’ombre
E s’incontran, si mescon circonfuse
Ai morenti chiaror de le finestre,
Ne la dimora solitaria un vecchio,
Pascendo sè de le tristezze sue,
Pensa gli anni lontani, l’imminente
Ultima sera e, sospirati invano
I dì che più non tornano, sospira
Invano i dì che non vedrà, sospira
Una parte di sè gittar vivente
Ne l’avvenir, almeno un disïoso
Guardo che si lontani e parli ancora
Quando l’occhio sia chiuso, una infocata
Stilla di pianto almen che ancor non resti,
Che ancor non geli. Va pensando i cori
In che più fida ed ogni più diletta
Cosa cui giunger la memoria sua:
Capelli sacri di chi amò e scomparve
Ne la morte, gioielli, antiche tele
Antonio Fogazzaro: Le Poesie, Baldini, Milano, 1908,Antonio Fogazzaro-PREGHIERA-DEL-MARINAIOAntonio FogazzaroAntonio Fogazzaro
Il 25 marzo del 1842 nasceva a Vicenza, Antonio Fogazzaro (Vicenza, 25 marzo 1842 – Vicenza, 7 marzo 1911) è stato uno scrittore e poeta italiano.
Antonio Fogazzaro: Le Poesie, Baldini, Milano, 1908,Antonio Fogazzaro-Catalogo delle Opere
Nasce a Vicenza, nella casa al numero civico 111 dell’attuale corso Fogazzaro, da Mariano, industriale tessile, e da Teresa Barrera, in un’agiata famiglia di tradizioni cattoliche: lo zio paterno Giuseppe era prete e una sorella del padre, Maria Innocente, era suora nel convento di Alzano, presso Bergamo. Antonio scriverà di sé stesso: «Dicono che sapessi leggere prima dei tre anni, che fossi un enfant prodige, antipatico genere. Infatti ero poco vivace, molto riflessivo, avido di libri. Mio padre e mia madre mi istruivano con grande amore. Avevo un carattere sensibile, ma chiuso».
Nel maggio 1848, nelle giornate della prima guerra di indipendenza, la madre lo porta con la sorella minore Ina a Rovigo: Vicenza è insorta e prepara la sua difesa contro la reazione dell’Imperial regio Esercito austro-ungarico. Il padre Mariano e lo zio prete don Giuseppe partecipano ai preparativi della città, ma sarà tutto vano e il 10 giugno l’esercito di Radetzky entra in Vicenza.
Concluse gli studi elementari nel 1850: scriverà poi di non avere «mai studiato con gran zelo quello che dovevo studiare, anche da ragazzetto leggevo con avidità ogni sorta di libri dilettevoli; per il vero studio non avevo nessun entusiasmo. Leggevo poi malissimo, in fretta e furia, disordinatamente […] Il mio libro prediletto erano le Mémoires d’Outre-tombe del Chateaubriand. Andavo pazzo dell’autore; m’innamoravo fantasticamente di Lucile del Chateaubriand, come più tardi mi innamorai di Diana Vernon, un’eroina di Walter Scott».
Nel 1856 inizia a frequentare il liceo; tra i suoi professori è il poeta Giacomo Zanella: «Fu lui che mi fece innamorare di Heinrich Heine. Io non vedevo, non sognavo più che Heine». Non si crea amici fra i suoi compagni di scuola: «Passavo per aristocratico, reputazione che ho poi avuto più o meno dappertutto per il mio esteriore freddo, riservato e soprattutto per il mio odio della trivialità» ed è un adolescente timido e romantico: «Le mie fantasie amorose erano sempre tanto fervide quanto aeree: mi figuravo di avere un’amante ideale, un essere sovrumano come Chateaubriand descrive la sua Silfide. Con le signore ero di un imbarazzo, d’una timidezza, di una goffaggine straordinarie».
Scrive modeste poesie d’occasione, conservate in un suo quaderno e in lettere familiari, come una Campana a stormo, del 1855, o La Rassegnazione, del 1856.
Terminato il liceo nel 1858, i suoi interessi lo spingerebbero verso studi di letteratura ma trova l’opposizione del padre, che non trova in lui capacità letterarie e intende farne un avvocato. Iscritto all’Università di Padova, tra alcune lunghe malattie e la stessa chiusura d’autorità dell’Università nel 1859 a causa delle proteste studentesche contro il regime austriaco, Antonio perde due anni di studi. Nel novembre del 1860 la famiglia Fogazzaro si trasferisce a Torino e Antonio è iscritto alla facoltà di giurisprudenza dell’Università sabauda. Studia poco e malvolentieri, frequenta più spesso i caffè, giocando al biliardo, che le aule dell’Università e perde anche la fede cattolica; scrisse poi di aver provato allora «una certa soddisfazione come per aver rotto una catena pesante; sentivo però anche un lontano dubbio di errare. Lo provai specialmente la prima Pasqua che passai senza Sacramenti. So di avere passato delle ore di grande agitazione interna, passeggiando per il giardino deserto del Valentino».
Continua a scrivere poesie e il giornale Universo ne pubblica alcune nel 1863: si ricordano Campana del Mezzogiorno, Nuvola, Ricordanza del Lago di Como; si laurea nel 1864 con voti modesti. Nel novembre dell’anno successivo la famiglia si trasferisce a Milano e Antonio svolge il proprio praticantato presso uno studio legale.
Antonio Fogazzaro
Fogazzaro conosceva fin dall’infanzia la famiglia vicentina dei conti Valmarana; rivide in particolare la giovane Margherita già a Torino nel 1862 e poi durante le vacanze degli anni successivi, finché i Valmarana resero visita a Milano alla famiglia Fogazzaro nel 1866, in quella che doveva essere la preparazione a una richiesta di fidanzamento, avvenuta qualche mese dopo. I due giovani si sposarono il 31 luglio 1866 a Vicenza, da poco occupata dalle truppe italiane a seguito della terza guerra di indipendenza, e pochi mesi prima che il Veneto entrasse ufficialmente a far parte del Regno d’Italia.
Il suo lavoro di collaboratore svogliato di uno studio legale non gli permette di mantenere se stesso e la moglie senza il soccorso economico della sua famiglia di origine. A Milano conosce Abbondio Chialiva, un vecchio carbonaro che lo introduce nell’ambiente letterario degli scapigliati, scrittori che, come Emilio Praga, i fratelli Arrigo e Camillo Boito, Iginio Ugo Tarchetti, cercavano, consapevoli del provincialismo letterario italiano, nuove strade nell’arte, rifacendosi alle tradizioni romantiche tedesche e francesi. Si lega in particolare con Arrigo Boito ma non farà mai parte di quella corrente che, per quanto confusa e velleitaria, appariva troppo ribelle ai suoi occhi di borgheseconservatore e intimamente conformista.
Nel 1868 supera gli esami di abilitazione alla professione di avvocato; scrive allo zio Giuseppe il 21 maggio: «Eccomi avvocato; bell’affare per i miei futuri clienti! Intanto metto il Codice Civile in disponibilità, mando la Procedura in licenza e condanno il Codice Penale alla reclusione». Pensa infatti di dedicarsi ancora alla poesia; nel 1869 nasce Gina, la prima figlia, e intanto comincia a lavorare a un romanzo e a un poemetto in versi.
Fogazzaro inviò al padre il manoscritto del poemetto Miranda il 3 dicembre 1873: «A me pare buono e in certe parti, devo dirtelo? molto buono, ma sono il primo a convenire che tutti gli autori, sino a’ più ladri, hanno la stessa opinione delle cose proprie». Anche al padre, che è deputato del collegio di Marostica al Parlamento italiano, l’opera pare «bella, bellissima […] ho divorato i tuoi versi tutti d’un fiato […]» e ricerca un editore che la pubblichi, ricevendo tuttavia solo rifiuti, tanto da far pubblicare il libro a proprie spese nel 1874.
