Varlam Šalamov-Quaderni della Kolyma-Poesie (1937-1956)–
-A cura di Gario Zappi-Editore Giometti & Antonello
Dal Risvolto-L’opera di Varlam Šalamov (1907-1982) è già nota nel panorama editoriale italiano per le pubblicazioni nel corso di questi ultimi decenni della sua opera narrativa: l’imponente raccolta dei Racconti di Kolyma usciti per la collana dei Millenni Einaudi, la quasi interezza della sua opera in prosa per Adelphi. Egli è di certo suo malgrado l’implacabile «cantore» delle repressioni ed epurazioni staliniane, scontate nel confino di carcere e lavoro nella Kolyma. Interprete di un mondo che è l’idea stessa dell’inospitale, rifiutò egli stesso di ridurre la sua opera a quel fine univoco. E ciò traspare con limpidezza in queste poesie, composte durante i suoi decenni di gulag e qui pubblicate in una nuova traduzione italiana. Come nel caso di Primo Levi, che fu un suo lettore ammirato, l’esperienza velenosamente unica di cui egli è depositario – cristallizzandosi in un dettato in cui riaffiora la tradizione maggiore del verso russo – non indulge in alcun modo alla lamentazione, al martirio politico o alla recriminazione: nessun adagiarsi nei facili e paradossali allori futuri, lautamente mercantili, della pubblicistica del massacro o della tortura. Ciò che interessa Šalamov sta in queste parole, presenti come dedica nei primi manoscritti dei Racconti di Kolyma: «Io scrivo del gulag non più di quanto Exupéry scriva del cielo o Melville del mare. Il gulag è un tema tale per cui financo un centinaio di scrittori come Lev Tolstoj potranno stare uno accanto all’altro, senza stare stretti». Più avanti nel tempo, in un suo taccuino annota: «Il mio tornare alla parola è, nella sua sostanza, un avvertimento all’Uomo su come resistere alla folla».
Dalla «Nota degli editori»
Quarta
La luna, come gazza delle nevi,
vola dentro dalla finestrella,
sbatte le ali sulla branda,
raspa con le unghie la parete.
S’agita sulle pagine bianche,
spaventata dalla dimora umana,
mio uccello di mezzanotte,
mia bella raminga.
Credei ch’al tutto fossero
In me, sul fior degli anni,
Mancati i dolci affanni
Della mia prima età:
I dolci affanni, i teneri
Moti del cor profondo,
Qualunque cosa al mondo
Grato il sentir ci fa.
Quante querele e lacrime
Sparsi nel novo stato,
Quando al mio cor gelato
Prima il dolor mancò!
Mancàr gli usati palpiti,
L’amor mi venne meno,
E irrigidito il seno
Di sospirar cessò!
Piansi spogliata, esanime
Fatta per me la vita;
La terra inaridita,
Chiusa in eterno gel;
Deserto il dì; la tacita
Notte più sola e bruna;
Spenta per me la luna,
Spente le stelle in ciel.
Pur di quel pianto origine
Era l’antico affetto:
Nell’intimo del petto
Ancor viveva il cor.
Chiedea l’usate immagini
La stanca fantasia;
E la tristezza mia
Era dolore ancor.
Fra poco in me quell’ultimo
Dolore anco fu spento,
E di più far lamento
Valor non mi restò.
Giacqui: insensato, attonito,
Non dimandai conforto:
Quasi perduto e morto,
Il cor s’abbandonò.
Qual fui! quanto dissimile
Da quel che tanto ardore,
Che sì beato errore
Nutrii nell’alma un dì!
La rondinella vigile,
Alle finestre intorno
Cantando al novo giorno,
Il cor non mi ferì:
Non all’autunno pallido
In solitaria villa,
La vespertina squilla,
Il fuggitivo Sol.
Invan brillare il vespero
Vidi per muto calle,
Invan sonò la valle
Del flebile usignol.
E voi, pupille tenere,
Sguardi furtivi, erranti,
Voi de’ gentili amanti
Primo, immortale amor,
Ed alla mano offertami
Candida ignuda mano,
Foste voi pure invano
Al duro mio sopor.
D’ogni dolcezza vedovo,
Tristo; ma non turbato,
Ma placido il mio stato,
Il volto era seren.
Desiderato il termine
Avrei del viver mio;
Ma spento era il desio
Nello spossato sen.
Qual dell’età decrepita
L’avanzo ignudo e vile,
Io conducea l’aprile
Degli anni miei così:
Così quegl’ineffabili
Giorni, o mio cor, traevi,
Che sì fugaci e brevi
Il cielo a noi sortì.
Chi dalla grave, immemore
Quiete or mi ridesta?
Che virtù nova è questa,
Questa che sento in me?
Moti soavi, immagini
Palpiti, error beato,
Per sempre a voi negate
Questo mio cor non è?
Siete pur voi quell’unica
Luce de’ giorni miei?
Gli affetti ch’io perdei
Nella novella età?
Se al ciel, s’ai verdi margini.
Ovunque il guardo mira,
Tutto un dolor mi spira,
Tutto un piacer mi dà.
Meco ritorna a vivere
La piaggia, il bosco, il monte;
Parla al mio core il fonte,
Meco favella il mar.
Chi mi ridona il piangere
Dopo cotanto obblio?
E come al guardo mio
Cangiato il mondo appar?
Forse la speme, o povero
Mio cor, ti volse un riso?
Ahi della speme il viso
Io non vedrò mai più.
Proprii mi diede i palpiti,
Natura, e i dolci inganni.
Sopiro in me gli affanni
L’ingenita virtù;
Non l’annullàr: non vinsela
Il fato e la sventura;
Non con la vista impura
L’infausta verità.
Dalle mie vaghe immagini
So ben ch’ella discorda:
So che natura è sorda,
Che miserar non sa.
Che non del ben sollecita
Fu, ma dell’esser solo:
Purchè ci serbi al duolo,
Or d’altro a lei non cal.
So che pietà fra gli uomini
Il misero non trova;
Che lui, fuggendo, a prova
Schernisce ogni mortal.
Che ignora il tristo secolo
Gl’ingegni e le virtudi;
Che manca ai degni studi
L’ignuda gloria ancor.
E voi, pupille tremule,
Voi, raggio sovrumano,
So che splendete invano,
Che in voi non brilla amor.
Nessuno ignoto ed intimo
Affetto in voi non brilla:
Non chiude una favilla
Quel bianco petto in se.
Anzi d’altrui le tenere
Cure suol porre in gioco;
E d’un celeste foco
Disprezzo è la mercè.
Pur sento in me rivivere
Gl’inganni aperti e noti
E de’ suoi proprii moti
Si meraviglia il sen.
Da te, cor mio, quest’ultimo
Spirto, e l’ardor natio,
Ogni conforto mio
Solo da te mi vien.
Mancano, il sento, all’anima
Alta, gentile e pura,
La sorte, la natura,
Il mondo e la beltà.
Ma se tu vivi, o misero,
Se non concedi al fato,
Non chiamerò spietato
Chi lo spirar mi dà.
La vita solitaria
La mattutina pioggia, allor che l’ale
Battendo esulta nella chiusa stanza
La gallinella, ed al balcon s’affaccia
L’abitator de’ campi, e il Sol che nasce
I suoi tremuli rai fra le cadenti
Stille saetta, alla capanna mia
Dolcemente picchiando, mi risveglia;
E sorgo, e i lievi nugoletti, e il primo
Degli augelli susurro, e l’aura fresca.
E le ridenti piagge benedico:
Poichè voi, cittadine infauste mura,
Vidi e conobbi assai, là dove segue
Odio al dolor compagno; e doloroso
Io vivo, e tal morrò, deh tosto! Alcuna
Benchè scarsa pietà pur mi dimostra
Natura in questi lochi, un giorno oh quanto
Verso me più cortese! E tu pur volgi
Dai miseri lo sguardo; e tu, sdegnando
Le sciagure e gli affanni, alla reina
Felicità servi, o natura. In cielo,
In terra amico agl’infelici alcuno
E rifugio non resta altro che il ferro.
Talor m’assido in solitaria parte,
Sovra un rialto, al margine d’un lago
Di taciturne piante incoronato.
Ivi, quando il meriggio in ciel si volve,
La sua tranquilla imago il Sol dipinge,
Ed erba o foglia non si crolla al vento,
E non onda incresparsi, e non cicala
Strider, nè batter penna augello in ramo,
Nè farfalla ronzar, nè voce o moto
Da presso nè da lunge odi nè vedi.
Tien quelle rive altissima quiete;
Ond’io quasi me stesso e il mondo obblio
Sedendo immoto; e già mi par che sciolte
Giaccian le membra mie, nè spirto o senso
Più le commova, e lor quiete antica
Co’ silenzi del loco si confonda.
Amore, amore, assai lungi volasti
Dal petto mio, che fu sì caldo un giorno,
Anzi rovente. Con sua fredda mano
Lo strinse la sciaura, e in ghiaccio è volto
Nel fior degli anni. Mi sovvien del tempo
Che mi scendesti in seno. Era quel dolce
E irrevocabil tempo, allor che s’apre
Al guardo giovanil questa infelice
Scena del mondo, e gli sorride in vista
Di paradiso. Al garzoncello il core
Di vergine speranza e di desio
Balza nel petto; e già s’accinge all’opra
Di questa vita come a danza o gioco
Il misero mortal. Ma non sì tosto,
Amor, di te m’accorsi, e il viver mio
Fortuna avea già rotto, ed a questi occhi
Non altro convenia che il pianger sempre.
Pur se talvolta per le piagge apriche,
Su la tacita aurora o quando al sole
Brillano i tetti e i poggi e le campagne,
Scontro di vaga donzelletta il viso;
O qualor nella placida quiete
D’estiva notte, il vagabondo passo
Di rincontro alle ville soffermando,
L’erma terra contemplo, e di fanciulla
Che all’opre di sua man la notte aggiunge
Odo sonar nelle romite stanze
L’arguto canto; a palpitar si move
Questo mio cor di sasso: ahi, ma ritorna
Tosto al ferreo sopor; ch’è fatto estrano
Ogni moto soave al petto mio.
O cara luna, al cui tranquillo raggio
Danzan le lepri nelle selve; e duolsi
Alla mattina il cacciator, che trova
L’orme intricate e false, e dai covili
Error vario lo svia; salve, o benigna
Delle notti reina. Infesto scende
Il raggio tuo fra macchie e balze o dentro
A deserti edifici, in su l’acciaro
Del pallido ladron ch’a teso orecchio
Il fragor delle rote e de’ cavalli
Da lungi osserva o il calpestio de’ piedi
Su la tacita via; poscia improvviso
Col suon dell’armi e con la rauca voce
E col funereo ceffo il core agghiaccia
Al passegger, cui semivivo e nudo
Lascia in breve tra’ sassi. Infesto occorre
Per le contrade cittadine il bianco
Tuo lume al drudo vil, che degli alberghi
Va radendo le mura e la secreta
Ombra seguendo, e resta, e si spaura
Delle ardenti lucerne e degli aperti
Balconi. Infesto alle malvage menti,
A me sempre benigno il tuo cospetto
Sarà per queste piagge, ove non altro
Che lieti colli e spaziosi campi
M’apri alla vista. Ed ancor io soleva,
Bench’innocente io fossi, il tuo vezzoso
Raggio accusar negli abitati lochi,
Quand’ei m’offriva al guardo umano, e quando
Scopriva umani aspetti al guardo mio.
Or sempre loderollo, o ch’io ti miri
Veleggiar tra le nubi, o che serena
Dominatrice dell’etereo campo,
Questa flebil riguardi umana sede.
Me spesso rivedrai solingo e muto
Errar pe’ boschi e per le verdi rive,
O seder sovra l’erbe, assai contento
Se core e lena a sospirar m’avanza.
Scherzo
Quando fanciullo io venni
A pormi con le Muse in disciplina
L’una di quelle mi pigliò per mano;
E poi tutto quel giorno
La mi condusse intorno
A veder l’officina.
Mostrommi a parte a parte
Gli strumenti dell’arte,
E i servigi diversi
A che ciascun di loro
S’adopra nel lavoro
Delle prose e de’ versi.
Io mirava, e chiedea:
Musa, la lima ov’è? Disse la Dea:
La lima è consumata; or facciam senza.
Ed io, ma di rifarla
Non vi cal, soggiungea, quand’ella è stanca?
Rispose: hassi a rifar, ma il tempo manca.
Palinodia del Marchese Gino Capponi,
Il sempre sospirar nulla rileva.
Petrarca
Errai, candido Gino; assai gran tempo,
E di gran lunga errai. Misera e vana
Stimai la vita, e sovra l’altre insulsa
La stagion ch`or si volge. Intolleranda
Parve, e fu, la mia lingua alla beata
Prole mortal, se dir si dee mortale
L’uomo, o si può. Fra maraviglia e sdegno.
Dall’Eden odorato in cui soggiorna,
Rise l’alta progenie, e me negletto
Disse, o mal venturoso, e di piaceri
O incapace o inesperto, il proprio fato
Creder comune, e del mio mal consorte
L’umana specie. Alfin per entro il fumo
De’ sígari onorato, al romorio
De’ crepitanti pasticcini, al grido
Militar, di gelati e di bevande
Ordinator, fra le percosse tazze
E i branditi cucchiai, viva rifulse
Agli occhi miei la giornaliera luce
Delle gazzette. Riconobbi e vidi
La pubblica letizia, e le dolcezze
Del destino mortal. Vidi l’eccelso
Stato e il valor delle terrene cose,
E tutto fiori il corso umano, e vidi
Come nulla quaggiù dispiace e dura.
Nè men conobbi ancor gli studi e l’opre
Stupende, e il senno, e le virtudi, e l’alto
Saver del secol mio. Nè vidi meno
Da Marrocco al Catai, dall’Orse al Nilo,
E da Boston a Goa, correr dell’alma
Felicità su l’orme a gara ansando
Regni, imperi e ducati; e già tenerla
O per le chiome fluttuanti, o certo
Per l’estremo del boa. Così vedendo,
E meditando sovra i larghi fogli
Profondamente, del mio grave, antico
Errore, e di me stesso, ebbi vergogna.
Aureo secolo omai volgono, o Gino,
I fusi delle Parche. Ogni giornale,
Gener vario di lingue e di colonne,
Da tutti i lidi lo promette al mondo
Concordemente. Universale amore,
Ferrate vie, moltiplici commerci,
Vapor, tipi e choléra i più divisi
Popoli e climi stringeranno insieme:
Nè maraviglia fia se pino o quercia
Suderà latte e mele, o s’anco al suono
D’un walser danzerà. Tanto la possa
Infin qui de’ lambicchi e delle storte,
E le macchine al cielo emulatrici
Crebbero, e tanto cresceranno al tempo
Che seguirà; poichè di meglio in meglio
Senza fin vola e volerà mai sempre
Di Sem, di Cam e di Giapeto il seme.
Ghiande non ciberà certo la terra
Però, se fame non la sforza: il duro
Ferro non deporrà. Ben molte volte
Argento ed or disprezzerà, contenta
A polizze di cambio. E già dal caro
Sangue de’ suoi non asterrà la mano
La generosa stirpe: anzi coverte
Fien di stragi l’Europa e l’altra riva
Dell’atlantico mar, fresca nutrice
Di pura civiltà, sempre che spinga
Contrarie in campo le fraterne schiere
Di pepe o di cannella o d’altro aroma
Fatal cagione, o di melate canne,
O cagion qual si sia ch’ ad auro torni.
Valor vero e virtù, modestia e fede
E di giustizia amor, sempre in qualunque
Pubblico stato, alieni in tutto e lungi
Da’ comuni negozi, ovvero in tutto
Sfortunati saranno, afflitti e vinti:
Perchè diè lor natura, in ogni tempo
Starsene in fondo. Ardir protervo e frode,
Con mediocrità, regneran sempre,
A galleggiar sortiti. Imperio e forze,
Quanto più vogli o cumulate o sparse,
Abuserà chiunque avralle, e sotto
Qualunque nome. Questa legge in pria
Scrisser natura e il fato in adamante;
E co’ fulmini suoi Volta nè Davy
Lei non cancellerà, non Anglia tutta
Con le macchine sue, nè con un Gange
Di politici scritti il secol novo.