Sollecitò giudizi da un letterato di fama come Gino Capponi che, non si sa con quanto spirito di circostanza, ne dà una valutazione lusinghiera ma riceve, il 15 giugno 1874, un giudizio netto e severo dal grande critico, e collega al Parlamento, Francesco de Sanctis:
«La maniera pare un po’ arida e asciutta ma l’autore ha voluto così fare per reagire contro la morbosa abbondanza de’ nostri periodi poetici e per stare un po’ più dappresso alla natura. Forse ha oltrepassato il segno, come fanno tutte le reazioni. Ci ho trovato dei bei motivi psicologici, ma poca ricchezza e poca serietà nel loro sviluppo e nelle loro gradazioni. Il meno interessante è Enrico. Il suo Libro non ci mostra che velleità di poeta e di amante e nessuna potenza a esser l’uno o l’altro. E se l’autore mi dirà che questo appunto voleva significare, allora la forma doveva esser comica e ironica, e il lavoro doveva riuscire tutt’altro.
Miranda è un carattere muto, come direbbero i tedeschi, che si sviluppa poco a poco sotto la fiamma latente dell’amore. Concezione bellissima e anche originale, ma poco studiata e poco scrutata. Che l’autore abbia la forza di far meglio si vede in certi momenti psicologici colti felicemente e ben rappresentati, specialmente nel Libro di Miranda. Questi difetti organici producono una monotonia che giunge talora sino alla stanchezza e all’ineloquenza, un difetto d’espressione, un soverchio di muta concentrazione che può nutrire una scena, ma non una poesia così lunga.»
Miranda si compone di tre parti: La lettera, Il libro di Miranda e Il libro di Enrico svolgendo la vicenda di un amore irrealizzato: in Enrico, Fogazzaro avrebbe voluto rappresentare la figura di un giovane poeta estetizzante e troppo egoista per amare altri fuori di sé stesso, un figlio del suo tempo visto nel lato più negativo, mentre in Miranda è raffigurata una ragazza – come scrive il Gallarati Scotti (Vita di A. F.) – «nata tutta dal sogno, anima e corpo, e dei sogni ha perciò il pallore e l’inconsistenza. I suoi piedi non toccano terra e il suo cuore, in fondo, non batte con violenza, come chi ami in questo mondo reale un uomo reale […] essa ci commuove per quel tanto del mondo interiore che del suo poeta che si accende in lei. Ma non appena essa si muove come un personaggio che è centro di un piccolo intreccio di avvenimenti […] noi sentiamo che essa non ha mai avuto vita vera».
Se non ai critici e ai letterati, quella poesia piacque però al pubblico dei lettori dei quali solleticava l’allora dominante spirito sentimentale e Fogazzaro ne trasse incoraggiamento per proseguire nella via intrapresa della scrittura letteraria.
Due anni dopo, nel 1876, esce la raccolta di versi Valsolda, legata alla omonima località sul lago di Lugano, presso una piccola casa editrice milanese, giacché il maggior editore dell’epoca, il Treves, rifiuta di pubblicarla. Questa volta, all’insuccesso critico si somma la delusione del pubblico, che in quei versi non trova il tono sentimentale di Miranda, che tanto era piaciuto agli spiriti romantici del tempo; in Valsolda Fogazzaro privilegia la nota paesistica ma il suo verseggiare, pur immaginoso e musicale, è privo di note personali, ha un che di accatto dilettantesco: vi si trova del Prati e dello Zanella, dell’Aleardi, dell’Hugo e del Heine, ma la poesia è assente.
Era intanto ritornato alla fede cattolica; scriverà anni dopo che a questo passo un influsso decisivo aveva avuto un libro di Joseph Gratry, la Philosophie du Credo:
«Volevo aver fede, riposarmi, ristorarmi in Dio, sola pace sicura, e tante volte non potevo. Incominciai a leggere con desiderio e speranza; ero molto commosso quando chiusi il libro».
Fu forse la consapevolezza di non avere nelle sue corde l’espressione poetica a spingerlo verso la prosa. Iniziato nella seconda metà degli anni settanta, nel 1881 esce il suo primo romanzo, Malombra. Protagonista è Marina di Malombra, bella e psicotica nipote del conte Cesare d’Ormengo, nel cui palazzo vive dopo la morte dei genitori. Qui trova casualmente un biglietto scritto nei primi anni dell’Ottocento da un’antenata – moglie infelice del padre del conte d’Ormengo e amante di un certo Renato – Cecilia Varrega, che invitava chi avesse trovato il suo messaggio a vendicarla contro i discendenti del marito.
Il lago del Segrino, dove s’immagina ambientata la vicenda del romanzo Malombra
Puntualmente Marina, che si considera una reincarnazione della disgraziata Cecilia, consumerà la vendetta, facendo morire lo zio Cesare e uccidendo lo scrittore Corrado Silla, a sua volta considerato come la reincarnazione dell’amante di Cecilia. In una notte tempestosa, Marina scomparirà nelle oscure acque del lago.
I protagonisti del romanzo, Marina e Corrado, sono figure che Fogazzaro riprenderà pressoché in tutti i suoi romanzi successivi: Marina è la donna bella, aristocratica, sensuale ma inafferrabile, inquieta e nevrotica; Corrado Silla è l’intellettuale ispirato da importanti ideali che vorrebbe realizzare, ma ne è impedito dalle lusinghe del mondo e dall’inettitudine che lui stesso sente come fondamento del proprio essere.
Nel romanzo, percorso da un’atmosfera morbosa di occultismo, sensualità e morte, Fogazzaro introduce personaggi umoristici e generosi (il segretario del conte e sua figlia Edith, di casta purezza) o macchiettistici, come la contessa Fosca e il figlio Nepo. L’utilizzo del dialetto nei dialoghi di alcuni personaggi e il cogliere l’umana cordialità della provincia lombarda attenua la tensione di mistero e d’imminente tragedia che agita la vicenda.
Il libro, che mostra anche gli interessi spiritisti dello scrittore, suscitò reazioni contrastanti. Criticato da Salvatore Farina e da Enrico Panzacchi, fu parzialmente lodato da Giovanni Verga, che lo definì «una delle più alte e delle più artistiche concezioni romantiche che siano comparse ai nostri giorni in Italia». Anche Giuseppe Giacosa lo descrisse come «il più bel libro che siasi pubblicato in Italia dopo I promessi sposi», ma le maggiori riviste letterarie non lo citarono nemmeno.[1]
La vicenda è ambientata sulle rive del lago del Segrino, un piccolo lago della Brianzacomasca. Il palazzo, invece, è l’antica villa Pliniana sul Lago di Como, che Fogazzaro visitò e che con la sua lugubre atmosfera costituì una delle principali fonti di ispirazione del romanzo. La versione cinematografica di Mario Soldati (1942), uno dei capolavori del cinema italiano, venne girata nella stessa villa Pliniana.
Si conosce con esattezza il periodo di composizione del successivo romanzo, il Daniele Cortis, indicato dallo stesso scrittore: iniziato il 30 maggio 1881, fu compiuto l’11 marzo 1884. In tale periodo Fogazzaro ebbe una relazione, che si prolungherà per una decina d’anni, con Felicitas Buchner, una bavarese istitutrice dei figli del cognato dello scrittore, vissuta da entrambi con forti sensi di colpa, fra sensualità e volontà misticheggianti, che si riflette nello stesso intreccio del romanzo.
Protagonista è un deputato cattolico che si propone la costituzione di un nuovo partito nel panorama dell’Italia del tempo, una democrazia cristiana che raccolga l’adesione dei tanti cattolici alla vita politica – vietata allora dal Non expedit papale – e abbia a capo un uomo di alte qualità intellettuali e morali. Il tentativo si rivela un fallimento, come un fallimento è la vicenda d’amore del Cortis con la cugina Elena, sposata a un personaggio indegno, che si conclude con la rinuncia in nome di un amore sublimato nel sacrificio e nella lontananza degli amanti.