Sempre il buono in tristezza, il vile in festa
Sempre e il ribaldo: incontro all’alme eccelse
In arme tutti congiurati i mondi
Fieno in perpetuo: al vero onor seguaci
Calunnia, odio e livor: cibo de’ forti
Il debole, cultor de’ ricchi e servo
Il digiuno mendico, in ogni forma
Di comun reggimento, o presso o lungi
Sien l’eclittica o i poli, eternamente
Sarà, se al gener nostro il proprio albergo
E la face del dì non vengon meno.
Queste lievi reliquie e questi segni
Delle passate età, forza è che impressi
Porti quella che sorge età dell’oro:
Perchè mille discordi e repugnanti
L’umana compagnia principii e parti
Ha per natura; e por quegli odii in pace
Non valser gl’intelletti e le possanze
Degli uomini giammai, dal dì che nacque
L’inclita schiatta, e non varrà, quantunque
Saggio sia nè possente, al secol nostro
Patto alcuno o giornal. Ma nelle cose
Più gravi, intera, e non veduta innanzi,
Fia la mortal felicità. Più molli
Di giorno in giorno diverran le vesti
O di lana o di seta. I rozzi panni
Lasciando a prova agricoltori e fabbri,
Chiuderanno in coton la scabra pelle,
E di castoro copriran le schiene.
Meglio fatti al bisogno, o più leggiadri
Certamente a veder, tappeti e coltri,
Seggiole, canapè, sgabelli e mense,
Letti, ed ogni altro arnese, adorneranno
Di lor menstrua beltà gli appartamenti;
E nove forme di paiuoli, e nove
Pentole ammirerà l’arsa cucina.
Da Parigi a Calais, di quivi a Londra,
Da Londra a Liverpool, rapido tanto
Sarà, quant’altri immaginar non osa,
Il cammino, anzi il volo: e sotto l’ampie
Vie del Tamigi fia dischiuso il varco,
Opra ardita, immortal, ch’esser dischiuso
Dovea, già son molt’anni. Illuminate
Meglio ch’or son, benchè sicure al pari,
Nottetempo saran le vie men trite
Delle città sovrane, e talor forse
Di suddita città le vie maggiori.
Tali dolcezze e sì beata sorte
Alla prole vegnente il ciel destina.
Fortunati color che mentre io scrivo
Miagolanti in su le braccia accoglie
La levatrice! a cui veder s’aspetta
Quei sospirati dì, quando per lunghi
Studi fia noto, e imprenderà col latte
Dalla cara nutrice ogni fanciullo,
Quanto peso di sal, quanto di carni,
E quante moggia di farina inghiotta
Il patrio borgo in ciascun mese; e quanti
In ciascun anno partoriti e morti
Scriva il vecchio prior: quando, per opra
Di possente vapore, a milioni
Impresse in un secondo, il piano e il poggio,
E credo anco del mar gl’ immensi tratti,
Come d’aeree gru stuol che repente
Alle late campagne il giorno involi,
Copriran le gazzette, anima e vita
Dell’universo, e di savere a questa
Ed alle età venture unica fonte!
Quale un fanciullo, con assidua cura
Di fogliolini e di fuscelli, in forma
O di tempio o di torre o di palazzo,
Un edificio innalza; e come prima
Fornito il mira, ad atterrarlo è volto,
Perchè gli stessi a lui fuscelli e fogli
Per novo lavorio son di mestieri;
Così natura ogni opra sua, quantunque
D’alto artificio a contemplar, non prima
Vede perfetta, ch’a disfarla imprende,
Le parti sciolte dispensando altrove.
E indarno a preservar se stesso ed altro
Dal gioco reo, la cui ragion gli è chiusa
Eternamente, il mortal seme accorre
Mille virtudi oprando in mille guise
Con dotta man: che, d’ogni sforzo in onta,
La natura crudel, fanciullo invitto,
Il suo capriccio adempie, e senza posa
Distruggendo e formando si trastulla.
Indi varia, infinita una famiglia
Di mali immedicabili e di pene
Preme il fragil mortale, a perir fatto
Irreparabilmente: indi una forza
Ostil, distruggitrice, e dentro il fere
E di fuor da ogni lato, assidua, intenta
Dal dì che nasce; e l’affatica e stanca,
Essa indefatigata; insin ch’ei giace
Alfin dall’empia madre oppresso e spento.
Queste, o spirto gentil, miserie estreme
Dello stato mortal; vecchiezza e morte,
Ch’han principio d’allor che il labbro infante
Preme il tenero sen che vita instilla;
Emendar, mi cred’io, non può la lieta
Nonadecima età più che potesse
La decima o la nona, e non potranno
Più di questa giammai l’età future.
Però, se nominar lice talvolta
Con proprio nome il ver, non altro in somma
Fuor che infelice, in qualsivoglia tempo,
E non pur ne’ civili ordini e modi,
Ma della vita in tutte l’altre parti,
Per essenza insanabile, e per legge
Universal, che terra e cielo abbraccia,
Ogni nato sarà. Ma novo e quasi
Divin consiglio ritrovàr gli eccelsi
Spirti del secol mio: che, non potendo
Felice in terra far persona alcuna,
L’uomo obbliando, a ricercar si diero
Una comun felicitade; e quella
Trovata agevolmente, essi di molti
Tristi e miseri tutti, un popol fanno
Lieto e felice: e tal portento, ancora
Da pamphlets, da riviste e da gazzette
Non dichiarato, il civil gregge ammira.
Oh menti, oh senno, oh sovrumano acume
Dell’età ch’or si volge! E che sicuro
Filosofar, che sapienza, o Gino,
In più sublimi ancora e più riposti
Subbietti insegna ai secoli futuri
Il mio secolo e tuo! Con che costanza
Quel che ieri schernì, prosteso adora
Oggi, e domani abbatterà, per girne
Raccozzando i rottami, e per riporlo
Tra il fumo degl’incensi il dì vegnente!
Quanto estimar si dee, che fede inspira
Del secol che si volge, anzi dell’anno,
Il concorde sentir! con quanta cura
Convienci a quel dell’anno, al qual difforme
Fia quel dell’altro appresso, il sentir nostro
Comparando, fuggir che mai d’un punto
Non sien diversi! E di che tratto innanzi,
Se al moderno si opponga il tempo antico,
Filosofando il saper nostro è scorso!
Un già de’ tuoi, lodato Gino; un franco
Di poetar maestro, anzi di tutte
Scienze ed arti e facoltadi umane,
E menti che fur mai, sono e saranno,
Dottore, emendator, lascia, mi disse,
I propri affetti tuoi. Di lor non cura
Questa virile età, volta ai severi
Economici studi, e intenta il ciglio
Nelle pubbliche cose. Il proprio petto
Esplorar che ti val? Materia al canto
Non cercar dentro te. Canta i bisogni
Del secol nostro, e la matura speme.
Memorande sentenze! ond’io solenni
Le risa alzai quando sonava il nome
Della speranza al mio profano orecchio
Quasi comica voce, o come un suono
Di lingua che dal latte si scompagni.
Or torno addietro, ed al passato un corso
Contrario imprendo, per non dubbi esempi
Chiaro oggimai ch’al secol proprio vuolsi,
Non contraddir, non repugnar, se lode
Cerchi e fama appo lui, ma fedelmente
Adulando ubbidir: così per breve
Ed agiato cammin vassi alle stelle.
Ond’io, degli astri desioso, al canto
Del secolo i bisogni omai non penso
Materia far; che a quelli, ognor crescendo,
Provveggono i mercati e le officine
Già largamente; ma la speme io certo
Dirò, la speme, onde visibil pegno
Già concedon gli Dei; già, della nova
Felicità principio, ostenta il labbro
De’ giovani, e la guancia, enorme il pelo.
O salve, o segno salutare, o prima
Luce della famosa età che sorge.
Mira dinanzi a te come s’allegra
La terra e il ciel, come sfavilla il guardo
Delle donzelle, e per conviti e feste
Qual de’ barbati eroi fama già vola.
Cresci, cresci alla patria, o maschia certo
Moderna prole. All’ombra de’ tuoi velli
Italia crescerà, crescerà tutta
Dalle foci del Tago all’ Ellesponto
Europa, e il mondo poserà sicuro.
E tu comincia a salutar col riso
Gl’ispidi genitori, o prole infante,
Eletta agli aurei dì: nè ti spauri
L’innocuo nereggiar de’ cari aspetti.
Ridi, o tenera prole: a te serbato
È di cotanto favellare il frutto;
Veder gioia regnar, cittadi e ville,
Vecchiezza e gioventù del par contente,
E le barbe ondeggiar lunghe due spanne.
Inno ai patriarchi
E voi de’ figli dolorosi il canto,
Voi dell’umana prole incliti padri,
Lodando ridirà; molto all’eterno
Degli astri agitator più cari, e molto
Di noi men lacrimabili nell’alma
Luce prodotti. Immedicati affanni
Al misero mortal, nascere al pianto,
E dell’etereo lume assai più dolci
Sortir l’opaca tomba e il fato estremo,
Non la pietà, non la diritta impose
Legge del cielo. E se di vostro antico
Error che l’uman seme alla tiranna
Possa de’ morbi e di sciagura offerse,
Grido antico ragiona, altre più dire
Colpe de’ figli, e irrequieto ingegno
E demenza maggior l’offeso Olimpo
N’armaro incontra, e la negletta mano
Dell’altrice natura; onde la viva
Fiamma n’increbbe, e detestato il parto
Fu del grembo materno, e violento
Emerse il disperato Erebo in terra.
Tu primo il giorno, e le purpuree faci
Delle rotanti sfere, e la novella
Prole de’ campi, o duce antico e padre
Dell’umana famiglia, e tu l’errante
Per li giovani prati aura contempli:
Quando le rupi e le deserte valli
Precipite l’alpina onda feria
D`inudito fragor; quando gli ameni
Futuri seggi di lodate genti
E di cittadi romorose, ignota
Pace regnava; e gl’inarati colli
Solo e muto ascendea l’aprico raggio
Di febo e l`aurea luna. Oh fortunata,
Di colpe ignara e di lugubri eventi,
Erma terrena sede! Oh quanto affanno
Al gener tuo, padre infelice, e quale
D’amarissimi casi ordine immenso
Preparano i destini! Ecco di sangue
Gli avari colti e di fraterno scempio
Furor novello incesta, e le nefande
Ali di morte il divo etere impara.
Trepido, errante il fratricida, e l’ombre
Solitarie fuggendo e la secreta
Nelle profonde selve ira de’ venti,
Primo i civili tetti, albergo e regno
Alle macere cure, innalza; e primo
Il disperato pentimento i ciechi
Mortali egro, anelante, aduna e stringe
Ne’ consorti ricetti: onde negata
L’improba mano al curvo aratro, e vili
Fur gli agresti sudori; ozio le soglie
Scellerate occupò, ne’ corpi inerti
Domo il vigor natio. languide, ignave
Giacquer le menti; e servitù le imbelli
Umane vite, ultimo danno, accolse.
E tu dall’etra infesto e dal mugghiante
Su i nubiferi gioghi equoreo flutto
Scampi l’iniquo germe, o tu cui prima
Dall’aer cieco e da’ natanti poggi
Segno arrecò d’instaurata spene
La candida colomba, e delle antiche
Nubi l`occiduo Sol naufrago uscendo,
L’atro polo di vaga iri dipinse.
Riede alla terra, e il crudo affetto e gli empi
Studi rinnova e le seguaci ambasce
La riparata gente. Agl’inaccessi
Regni del mar vendicatore illude
Profana destra, e la sciagura e il pianto
A novi liti e nove stelle insegna.
Or te, padre de’ pii, te giusto e forte,
E di tuo seme i generosi alunni
Medita il petto mio. Dirò siccome
Sedente, oscuro, in sul meriggio all’ombre
Del riposato albergo, appo le molli
Rive del gregge tuo nutrici e sedi,
Te de’ celesti peregrini occulte
Beàr l’eteree menti; e quale, o figlio
Della saggia Rebecca, in su la sera,
Presso al rustico pozzo e nella dolce
Di pastori e di lieti ozi frequente
Aranitica valle, amor ti punse
Della vezzosa Labanide: invitto
Amor, ch’a lunghi esigli e lunghi affanni
E di servaggio all’odiata soma
Volenteroso il prode animo addisse.
Fu certo, fu (nè d’error vano e d’ombra
L’aonio canto e della fama il grido
Pasce l’avida plebe) amica un tempo
Al sangue nostro e dilettosa e cara
Questa misera piaggia, ed aurea corse
Nostra caduca età. Non che di latte
Onda rigasse intemerata il fianco
Delle balze materne, o con le greggi
Mista la tigre ai consueti ovili
Nè guidasse per gioco i lupi al fonte
Il pastorel; ma di suo fato ignara
E degli affanni suoi, vota d’affanno
Visse l’umana stirpe; alle secrete
Leggi del cielo e di natura indutto
Valse l’ameno error, le fraudi, il molle
Pristino velo; e di sperar contenta
Nostra placida nave in porto ascese.
Tal fra le vaste californie selve
Nasce beata prole, a cui non sugge
Pallida cura il petto, a cui le membra
Fera tabe non doma; e vitto il bosco,
Nidi l’intima rupe, onde ministra
L’irrigua valle, inopinato il giorno
Dell’atra morte incombe. Oh contra il nostro
Scelerlato ardimento inermi regni
Della saggia natura! I lidi e gli antri
E le quiete selve apre l’invitto
Nostro furor; le violate genti
Al peregrino affanno, agl’ignorati
Desiri educa; e la fugace, ignuda
Felicità per l’imo sole incalza.
Salvatore Quasimodo (Modica, 20 agosto 1901 – Napoli, 14 giugno 1968)- è stato un poeta e traduttore italiano, esponente di rilievo dell’ermetismo. Ha contribuito alla traduzione di vari componimenti dell’età classica, soprattutto liriche greche, ma anche di opere teatrali di Molière e William Shakespeare.
ffermare che Salvatore Quasimodo (1901 – 1968) è da considerarsi fra i “sommi” della poesia contemporanea potrebbe sembrare superfluo, tenuto conto dei prestigiosi riconoscimenti da lui ottenuti nel corso della sua carriera e dell’importanza che l’artista occupa tuttora nel panorama letterario europeo. Eppure, talvolta, nel confronto sempre aperto fra i protagonisti italiani del Novecento, egli sembra leggermente offuscato da nomi di eminenti colleghi, come, ad esempio, Montale e Ungaretti. Ciò, in verità, capita per diversi motivi, così riassumibili:
-la tendenza a considerare il poeta modicano come un allievo, un epigone dell’Ermetismo.
È opinione di molti, infatti, che l’accostamento di Quasimodo ad Ungaretti e Montale sarebbe arbitrario, frutto cioè di un’esemplificazione, di uno schematismo scolastico, sia per il divario anagrafico esistente tra loro, sia per la tardiva adesione dell’artista siciliano alla nuova poesia.
-l’accentuarsi della divaricazione fra letterati e pubblico, prodottasi a partire dagli anni Trenta/Quaranta.
È pur vero che, col palesarsi della poesia ermetica, il linguaggio si impreziosisce, assume significati indecifrabili, allontanandosi ulteriormente dalla massa e isolando ancor più gli autori in un mondo sui generis, aristocratico ed elitario. In effetti, Quasimodo si trova ad operare nella fase più acuta di tale divaricazione e ne diviene, incolpevolmente, uno dei maggiori “imputati”.
-l’abitudine a tenere ancora separate e indipendenti le produzioni quasimodiane, quella anteriore e posteriore alla guerra.
Secondo alcuni (e questo è l’equivoco maggiore da chiarire) la produzione giovanile di Quasimodo mostrerebbe i “limiti” di un evidente ancoraggio alla poetica decadentista e ai suoi stilemi estetizzanti, mentre soltanto l’altra, quella più recente, per la sua forma esplicita e un aperto impegno civile, meriterebbe il riconoscimento che ha.