Nel romanzo Fogazzaro esprime, per bocca del suo protagonista, le proprie convinzioni politiche: «Io lascerò dunque la Camera, augurando che vi entrino presto degli uomini sciolti dalle superstizioni e dalle ignoranze di un certo individualismoliberale, che si crede alla testa dell’umanità, e non s’accorge di passare alla coda; non si accorge di aver lavorato utilmente sì, a distruggere tante cose, ma di aver lavorato non per sé, sibbene per uno molto più forte, molto più potente, che ora, trovando le vie sgombre, arriva e se lo piglia lui il mondo, e lascerà forse a simili liberali qualche prato d’Arcadia e poche pecore. Questi uomini penetrati dal futuro, questa gente positiva, verrà alla Camera, convinta, a differenza di altri retori e mitologi, che nel lungo lavoro di rinnovamento sociale cui le forme moderne della produzione impongono, il migliore strumento sarà una monarchia forte, sciolta da qualunque legame con qualunque chiesa, ma profondamente rispettosa del sentimento religioso».
Il libro ebbe successo e il Giuseppe Giacosa, che lo propose all’editore torinese Casanova per la pubblicazione, scrisse a Fogazzaro che « […] Daniele Cortis va per la strada del trionfo. Quanti lo leggono ne sono entusiasti; io me lo rilessi e me lo gustai deliziosamente: ho inteso Verga esclamare leggendolo: questo non è solamente il primo romanziere d’Italia ma dei primissimi in Europa».[2]
Nel 1887 comparve una mediocre raccolta di novelle e poesie, Fedele e altre novelle; l’11 aprile di quell’anno morì il padre: la figura di Mariano Fogazzaro rivivrà nel protagonista del suo migliore romanzo, Piccolo mondo antico da cui è tratto l’omonimo film del 1941 ad opera di Mario Soldati, che ne consacra il titolo fra i classici del cinema italiano.
Il 28 marzo Fogazzaro aveva tenuto al Circolo filologico di Firenze una conferenza sul tema Un’opinione di Alessandro Manzoni, criticando il rifiuto dello scrittore milanese di trattare nel suo romanzo dell’amore – più propriamente potremmo dire dell’erotismo. Manzoni aveva scritto, motivando con la consueta, sottile ironia, la sua scelta, che « […] l’amore è necessario a questo mondo: ma ve n’ha quanto basta e non fa mestieri che altri si dia la briga di coltivarlo; e che col volerlo coltivare non si fa altro che farlo nascere dove non fa bisogno». Fogazzaro, romanziere del resto estraneo in tutto al Manzoni, ne critica l’assunto, sostenendo che è proprio dell’arte dover esaltare l’amore che « […] incompreso da loro stessi tende continuamente là, aspira al suo fine, all’unità piena, impossibile su questa terra». È la teorizzazione del “grande amore”, quello esclusivo, delle anime nobili o singolari o tormentate, un amore che appartiene sostanzialmente alla letteratura ma non alla realtà.
Fogazzaro e l’evoluzionismo darwiniano
Con L’origine delle specie (The Origin of Species), pubblicata nel 1859, Charles Darwin diede un colpo decisivo sia alle teorie creazioniste che si fondavano sulla tradizione biblica dell’origine delle specie, sia all’evoluzionismo lamarckiano che postulava che gli organismi fossero il risultato di un processo graduale di modificazione che avveniva sotto la pressione delle condizioni ambientali. Nonostante le polemiche sulla teoria darwiniana si trascinassero ancora per diversi decenni, Fogazzaro, che lesse il libro del Darwin nel 1889, ne fu conquistato e turbato insieme; consapevole dei seri problemi che la nuova teoria, alla quale aderì senza riserve, comportava per il magistero della Chiesa, egli volle tentare di conciliarla con la tradizione del pensiero cattolico. Credette di trovarla nella lettura del libro di Joseph LeConteEvolution and its relations with religious thought, ove lo scrittore statunitense formula l’ipotesi che le forze naturali responsabili dell’evoluzione delle specie sarebbero una diretta emanazione della volontà divina.
Con questo spirito Fogazzaro tenne, il 22 febbraio 1891, una conferenza all’Istituto veneto di scienze, lettere ed arti di Venezia (del quale sarà anche presidente tra il 1902 e il 1905[3]), sul tema Per un recente raffronto delle teorie di Sant’Agostino e di Darwin sull’evoluzione, che tuttavia scontentò i cattolici senza peraltro conquistarsi le simpatie dei darwiniani. Il vescovo di CremonaGeremia Bonomelli gli scrisse il 2 maggio invitandolo alla prudenza, perché «le ottime sue pagine sono gravissime e domandano maggior svolgimento: è necessario a cessare certi pericoli e certe accuse». Fogazzaro rispose due giorni dopo sostenendo di essere stato spinto, « […] col desiderio sincero di dar gloria di Dio», a contrastare « […] la protervia, la ignoranza e la malafede di quegli evoluzionisti che giudicano spacciato il cristianesimo e così predicano facendo un male immenso come io stimo, sopra tutto ai giovani di ingegno e di cuore, cui la dottrina dell’Evoluzione, ormai professata da una grande maggioranza di scienziati, invincibilmente attrae».
Frontespizio de L’origine dell’uomo e il sentimento religioso
Il 2 marzo 1893 tenne, al Collegio Romano, una conferenza sull’Origine dell’uomo e il sentimento religioso, presente anche la regina Margherita di Savoia, ove ribadì la sua adesione alla teoria darwiniana, sostenendo anche la teoria, ripresa da Antonio Rosmini, sull’origine dell’anima che non si formerebbe immediatamente con l’embrione, ma solo dopo un certo grado del suo sviluppo.
Fu attaccato dal quotidiano L’Osservatore Cattolico il 16 marzo e da La Civiltà Cattolica il 15 e il 31 ottobre che rimproverò che un « […] laico di sua privata autorità si presenta a insegnare ad altri fedeli ciò che è o non è da credere e come s’abbia a concepire d’ora innanzi la creazione», ravvisando in questa pretesa un pericolo di compromissione non solo della dottrina teologica ma della stessa struttura gerarchica della Chiesa.
Lo studioso vicentino Paolo Marangon scrive: «In buona sostanza l’autore di Piccolo mondo antico, nel momento stesso in cui riconosce la grandezza di Darwin e la sua onestà di studioso, ne riduce l’opera a livello di spiegazione tecnica dell’origine e della varietà delle specie, sostituendo il meccanismo mutazione-selezione-caso tipico del darwinismo con un Potere occulto, una segreta Potenza, che presiederebbe internamente non solo al processo dell’evoluzione biologica, ma all’ascensione complessiva dell’universo e della storia umana secondo un immenso, imperscrutabile disegno trascendente».[4]
Nel luglio 1894 decise di cessare la relazione con la Buchner – la Elena del Daniele Cortis – la quale, dopo la morte di Fogazzaro scrisse al Gallarati Scotti, nel settembre 1911, che dopo aver provato « […] un dolore amaro, durai fatica a perdonare; la ragione comprendeva molto bene ma il cuore non voleva comprendere, si ribellava […] tre anni fa […] avevo ritrovato l’equilibrio morale e sentivo che quel passato era un tesoro che nessuno poteva togliermi […] cominciavo a dire al Signore, pensando all’amore perduto: Tu l’hai donato, tu l’hai tolto, sia benedetta la tua mano severa».
Il 16 maggio 1895 morì a vent’anni il figlio Mariano; scrisse alla cugina Anna: « […] adesso è lui che guida me, è lui che mi assiste, che mi consiglia, che mi aiuta col mio stesso pianto».
L’anno dopo uscì il suo capolavoro, Piccolo mondo antico, meditato e lentamente composto fin dal 1889. Ambientata negli anni che precedono la seconda guerra di indipendenza, sullo sfondo del lago di Lugano, è la storia della famiglia del nobile Franco Maironi, cattolico e liberale, e della piccolo borghese Luisa Rigey, al cui matrimonio si era opposta la filoaustriaca marchesa Orsola, nonna di Franco. Le difficoltà economiche e il senso profondo di schiettezza e di giustizia che anima Luisa, rispetto al carattere flessibile di Franco, rendono difficile il rapporto fra i due coniugi fino ad allontanarli quando la piccola figlia Maria muore annegando nel lago; ma mentre Luisa si chiude in sé stessa e si dedica allo spiritismo nell’illusione di ricostituire un contatto con la bambina, Franco si trasferisce a Torino, dove lavora e acquisisce la coscienza della necessità di partecipare attivamente alla liberazione delle terre italiane dall’occupazione austriaca.
Il romanzo si conclude con l’incontro dei due coniugi all’Isola Bella, nel 1859, dove Franco s’imbarca per raggiungere la riva lombarda del lago Maggiore e combattere con le truppe italiane: l’annuncio del rinnovamento risorgimentale allude a un prossimo, rinnovato rapporto tra Franco e Luisa.
Come scrisse il Gallarati Scotti nella sua biografia, in questo romanzo il Fogazzaro « […] ha scoperto le pure sorgenti della sua sincerità e della sua ispirazione. L’accento nuovo e originale egli l’ha trovato nella rinuncia a tutti i sentimenti torbidi e convenzionali che attraggono le masse e in una più intima comunione con gli ideali che gli erano stati trasmessi dai suoi padri; con gli uomini e la terra della sua infanzia. Egli ha voluto glorificare le cose umili e non comprese dal mondo: un paese nascosto tra le ultime pieghe della terra lombarda; anime generose, dolorose e buone, nascoste tra le pieghe della grande storia del Risorgimento; virtù eroiche ma non apparenti, vicende piane, affetti sani, l’amore nel matrimonio, il dolore nella famiglia, il dramma intimo fra le pareti di una modesta casa borghese».
Fu l’unanime successo del romanzo a spingere re Umberto I a emanare, il 25 ottobre 1896, il decreto di nomina a senatore del Fogazzaro il quale tuttavia, avendo un censo inferiore alle canoniche 3.000 lire d’imposta, poté entrare in Senato solo il 14 giugno 1900, soddisfacendo allora ai requisiti richiesti.
Il 2 marzo 1897, centenario della nascita di Antonio Rosmini, furono pubblicati dall’Accademia degli Agiati di Rovereto due volumi sul filosofo trentino, nei quali è contenuto anche lo studio di Fogazzaro La figura di Antonio Rosmini, da lui considerato « […] il propugnatore dell’unità italiana, delle istituzioni liberali e d’una riforma ecclesiastica; il contraddittore formidabile di certi teologi e moralisti e soprattutto il patrono, per così dire, di una specie di opposizione costituzionale cattolica, che osa disapprovare l’azione del partito preponderante nella Chiesa».
Il 6 giugno, a Vicenza, tenne un discorso dalla loggia della Basilica Palladiana per l’inaugurazione di un busto di Cavour, esaltando l’opera del politico piemontese che « […] affrontò intrepido, per la libertà dei commerci, le collere di plebi ingannate; stette nella questione ecclesiastica, a difesa della libertà civile, contro tutto che nel suo paese era più potente, l’alto clero, gran parte della classe cui egli stesso appartenne, gli uomini più provati nel servizio del Re e dello Stato», opponendosi a ogni ipotesi di restaurazione del potere temporale e facendo propria la massima famosa della «Libera Chiesa in libero Stato».
Il 21 novembre 1900 terminò il manoscritto del nuovo romanzo Piccolo mondo moderno, pubblicato l’anno dopo. Protagonista è Piero Maironi, il figlio di Franco e Luisa; sposato a una donna mentalmente malata, è attratto dal fascino sensuale di Jeanne Dessalle, un’intellettuale raffinata, bella e ricca, appartenente al “bel mondo” internazionale; il rapporto, fatto di ambiguità e di desideri deviati, non si conclude: con la morte della moglie, Piero decide di vivere asceticamente, ripromettendosi di agire per la riforma della Chiesa.
Anche per i protagonisti di questo romanzo può riferirsi il giudizio che Luigi Russo (I Narratori, 1922) diede per tutti gli altri – con l’esclusione di quelli di Piccolo mondo antico: «I personaggi del Fogazzaro parlano spesso di Dio, ma sempre in compagnia di una donna; immaginano di amare, ma non amano mai attivamente: sentono i contrasti e i richiami dei doveri superiori, ma come se obbedissero allo scatto di una molla meccanica. Donde quel misticismo diffuso, quell’erotismo cronico, che non arriva mai a una conclusiva catarsi di vita e di arte».
Il 20 luglio 1903 morì papa Leone XIII: a suo successore, Fogazzaro sperava nell’elezione del cardinale Alfonso Capecelatro di Castelpagano, nel quale credeva di vedere interpretati i suoi desideri di rinnovamento della Chiesa; ma il 4 agosto venne eletto il cardinale Giuseppe Sarto, col nome di Pio X. Fu una delusione per lo scrittore, che vide nel nuovo papa uno spirito semplice, persino rude, ma nemico delle sottigliezze della politica come dei tormenti delle meditazioni dell’intelletto; ne temeva un’accentuazione dell’autoritarismo gerarchico e una chiusura nei confronti dello spirito più moderno.
Il 27 dicembre 1902 Fogazzaro scriveva al vescovo Geremia Bonomelli che le « […] letture di Loisy, di Houtin, di Tyrrell, conversazioni con Semeria, P. Gazzola, don Brizio, P. Genocchi mi hanno scosso, illuminata, qualche volta pure, se vuole, turbata l’anima; turbata di quel turbamento del quale il Tyrrell dice che è facile prenderlo per una febbre mortale mentre non è che una febbre di sviluppo. Ho finalmente capito, leggendo quei libri, quello che Semeria mi disse anni sono: “bisogna conoscere la critica biblica“» e alla contessa Caterina Colleoni: « […] ora ho per le mani due libri nuovi dell’abate Loisy: L’Evangile et l’Eglise è una confutazione di Harnack che mi fa particolarmente piacere, perché Harnack col suo cristianesimo depurato (Das Wesen des Christenthums) mi pare abbia sedotto molti».
Fogazzaro nel suo studio
Il Loisy sosteneva che la Chiesa aveva mostrato nella storia capacità di adattare i dogmi ai bisogni dei tempi, senza con ciò alterare la propria tradizione; il 16 dicembre 1903 il Sant’Uffizio condannava gli scritti del Loisy, al quale Fogazzaro fece pervenire la propria solidarietà.
Nel novembre 1905 uscì il nuovo romanzo Il Santo, protagonista ancora Piero Maironi che, ortolano nell’abbazia benedettina di Subiaco, si fa chiamare Benedetto e conduce una vita di preghiera e di penitenza. Qui è riconosciuto da Jeanne Dassalle che, rimasta vedova, sperava di poter riallacciare una relazione ma si rende subito conto che Piero è ormai troppo mutato; venerato come un santo nel paesino di Jenne, Piero va a Roma, contando di convincere lo stesso papa della necessità di una radicale riforma della Chiesa, ma viene ostacolato tanto dai cattolici tradizionalisti che dagli esponenti dello Stato laico. Sfiduciato e malato, muore in casa di un amico, assistito da Jeanne.
Se non ebbe successo di critica, grande fu la sua risonanza fra il pubblico; gli espresse la propria ammirazione perfino il presidente degli Stati Uniti d’America – e premio Nobel per la pace – Theodore Roosevelt: « […] it is a good book for any sincerly religious man or woman of any creed, provided only that he realizes that conduct counts for more than dogma», ma fu condannato tanto dai laici intransigenti quanto dai cattolici. Si pensò subito alla sua messa all’Indice: nel romanzo, il personaggio di padre Clemente, monaco di Subiaco, sostiene che « […] probabilmente dopo la morte le anime umane si troveranno in uno stato e in un ambiente regolati da leggi naturali come in questa vita» e Piero sostiene la presenza attiva delle anime dei defunti su questa terra.