Effettivamente, in Acque e terre la prima raccolta di Quasimodo, che risale al 1930, non è difficile cogliere delle assonanze con la lirica pascoliana e dannunziana. I versi, sorretti da un’evidente impronta classica e da un “apparato” implicito e sottilmente allusivo (proprio della tendenza poetica del tempo) rappresentano una felice sintesi tra forme vecchie e nuove. Essi rivelano, per altro, la disposizione del poeta a trasfigurare persone, avvenimenti e luoghi lontani, sicché ogni cosa sembra sospesa in una singolare dimensione della memoria, che può essere facilmente confusa con la nostalgia personale. Ma questo modo di comporre, più che da vagheggiamenti meramente intimistici, deriva dalla constatazione del passare del tempo (e della “corrosione” che ciò produce negli uomini) e diviene perciò un dato obiettivo, realistico, che travalica i confini dell’esperienza privata.
Pure la successiva adesione di Quasimodo all’ermetismo [Oboe sommerso (1932) ed Erato e Apollion (1936)] è stata oggetto talvolta di rilievo critico. In ciò si è voluto ravvisare una sorta di operazione mimetica, un adeguamento linguistico esteriore, privo di una partecipazione autentica e convinta, funzionale soltanto alle suggestioni dell’epoca, che com’è noto era dominata dall’esigenza di una poesia essenziale, depurata dalle scorie del manierismo e della retorica nazionalistica. Secondo questa interpretazione, la produzione ermetica di Quasimodo parrebbe ridursi o a puro esercizio accademico o a desiderio di superare i grandi maestri, quali erano appunto Montale ed Ungaretti. A guardar bene, si tratta invece di un periodo di studio, di transizione, in cui l’artista ricerca una nuova fisionomia per la sua poesia, secondando così un naturale processo creativo, per cui un autore può volgersi al nuovo, soltanto dopo aver elaborato l’antico.
Il travaglio creativo è però definitivamente superato, non tanto nelle Nuove poesie (1936- 42) che segnano un felice ritorno ad una lirica accorata e sincera, quanto nelle opere Giorno dopo giorno (1947) e La vita non è sogno (1949) che vengono editate nel dopoguerra ed in cui appaiono, inequivocabili, le tracce di un mutamento formale e contenutistico: la cruda realtà del conflitto ha segnato profondamente il poeta e nei suoi versi trovano ora posto le sofferenze e le speranze dei popoli. A questo periodo appartengono componimenti di esemplare nitore stilistico e di elevato contenuto sociale, come Alle fronde dei salici e Uomo del mio tempo. Da tale “svolta” nasce il cantore della solidarietà umana e dell’impegno civile. Dalla sua manifesta adesione alla vita concreta e dall’aperto schierarsi contro i mali del mondo, Quasimodo trae il suo maggior consenso.
Ma sarebbe un errore limitare il suo valore artistico alla produzione più matura, relativizzando quella precedente e ponendo entrambe in un inconciliabile dicotomia. Ad esaminare attentamente i temi svolti nelle prime raccolte, viene fuori un poeta sensibile, “a tutto tondo”, che si strugge per la propria terra natia, non tanto perché essa è fisicamente lontana, ma perché viene avvertita come Eden o paradiso perduto. Nelle Nuove Poesie, grazie anche ad una forma più distesa ed intelligibile, si capisce perfettamente che l’autore non allude ad un luogo suo esclusivo, ma ad una dimensione comune, a un “approdo” per tutti coloro che, oppressi da una realtà dura ed ostile, ambiscono a ritrovare l’equilibrio interiore e la quiete dell’anima. Ne deriva che la Sicilia cantata dal poeta non è quella reale, ma quella mitica, tutt’uno con la sfolgorante luce dell’antica isola greca, dove le visioni erano certamente più rassicuranti di quelle del presente.
L’autore considera l’uomo un essere imperfetto, un angelo caduto, e perciò vede la generosa sua terra del passato non tanto come entità geografica, ma come un rifugio dal male, dalla violenza, dall’ingiustizia e dalla stessa solitudine. Per quanto la forma linguistica, oscillante fra classicismo e modernità, possa indurre ad equivoci, nelle Nuove poesie, Quasimodo precorre temi che svilupperà più compiutamente in seguito, nella raccolta: Giorno dopo giorno. Ecco, perché, anche in questa fase del suo itinerario compositivo, egli va considerato pensoso ed impegnato testimone della realtà.
Nemmeno dovrebbe lasciar dubbi sulla portata del suo contributo artistico la parentesi ermetica, che alcuni si affannano a definire “epidermica” e che lui stesso, a un certo punto, sembrò ripudiare. C’è, invece, in quei versi l’impronta dell’universalità, la stimmata dell’autentica arte, un’arte pura e genuina, qual era appunto il fine della nuova poesia. Basti l’esempio della celeberrima: Ed è subito sera (“Ognuno sta solo sul cuor della terra/ trafitto da un raggio di sole/ ed e’ subito sera“) breve quanto un epigramma greco, ma efficace come soltanto la grande poesia sa essere.
Non è una malinconia fine a se stessa, ovvero quella del poeta tardo-decadente o crepuscolare, né è l’intimo sfogo di un uomo inerte, che gioca ad autocommiserarsi. È invece un disperato richiamo alla solidarietà, alla comunione fra gli uomini (mai così necessaria) e compendia perciò, in un’originale e straordinaria sintesi lirica, le istanze più sentite di un intero secolo e le voci soavi di mille cantori.
Ed è subito sera
Ognuno sta solo sul cuor della terra
trafitto da un raggio di sole:
ed è subito sera
Ora che sale il giorno (dalla raccolta Ed è subito sera. Poesie, 1942)
Finita è la notte e la luna
si scioglie lenta nel sereno,
tramonta nei canali.
È così vivo settembre in questa terra
di pianura, i prati sono verdi
come nelle valli del sud a primavera.
Ho lasciato i compagni,
ho nascosto il cuore dentro le vecchi mura,
per restare solo a ricordarti.
Come sei più lontana della luna,
ora che sale il giorno
e sulle pietre bette il piede dei cavalli!
**
Alle fronde dei salici (dalla raccolta Giorno dopo giorno, 1947)
E come potevamo noi cantare
con il piede straniero sopra il cuore,
fra i morti abbandonati nelle piazze
sull’erba dura di ghiaccio, al lamento
d’agnello dei fanciulli, all’urlo nero
della madre che andava incontro al figlio
crocifisso sul palo del telegrafo?
Alle fronde dei salici, per voto,
anche le nostre cetre erano appese,
oscillavano lievi al triste vento.
Uomo del mio tempo (dalla raccolta Giorno dopo giorno, 1947)
Sei ancora quello della pietra e della fionda,
uomo del mio tempo. Eri nella carlinga,
con le ali maligne, le meridiane di morte,
t’ho visto – dentro il carro di fuoco, alle forche,
alle ruote di tortura. T’ho visto: eri tu,
con la tua scienza esatta persuasa allo sterminio,
senza amore, senza Cristo. Hai ucciso ancora,
come sempre, come uccisero i padri, come uccisero
gli animali che ti videro per la prima volta.
E questo sangue odora come nel giorno
Quando il fratello disse all’altro fratello:
«Andiamo ai campi». E quell’eco fredda, tenace,
è giunta fino a te, dentro la tua giornata.
Dimenticate, o figli, le nuvole di sangue
Salite dalla terra, dimenticate i padri:
le loro tombe affondano nella cenere,
gli uccelli neri, il vento, coprono il loro cuore.
Già la pioggia è con noi (dalla raccolta Ed è subito sera, 1942)
Già la pioggia è con noi,
scuote l’aria silenziosa.
Le rondini sfiorano le acque spente
presso i laghetti lombardi,
volano come gabbiani sui piccoli pesci;
il fieno odora oltre i recinti degli orti.
Ancora un anno è bruciato,
senza un lamento, senza un grido
levato a vincere d’improvviso un giorno.
Avara pena, tarda il tuo dono
in questa mia ora
di sospirati abbandoni.
Un òboe gelido risillaba
gioia di foglie perenni,
non mie, e smemora;
in me si fa sera;
l’acqua tramonta
sulle mie mani erbose.
Ali oscillano in fioco cielo,
labili: il cuore trasmigra
ed io son gerbido,
e i giorni una maceria.
Vento a Tindari (dalla raccolta Acque e terre, 1930)-
Tindari, mite ti so
Fra larghi colli pensile sull’acque
Delle isole dolci del dio,
oggi m’assali
e ti chini in cuore.
Salgo vertici aerei precipizi,
assorto al vento dei pini,
e la brigata che lieve m’accompagna
s’allontana nell’aria,
onda di suoni e amore,
e tu mi prendi
da cui male mi trassi
e paure d’ombre e di silenzi,
rifugi di dolcezze un tempo assidue
e morte d’anima
A te ignota è la terra
Ove ogni giorno affondo
E segrete sillabe nutro:
altra luce ti sfoglia sopra i vetri
nella veste notturna,
e gioia non mia riposa
sul tuo grembo.
Aspro è l’esilio,
e la ricerca che chiudevo in te
d’armonia oggi si muta
in ansia precoce di morire;
e ogni amore è schermo alla tristezza,
tacito passo al buio
dove mi hai posto
amaro pane a rompere.
Tindari serena torna;
soave amico mi desta
che mi sporga nel cielo da una rupe
e io fingo timore a chi non sa
che vento profondo m’ha cercato.
**
Specchio (dalla raccolta Acque e terre, 1930)
Ed ecco sul tronco
si rompono gemme:
un verde più nuovo dell’erba
che il cuore riposa:
il tronco pareva già morto,
piegato sul botro.
E tutto mi sa di miracolo;
e sono quell’acqua di nube
che oggi rispecchia nei fossi
più azzurro il suo pezzo di cielo,
quel verde che spacca la scorza
che pure stanotte non c’era.
**
Isola (dalla raccolta Oboe sommerso, 1932)
Di te amore m’attrista,
mia terra, se oscuri profumi
perde la sera d’aranci,
o d’oleandri sereno,
cammina con rose il torrente
che quasi n’è tocca la foce.
Ma se torno a tue rive
e dolce voce al canto
chiama da strada timorosa
non so se inerzia o amore,
ansia d’altri cieli mi volse,
e mi nascondo nelle perdute cose.
**
Fresche di fiumi in sonno
Ti trovo nei felici approdi,
della notte consorte,
ora dissepolta
quasi tepore d’una nuova gioia,
grazia amara del viver senza foce.
Vergini strade oscillano
fresche di fiumi in sonno:
E ancora sono il prodigo che ascolta
dal silenzio il suo nome
quando chiamano i morti.
Ed è morte
uno spazio nel cuore.
**
Imitazione della gioia
Dove gli alberi ancora
abbandonata più fanno la sera,
come indolente
è svanito l’ultimo tuo passo
che appare appena il fiore
sui tigli e insiste alla sua sorte.
Una ragione cerchi agli affetti,
provi il silenzio nella tua vita.
Altra ventura a me rivela
il tempo specchiato. Addolora
come la morte, bellezza ormai
in altri volti fulminea.
Perduto ho ogni cosa innocente,
anche in questa voce, superstite
a imitare la gioia.
Imitazione della gioia
Dove gli alberi ancora
abbandonata più fanno la sera,
come indolente
è svanito l’ultimo tuo passo
che appare appena il fiore
sui tigli e insiste alla sua sorte.
Una ragione cerchi agli affetti,
provi il silenzio nella tua vita.
Altra ventura a me rivela
il tempo specchiato. Addolora
come la morte, bellezza ormai
in altri volti fulminea.
Perduto ho ogni cosa innocente,
anche in questa voce, superstite
a imitare la gioia.
**
Alla nuova luna (dalla raccolta La terra impareggiabile, 1958)
In principio Dio creò il cielo ..
e la terra, poi nel suo giorno
esatto mise i luminari in cielo
e al settimo giorno si riposò.
Dopo miliardi di anni l’uomo,
fatto a sua immagine e somiglianza,
senza mai riposare, con la sua
intelligenza laica,
senza timore, nel cielo sereno
d’una notte d’ottobre,
mise altri luminari uguali
a quelli che giravano
dalla creazione del mondo. Amen.
**
Lettera alla madre (dalla raccolta La vita non è un sogno, 1949)
Mater dolcissima, ora scendono le nebbie, il Naviglio urta confusamente sulle dighe,
gli alberi si gonfiano d’acqua, bruciano di neve; non sono triste nel Nord:
non sono in pace con me, ma non aspetto perdono da nessuno,
molti mi devono lacrime da uomo a uomo.
So che non stai bene, che vivi come tutte le madri dei poeti,
povera e giusta nella misura d’amore per i figli lontani.
Oggi sono io che ti scrivo:
Finalmente, dirai, due parole di quel ragazzo che fuggì di notte
con un mantello corto e alcuni versi in tasca.
Povero, così pronto di cuore lo uccideranno un giorno in qualche luogo.
Certo, ricordo, fu da quel grigio scalo di treni lenti che
portavano mandorle
e arance, alla foce dell’Imera, il fiume pieno di gazze, di sale,
d’eucalyptus.
Ma ora ti ringrazio, questo voglio, ell’ironia che hai messo sul mio labbro,
mite come la tua. Quel sorriso m’ha salvato da pianti e da dolori.
E non importa se ora ho qualche lacrima per te, per tutti quelli che come te
aspettano, e non sanno che cosa.
Ah, gentile morte, non toccare l’orologio in cucina che batte
sopra il muro
tutta la mia infanzia è passata sullo smalto del suo quadrante,
su quei fiori dipinti: non toccare le mani, il cuore dei vecchi.
Ma forse qualcuno risponde?
O morte di pietà, morte di pudore.
Addio, cara, addio, mia dolcissima Mater.
**
Alla foce dell’Ebro (poesia di Alceo tradotta da Salvatore Quasimodo, dalla raccolta Lirici greci, 1940)
Ebro, il più bello dei fiumi,
che nella Tracia con forte suono scorri
lungo terre famose pei cavalli,
al purpureo mare presso Aino tacito scendi.
E lì molte fanciulle muovono
molli sulle anche: con l’acqua chiara
nel palmo delle mani, come con olio
addolciscono la pelle.
**
Tramontata è la luna (poesia di Saffo tradotta da Salvatore Quasimodo, dalla raccolta Lirici greci, 1940)
Tramontata è la luna
e le Pleiadi a mezzo della notte;
anche giovinezza già dilegua,
e ora nel mio letto resto sola.
Scuote l’anima mia Eros,
come vento sul monte
che irrompe entro le querce,
e scioglie le membra e le agita,
dolce amara indomabile belva.
Ma a me non ape, non miele;
e soffro e desidero.
O Conchiglia marina (poesia di Alceo tradotta da Salvatore Quasimodo, dalla raccolta Lirici greci, 1940)
O conchiglia marina, figlia
della pietra e del mare biancheggiante,
tu meravigli la mente dei fanciulli.
Salvatore Quasimodo (Modica, 20 agosto 1901 – Napoli, 14 giugno 1968)- è stato un poeta e traduttore italiano, esponente di rilievo dell’ermetismo. Ha contribuito alla traduzione di vari componimenti dell’età classica, soprattutto liriche greche, ma anche di opere teatrali di Molière e William Shakespeare.
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DALLE “METAMORFOSI” DI OVIDIO
PROSERPINA, CYANE
LIBRO V – VV 385-520
Non lontano dalle mura di Enna s’apre il Pergo,
lago d’acque profonde; mai il Caistro,
nelle sue onde fuggenti, ode canti di cigni
più di quello. Una selva corona le sue acque
e ne avvolge le rive, e le fronde come velo
allontanano l’impeto di Febo. I rami danno ombra
e l’umida terra fiori d’ogni specie:
là eterna è primavera. Mentre in quel bosco
giocava Proserpina cogliendo bianchi gigli e viole
con gioia di fanciulla, a gara con le amiche,
colmandone il grembo e i canestri, la vide Plutone
e subito l’amò e la rapì: tanto fu rapido amore.
Proserpina, impaurita, chiamava con voce dolente
la madre e le compagne, ma più la madre;
e poi che lacerata alle spalle pendeva la sua veste,
caddero dalla tunica sciolta tutti i fiori.
V’era tanta innocenza nella sua fresca età,
che per i fiori caduti fu in pena la fanciulla.
E intanto Plutone dal carro incitava i cavalli
chiamandoli per nome ad uno ad uno,
e sul collo e la criniera scuoteva le briglie
d’oscuro colore di ferro. E passò dai profondi
laghi e gli stagni acri di zolfo dei Pàliei
che su ribollono da squarci della terra,
e là dove i Bacchiadi, gente di Corinto,
fra due porti ineguali, alzarono una città.
Fra Ciane ed Aretusa si stende una zona di mare
chiusa da due esili punte di terra:
qui visse Ciane, la ninfa più famosa di Sicilia,
e da lei ebbe nome lo stagno. Ora la ninfa
uscendo improvvisa dall’acque sino ai fianchi,
riconobbe la dea e così disse: «O Plutone,
non andrai lontano; se Cerere non vuole
non potrai avere la fanciulla: dovevi chiedere
Proserpina, non prenderla con forza.
E se piccole cose posso accostare alle grandi,
anch’io, amata da Anapo, divenni la sua sposa
alle vive preghiere, non per timore.»
Disse, e aprendo le braccia cercava di fermarlo.
Ma non tenne più l’ira il figlio di Saturno,
e incitando i tremendi cavalli, col braccio potente
vibrò lo scettro dentro il profondo dell’acque:
e la terra percossa aprì la via del Tartaro,
e riportò nell’abisso l’obliquo carro veloce.
Ora Ciane piangendo la dea rapita e le leggi
della fonte spezzate da Plutone, ha come ferito
il cuore silenzioso, e si consuma in lacrime
e si scioglie in quelle acque di cui fu dea suprema.
Avresti potuto vedere le membra farsi tenere,
le ossa Flessibili, le unghie perdere durezza,
e sciogliersi in acqua le parti più sottili:
le chiome azzurre, i piedi, le dita, le gambe,
perché più rapide mutano le esili membra
in acque gelide. Poi gli òmeri, la schiena,
fianchi e il petto furono piccoli ruscelli,
l’acqua giunse al sangue per le vene guaste,
nulla rimase di lei che si potesse prendere.
Intanto la madre cercava con ansia la figlia
per tutta la terra e nel profondo del mare.
Né l’Aurora dai capelli freschi di rugiada,
non Espero la vide mai in riposo,
andò con due torce di pino accese
nel fuoco dell’Etna, lungo le gelide notti,
quando la dolce luce oscura le stelle.
E sempre cercava la figlia dal sorgere
Al tramonto del sole; e stanca, arsa di sete,
dai aveva bagnato le labbra ad una fonte,
vide una capanna dal tetto di paglia
andò subito a battere alla piccola porta.
Ina vecchia venne ad aprire, e alla dea
che chiedeva da bere, offrì dell’acqua dolce
da lei preparata con il grano cotto.
E mentre beve, un fanciullo senza grazia in volto,
anche audace, si ferma davanti alla dea,
e la deride dicendole: «Avida!» E la dea offesa
riversa sul fanciullo ciò che ancora restava
dell’acqua mescolata al grano. E subito quel volto
si copre di macchie, e le braccia diventano gambe,
e la coda s’aggiunge alle membra mutate,
e il corpo (perché non abbia molto potere nel male)
si contrae in piccola forma: non più lungo
d’una lucertola. E la vecchia, stupita, piangendo
vuole toccare il mostro che fugge e si nasconde:
il mostro ha un nome che s’addice al suo colore,
screziato sul corpo di macchie variopinte.
Lungo sarebbe dire per quante terre e mari
vagò la dea: non c’era più luogo al mondo
dove ancora cercare. E ritornò in Sicilia,
e andò per tutta l’isola e giunse fino a Ciane,
che certo, se ninfa, le avrebbe detto ogni cosa;
ma non aveva più bocca, né lingua per parlare,
né modo per esprimersi; pure le mostrò un segno:
caduta là, galleggiava sull’acqua
della sorgente la cintura di Proserpina,
nota alla madre. E appena Cerere la vide,
come se allora sapesse la sorte della figlia,
cominciò a strapparsi i capelli e a lungo a battersi il petto.
E ancora non sa dove si trovi la figlia,
e dà colpa a tutta la terra (e la chiama nemica
e indegna del dono delle messi), e più alla Sicilia,
dove vide quel segno, ragione del suo pianto.
E là con mano spietata rompe gli aratri che voltano
le zolle, e con ira dà morte ai coloni ed ai giovenchi,
e vuole i campi sterili, e guasta le sementi.
E si perde la fama della terra siciliana,
dovunque esaltata come fertile; e le messi
muoiono appena verdi, ora perché il sole infuria
pioggia, e avversi sono i venti e le stelle.
E gli uccelli divorano i semi appena sparsi,
e il loglio e l’erbe spinose e la tenace gramigna
frmano il grano che cresce. Allora Aretusa
levò il capo fuori dall’acque dell’Elide
e, gettate le chiome stillanti dalla fronte
dietro le orecchie, così disse: «O madre delle messi,
madre della vergine cercata in ogni luogo, riposa
della lunga fatica, non fare violenza alla terra.
La terra è fedele, non ha colpa, senza volere
si aprì quando veniva rapita Proserpina.
Non prego per la mia terra, sono qui straniera,
io nacqui a Pisa. la mia patria è l’Elide.
Abito la Sicilia come ospite; ma questa terra
mi è cara più d’ogni altra; e per me, Aretusa,
questi sono i Penati, questa la casa, e tu,
dea benigna, difendila. Perché venni in Ortigia
dalla mia terra lungo infinite onde del mare,
dirò a suo tempo, quando avrai meno dolore
e più sereno il volto. Vado per un sentiero
aperto sotto terra e per caverne profonde
sollevo qui il capo e vedo stelle ignote.
Ora, mentre scorrevo per i gorghi dello Stige,
vidi Proserpina, triste ed ancora spaurita
nel volto, ma regina del mondo delle ombre,
ma già sposa potente del re dell’Averno.»
E a questo parole, la madre parve di pietra,
e a lungo rimase stupita, come presa dal fulmine.
Ma quando il dolore vinse la sua grave inerzia,
allora si levò col carro su per l’alto cielo.
E là, cupa in volto, coi capelli sparsi, irata,
ferma davanti a Giove, così disse: «O Giove,
per il sangue mio, ti prego, per il tuo sangue.
Se non hai amore per me, chiedo pietà per la figlia:
invoco il tuo aiuto, anche se nacque da me.
Ho ritrovato la figlia che così a lungo cercai,
se ritrovarla vuol dire sapere d’averla perduta;
se sapere dov’è vuol dire averla trovata.»
ARETHUSA, ALPHEUS, LYNCUS
LIBRO V – VV 552-661
Ma perché avete piedi e penne d’uccelli,
o figlie d’Achelo, e volto ancora di vergini?
Forse perché, o Sirene, eravate con Proserpina
quando coglieva fiori della primavera?
Dopo averla invano cercata per tutta la terra,
perché la vostra ansia fosse nota ai mari
vi venne desiderio delle ali
per vagare sui flutti, e per volere divino
le vostre membra si dorarono subito di penne.
E perché il vostro canto, così dolce da udire,
e perché questo dono così grande
non fosse mai privo di parole, rimase a voi
il volto di fanciulla, la voce umana.
Ora, con giustizia, tra la sorella e il fratello,
Giove divise in due parti il volgere dell’anno.
E la dea, nume dei due regni, sta insieme alla madre
un tempo uguale a quello che vive con lo sposo.
Cerere mutò subito in cuore e nell’aspetto,
e la sua fronte, che perfino a Plutone parve triste,
è lieta come il sole che appare dalle nubi aperte.
E Cerere, serena per la figlia ritrovata,
vuole che tu, Aretusa, racconti la tua fuga,
e perché sei una sorgente sacra. Tacque la fonte,
e dalle acque profonde levò il capo Aretusa,
e asciugando con la mano i suoi verdi capelli
narrò gli antichi amori del fiume dell’Elide.
«lo fui – disse – una delle ninfe achee
e più di me nessuna amava andare per i boschi
e fu più avida nel tendere le reti. Non chiedevo
fama alla bellezza. ero forte, ma pure si diceva
ch’ero bella. Non amavo la lode alla bellezza,
anzi mi vergognavo del mio corpo,
di questo dono selvatico, gioia per le altre,
e se piacevo sentivo grave colpa.
Tornavo stanca, ricordo, dalla selva di Stìnfalo,
era d’estate, e grave fatica cresceva la calura.
E vidi un ruscello che scorreva tacito,
senza gorghi, limpido sino al fondo, tanto
che ogni piccola pietra poteva contarsi dall’alto,
tale che avresti detto queh’acqua senza moto.
Bianchi salici e pioppi nutriti dall’acqua
spargevano docili l’ombra sulle rive in declivio:
m’avvicina e mi bagno prima le piante dei piedi,
e poi fino al ginocchio; ma ancora non ero contenta,
e slaccio le vesti leggere e le appendo ad un salice,
e nuda mi tuffo nell’acqua. E mentre taglio le onde
e a me le riporto, scorrendo ora in qua ora in là
e agito le braccia, odo non so qual rumore
salire dal fondo; e impaurita mi fermo alla sponda vicina.
“Dove vai cosi in fretta, o Aretusa?”
grida l’Alfeo di sotto le acque, “dove vai cosí in fretta?”
ripete con rauca voce. E io fuggo nuda, com’ero
(all’altra riva erano le vesti). E più egli m’insegue
e arde d’amore: nuda gli sembro più pronta.
Correvo come colomba che fugge lo sparviero
con ali tremanti; senza pietà m’inseguiva,
come sparviero preme su trepida colomba.
Fino a Orcomeno, a Psòfide, le forze mi sostennero,
fino a Cillene, alle curve del Menalo, al gelido
Erimanto, nell’Elide; ma ero più veloce d’Alfeo.
Ma non potevo resistere a lungo alla corsa,
le mie forze non erano uguali alle sue;
egli non piegava alla fatica. Ma corsi ancora
per campi, per monti di selve, per rocce,
per dirupi dove non c’era un sentiero.
E il sole m’era alle spalle; e vidi un’ombra
lunga davanti a me, se pure non era il timore
a crearla. Ma davvero a quel rumore di passi
tremavo di paura e già quell’alito forte
m’agitava le bende ai capelli. E sfinita gridai:
“Sono perduta, o Diana, soccorri la tua Aretusa
a cui affidasti sovente e l’arco e la faretra
con le frecce.” Ebbe pietà la dea e in una densa nube
mi chiuse. E il fiume, girando per la vana nebbia
che mi copriva, cercò dentro la nube; e due volte,
ignaro, passò dal luogo dove la dea m’avvolse,
e due volte chiamò a gran voce: “Aretusa! Aretusa!”
Che cuore io avevo, o infelice! Non era d’agnello
quando sente i lupi fremere intorno all’ovile,
o di lepre nascosta nella macchia, se scorge
il muso nemico dei cani e non osa un piccolo moto?
Ma là rimase Alfeo perché non vide più oltre
un’orma del mio piede, e fissava la nube.
E gelido sudore intanto copre le mie membra,
e da tutto il mio corpo stiuano cellule gocce,
e dovunque io vada, ecco uno scorrere d’acqua,
e dai capelli scende rugiada; e in breve tempo,
più breve di quello che occorre per narrare,
Alfeo ritorna fiume per unirsi alle mie acque.
E Diana apri la terra, ed io, profonda, per oscure
grotte vengo in Ortigia, che al mio nome divino
fu grata, portandomi alla luce del cielo.»
E qui tacque Aretusa. Aggioga Cerere allora
due serpi al suo carro e col morso ne frena la bocca
e viene levata per l’aria fra il cielo e la terra.
E subito verso Tritonia guida il carro leggero,
e là lo consegna a Trittòlemo; e impone che parte
dei semi già avuti si sparga su vergine terra
e parte in quella arata dopo lungo riposo.
Sopra le terre d’Asia e d’Europa era passato
altissimo il giovane in volo e calava nella Scizia,
dove Linco era re. Trittòlemo entrò nella reggia,
e Linco gli chiese di dove veniva, e perché, a quelle rive,
e il nome e la sua patria. E il giovane rispose-
«La mia patria è Atene, il mio nome è Trittòlemo.
Non giunsi qui su nave, né a piedi sulla terra;
l’aria mi apri la strada. Porto i doni di Cerere,
che, sparsi per i campi, daranno messi feconde
e il dolce nutrimento.» Nasce invidia al barbaro
e pensa di fare egli stesso quel dono cosi grande,
ed accoglie Trittòlemo. E quando l’ospite dorme,
l’assale con la spada e tenta di colpirlo al petto.
Ma lo muta Cerere in linee e ordina a Trittòlemo
di guidare per l’aria i sacri serpenti aggiogati.
CYPARISSUS
LIBRO X – VV. 86-140
Nella di stesa piana priva d’ombra,
sulla cima d’un colle verde d’erba tenera,
giunse Orfeo, e toccò le corde della cetra:
e subito d’intorno nacque l’ombra. E apparve la quercia
e l’albero delle Eliadi, e l’ischio dalle alte fronde,
il tiglio delicato, il faggio, il vergine lauro,
il fragile nocciòlo, il frassino utile per l’aste,
l’abete senza nodi, il leccio curvato dalle ghiande,
il platano felice, l’acero di vari colori,
il salice che vive lungo i fiumi e il loto delle acque,
il bosso sempre verde e l’umile tamerice,
il mìrto di due colori e il viburno dalle bacche cerule.
Veniste anche voi, edere dai prensili piedi flessuosi,
con la vite densa di foglie e l’olmo avvolto di tralci
e gli orni e le picce e gli àlbatri colmi di rossi pomi
e la lenta palma, premio al vincitore,
e il pino con l’aspra chioma raccolta in cima,
caro alla madre degli dèi, anche se Ati
lasciò per Cibele la sua natura d’uomo
e s’indurí in quel tronco. E fra quegli alberi
apparve anche il cipresso, simile alle mete,
albero ora, ma fanciullo un tempo diletto
al dio che piega le corde dell’arco e della cetra.
Viveva un cervo meraviglioso, sacro alle ninfe
delle terre di Cartaia. Ramose e aperte,
fitta ombra spargevano le corna sul suo capo:
e splendevano d’oro. E dal liscio collo,
giù sugli òmeri pendevano collane di gemme.
Dal giorno della nascita, legato con tenui fili,
un piccolo globo d’argento oscillava sulla fronte,
lucevano perle alle orecchie, intorno alle tempie.
Senza timore, vinta la timidezza naturale,
entrava nelle case e abbandonava il collo
alle carezze di mani anche ignote.
Ma più era caro a te, Cyparissus,
il più bello fra gli uomini di Ceo. Tu lo guidavi
ai giovani pascoli e alle acque di chiara sorgente:
tu gli intrecciavi fiori di vari colori tra le corna,
e talvolta, lieto cavaliere, andavi qua e là
sul suo dorso e frenavi la sua bocca mansueta
con briglie purpurce. Ma un meriggio d’estate,
quando la calura ardo le curve braccia del Cancro,
il cervo riposava stanco sull’erba del prato
al fresco d’ombra che stendeva un albero;
e Cyparissus ignaro lo trafisse con un dardo.
E come vide che moriva per il colpo crudele,
invocò subito la morte. Quante parole di conforto
gli rivolse Febo dicendo che non valeva dolore
quella perdita lieve: ma, nel continuo lamento,
egli chiede agli dèi, quale dono supremo,
di lasciarlo sempre nel pianto. E senza fine pianse
tutto il suo sangue, e le membra presero a inverdire,
e i capelli, prima fluenti sulla fronte bianchissima,
divennero ruvide fronde, e già dure
volsero l’esile cima verso il cielo stellato.
GALATEA, ACIS, POLIPHEMUS
LIBRO XIII – VV 737-897
L’inquieta Cariddi infuria sulla riva d’occidente,
Scilla sull’opposta riva. L’una attira e divora
le navi e le ributta, l’altra cinge di cani feroci
il fosco ventre; ed ha l’aspetto di vergine:
a credere agli oracoli, forse fu vergine un tempo.
Molti chiedono invano Scilla come sposa,
e lei cara alle ninfe del mare,
a questo narra gli amori dei giovani delusi.
Un giorno Calatea, porgendole al pettine i capelli,
così parlò a Scilla fra un sospiro e l’altro:
«Almeno tu, o vergine, susciti amore fra la dura razza
degli uomini, e, come fai, senza timore
ti puoi anche negare. Ma io, figlia di Nèreo
e dell’azzurra Doride, con infinite sorelle
che mi stanno a fianco, solo con pianto
ho potuto sfuggire all’amore del Ciclope.»