E in effetti, il 4 aprile 1906 il libro fu condannato con un Decreto della Congregazione dell’Indice. Lo scrittore fece atto di obbedienza: « […] ho risoluto fin dal primo momento di prestare al Decreto quella obbedienza che è mio dovere di cattolico, ossia di non discuterlo, di non operare in contraddizione di esso autorizzando altre traduzioni e ristampe».
Pur avendo fatto atto di sottomissione, Fogazzaro continuò a ribadire la convinzione della necessità di un rinnovamento delle istituzioni ecclesiali che le rendessero aperte alle esigenze dello spirito moderno. Il 18 gennaio 1907 tenne all’École des Hautes Études di Parigi una conferenza su Le idee di Giovanni Selva, uno dei personaggi del romanzo Il Santo, l’intellettuale modernista le cui dottrine sono riprese da Piero Maironi.
Vi sostiene che « […] l’avvenire vedrà uno straordinario ringiovanimento della Chiesa», certo che vi coopereranno forze nuove e vitali. La religione è per lui, più che dogma, azione e vita, e soprattutto carità attiva e amore fraterno, le migliori dimostrazioni della verità cattolica, e un rinnovato spirito evangelico quale egli credeva di vedere espresso da un George Tyrrell « […] l’uomo davanti al quale tutti i Giovanni Selva del mondo s’inchinano con venerazione», che tuttavia la Chiesa scomunicherà solo pochi mesi dopo.
A ribadire ogni chiusura col mondo moderno viene, l’8 settembre 1907, l’enciclicaPascendi Dominici gregis, che condanna il movimento modernista, accusato di non porre « […] già la scure ai rami e ai germogli, ma alla radice medesima, cioè alla fede e alle fibre di lei più profonde […] ogni modernista sostiene e quasi compendia in sé molteplici personaggi: quello di filosofo, di credente, di teologo, di storico, di critico, di apologista, di riformatore»; di qui la necessità di istituire in ogni Diocesi un Consiglio di disciplina che scruti « […] gli indizi di modernismo tanto nei libri che nell’insegnamento, con prudenza, pacatezza ed efficacia, stabilendo quanto è necessario per l’incolumità del clero e della gioventù».
Come scrive il Gallarati Scotti, « […] si entrava in un’ora grigia di spionaggi e di denunce, forme odiose e non infrequenti in tutti i secoli e in tutte le società, ma che il Fogazzaro s’illudeva non dovessero e non potessero mai più risorgere nel mondo cosiddetto moderno e che perciò lo turbavano e gli parevano maggior male degli errori stessi, per l’antipatia che avrebbero provocato nei regimi di libertà contro la Chiesa».
Iniziato nel 1905, Leila, l’ultimo romanzo di Fogazzaro, fu presentato a Milano l’11 novembre 1910 ma era già noto da una decina di giorni: infatti, il 10 novembre, il critico Giuseppe Antonio Borgese poteva già scriveva dalle colonne de La Stampa di Torino che « […] i personaggi di Leila partecipano vivamente alla vita dello spirito. Vi sono i rappresentanti dell’estrema destra, l’arciprete don Tita, il canonico don Emanuele, le bizzochere che fan loro bordone, gente di costumi immacolati, ma di cuor gretto e di mente chiusa, cristiani osservantissimi secondo la lettera, ma ignari di ciò che sia veramente la fede e la carità, sepolcri imbiancati. La gente di mal costume, il losco sior Momi, padre di Leila, la madre galante, i furbi e gl’imbroglioni fan lega con costoro: sante alleanze.
L’estrema sinistra è rappresentata, fino a un certo punto, da Massimo Alberti. Egli è divenuto un vero e proprio modernista. Scolaro ed amico del Santo, ne ha portato tropp’oltre gli insegnamenti, è giunto a credere che l’organismo del cattolicesimo è consunto, e che dalla Chiesa esaurita nascerà una nuova fede migliore, come dalla Sinagoga nacque la Chiesa […] Leila è l’estrema ombra fuggiasca di quella figura femminile che ha per lunghi anni tormentato la fantasia di Fogazzaro, l’estrema progenie spirituale di quella “sciura Luisa”, devota a un’altra fede morale nel cuore, vagamente e capricciosamente ribelle alla Chiesa nella sua piccola mente irrequieta. Ma è appena un’ombra, è appena un ricordo. Le sue crisi sono scatti di nervi provocati da onde torbide di sensualità».
Fogazzaro scrisse di aver voluto, col nuovo romanzo, presentare una « […] propaganda religiosa e morale conforme alle mie profonde convinzioni cristiane e cattoliche, ottenuta rappresentando un’anima ignara delle lotte che oggi straziano la Chiesa, penetrata di Vangelo e ferma nelle credenze tradizionali», così che il libro deluse tanto i cattolici progressisti che i conservatori e fu condannato dalla Chiesa.
Gli ultimi mesi della sua vita furono segnati dalla delusione e dal senso di aver fatto il proprio tempo. Era molto malato e alla fine di febbraio venne ricoverato all’Ospedale di Vicenza: operato il 4 marzo 1911, si aggravò rapidamente; il 7 marzo ricevette l’unzione degli infermi: « […] con le labbra già bianche della morte, l’agonizzante rispose con l’ultimo soffio di voce alle preghiere della Chiesa: amen. E chi gli era vicino comprese che egli si era addormentato in lumine Vitae».
Un saggio di Benedetto Croce, apparso nel 1903 e poi inserito nella sua Letteratura della nuova Italia, era molto critico nei confronti del vicentino: « […] cattolico, tiene fermo persino all’infallibilità del papa: ma è insieme ossequente alla moderna scienza naturale darvinistica, e pensa che la fede non le si opponga, e anzi la compia e le si armonizzi; e riconosce importanza ai fenomeni della suggestione, della telepatia, dello sdoppiamento, della chiaroveggenza, dello spiritismo, come segni di futura unione della scienza con la fede.»[5] Messa così in luce la contraddizione fra il panteismo dinamico di Darwin e la fede in un Dio trascendente di Fogazzaro, e rilevato anche come l’etica dello scrittore odorasse « […] di blandizie e di alcova», il filosofo napoletano ne criticava la visione politica: « […] la sua politica sembra antistorica, un neoguelfismo socialistico, che la chiesa e il gesuitismo imperante respingeranno, salvo il caso che non si riveli adatto a servire da maschera a intenti di reazione».
Il critico Natalino Sapegno coglie nel poemetto Miranda e nelle liriche di Valsolda gli elementi della formazione letteraria di Fogazzaro: il romanticismo sentimentale di Aleardo Aleardi e certe irrequietezze della Scapigliatura. I temi dei romanzi, evidenziati da Sapegno, sono: il gusto degli ambienti aristocratici, dei conflitti interiori che agitano le anime elette e i cuori sensibili; gli influssi del Romanticismo, specie inglese[6] tedesco e francese; il lirismo e l’ambiguità delle situazioni tra erotiche e religiose, infernali e paradisiache; la tendenza all’autobiografia; l’amore del vago, dello strano, del misterioso; il cattolicesimo torbido e combattuto, incerto fra tradizione e rinnovamento. Importante fu poi per lo scrittore l’adesione al modernismo.[7]
Un anziano Antonio Fogazzaro
Mentre la biografia del Gallarati Scotti resta fondamentale per la mole di informazioni che racchiude, ma poco plausibile per l’intenzionalità programmatica di presentare la sua vita come un itinerarium ad Deum, lo scrittore fu ammirato dal Momigliano, che trovava in lui « […] un’inquietudine, un’ombra, un’indeterminatezza, che il nostro romanticismo non aveva conosciuto e che ti fa pensare a uno Chateaubriand meno solenne e più nervoso. Lo spirito del paesaggio del Fogazzaro non è pittoresco, ma musicale: Fogazzaro, in certo modo, ha preceduto Pascoli, e aperto in Italia la via di quella sensibilità indefinita, fatta di accordi occulti che accosta inevitabilmente la poesia alla musica».