Qui le lacrime le chiusero la voce.
Allora la vergine le asciugava gli occhi
col suo candido pollice e, consolandola, diceva:
«Parla, o diletta, non nascondermi il dolore
che ti tormenta: tu sai che ti sono fedele.»
E così rispondeva la ninfa alla figlia di Crateide:
«Aci, nato da Fauno e dalla ninfa del Simeto,
era la grande gioia del padre e della madre,
ma più la mia, perché solo con me s’era congiunto.
Bello, di sedici anni, una lieve lanugine
copriva le sue tenere guance. Ed io l’amavo;
ma con ardore cercava me il Ciclope.
Non dirò, se lo chiedi, che l’amore per Aci
fu più dell’odio che portavo all’altro: fu uguale.
Potente il tuo dominio, o Venere benefica!
Anche il Ciclope, terrore delle selve,
che mai ospite lasciò senza una pena,
che non cura gli dèi e il vasto Olimpo,
provò che cosa fosse amore, e, avido di me,
dimenticò il gregge e le spelonche.
E ora ti fai bello, o Polifemo, vuoi piacere,
e col rastrello pettini i ruvidi capelli,
e l’ispida barba ami tagliare con la falce,
e ti specchi nell’acqua per fare lieto il volto.
Non hai più brama di stragi, non sei più selvatico,
quieta è la sete mai sazia di sangue,
le navi arrivano e partono sicure.
Intanto Télemo, giunto sull’Etna dei Siculi
(Télemo Eurúnide, che dal volo degli uccelli
fa giusto presagio), andò dal tremendo Polifemo
e gli disse: “Quell’occhio che hai sulla fronte
ti sarà tolto da Ulisse”. Rise Polifemo,
e rispose: “T’inganni, o stupido indovino;
già un’altra mi tolse l’occhio”. E cosi sdegnava
chi invano prediceva il vero. E camnmnando
o affondava sul lido il passo pesante
o stanco tornava nella cupa spelonca.
Sporge nel mare, in forma di cuneo, un alto
acuto colle che l’acqua bagna ai lati.
E qui sale il feroce Ciclope e si ferma
sulla vetta; e il gregge lanoso lo segue
senza guida. E lasciato il tronco di pino
(era il suo bastone, e poteva essere un’antenna),
e presa la zampogna a cento piccole canne
udirono sui monti e le acque arie pastorali.
Io, nascosta da una rupe, avvinta ad Aci,
queste parole, ricordo, udii da lontano:
“O Galatea, tu sei bianca più della foglia
di neve del ligustro, piú fiorente dei prati, snella
più dell’ontano, splendente più del cristallo, più lasciva
del tenero capretto, più liscia delle conchiglie
levigate dal moto assiduo del mare, più cara
del sole d’inverno e dell’ombra d’estate,
più eccellente dei pomi, più viva agli occhi
dell’alto platano, più nitida del ghiaccio,
più dolce dell’uva matura, morbida più delle piume
del cigno e del latte rappreso, e, se tu non mi fuggi,
magnifica più dell’orto irrigato. Tu, Galatea,
sei più selvatica dei tori non domati, più dura
antica quercia, più volubile delle onde,
flessibile più dei ramoscelli del salice
e della vitalba, più ferma di questi scogli,
più violenta d’un fiume, più superba del pavone,
più impetuosa del fuoco, più pungente delle spine,
più tremenda d’un’orsa che ha i piccoli nati,
piú sorda del mare, più furiosa d’una serpe pestata,
e, questo almeno a te potessi togliere,
tu fuggi non solo più del cervo inseguito
dai secchi latrati, ma più del vento e dell’aria leggera.
Ti pentiresti, conoscendomi, d’avermi fuggito:
che rimpianto allora del tempo perduto, e che ansia
di tenermi! Mia è una parte del monte,
mie numerose spelonche scavate nella pietra viva,
dove non soffri il sole nel mezzo dell’estate,
né l’inverno. Là sono frutti che curvano i rami,
e nei lunghi filari pende l’uva simile all’oro
e quella purpure a: l’una e l’altra io serbo per te.
Tu coglierai con le tue mani le tenere fragole
nate all’ombra delle Belve, e le còrníole autunnali
e le prugne: non solo quelle livide per il succo viola,
ma anche quelle più buone, colore della cera vergine.
Se mi vorrai come sposo avrai sempre castagne
e mele selvatiche, e ogni albero per te darà il suo frutto.
Tutte le pecore che vedi sono mie: e molte vagano per le valli,
molte per il bosco, molte sono chiuse negli antri;
né, se lo chiedi, saprei il loro numero.
i poveri contano le pecore. Se ne dicessi le lodi,
non mi crederesti: tu stessa potrai vedere
come camminano a stento con le poppe gonfie
tra le gambe. Negli ovili stanno i teneri figli
degli agnelli, al riparo dal freddo, e i capretti
d’uguale età. Ho sempre latte fresco: parte
lo tengo per bere, parte lo faccio indurire
con caglio disciolto. Non avrai solo facili svaghi
e doni comuni, come daini, lepri, capre, o due colombe
o un nido d’uccelli tolto dalla cima d’un albero.
lo trovato sui monti due gemelli d’un’orsa
ho possono giocare con te, e tanto gli orsacchiotti
sono simili tra loro che appena potresti distinguerli;
quando li trovai, io dissi: “Li terrò per la mia donna.
Solleva, dunque, il capo splendente dall’onde celesti,
vieni, o Galatea, e accogli i miei doni.
Certo mi conosco, e poco fa io vidi la mia immagine
nell’acqua limpida, e mi piacque il mio aspetto.
guarda come son grande. Nemmeno Giove, nel cielo
(voi dite sempre che là regni non so quale Giove)
ha un corpo maggiore del mio; una densa chioma
scende sulla mia fronte scura, e fa ombra alle spalle
come un bosco. Ma non devi credere orrido il mio corpo
perché ispido di peli. brutto è l’albero privo di fronde,
brutto il cavallo senza il velo d’una bionda criniera
sul collo; gli uccelli sono coperti di piume,
la lana adorna le pecore, la barba e i peli ruvidi
fanno bello il corpo dell’uomo. lo ho un solo occhio
in mezzo alla fronte, ma simile a un ampio scudo.
Che dico? Non vede il sole dal cielo immenso
tutte le cose della terra? Ed anche il sole
ha un solo occhio. Mio padre, poi, è il re del mare:
e sarà padre del tuo sposo. Solo abbi pietà di me
e accogli le preghiere di chi ti supplica:
a te sola io cedo. lo che disprezzo Giove, il cielo
e il fulmine che tutto penetra, a te, figlia di Nèreo,
mi piego: la tua ira è più acuta del fulmine.
Sopporterei il disprezzo se tu fuggissi tutti;
ma perché mi rifiuti e porti amore ad Aci,
e preferisci Aci a Polifemo? Piace a se stesso, e sia;
ma che piaccia a te pure, questo non vorrei,
Galatea. Ma se lo prendo, sentirà quale forza
è chiusa nel mio corpo. Vive gli strapperò le viscere,
e le membra a brani spargerò per i campi
e per il tuo mare (così Aci si unisca a te).
Ardo, ma più ribolle il sangue per l’offesa,
e mi pare d’avere l’Etna nel petto
con le sue forze; e tu, Galatea, non ti commuovi?”
E dopo questo vano lamento (io vedevo ogni cosa)
il Ciclope vi alza, e come toro furioso
che perduta la giovenea non può stare fermo
e va per le selve e i monti che conosce,
quando mi scorse con Aci, gridò: “Vi vedo,
ma questo è l’ultimo abbraccio d’amore.”
Ed era la sua voce quella d’un Ciclope
preso dall’ira; e l’Etna tremò a quell’urlo.
Allora, spaurita, m’immersi nel mare vicino,
e in fuga volse le spalle il giovane Aci, gridando:
aiuto, Galatea, ti prego, aiuto, o padre, o madre,
nel vostro regno accogliete il figlio prossimo alla morte.”
E il Ciclope l’insegue, e staccato un pezzo di monte
lo lancia sul fuggiasco. Solo un estremo
della rupe lo colse, ma fu per lui la morte.
e perché Aci riprendesse la forza dell’avo,
feci quello che potevo ottenere dal fato.
Dalla rupe scorreva sangue vivo, ma, ecco, quel rosso
comincia a svanire, come colore di fiume
che torbido di pioggia schiarisce a poco a poco.
Poi la pietra si spacca, e dalle crepe escono tenere
canne, e il cavo più profondo risuona d’acque in moto.
E d’improvviso esce di là, fino alla cintola
(o mirabile cosa), un giovane con le corna
che spuntano appena cinte di molli canne.
E somigliava ad Aci, ma più alto e col viso ceruleo.
Ma anche cosi, mutato in fiume, Aci rimase com’era,
e ora il fiume ha il nome ch’era una volta di Aci. »
…Un saggio critico:
Unità e valore della poesia di Salvatore Quasimodo di Antonio Magliulo
Affermare che Salvatore Quasimodo (1901 – 1968) è da considerarsi fra i “sommi” della poesia contemporanea potrebbe sembrare superfluo, tenuto conto dei prestigiosi riconoscimenti da lui ottenuti nel corso della sua carriera e dell’importanza che l’artista occupa tuttora nel panorama letterario europeo. Eppure, talvolta, nel confronto sempre aperto fra i protagonisti italiani del Novecento, egli sembra leggermente offuscato da nomi di eminenti colleghi, come, ad esempio, Montale e Ungaretti. Ciò, in verità, capita per diversi motivi, così riassumibili:
-la tendenza a considerare il poeta modicano come un allievo, un epigone dell’Ermetismo.
È opinione di molti, infatti, che l’accostamento di Quasimodo ad Ungaretti e Montale sarebbe arbitrario, frutto cioè di un’esemplificazione, di uno schematismo scolastico, sia per il divario anagrafico esistente tra loro, sia per la tardiva adesione dell’artista siciliano alla nuova poesia.
-l’accentuarsi della divaricazione fra letterati e pubblico, prodottasi a partire dagli anni Trenta/Quaranta.
È pur vero che, col palesarsi della poesia ermetica, il linguaggio si impreziosisce, assume significati indecifrabili, allontanandosi ulteriormente dalla massa e isolando ancor più gli autori in un mondo sui generis, aristocratico ed elitario. In effetti, Quasimodo si trova ad operare nella fase più acuta di tale divaricazione e ne diviene, incolpevolmente, uno dei maggiori “imputati”.
-l’abitudine a tenere ancora separate e indipendenti le produzioni quasimodiane, quella anteriore e posteriore alla guerra.
Secondo alcuni (e questo è l’equivoco maggiore da chiarire) la produzione giovanile di Quasimodo mostrerebbe i “limiti” di un evidente ancoraggio alla poetica decadentista e ai suoi stilemi estetizzanti, mentre soltanto l’altra, quella più recente, per la sua forma esplicita e un aperto impegno civile, meriterebbe il riconoscimento che ha.
Effettivamente, in Acque e terre la prima raccolta di Quasimodo, che risale al 1930, non è difficile cogliere delle assonanze con la lirica pascoliana e dannunziana. I versi, sorretti da un’evidente impronta classica e da un “apparato” implicito e sottilmente allusivo (proprio della tendenza poetica del tempo) rappresentano una felice sintesi tra forme vecchie e nuove. Essi rivelano, per altro, la disposizione del poeta a trasfigurare persone, avvenimenti e luoghi lontani, sicché ogni cosa sembra sospesa in una singolare dimensione della memoria, che può essere facilmente confusa con la nostalgia personale. Ma questo modo di comporre, più che da vagheggiamenti meramente intimistici, deriva dalla constatazione del passare del tempo (e della “corrosione” che ciò produce negli uomini) e diviene perciò un dato obiettivo, realistico, che travalica i confini dell’esperienza privata.
Pure la successiva adesione di Quasimodo all’ermetismo [Oboe sommerso (1932) ed Erato e Apollion (1936)] è stata oggetto talvolta di rilievo critico. In ciò si è voluto ravvisare una sorta di operazione mimetica, un adeguamento linguistico esteriore, privo di una partecipazione autentica e convinta, funzionale soltanto alle suggestioni dell’epoca, che com’è noto era dominata dall’esigenza di una poesia essenziale, depurata dalle scorie del manierismo e della retorica nazionalistica. Secondo questa interpretazione, la produzione ermetica di Quasimodo parrebbe ridursi o a puro esercizio accademico o a desiderio di superare i grandi maestri, quali erano appunto Montale ed Ungaretti. A guardar bene, si tratta invece di un periodo di studio, di transizione, in cui l’artista ricerca una nuova fisionomia per la sua poesia, secondando così un naturale processo creativo, per cui un autore può volgersi al nuovo, soltanto dopo aver elaborato l’antico.
Il travaglio creativo è però definitivamente superato, non tanto nelle Nuove poesie (1936- 42) che segnano un felice ritorno ad una lirica accorata e sincera, quanto nelle opere Giorno dopo giorno (1947) e La vita non è sogno (1949) che vengono editate nel dopoguerra ed in cui appaiono, inequivocabili, le tracce di un mutamento formale e contenutistico: la cruda realtà del conflitto ha segnato profondamente il poeta e nei suoi versi trovano ora posto le sofferenze e le speranze dei popoli. A questo periodo appartengono componimenti di esemplare nitore stilistico e di elevato contenuto sociale, come Alle fronde dei salici e Uomo del mio tempo. Da tale “svolta” nasce il cantore della solidarietà umana e dell’impegno civile. Dalla sua manifesta adesione alla vita concreta e dall’aperto schierarsi contro i mali del mondo, Quasimodo trae il suo maggior consenso.
Ma sarebbe un errore limitare il suo valore artistico alla produzione più matura, relativizzando quella precedente e ponendo entrambe in un inconciliabile dicotomia. Ad esaminare attentamente i temi svolti nelle prime raccolte, viene fuori un poeta sensibile, “a tutto tondo”, che si strugge per la propria terra natia, non tanto perché essa è fisicamente lontana, ma perché viene avvertita come Eden o paradiso perduto. Nelle Nuove Poesie, grazie anche ad una forma più distesa ed intelligibile, si capisce perfettamente che l’autore non allude ad un luogo suo esclusivo, ma ad una dimensione comune, a un “approdo” per tutti coloro che, oppressi da una realtà dura ed ostile, ambiscono a ritrovare l’equilibrio interiore e la quiete dell’anima. Ne deriva che la Sicilia cantata dal poeta non è quella reale, ma quella mitica, tutt’uno con la sfolgorante luce dell’antica isola greca, dove le visioni erano certamente più rassicuranti di quelle del presente.
L’autore considera l’uomo un essere imperfetto, un angelo caduto, e perciò vede la generosa sua terra del passato non tanto come entità geografica, ma come un rifugio dal male, dalla violenza, dall’ingiustizia e dalla stessa solitudine. Per quanto la forma linguistica, oscillante fra classicismo e modernità, possa indurre ad equivoci, nelle Nuove poesie, Quasimodo precorre temi che svilupperà più compiutamente in seguito, nella raccolta: Giorno dopo giorno. Ecco, perché, anche in questa fase del suo itinerario compositivo, egli va considerato pensoso ed impegnato testimone della realtà.
Nemmeno dovrebbe lasciar dubbi sulla portata del suo contributo artistico la parentesi ermetica, che alcuni si affannano a definire “epidermica” e che lui stesso, a un certo punto, sembrò ripudiare. C’è, invece, in quei versi l’impronta dell’universalità, la stimmata dell’autentica arte, un’arte pura e genuina, qual era appunto il fine della nuova poesia. Basti l’esempio della celeberrima: Ed è subito sera (“Ognuno sta solo sul cuor della terra/ trafitto da un raggio di sole/ ed e’ subito sera“) breve quanto un epigramma greco, ma efficace come soltanto la grande poesia sa essere.
Non è una malinconia fine a se stessa, ovvero quella del poeta tardo-decadente o crepuscolare, né è l’intimo sfogo di un uomo inerte, che gioca ad autocommiserarsi. È invece un disperato richiamo alla solidarietà, alla comunione fra gli uomini (mai così necessaria) e compendia perciò, in un’originale e straordinaria sintesi lirica, le istanze più sentite di un intero secolo e le voci soavi di mille cantori.
È considerata una delle prime poetesse che introdussero l’uso del verso libero nella rigida struttura poetica araba.
Nazik al-Mala’ika nacque a Baghdad nel 1922 da genitori entrambi poeti, prima di sette figli. Il padre, insegnante, fu anche editore di un’enciclopedia in 20 volumi; la madre aveva scritto poesie contro la dominazione britannica. Sin da piccola mise in mostra la sua propensione all’arte poetica componendo la sua prima poesia in arabo classico all’età di soli 10 anni.
Frequentò il College universitario di Baghdad, laureandosi in letteratura nel 1944, avendo studiato anche musica. Mentre era ancora al college, pubblicò alcune poesie su giornali e riviste. La sua prima raccolta di poesie, Āshiqat al-laylā (L’amante della notte), è pubblicata nel 1947.
Grazie alla sua buona conoscenza della lingua inglese vinse una borsa di studio presso l’università di Princeton nel New Jersey. Nel 1954 proseguì i suoi studi nel Wisconsin dove conseguì il master in Letterature Comparate, ottenendo poco dopo una cattedra universitaria di letteratura.
Nel 1961 sposò ‘Abd al-Hadi Mahbuba, suo collega nella sezione di lingua araba presso il College di Baghdad. Con il marito contribuì a fondare l’Università di Basra, nel sud dell’Iraq. Molte delle sue opere sono state pubblicate a Beirut, in Libano, dove si trasferì alla fine del 1950.
Nel 1970 lasciò il suo paese in compagnia del marito e visse in Kuwait fino a che nel 1990Saddam Hussein invase il paese. Dopo il 1990 si trasferì al Cairo, dove trascorse il resto della sua vita.
Morì nel 2007, all’età di 85 anni a causa di una serie di problemi di salute tra i quali la malattia di Parkinson.
Il Colera
Nell’orrida cripta putridi resti:
nel silenzio perenne e spietato,
dove la morte è un balsamo,
si è risvegliato il colera.
Astioso si aggira con rabbia,
cerca la lieta valle luminosa,
urla come un pazzo convulso
senza riguardo per chi piange.
Ovunque il segno dei suoi artigli:
nella capanna o la casa contadina
soltanto si odono grida di morte,
di morte di morte di morte.
Ecco che la morte infierisce
per mezzo del colera spietato
e nel silenzio amaro si ode
solo un sottofondo di preghiera.
Anche il becchino si arresta
senza più nemmeno un aiuto;
è morto anche il muezzìn:
chi pregherà per i morti?
Inesausto resta un sospiro
e il pianto infante dell’orfano,
ma domani anche lui – è sicuro –
ghermirà il morbo ferino.
O spettro perenne del colera,
triste desolazione di morte,
di morte di morte di morte.
IL CONVITATO ASSENTE
Già trascorsa la sera
volge la luna al tramonto
ed eccoci a contare
le ore di un’altra notte,guardando la luna
scivolare nell’abisso
e con lei l’allegria
senza che tu sia venuto
perso con le mie speranze,
fissando la tua sedia vuota
in compagnia della tristezza
dopo aver chiesto invocato
in silenzio la tua venuta.
Mai avrei immaginato
dopo tutti questi anni
la tua ombra ancora
in grado di sovrastare
ogni pensiero ogni parola,
ogni passo ogni sguardo,
né potevo sapere che tu
saresti stato più forte
di ogni altra presenza
e che l’unico assente
fra tutti i convitati
eclissasse ogni altro
in un mare di nostalgia.
Certo se tu fossi venutoci saremmo intrattenuti
a conversare con gli amici
finché fossero partiti
e allora anche tu forse
saresti parso come gli altri,ma la sera è già passata
e il mio sguardo gridando
interrogava ogni sedia vuota
cercando fra gli astanti
sino alla fine della sera
l’unico che non è venuto.
Che tu arrivi un giorno
ormai non lo desidero:dai miei ricordi all’istante
svanirebbero il profumo
e i colori di quest’assenza,rotta l’ala alla fantasia
languirebbero le mie canzoni.
Stringendo le dita
intorno ai frantumi
dell’ingenua mia speranza
ho scoperto di amarti
nelle sembianze del sogno,e se anche tu fossi qui
adesso in carne ed ossa
io seguiterei a sognare
quell’invitato assente.
Traduzione di Pino Blasone
IO
la notte mi chiede chi sono
sono il segreto della profonda nera insonnia
sono il suo silenzio ribelle
ho mascherato l’anima di questo silenzio
ho avvolto il cuore di dubbi
immota qui
porgo l’orecchio
e i secoli mi chiedono
chi sono
E il vento chiede chi sono
sono la sua anima inquieta rinnegata dal tempo
come lui sono in nessun luogo
continuiamo a camminare e non c’è fine
continuiamo a passare e non c’è posa
giunti al baratro
lo crediamo il termine della pena
e quello è invece l’infinito
Il destino chiede chi sono
potente come lui piego le epoche
e ridòno loro la vita
creo il passato più remoto
dall’incanto di una vibrante speranza
e lo sotterro ancora
per forgiarmi un nuovo ieri
di un un domani gelido
Il sé chiede chi sono
come lui vago, gli occhi fissi nel buio
nulla che mi doni la pace
resto ancora e chiedo, e la risposta
resta nascosta dietro il miraggio
ancora lo credo vicino
al mio raggiungerlo tramonta
dissolto, dispare
INVITO ALLA VITA
Arrabbiati, ti amo arrabbiato e ribelle,
rivoluzione cocente, esplosione.
Ho odiato il fuoco che dorme in te, sii di brace
diventa una vena appassionata, che grida e s’infuria.
Arrabbiati, il tuo spirito non vuole morire
non essere silenzio innanzi al quale scateno la mia tempesta.
La cenere degli altri mi è sufficiente,
tu, invece, sii di brace.
Diventa fuoco ispiratore delle mie poesie.
Arrabbiati, abbandona la dolcezza, non amo ciò che è dolce
il fuoco è il mio patto, non l’inerzia o la tregua con il tempo
non riesco più ad accettare la serietà
e i suoi toni gravi e tranquilli.
Ribellati al silenzio umiliante
non amo la dolcezza ti amo pulsante e vivo
come un bambino come una tempesta,
come il destino assetato di gloria suprema, nessun profumo
può alterare le tue visioni, nessuna rosa…
La pazienza? È la virtù dei morti.
Nel gelo dei cimiteri, sotto l’egida dei versi
si sono addormentati e abbiamo dato calore alla vita
un calore esaltato, passione degli occhi e delle gote.
Non ti amo oratore, ma poeta
il cui inno esprime ansia
tu canti, sebbene alterato,
anche se la tua gola sanguina
e se la tua vena brucia.
Ti amo boato dell’uragano nel vasto orizzonte
bocca tentata dalla fiamma,
disprezzando la grandine
dove giacciono desiderio e nostalgia.
Odio le persone immobili
aggrotta le sopracciglia,
mi annoi quando ridi
le colline sono fredde o calde,
la primavera non è eterna
il genio, mio caro amico, è cupo
e i ridenti sono escrescenze della vita
amo in te la sete eruttiva del vulcano
l’aspirazione della notte profonda
a incontrare il giorno
il desiderio della sorgente generosa
di stringere le otri
ti voglio fiume di fuoco,
la cui onda non conosce fondo.
Arrabbiati contro la morte maledetta
non sopporto più i morti.
ORAZIONE FUNEBRE PER UNA DONNA INSIGNIFICANTE
Ci ha lasciati senza un pallore di gota o un fremito di labbrale porte non hanno sentito nessuno narrare della sua morte nessuna tenda alle finestre stillante doloresi è levata per seguire il suo feretro sino a che non scompaia dalla vistaa eccezione delle poche persone che si sono commosse al suo ricordo.La notizia si è dissolta nei vicoli senza che il suo eco si diffondessee si è rifugiata nell’oblio di alcune fossela luna ha pianto questa tragedia.
La notte non se n’è curata e si è trasformata in giornoQuindi è giunta la luce con le grida del lattaio, il digiuno,il miagolio di un gatto affamato tutto pelle ed ossa,le liti dei commercianti, l’amarezza, la lotta,i bambini che lanciano pietre da un lato all’altro della strada,le acque sporche nei canali e i venti che giocano da soli con le porte delle terrazzein un oblio pressoché totale.
Traduzioni di Valentina Colombo
UN INVITO A SOGNARE
Suvvia … sogniamo, che la dolce notte si avvicina
e il buio tenero, le guance delle stelle ci chiamano
vieni … andiamo a cercare sogni, a contare fili di luce
e rendiamo il declivio della sabbia testimone del nostro amore
Cammineremo insieme sul petto della nostra isola insonne
e lasceremo sulla sabbia le orme dei nostri passi randagi
e verrà il mattino a gettare le fresche rugiade
e magari spunterà, dove abbiamo sognato, un fiore
Sogneremo di salire verso le montagne della luna
a dilettarci lì dove non c’è fine e non c’è nessuno
lontani … lontani, dove il ricordo
non potrà raggiungerci, poiché saremo al di là della ragione
Sogneremo di tornare fanciulli, noi due , sopra le colline
correremo, innocenti, sulle rocce e pascoleremo i cammelli
vagabondi senza dimora se non la capanna dell’immaginazione
e quando dormiremo ci inzacchereremo di sabbia
Sogneremo di camminare verso l’ieri e non nel domani
e di arrivare a Babilonia in un’alba fresca
porteremo al tempio, come due innamorati, il patto d’amore
e ci benedirà un sacerdote babilonese con mano pura
COMPIANTO DI UN GIORNO VACUO
Nel lontano orizzonte si intravide il buio
finì il giorno estraneo
e i suoi echi si voltarono verso le caverne dei ricordi
e come era la mia vita così sarà anche domani
un labbro assetato e un bicchiere
la cui profondità rispecchia il colore di un odore
e semmai lo sfiorassero le mie labbra
non troverebbero i resti del sapore dei ricordi
non troverebbero nemmeno i resti
finì il giorno estraneo
finì e perfino i peccati singhiozzarono
e piansero anche le sciocchezze che io chiamai
ricordi
finì e non rimase nella mia mano
se non il ricordo d’una melodia che gridava nell’interiorità del mio essere
compiangendo la mia mano da cui svuotai
la mia vita, i miei ricordi lontani, e un giorno della mia giovinezza
tutto si perse nella valle dei miraggi
nella nebbia
era un giorno della mia vita
lo gettai perso senza agitazione
sui resti della mia giovinezza
presso il colle dei ricordi
sopra le migliaia di ore perse nella nebbia
nei labirinti di notti lontane
fu un giorno vacuo. Fu strano
che le ore pigre suonassero e calcolassero i miei momenti
non era un giorno della mia vita
era piuttosto un’indagine orrenda
del resto dei maledetti ricordi che strappai
insieme al bicchiere che ruppi
presso la tomba della mia speranza morta, dietro gli anni
dietro il mio essere
fu un giorno vacuo .. fino all’arrivo della sera
le ore passarono in uno stato di semipianto
tutte quante fino a sera
quando la sua voce svegliò il mio udito
la sua dolce voce che persi
quando la tenebra cinse l’orribile orizzonte
e si cancellarono i resti del mio dolore, e anche i miei peccati
e si cancellò la voce di Habibi la mano del tramonto portò via i suoi echi
in un posto nascosto agli occhi del cuore
sparì e non rimase nulla se non il ricordo e il mio amore
e l’eco di un giorno estraneo
come il mio pallore
e fu vano supplicarlo di ridarmi indietro la voce di Habibi
Traduzione di Gassid Mohammed
CINQUE CANTI AL DOLORE
1
Dispensa alle notti tristezza e smania
Ci versa negli occhi calici d’insonnia
Sulla nostra via l’abbiam trovato
Un mattino d’abbondante pioggia
Gli abbiam dato dell’amore
Un cenno di pietà e un angolo remoto
Pulsante ormai nel nostro cuore
**
Non ci ha più lasciati nè si è allontanato
Una volta mai dal nostro cammino
Ci segue lungo tutta l’esistenza
Ah non gli avessimo dato da bere nemmeno una goccia
Quel triste mattino
Dispensa alle notti tristezza e smania
Ci versa negli occhi calici d’insonnia.
2
Da dove ci viene il dolore?
Da dove viene?Ha stretto i nostri sogni col passato
Nutrito le nostre rime
Ieri lo abbiam trascinato nelle acque in profondità
Frantumato e disperso nei flutti del lago
Di lui non abbiam serbato alcuna traccia
Convinti d’esser tornati salvi dalla sua malvagità
Mai più tristezza scagliata sui nostri sorrisi
Mai pù singulti celati forti dietro i nostri canti
**
Abbiam rievuto poi rosa rossa aulente
Ce l’hanno inviata d’oltre mare i nostri amati
Che ci aspettavamo? Gioia e lieto appagamento?
Pur si è disvelata e ha fatto scorrer lacrime assetate d’ardore
Bagnando le nostre dita tristemente intonate
Noi ti amiamo oh dolore
**
Da dove ci viene il dolore?
Da dove viene?
Ha stretto i nostri sogni col passato
Nutrito le nostre rime
Poiché siam per lui sete e bocca riarsa
Che lo mantiene in vita e ci disseta.
3
Non possiamo vincere il dolore?
Rimandarlo al giorno dopo? O un mattino
Tenerlo occupato? Distrarlo con un gioco? Un canto?
Una antica filastrocca andata?
**
Chi sarà mai questo dolore
Un tenero fanciullo dagli occhi curiosi
Acquietato da un tocco affettuoso
E messo a dormire col sorriso e una cantilena
**
Oh chi ci ha offerto le lacrime e il rimpianto?
Chi se non lui non ha avuto cuore alla nostra tristezza
Per poi venir da noi in lacrime a chiederci di amarlo
Chi se non lui ci ha elargito tormenti col sorriso?
**
Questo piccino…ha assolto chi ha peccato
Nemico amato amico odiato
Colpo di pugnale cui ci chiede offrir la guancia
Senza un rimorso senza alcun dolore
**Fanciullo, abbiam perdonato quella mano e quella bocca
Che negli occhi solchi di lacrime ci scava
E le ferite riapre volta a volta
Sì, da tempo perdonato e l’offesa e la rovina
4
Come dimenticheremo il dolore?
Come lo dimenticheremo?
Chi illuminerà per noi La notte della sua memoria?
Lo berremo lo mangeremo
Seguiremo il vagare dei suoi passi
E se dormiremo, la sua ombra
Sarà l’ultima che vedremo
**
I suoi contorni la prima cosa
Che riconosceremo al mattino
Con noi lo porteremo ovunque
ci porteranno la speranza e le ferite
**
Gli permetteremo di erigere pareti
Fra i nostri aneliti e la luna
Fra la nostra passione e il fresco ruscello
Fra i nostri occhi e i nostro sguardo
**
Gli permetteremo di versare l’afflizione
E negli occhi la tristezza
Lo accoglieremo in una gola inebriata
Fra le pieghe dei nostri canti
**
Alla fine i fiumi se lo porteranno
Gli darà un guanciale il cactus
Scenderà nella valle l’oblio
Oh tristezza buona sera!
**
Dimenticheremo il dolore
Lo dimenticheremo
Poiché con fervore
Lo avremo dissetato
5
Ti abbiamo incoronato divinità nel sonno dell’alba
E sul tuo altare argenteo ci siamo imbrattati la fronte
Oh nostro amore, o dolore
E abbiam bruciato l’incenso con lino e sesamo
Offerto sacrifici, intonato versi
A melodie babilonesi
**
Per te abbiam costruito un tempio
dai muri profumati
E irrorato la terra
con olio e vino schietto
E lacrime brucianti
Per te abbiamo acceso fuochi
con foglie di palma
Stoppie di grano e la nostra angoscia,
lunga la notte
E il labbro silente
**
Abbiamo salmodiato e chiamato e fatto voti
Con datteri di un ‘ebbra Babilonia e pane e vini
E rose liete
Innanzi ai tuoi occhi abbiam pregato,
abbiamo offerto sacrifici
Infilato amare lacrime
In un rosario
**
Oh tu che ci hai concesso
e musica e canti
Oh lacrime che saggezza
ci avete elargito,
oh fonte dei pensieri
Abbondanza e fertilità
Crudele tenerezza, castigo colmo di pietà
Ti abbiam nascosto nei nostri sogni,
in ogni nota
Dei nostri canti desolati
CANTO D’AMORE PER LE PAROLE
Perché abbiamo paura delle parole
quando sono state mani dal palmo rosa
delicate quando ci accarezzano gentilmente le gote
e calici di vino rincuorante
sorseggiato, un’estate, da labbra assetate?