Scrisse il Piromalli che Fogazzaro era stato giudicato « […] in relazione a una determinata società ottocentesca chiusa e narcisista, era uno scrittore di un luogo e di un tempo, di un particolare pubblico; saltavano in aria l’universalità e l’eternità; il magismo musicale che i crociani vi avevano rinvenuto era l’estenuazione letteraria del sentimentalismo veneto tardo-romantico, era l’elegia della falsa spiritualità, l’orgoglio fatuo di volere essere spiritualmente al di sopra degli altri, di avere per sé e per il proprio amore un cantuccio riservato in un paradiso dell’aldilà quando le leggi della società civile non lo consentivano sulla terra», finché un saggio di Gaetano Trombatore, pubblicato nel 1945, « […] aveva fatto cadere le impalcature mistificatrici, i belletti fasulli, la maschera idealistico-cattolica, aveva fatto vedere la miseria morale di una società angusta e greve». In realtà Fogazzaro è stato uno dei romanzieri italiani più aggiornati e consapevoli (da qui la sua fortuna internazionale): la sua critica alle debolezze concettuali della cultura decadente, in particolare all’estetizzazione del male, operata da Charles Baudelaire, è arrivata diversi decenni prima di quella identica proposta da autori come Hermann Broch o Elias Canetti.[8]
Questa voce o sezione sugli argomenti scrittori italiani e poeti italiani non cita le fonti necessarie o quelle presenti sono insufficienti.
Commento: La sezione che segue è tutta una citazione di critici (o di un critico!) non menzionati. È necessario esplicitare il nome degli estensori (o dell’estensore) di queste critiche, altrimenti la sezione pare POV
«Fogazzaro fu l’idolo della borghesia italiana nel periodo che corre all’incirca tra il 1880 e il 1910; dell’alta borghesia prevalentemente intellettuale e terriera, che confinava con l’aristocrazia, con cui talvolta riusciva a confondersi; e anche della borghesia media e piccola in quanto seguiva i gusti di quella e ne condivideva i sentimenti e ne ammirava le forme. E fu adesione tanto più spontanea e naturale, in quanto lo scrittore stesso apparteneva a quella classe sociale; e vi apparteneva non pure per la nascita, ma per la sua formazione intellettuale e morale, con tutte le fibre del suo essere» (Gaetano Trombatore).
Se scrittori come il Farina, il Barrili e il Rovetta, pur scrivendo per gli stessi lettori, non ebbero il suo stesso successo, si dovette, secondo il Trombatore, al fatto che essi non li seppero, come fece il Fogazzaro, « […] scuotere e rasserenare, commuovere e divertire e lusingare, e soprattutto non seppero farli vivere, e vivere pienamente, in un mondo che pareva reale ed era ideale, che pareva ideale ed era reale, e che rimaneva pur sempre il loro mondo».
I personaggi dei romanzi di Fogazzaro appartengono essi stessi alla borghesia « […] ma i loro parenti sono conti e marchesi; accanto al lustro dei blasoni essi portano la luce della loro nobiltà d’animo, della loro intelligenza, della loro cultura, e vivono perfettamente intonati in quegli ambienti di elegante mondanità. Siamo in quella zona di confine in cui le due classi riescono a convivere fino a confondersi insieme. La scena è di solito una villa con un paesetto fra i monti o in riva a un lago; ma non così isolata che non vi giungano le voci del mondo circostante. Non manca in Malombra qualche riflesso della mondanità milanese, c’è la mondanità romana del Santo; e non bisogna neanche dimenticare le località del turismo mondano, Isola Bella, l’abbazia di Praglia, Subiaco, Bruges, Norimberga. Ecco veramente gli ambienti in cui potevano alimentarsi e fiorire i nobili pensieri, le alte passioni. Il Fogazzaro non deludeva mai i suoi lettori. Mentre rispondeva alle loro tendenze sentimentali e morali, egli ne appagava e ne lusingava le esigenze mondane e intellettuali».
I lettori che amavano Fogazzaro « […] aspiravano, almeno nell’illusione, a evadere in una vita più nobile e alta, avevan perduta la fede e volevano credere, si sentivano insozzati di colpa e anelavano alla purezza, volevano amare non grettamente ma col tumulto dei sensi e dell’anima: lo scrittore offrì il vasto pascolo ideale che cercavano, fece, di là dalle tenebre della carne, balenare la sublimità dello Spirito, ed essi arsero nella fiamma della sua anima».
Il declino del successo sopravvenne con un mutamento del gusto che pure partiva da quelle premesse, il romanticismo crepuscolare espresso dallo scrittore vicentino non essendo più adeguato all’esigenza di un «…sublime che, abbandonata la sua sede sopramondana, si celebrasse tutto sulla terra, incarnandosi nell’individuo e sollevandolo sulla servile umanità a sbramare la sua bruciante sete di conquista e di dominio. Nacque, o meglio, si perfezionò così il gusto della vita come avventura inimitabile, e, secondo alcuni, il Fogazzaro dové a poco a poco consegnare i suoi lettori a un incantatore ben più agguerrito e più ricco di multiformi e incestuose magie: il despota dell’estetismodannunziano, lordo di sangue e d’oro». In realtà, a Fogazzaro interessava una critica radicale dei presupposti dell’estetismo, del suo soggettivismo esasperato, come mostra chiaramente il romanzo Malombra: «Se l’illusa Emma Bovary di Gustave Flaubert è prima di tutto la giovane donna preda del ciarpame romantico di cui ha nutrito da ragazza il suo spirito, analogamente Marina incarna la deriva di quella cultura e degli sviluppi che essa aveva avuto alla metà dell’Ottocento. ‘Non le mancava un solo romanzo della Sand’ – osserva nel cap. V (Parte Prima) del romanzo l’autore, che descrive anche Corrado come un viaggiatore “fantastico”, con un aggettivo capace di riportare subito, per associazione, a Ernst T. A. Hoffmann e al giovane «innamorato e fantastico come lo Stenio di George Sand» dell’operetta satirico-parodica Un romanzo in vapore dell’estroso Collodi. Ciò chiarisce meglio perché Fogazzaro proceda ad una “contemporaneizzazione del fantastico”, unendo nella sua narrazione alcuni elementi realistici e altri contrari nel senso dell’astratto, della fascinazione, dell’oscuramente misterioso, dell’invisibile. Tale patronato letterario spiega anche molto dei personaggi: […] per loro, i diritti della passione verranno prima di qualsiasi altra cosa o si dovranno imporre ineluttabilmente contro ogni barriera. Non per nulla Silla, orgoglioso, superbo, incapace di “giusto equilibrio” fra spirito e sensi, si definisce “inetto a vivere”: ha “la forza […] di resistere a qualunque disinganno, a qualunque amarezza”, ha un “cuore ardente”, ma gli mancano la “potenza” e “l’arte” per portare a compimento le cose (Parte Prima, cap. VIII). Per questa carenza di volontà, nel segno di Arthur Schopenhauer, […] il personaggio sembra assomigliare piuttosto a certe moderne figure di Svevo e della narrativa nordica del Novecento. Corrado Silla vorrebbe resistere a Marina, ne avrebbe la possibilità, ma non riesce a compiere questa scelta morale.[…] Silla non è capace di seguire la sincera e appassionata Edith, letteralmente impaniato nella “mala ombra” del fascino di Marina: intelligente, questa, brillante, innamorata dell’amore oltre tutto e tutti, ma allo stesso tempo circondata da amicizie fatue, frivola, piena di sarcasmo, di “pensieri torbidi” (Parte Prima, cap. IV), di uno spirito “scettico e falso” (Parte Prima, cap. I). In breve la giovane donna è angelo e demonio insieme. Marina è, come Enrico di Miranda al maschile, una versione femminile del dandy: bella, elegante, sprezzante, ma anche capricciosa, annoiata e ricca di odio. Disdegna le parole di Friedrich Schiller e Johann Wolfgang Goethe che gli cita il segretario Steinegge, padre amatissimo di Edith, e possiede, significativamente accanto ai Fiori del male di Baudelaire che l’ebbe particolarmente cara, l’opera di Edgar Allan Poe, il cui destino fu presto segnato dall’alcoolismo e dalle allucinazioni. Inoltre “al concetto del bene e del male” Marina ha voluto sostituire “il concetto meno volgare del bello e del brutto” (Parte Prima, cap. V): cede così alla lusinga baudelairiana della bellezza del Male, confondendo l’etica con l’estetica e dando a quest’ultima il primato assoluto».[10]
L’amore
Fogazzaro apparteneva dunque a una borghesia moderna e attiva e a un pubblico di tal fatta egli si rivolgeva; moderno, ma che teneva ben presenti le tradizioni di un cattolicesimo non gretto, ma sostanzialmente conservatore, capace di rendersi conto della necessità di accogliere quanto di nuovo lo sviluppo sociale proponesse ma senza stravolgimenti. Nella rappresentazione della vita familiare Fogazzaro si mosse seguendo quell’impostazione e, seguendo il proprio temperamento, preferì trattare, nell’ambito dei rapporti familiari, il tema dell’amore.
«La precedente esperienza romantica aveva sancita l’incompatibilità dell’amore con il matrimonio, nel senso che l’amore non può raggiungere le vette della passione senza un forte ostacolo che lo alimenti e lo esasperi. Perciò l’amore fogazzariano è preconiugale o extraconiugale (nel caso di Franco e Luisa [i protagonisti di Piccolo mondo antico] la questione non verte sull’amore, ma sui contrasti ideologici dei due coniugi). Anche l’amore preconiugale si alimenta di ostacoli: in Violet [la protagonista de Il mistero del poeta] è il senso dell’occulta colpa, è il suo carattere irresoluto, è la sua salute cagionevole; in Leila è la fede giurata al morto fidanzato, è il suo orgoglio […].
S’intende che la più ricca è l’impostazione dell’amore extraconiugale, quello di Piero e di Jeanne [in Piccolo mondo moderno] o quello di Daniele e di Elena [in Daniele Cortis], che è rimasto il più caratteristico. Ma sempre in lui l’amore è un ardore nascosto, una pena struggente, un lento spasimo, vi si sentono i brividi della voluttà sfiorata, le seduzioni del peccato; si rasenta l’orlo della colpa. Ecco l’innovazione: codesto amore ideale e platonico egli lo fa vivere alle sue eroine con le fiamme della passione vera, coi sensi sempre in subbuglio. Ma è sempre un amore d’eccezione e l’istituto matrimoniale, se non è proprio salvo, è almeno conservato; il Fogazzaro corre sempre ai ripari; ognuno patisce la sua tragedia nel chiuso della propria anima; non vi sono scandali; le norme della moralità borghese non sono sovvertite».
Il romanticismo
Il percorso del romanzo italiano quasi non conobbe il romanticismo, inteso come letteratura di forti contrasti, che spazino dal dramma all’idillio, dal sentimento del patetico alle vette del sublime; non poté averlo nel Manzoni, per il programmatico rifiuto di quello scrittore a farsi interprete dei pur tanti temi romantici che nei Promessi sposi erano presenti; quanto alla Scapigliatura, fu un fenomeno di breve durata, un’artefatta costruzione intellettualistica, non l’espressione di un’esigenza intimamente sentita; in Italia il romanticismo ebbe la sua maggiore espressione nella musica, raggiungendo il vertice del successo popolare nel melodrammaverdiano.
Secondo alcuni critici, fu proprio il Fogazzaro a farsi interprete dell’esigenza romantica presente nei lettori italiani: « […] lo spirito borghese fu al tempo stesso il movente e il limite del romanticismo fogazzariano: lo fece nascere ma ne circoscrisse i motivi e l’intensità. Perciò non fu tutto genuino e compiuto; tuttavia, anche a giudicarlo deteriore, bisogna riconoscere che esso rispose largamente all’aspettativa. Il Fogazzaro ebbe il senso del Destino, pur senza saperne sceverare e decifrare il volto maligno e inesorabile, l’implacabilità che atterra e annichila; non seppe perciò riuscire veramente tragico, nel senso alto della parola, ma decadde nel suo surrogato che è il teatrale. Sincero e costante fu però il suo gusto delle situazioni drammatiche, e suggestive le sue evasioni nell’atmosfera del sublime […]». Queste tempeste dell’anima sono vissute da esseri culturalmente e spiritualmente superiori: gli umili vivono accettando con semplicità la volontà divina, non le provano né le comprendono quando le vedono vissute dai “signori”, e questo è motivo, nel Fogazzaro, di ricorrere all’umorismo e alle risorse del macchiettismo. In realtà, Fogazzaro alimenta la sua scrittura di un confronto profondo con il più impegnativo pensiero teologico, cosicché le consuete categorie “romanticismo”, “macchiettismo” e simili, decadono subito non appena si individuino le sue fonti da sant’Agostino a Ruysbroek il Mirabile, da san Tommaso d’Aquino a Madame Guyon (che si chiamava Jeanne, si noti, come la protagonista di Piccolo mondo moderno).[11]
Ma nei protagonisti dei suoi romanzi vi è un « […] mareggiare fra l’ideale e il reale, fra l’essere e il dover essere, fra un’ansia di elevazione e un ardore di perdizione. E da questo conflitto non si può uscire per una composizione armonica dei due termini, si può uscire solo per la via che conduce al sublime […] e tutto quel vario agitarsi e cozzare di passioni aspira sempre a risolversi e a sublimarsi nell’atmosfera assorta del Mistero, dove, a tratti, par di scorgere anche il volto velato del Destino. Il tema del mistero è forse il tema più alto e romantico del Fogazzaro. Sempre è avvertibile in lui il senso di una nascosta, arcana realtà […]. Allora anche la natura partecipa all’azione con una sua vasta coralità […] Questo largo fremito romantico, non incomposto, anzi sempre decorosamente atteggiato, fu l’elemento decisivo della vittoria del Fogazzaro, quello per cui egli riuscì a rapire e a sollevare con sé l’animo dei suoi lettori».
La religione
Fogazzaro fu profondamente cattolico e osservante e se tentò di conciliare Darwin e sant’Agostino fu soltanto perché riteneva, così facendo, di non violare alcun articolo di fede. Anche la sua adesione al modernismo, che non portò a nessun contributo concreto, era dettata dalla sua convinzione di mantenersi nel solco dell’ortodossia, tanto che si piegò subito alla condanna.
La sua vera innovazione fu l’espressione del sentimento religioso; in sintonia con le esigenze dei lettori del suo tempo, manifestò nei suoi romanzi una fede religiosa che « […] si alleava con l’amore e si profumava di peccato; sempre compromessa, sempre in pericolo e pur sempre divincolantesi e risorgente, viveva nella coscienza e pur anche nel subcosciente; non era un fatto ma un fare perenne, un’inesausta esperienza. Perciò si attirava facili anatemi e sarcasmi; eppure sempre avvinceva, sempre attirava nel suo gorgo meduseo, specialmente le donne. E sempre salvo rimaneva il principio, sempre intatta splendeva la maestà di Dio.
In fondo, la maggior seduzione dei romanzi del Fogazzaro consisteva nell’appagare il gusto borghese di affrontare il rischio e di ritraersene in tempo. Nella religione, come nella politica e nell’amore, si era condotti all’orlo del baratro, ma non ci si cadeva; si provavano le vertigini dell’abisso, ma da un fidato belvedere. Era come – tanto per restare nell’Ottocento e cioè in un’epoca che non conosceva ancora le acrobazie aeree – era come sulle montagne russe, che facevano sentire le ebbrezze delle ascese, le angosce dei vorticosi aggiramenti, lo spasimo della caduta; girava la testa, la coscienza si smarriva e si oscurava, ma solo per un attimo; il carrello funzionava a dovere, e alla fine si toccava terra palpitanti e felici».