Perché abbiamo paura delle parole
quando tra di loro vi sono parole simili a campane invisibili,
la cui eco preannuncia nelle nostre vite agitate
la venuta di un’epoca di alba incantata,
intrisa d’amore e vita?
Allora perché abbiamo paura delle parole?
Ci siamo assuefatti al silenzio.
Ci siamo paralizzati, temendo che il segreto possa dividere
le nostre labbra.
Abbiamo pensato che nelle parole giaceva un folletto
invisibile,
rannicchiato, nascosto dalle lettere dalle orecchie del tempo.
Abbiamo incatenato le lettere assetate,
vietando loro di diffondere la notte per noi
come un cuscino, gocciolante di musica, sogni,e caldi calici.
Perchè abbiamo paura delle parole?
Tra di loro ne esistono di incredibile dolcezza
le cui lettere
hanno estratto il tepore
della speranza da due labbra,e altre che, esultando di gioia
si sono fatte strada
tra la felicità momentanea di due occhi inebriati.
Parole, poesia, teneramente
hanno accarezzato le nostre gote,
suoni che, assopiti nella loro eco, colorano, una frusciante,
segreta passione, un desiderio segreto.
Perché abbiamo paura delle parole?
Se una volta le loro spine ci hanno ferito,
hanno anche avvolto le loro braccia attorno al nostro collo
e diffuso il loro dolce profumo sui nostri desideri.
Se le loro lettere ci hanno trafitto
e il loro viso si è voltato stizzito
ci hanno anche lasciato un liuto in mano
e domani ci inonderanno di vita.Su, versaci due calici di parole!
Domani ci costruiremo un nido di sogni di parole
in alto, con l’edera che discende dalle sue lettere.
Nutriremo i suoi germogli con la poesia
e innaffieremo i suoi fiori con le parole.
Costruiremo un terrazzo con la timida rosa
con colonne fatte di parole,
e una stanza fresca inondata di ombra,
protetta da parole.
Abbiamo dedicato la nostra vita come una preghiera
Chi pregheremo… se non le parole
È considerata una delle prime poetesse che introdussero l’uso del verso libero nella rigida struttura poetica araba.
Nazik al-Mala’ika nacque a Baghdad nel 1922 da genitori entrambi poeti, prima di sette figli. Il padre, insegnante, fu anche editore di un’enciclopedia in 20 volumi; la madre aveva scritto poesie contro la dominazione britannica. Sin da piccola mise in mostra la sua propensione all’arte poetica componendo la sua prima poesia in arabo classico all’età di soli 10 anni.
Frequentò il College universitario di Baghdad, laureandosi in letteratura nel 1944, avendo studiato anche musica. Mentre era ancora al college, pubblicò alcune poesie su giornali e riviste. La sua prima raccolta di poesie, Āshiqat al-laylā (L’amante della notte), è pubblicata nel 1947.
Grazie alla sua buona conoscenza della lingua inglese vinse una borsa di studio presso l’università di Princeton nel New Jersey. Nel 1954 proseguì i suoi studi nel Wisconsin dove conseguì il master in Letterature Comparate, ottenendo poco dopo una cattedra universitaria di letteratura.
Nel 1961 sposò ‘Abd al-Hadi Mahbuba, suo collega nella sezione di lingua araba presso il College di Baghdad. Con il marito contribuì a fondare l’Università di Basra, nel sud dell’Iraq. Molte delle sue opere sono state pubblicate a Beirut, in Libano, dove si trasferì alla fine del 1950.
Nel 1970 lasciò il suo paese in compagnia del marito e visse in Kuwait fino a che nel 1990Saddam Hussein invase il paese. Dopo il 1990 si trasferì al Cairo, dove trascorse il resto della sua vita.
Morì nel 2007, all’età di 85 anni a causa di una serie di problemi di salute tra i quali la malattia di Parkinson.
Poetica
Sebbene altri poeti prima di lei avessero già tentato il verso libero, è con Nazik al-Mala’ika che il metro della poesia araba viene rivoluzionato secondo un programma ben preciso. Nel 1962 è lei stessa che scrive:
“Il movimento della poesia libera ha avuto origine nel 1947, in Iraq. E dall’Iraq, anzi dal cuore di Baghdad, questo movimento ha strisciato estendendosi fino a sommergere l’intero mondo arabo e poi, a causa dell’estremizzazione di quanti vi hanno aderito, ha rischiato di trascinare via con sé tutte le altre forme della nostra poesia araba. E la prima poesia in versi liberi ad essere pubblicata, è stata la mia poesia intitolata Il colera “. Il colera è una poesia ispirata ad un fatto di cronaca: un’epidemia di colera che attraversò l’Egitto e l’Iraq nel 1947. Un intento coraggioso quindi, tenuto anche conto del suo sesso.
Nel 1949 al-Mala’ika pubblica Schegge e cenere, preceduta da una lunga prefazione sulla teoria della metrica della nuova poesia. L’accettazione nel mondo accademico non fu semplice, ma la poetessa non si lasciò intimidire. La poesia di al-Mala’ika non è comunque priva di metro, anzi fa preciso riferimento a sedici metri della tradizione classica araba, è quindi più corretto parlare di verso libero e non di verso sciolto.
L’attenzione della poetessa al metro è strettamente coniugata al suo amore per la scrittura, per la parola in sé come elemento magico: Domani ci costruiremo un nido di sogno di parole, | in alto, con l’edera che discende dalle sue lettere. | Nutriremo i suoi germogli con la poesia | e innaffieremo i suoi fiori con le parole.
Altra tematica importante è quella della condizione femminile nel mondo arabo. La poetessa scrisse anche alcuni saggi, come Donne fra due estremi: passività e scelta etica, del 1954. In una delle sue più note poesie, Orazione funebre per una donna insignificante, così si esprime: La notizia si è dissolta nei vicoli | senza che il suo eco si diffondesse | e si è rifugiata nell’oblio di alcune fosse | la luna ha pianto questa tragedia.
Bibliografia
The Poetry of Arab Women: A Contemporary Anthology, edited by Nathalie Handal, 2000.
Encyclopedia of World Literature in the 20th Century, by Khalid Al-Maaly, 2000.
Encyclopedia of World Literature in the 20th Century, vol. 3, ed. 3, ed. by Steven R. Serafin, 1999.
‘Nazik al-Mala’ika’s poetry and its critical reception in the West, by Salih J. Altoma, in Arab Studies Quarterly, 1997.
Reflections and Deflections, by S. Ayyad and N. Witherspoon, 1986.
Women of the Fertile Crescent: Modern Poetry By Arab Women, ed. Steven R. Serafin, 1999.
Opere
Opere tradotte in italiano
Non ho peccato abbastanza. Antologia di poetesse arabe contemporanee, a cura di Valentina Colombo, Mondadori 2007.
La rivista «Atelier» ha periodicità trimestrale (marzo, giugno, settembre, dicembre) e si occupa di letteratura contemporanea. Ha due redazioni: una che lavora per la rivista cartacea trimestrale e una che cura il sito Online e i suoi contenuti. Il nome (in origine “laboratorio dove si lavora il legno”) allude a un luogo di confronto e impegno operativo, aperto alla realtà. Si è distinta in questi anni, conquistandosi un posto preminente fra i periodici militanti, per il rigore critico e l’accurato scandaglio delle voci contemporanee. In particolare, si è resa levatrice di una generazione di poeti (si veda, per esempio, la pubblicazione dell’antologia L’Opera comune, la prima antologia dedicata ai poeti nati negli anni Settanta, cui hanno fatto seguito molte pubblicazioni analoghe). Si ricordano anche diversi numeri monografici: un Omaggio alla poesia contemporanea con i poeti italiani delle ultime generazioni (n. 10), gli atti di un convegno che ha radunato “la generazione dei nati negli anni Settanta” (La responsabilità della poesia, n. 24), un omaggio alla poesia europea con testi di poeti giovani e interventi di autori già affermati (Giovane poesia europea, n. 30), un’antologia di racconti di scrittori italiani emergenti (Racconti italiani, n. 38), un numero dedicato al tema “Poesia e conoscenza” (Che ne sanno i poeti?, n. 50).
Direttore responsabile: Giuliano Ladolfi Coordinatore delle redazioni: Luca Ariano
Redazione Online Direttori: Eleonora Rimolo, Giovanni Ibello Caporedattore: Carlo Ragliani Redazione: Mario Famularo, Michele Bordoni, Gerardo Masuccio, Paola Mancinelli, Matteo Pupillo, Antonio Fiori, Giulio Maffii, Giovanna Rosadini, Carlo Ragliani, Daniele Costantini, Francesca Coppola.
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-Le Lettere per la pace in Việt Nam di Hồ Chí Minh –
-Anteo Edizioni-
Recensione del volume Lettere per la pace in Việt Nam (Anteo Edizioni, 2021),una raccolta di lettere scritte dal leader vietnamita Hồ Chí Minh tra il 1946 e il 1969, mentre il Việt Nam si trovava a dover fronteggiare le forze coloniali francesi prima e quelle imperialiste statunitensi poi.Articolo di Giulio Chinappi
La figura di Hồ Chí Minh ha un enorme significato per la storia contemporanea del Việt Nam, difficilmente paragonabile a quella di un qualsiasi personaggio storico italiano occidentale. Il nome di Hồ Chí Minh ha infatti assunto un’importanza tale da poter essere di fatto identificato con il Việt Nam stesso. In “Lettere per la pace in Việt Nam” (Anteo Edizioni, 2021), una raccolta di ottantacinque lettere selezionate da Nguyễn Anh Minh e tradotte in italiano da Sandra Scagliotti e Trần Doãn Trang, abbiamo l’opportunità di ripercorrere l’incessante lotta di Hồ Chí Minh per la liberazione, la riunificazione e la pacificazione della sua patria, in oltre vent’anni nei quali il Việt Nam si è trovato a dover fronteggiare le forze coloniali francesi prima e quelle imperialiste statunitensi poi.
Tuttavia, la lotta di Hồ Chí Minh non ha riguardato solamente il Việt Nam, ma ha rappresentato un punto di riferimento per tutti i popoli del mondo oppressi dal colonialismo e dall’imperialismo delle potenze capitalistiche occidentali: “Il Presidente, combinando la forza del popolo con una peculiare contingenza storica, ha incarnato l’integrazione tra il vero patriottismo e il più fedele e trasparente internazionalismo dei lavoratori e della classe operaia; egli ha sempre pensato che la costruzione di una pace autentica a livello mondiale dovesse necessariamente fondarsi sul principio del rispetto dei diritti fondamentali di tutti i popoli e che, in seno alle relazioni internazionali, eguaglianza e democrazia dovessero costituire la necessaria alternativa alla guerra, per garantire a ogni nazione il diritto di decidere il proprio destino in base ai valori culturali nazionali, nel rispetto delle scelte di sviluppo di ogni Stato e senza alcuna interferenza negli affari interni delle altre nazioni” si legge nella prefazione della casa editrice vietnamita.
La rassegna delle lettere indirizzate ai leader, ai governi, alle assemblee nazionali, a presidenti, politici, militari, prigionieri e ai popoli di tutti i paesi del mondo si apre in un contesto nel quale, terminata la seconda guerra mondiale, la Francia stava tentando di rioccupare militarmente le sue ex colonie asiatiche, sebbene il Vietnam avesse dichiarato la propria indipendenza il 2 settembre 1945.
Nonostante i crimini commessi dai colonialisti francesi – poi reiterati in forme ancora più disumane dagli imperialisti statunitensi – Hồ Chí Minh ha sempre mantenuto la chiara distinzione tra l’operato dei governi e i popoli di quei paesi, come si evince già nella lettera indirizzata ai francesi d’Indocina nel 1946: “Noi non detestiamo il popolo francese. Anzi, ammiriamo questo grande popolo perché è stato il primo a divulgare i concetti di libertà, uguaglianza e fraternità, e perché è un popolo dedito alla cultura, alla scienza e alla civiltà. La nostra battaglia non volge contro il popolo francese, né contro i francesi leali e onesti, ma contro la crudele dominazione del colonialismo francese in Indocina”. Da queste parole di evince anche il retaggio culturale di Hồ Chí Minh, che, come molti leader rivoluzionari vietnamiti, aveva paradossalmente formato la propria coscienza politica grazie agli insegnamenti della scuola coloniale francese che esaltava i valori della rivoluzione del 1789. “Sapete bene che tale dominazione non offre alcun vantaggio alla Francia, né, tantomeno ai cittadini francesi. Tale dominazione arricchisce gli avidi colonialisti, ma infama la Francia” (p. 3).
Hồ Chí Minh manterrà sempre stretti contatti con le forze sociali progressiste in Francia, in particolare con il Partito Comunista Francese (PCF), ritenendo l’azione dello stesso un sostegno fondamentale alla causa vietnamita, come si evince dalla breve lettera inviata al segretario del PCF Maurice Thorez (p. 21). Una lettera molto più consistente è invece quella inviata il 22 settembre 1946 all’Unione delle donne francesi: “Voi, care Signore, amate il vostro paese e desiderate che sia indipendente e unito. Sono sicuro che, per difenderlo, sareste disposte a combattere contro chiunque cercasse di violarne l’indipendenza e l’unità” si legge nel testo. “Anche noi siamo così, amiamo il nostro paese e lo desideriamo indipendente e unito. Potete forse biasimarci perché abbiamo lottato contro coloro che hanno tentato di conquistare la nostra patria e dividere il nostro popolo? I francesi hanno subito il dolore dell’occupazione per quattro anni; quattro anni in cui hanno lottato con la resistenza e la guerriglia. I vietnamiti hanno subito il dolore dell’occupazione per oltre 80 anni, e, a loro volta, hanno lottato con la resistenza e combattuto con la guerriglia. Se i francesi che hanno partecipato alla resistenza sono considerati eroi, perché i guerriglieri vietnamiti dovrebbero essere considerati ladri e assassini?” (p. 22).
In un primo momento, Hồ Chí Minh si rivolge in alcune lettere al presidente statunitense Harry Truman per cercare sostegno nella sua lotta anticolonialista, dopo che lo stesso Truman aveva presentato i “12 punti” della politica estera statunitense, nei quali si indicava il diritto dei popoli all’indipendenza e all’autodeterminazione. Tuttavia, la cosiddetta “dottrina Truman” si rivelò ben presto uno strumento volto unicamente a evitare l’espansione del comunismo nel mondo, e le parole “indipendenza” e “autodeterminazione” solamente uno specchietto per le allodole per coprire le mire imperialiste di Washington.
Nonostante le grandi difficoltà e l’ostilità delle forze imperialiste mondiali, Hồ Chí Minh riaffermerà a più riprese la risolutezza del governo e del popolo vietnamita nella lotta per l’indipendenza e l’autodeterminazione: “Il colonialismo francese intende nuovamente occupare il nostro paese; questo è un fatto oramai chiaro e innegabile. Ora il popolo vietnamita si trova a un bivio: potrebbe arrendersi e piegarsi alla schiavitù oppure continuare a lottare fino alla fine, per riacquistare la libertà e l’indipendenza. No, il popolo vietnamita non si arrenderà! Non permetterà mai più ai francesi di tornare a dominarlo. No! Il popolo vietnamita non tornerà più schiavo. Il popolo vietnamita è disposto a morire piuttosto che rinunciare all’indipendenza e alla libertà” (p. 28). E ancora: “Mentre la Francia è forte materialmente, noi siamo mentalmente determinati alla vittoria e risolutamente decisi nel combattere per la nostra libertà” (p. 33).
A partire dal 1951, l’ostilità degli Stati Uniti nei confronti del Vietnam divenne sempre più evidente. La dottrina Truman aveva portato allo scoppio della guerra di Corea, e Washington covava già il piano di sostituirsi alla Francia come potenza egemone nella regione indocinese, qualora Parigi avesse fallito nel suo intento. “Lei, Presidente, erede di grandi leader come Washington, Lincoln e Roosevelt, parla spesso di pace e giustizia, ma nei Suoi atti concreti verso il Việt Nam, si mostra in totale divergenza da rettitudine e concordia” scrive Hồ Chí Minh in una nuova lettera rivolta a Truman, specificando che costui “ha ordito una cospirazione per trasformare il Sud vietnamita in una base militare, colonia degli Stati Uniti” (p. 62).