Negli anni ottanta, dopo la caduta della Destra, era diffuso in Italia un senso di sfiducia e di scontento verso una classe politica, considerata corrotta e pronta a ogni compromesso, e verso il parlamentarismo, considerato inefficiente e limitante una possibile e auspicata azione della monarchia. Si era fatta largo l’idea che occorresse l’azione di un uomo forte, un Bismarck italiano che limitasse l’istituto parlamentare, desse forza alla monarchia, risolvesse la Questione romana e rendesse l’Italia autorevole e rispettata nel mondo. Sono le idee espresse nel Daniele Cortis e sono i progetti che Fogazzaro non ripresentò più nei suoi romanzi: nel Piccolo mondo antico torna ai passati ideali del Risorgimento, a un patriottismo semplice e generoso, che scaturisce dall’animo come un dovere morale, come affermazione di dignità contro la sopraffazione e l’ingiustizia.
Erano temi troppo forti, innaturali per un Fogazzaro che se poteva esprimere il dramma dei sentimenti, non poteva sottrarsi all’idillio nella rappresentazione della vita sociale che, nei suoi romanzi, è « […] una beata e quieta arcadia, dove tutto va per il suo giusto verso, che è poi il verso gradito a chi sta in alto […] in lui, profondamente sincero e convinto cattolico, viveva e operava sempre implicito il senso dell’uguaglianza delle anime, e questo non gli faceva avvertire, o gliela faceva avvertire troppo scarsamente, l’ingiustizia delle disparità sociali. L’uguaglianza giuridica e formale, che allora si era già raggiunta, lo appagava compiutamente […] Fra i vari strati sociali non corrono relazioni d’interesse, ma d’affetto. Gli abitanti dei ranghi superiori trattano gl’inferiori con arguta bonomia, con amorevole condiscendenza, e ne riscuotono una commovente devozione».
Utilizzando il dialetto, introducendo effetti comici con l’impostare figure macchiettistiche al limite del verismo, e senza dar loro troppo rilievo, Fogazzaro trovò « […] il talismano segreto che lo salvò dall’arcadia […] Questo vivace brulicare di vita minuscola è sempre in funzione di quel che vibra nell’alto declamato della vita superiore. La scala sociale di questi romanzi si dispone come una scala armonica e non tollera né dissonanze né stonature: al virtuosismo del compositore rimane però la risorsa di ricavarne pregevoli effetti di contrappunto».
Antonio Fogazzaro fu molto amico del compositore italiano Gaetano Braga, il quale musicò il testo Il canto della ricamatrice. A sua volta, il Fogazzaro, ritrasse il compositore nella novella Il Maestro Chieco.
Il vescovo Geremia Bonomelli intrattenne un’amicizia sincera con Fogazzaro, che lo portò ad essere richiamato più volte dalle autorità papali per avere espresso giudizi positivi su alcune opere dello scrittore, questo anche se Bonomelli tentò di tenere un po’ a freno le teorie sulla evoluzione darwiniana che il Fogazzaro, in un certo periodo della sua vita, approvava. Il Fogazzaro scrisse nel 1901, su invito del vescovo che intendeva così favorire e incrementare lo spirito religioso dei marinai italiani, la Preghiera del marinaio. [12]
Lascito
Nei primi mesi del 2011, in occasione del centenario della morte dello scrittore, è stato aperto uno scatolone donato alla Biblioteca civica Bertoliana di Vicenza nei primi anni sessanta contenente tutti i taccuini e i diari di Fogazzaro che per disposizioni testamentarie doveva essere aperto proprio in questo anno. Sempre per volere dello scrittore molti carteggi sono conservati nell’Abbazia di Praglia a Teolo in provincia di Padova
1899 – Ascensioni umane. Teoria dell’evoluzione e filosofia cristiana. Baldini e Castoldi.Rieditato da Longanesi nel 1977 con introduzione di Paolo Rossi.
^Per un recente ed importante studio sul Daniele Cortis si consiglia la lettura di Antonio Fogazzaro e Felicitas Buchner: un incontro nel Daniele Cortis. Con lettere inedite di Ileana Moretti, Roma, Bulzoni, 2009.
^Antonio Fogazzaro e l’Istituto veneto di scienze, lettere ed arti. Con presentazione di Manlio Pastore Stocchi, Venezia 2011, ISBN 978-88-95996-32-5
^Natalino Sapegno, Compendio di storia della letteratura italiana, ed. La Nuova Italia, Firenze, 1982, vol. 3, pag. 322.
^Cfr. Daniela Marcheschi,Introduzione a Antonio Fogazzaro, Malombra, a cura di Daniela Marcheschi, Milano, Oscar Mondadori, 2009; e Introduzione a Antonio Fogazzaro, Piccolo Mondo Antico, a cura di Daniela Marcheschi, Milano, Oscar Mondadori, 2010.
^Daniela Marcheschi, Introduzione in Antonio Fogazzaro, Malombra, Milano, Oscar Mondadori 2009, pp. 5-7.
^Cfr. Daniela Marcheschi, Introduzione a Antonio Fogazzaro, Piccolo Mondo Moderno , a cura di Roberto Randaccio, Edizione Nazionale delle Opere di Antonio Fogazzaro, Volume I, Venezia, Marsilio, 2012, pp. 11-45.
Benedetto Croce, L’ultimo Fogazzaro, in “La Critica”, marzo 1935
Piero Nardi, Antonio Fogazzaro, Milano, Mondadori, 1938
Benedetto Croce, La letteratura della Nuova Italia, Bari, Laterza, 1912 – 1940
Annibale Alberti, Lettere a Fogazzaro, Nel centenario della nascita di Antonio Fogazzaro, Venezia, Istituto veneto di scienze lettere ed arti, 1942, pp. 35-47.
Antonio Piromalli, Fogazzaro e la critica, Firenze, La Nuova Italia, 1952
Attilio Momigliano, Storia della letteratura italiana, 3 voll., Milano, Principato, 1955
Luigi Maria Personè – Antonio Fogazzaro. S.l.; Lions Club, 1961.
Corrispondenza Fogazzaro-Bonomelli, a cura di C. Marcora, Brescia, Morcelliana, 1965
Mario Gabriele Giordano, “Idealismo e realtà in ‘Piccolo mondo antico’“, in “Nostro tempo”, a. XXI, nov. 1971-apr. 1972; ora in M.G. Giordano, A. Pavone, “Lo studio critico della letteratura italiana“, Vol. III, Tomo I, Napoli, Conte, 1974.
Stefano Bertani, L’ascensione della modernità. Antonio Fogazzaro tra santità ed evoluzionismo, Rubbettino, Soveria Mannelli 2006, ISBN 88-498-1516-6
Carmelo Ciccia, Antonio Fogazzaro fra arte e propaganda, in Saggi su Dante e altri scrittori, Pellegrini, Cosenza, 2007, pp. 163-186. ISBN 978-88-8101-435-4
Arnaldo Di Benedetto, Fogazzaro, Di Giacomo e Heine, in Fra Germania e Italia. Studi e flashes letterari, Firenze, Olschki, 2008.
Ileana Moretti, Antonio Fogazzaro e Felicitas Buchner: un incontro nel Daniele Cortis. Con alcune lettere inedite, Roma, Bulzoni, 2009. ISBN 978-88-7870-406-0
Ileana Moretti, Antonio Fogazzaro, Felicitas Buchner e il cristianesimo sociale, Lanciano, Carabba, 2010. ISBN 978-88-6344-135-2
Marco Cavalli, Fogazzaro in tasca, Vicenza, Colla Editore, 2011, 8889527609
Marco Pasi, “Antonio Fogazzaro e il movimento teosofico. Una ricognizione sulla base di nuovi documenti inediti”, in: Octagon. La ricerca della totalità (a cura di Hans Thomas Hakl), Scientia Nova, Gaggenau, 2017, vol. 3, pp. 231-265.
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