In una missiva successiva, il presidente vietnamita aggiunge, rivolgendosi al suo omologo statunitense: “Lei ha affermato che gli Stati Uniti non interferiscono negli affari interni degli altri paesi. Ogni anno, gli Stati Uniti spendono centinaia di milioni di dollari per introdurre spie nei paesi stranieri e concorrono con oltre duemila milioni di dollari ad armare i paesi filoamericani per prepararsi alla guerra: gli Stati Uniti posseggono 250 basi militari in diversi paesi. Non è forse questa un’interferenza?” (p. 64).
Il 7 maggio 1954, i vietnamiti sconfissero i francesi nella storica battaglia di Ðiện Biên Phủ, ponendo fine per sempre alle mire coloniali di Parigi in Asia. In quello stesso momento, gli Stati Uniti divennero il nemico numero uno del Vietnam: “Noi vietnamiti abbiamo versato il nostro sangue per rovesciare il regime coloniale francese; ma poi, l’imperialismo americano, con i suoi dollari e i suoi inganni ha plasmato nel Sud del Việt Nam un feroce governo dittatoriale fantoccio” si legge in una lettera rivolta a John F. Kennedy (p. 65).
In una lettera del 30 aprile 1966 rivolta al senatore statunitense Michael Joseph Mansfield, Hồ Chí Minh chiede retoricamente: “Secondo Lei, quando un gruppo di scellerati criminali venuto da lontano, attacca massicciamente un villaggio di contadini, a chi va la colpa dell’invasione? Agli abitanti del villaggio o ai criminali?” (p. 91). E continua affermando: “Che benefici potrà mai apportare al popolo americano una guerra così illogica? Decine di migliaia di giovani americani muoiono in campi di battaglia lontani da casa, lasciando decine e decine di vedove e orfani. Negli Stati Uniti le tasse stanno diventando più pesanti e il costo della vita aumenta sempre più. L’inflazione si aggrava. L’onore degli Stati Uniti è in gioco. Anche con altre migliaia di bombardieri e decine di migliaia di soldati, l’America è destinata a fallire” (p. 92).
Allo stesso tempo, Hồ Chí Minh curò particolarmente le relazioni con i leader e i partiti degli altri paesi socialisti, come si evince da una serie di lettere di questo tipo: “Noi tutti siamo altresì grati all’Unione Sovietica, alla Cina e agli altri paesi socialisti che hanno sostenuto il popolo vietnamita contro l’invasione imperialista americana, che lo hanno aiutato a proteggere l’indipendenza nazionale, a difendere l’avamposto del blocco socialista nel Sudest asiatico e a contribuire alla tutela della pace nel mondo” leggiamo nella missiva inviata al Partito Socialista Operaio Ungherese in occasione del suo IX Congresso (p. 102).
L’ultimo presidente statunitense con il quale Hồ Chí Minh ebbe a che fare fu Lyndon Johnson, al quale rivolse una dura lettera il 15 febbraio 1967: “Il Việt Nam dista migliaia di chilometri dall’America. Il popolo vietnamita non ha mai nemmeno sfiorato l’America. Ma, contrariamente all’impegno assunto nel 1954, dai suoi rappresentanti alla Conferenza di Ginevra, gli Stati Uniti non hanno mai smesso di intervenire in Việt Nam; con ininterrotte provocazioni e un continuo incremento della guerra d’invasione nel Sud, cercano di dividere in modo permanente il paese e trasformare il Sud in una nuova colonia, base militare statunitense. […] Nella Sua lettera, Presidente, Lei si dice addolorato per la situazione di sofferenza e distruzione in Việt Nam Vorrei porLe una domanda: chi ha causato crimini così atroci? L’esercito americano e le forze dei paesi vassalli dell’America! Questa è la riposta” (p. 107).
Chiudiamo questa nostra breve rassegna con la lettera inviata nel marzo del 1967 al popolo italiano, che certamente, soprattutto grazie all’azione del Partito Comunista Italiano, fu sempre tra i maggiori sostenitori della causa vietnamita: “Il popolo italiano, con entusiasmo e con ogni mezzo, ha sostenuto la nostra resistenza contro l’aggressione americana. Vogliamo esprimere i nostri più sinceri ringraziamenti agli amici italiani. Ci auguriamo che il popolo italiano possa ulteriormente rafforzare il suo sostegno alla nostra lotta e, a gran voce, chiedere che gli invasori statunitensi cessino totalmente i bombardamenti e ogni atto di violenza contro la Repubblica Democratica del Việt Nam” (p. 116).
Hồ Chí Minh scomparve il 2 settembre 1969, nello stesso giorno in cui, 24 anni prima, aveva dichiarato l’indipendenza della Repubblica Democratica del Việt Nam. Il fondatore del Việt Nam indipendente non riuscì dunque a vedere la vittoria che sarebbe giunta solamente nel 1975, quando gli imperialisti statunitensi furono definitivamente cacciati e il paese venne riunificato sotto la bandiera della Repubblica Socialista del Việt Nam.
Articolo di Giulio Chinappi
Fonte -Ass. La Città Futura Via dei Lucani 11, Roma | Direttore Responsabile Adriana Bernardeschi
“Preghiera per la liberazione dei popoli indigeni”.
Eliane si definisce cittadina del mondo. Eliane Potiguara è formata in Lettere, con specializzazione in Educazione. È insegnante, scrittrice, poeta, attivista discendente del popolo potiguara.È la fondatrice e coordinatrice del GRUMIN – Gruppo Donna/Educazione Indigena, che è la prima organizzazione di donne indigene sorta in Brasile, con ciò rendendosi partecipe della creazione ed evoluzione del movimento indigeno brasiliano.
Durante una decade ha partecipato all’elaborazione della Dichiarazione Universale dei Diritti Indigeni nella sede ONU di Ginevra. Nel 1988 è stata eletta una delle dieci donne dell’anno in Brasile. È stata insignita del titolo di Cavaliere dell’Ordine del Merito Culturale. È Ambasciatrice di Pace del Circuito di Scrittori di Francia.
La sua opera ha ottenuto riconoscimenti e premi a livello nazionale e internazionale, fra cui il Pen Club dell’Inghilterra, il Fondo Libero di Espressione negli USA. Le molteplici attività da lei svolte vertono intorno ai diritti dei popoli indigeni, della biodiversità, delle conoscenze tradizionali. Editato dalla casa editrice Global, un suo libro di grande successo è Metade cara, metade máscara.
“Preghiera per la liberazione dei popoli indigeni”.
Smettete di potare le mie foglie e portar via il mio aratro
Basta con l’affogare le mie credenze e estirpar la mia radice.
Cessate di strapparmi i polmoni e soffocar la mia mente
Basta con l’uccidere le mie canzoni e silenziar la mia voce.
Non si secca la radice di chi ha semi
Sparpagliati per la terra a germogliar.
Non si spegne degli avi – ricca memoria
Vena ancestral: ritual da rievocar
Non si recidon grandi ali
Perché il cielo è libertà
Ed è fede incontrarla.
Prega per noi, Padre – Sciamano 1
Perché il demone della selva
Non porti debolezza, miseria e morte
Prega per noi – terra madre nostra
Perché i vestiti rotti
E quest’uomini malvagi
Finiscano al tocco dei maracás 2
Allontanaci da disgrazie, da cachaça 3 e discordia,
Porta l’unità tra le nazioni.
Illumina uomini, donne e bambini
Spegni tra i forti l’invidia e l’ingratitudine
Dai luce, fede, vita nelle pajelanças 4
Evita, ó Tupã, violenza e mattanza.
In un luogo sacro presso l’ igarapé. 5
Nelle notti di luna piena, ó MARÇAL, 6 chiama
Gli spiriti delle rocce per danzare la Toré.
Portaci nelle feste di mandioca 7 e pajés 8
Una resistenza di vita
Dopo aver bevuto la nostra chicha 9 con fede.
Prega per noi, falco-dei-cieli
Perché vengano giaguari, caititus, 10 seriemas 11 e capivaras 12
Cingere fiumi Juruena, São Francisco o Paraná 13.
Cingere sino al mare Atlantico
Perché pacifici siamo, invece.
Mostraci il cammino come il delfino 14
Illumina per il futuro la nostra stella
Aiutaci a suonare i flauti magici
Per cantarvi una canzone in offerta
O danzare in un rito lamaká. 15
Prega per noi, Uccello Sciamano
Ogni mattina a Sud, a Nordest
Nel cuore di cunhã, o nell’Amazzonia agreste.
Pregate per noi, pintados 16 armadilli o pappagalli, 17
Vieni al nostro incontro
Mio Dio, NHENDIRU ! 18
Rendi felice la mintã 19
Che da ventri d’indie rinasceranno.
Dacci ogni giorno di speranza
Che sol chiediamo terra e pace
Per i nostri poveri – questi ricchi bambini.
Traduzione dal portoghese di Irene Chiari
Note
1 Lo sciamano è una figura simile al pajé.
2 Strumento musicale, sonaglio indigeno utilizzato nelle cerimonie e nei riti guerrieri, composto da una zucca secca priva di polpa, riempita con pietre e semi ed assemblata con un bastone che funge da manico. È uno strumento magico, utilizzato dai pajés per scacciare gli spiriti cattivi ed attrarre quelli buoni.
3 Tipica bevanda alcolica brasiliana, diffusissima in tutto il Paese, distillata e fermentata a partire dall’estratto liquido di canna da zucchero (caldo de cana), con un tenore alcolico tra i 38 e i 48 gradi.
4 Rituale di cura realizzato dai pajé (le guide spirituali).
5 Canali.
6 Nome proprio di persona di origine latina, col significato di ”guerriero” o ”combattivo”. In questo caso probabilmente si tratta di Marçal Tupá-Y, Guarani ucciso nel Mato Grosso do Sul nel Novembre del 1983 e, da allora, simbolo della lotta indigena. Era infermiere della Funai, creatore della Organização e Assembléias indígenas e promotore dell’unità tra le nazioni indigene.
7 Pianta tuberosa, terza fonte di carboidrati nei paesi tropicali, dopo il riso e il mais.
8 Guida spirituale indigena.
9 Bibita alcolica, simile alla birra, a base di mais fermentato, originaria del Centro e Sud America.
10 Animale tipico del territorio americano, molto simile al cinghiale.
11 Tipo di uccello, molto diffuso in Sudamerica.
12 Mondialmente, il maggiore dei roditori, simile ad una lontra ma più grande, abitante dei territori sudamericani.
13 Fiumi del Sudamerica.
14 boto , specie particolare di delfino, originaria delle acque dolci del fiume che attraversa l’Amazzonia. Secondo la tradizione indigena è una creatura guida, che mostra il cammino da seguire.
16 Pesce d’acqua dolce, tipico dei fiumi São Francisco, Paraná e Prata del Brasile.
17 Tipo particolare di pappagallo, diffuso nelle foreste tropicali dell’America Centrale e Meridionale, che in italiano prende il nome di Ara scarlatta o Ara macao.
18 Nhendiru è il Creatore nella tradizione Tupi- Guarani.
19 I bambini, in lingua Potiguara (che fa sempre parte della famiglia del Tupi-Guarani).
Traduzione dal portoghese di Irene Chiari-Breve Biografia di Loretta Emiri ha vissuto per diciotto anni nell’Amazzonia brasiliana. Durante i primi quattro anni e mezzo ha operato tra gli yanomami svolgendo assistenza sanitaria, ricerche linguistiche e un progetto chiamato Piano di Coscientizzazione, di cui l’alfabetizzazione di adulti nella lingua materna faceva parte. In quell’epoca ha prodotto saggi e lavori didattici, tra i quali Gramática pedagógica da língua yãnomamè (Grammatica pedagogica della lingua yãnomamè), DicionárioYãnomamè-Português (Dizionario Yãnomamè-Portoghese). Specializzatasi nella legislazione dell’educazione scolastica indigena, ha organizzato e partecipato, in veste di docente, a incontri e corsi di formazione per maestri di varie etnie, contribuendo a far incorporare le loro rivendicazioni alla Costituzione. Ha curato l’edizione di A conquista da escrita – Encontros de educação indígena (La conquista della scrittura – Incontri di educazione indigena), che documenta le prime esperienze scolastiche di quindici popoli indigeni. Ha fatto parte del Gruppo di Lavoro istituito dal Ministero dell’Educazione per definire la politica nazionale per l’Educazione Scolastica Indigena. Sua è la redazione finale della proposta di creazione di una scuola specifica, differenziata e pubblica per la formazione dei maestri indigeni dello Stato di Roraima; approvata all’unanimità nel novembre del 1993, è divenuta la prima scuola del genere in Brasile. Nell’adempimento dei ruoli ricoperti in organi pubblici o privati, ha sempre sostenuto le lotte per l’autodeterminazione travate dal movimento indigeno organizzato brasiliano che, tra l’altro, ha trasformato la “scuola per gli indios” in “scuola indigena”, pensata e amministrata da loro stessi e la cui finalità è anche quella di affermare identità etniche e rivendicare diritti. Attraverso la rielaborazione esplicita e voluta dell’esperienza fatta, sta dando continuità all’esperienza stessa; tra le sue più recenti pubblicazioni in lingua italiana troviamo Amazzonia portatile, Quando le amazzoni diventano nonne, Amazzone in tempo reale.
Biografia di Eliane Lima dos Santos (Rio de Janeiro, 29 de setembro de 1950), conhecida por Eliane Potiguara, é uma professora, escritora, ativista e empreendedora indígena brasileira. Fundadora da Rede Grumin de Mulheres Indígenas.[1] Foi uma das 52 brasileiras indicadas para o projeto internacional “Mil Mulheres para o Prêmio Nobel da Paz“. Formada em Letras e Educação[2], licenciou-se em Letras (Português e Literatura) e Educação pela Universidade Federal do Rio de Janeiro e tem Especialização em Educação Ambiental pela UFOP.[3] Eliane Potiguara recebeu em dezembro de 2021 o título de doutora “honoris causa”, do Conselho Universitário (Consuni), órgão máximo da Universidade Federal do Rio de Janeiro (UFRJ).[4]
Foi nomeada uma das “Dez Mulheres do Ano de 1988” pelo Conselho das Mulheres do Brasil, por ter criado a primeira organização de mulheres indígenas no Brasil: o GRUMIN (Grupo Mulher-Educação Indígena), e por ter trabalhado pela educação e integração da mulher indígena no processo social, político e econômico no país e por ter trabalhado na elaboração da Constituição brasileira de 1988. O GRUMIN foi o grupo pioneiro do movimento de mulheres indígenas no Brasil.[8]
Com uma bolsa que conquistou da ASHOKA em 1989 (Empreendedores Sociais)[9] e mais o seu salário de professora e o apoio de Betinho/IBASE e os recursos do Programa de Combate ao Racismo, (o mesmo que apoiava Nelson Mandela), pode prosseguir a sua luta, além de sustentar e cuidar de seus três filhos (Moína Lima, Tajira Kilima e Samora Potiguara), hoje adultos.[10]
Em 1990, foi a primeira mulher indígena a conseguir uma petição no 47º Congresso dos Índios Norte-Americanos, no Novo México, para ser apresentada às Nações Unidas. Neste Congresso reuniram-se mais de 1500 indígenas americanos. Desse modo, participou durante anos da elaboração da “Comitê Inter-Tribal 500 Anos Declaração Universal dos Direitos Indígenas”, na ONU, em Genebra. Por esse trabalho recebeu em 1996, o título de “Cidadania Internacional”, concedido pela organização filosóficaIranianaBaha’i, que milita pela implantação da Paz Mundial.[11]
É defensora dos Direitos Humanos, tendo sido criadora do primeiro jornal indígena, de boletins conscientizadores e de uma cartilha de alfabetização indígena dentro do método Paulo Freire com o apoio da Unesco. Organizou em Nova Iguaçu, no Rio de Janeiro, em 1991 um encontro com a participação de mais de 200 mulheres indígenas de várias regiões, tendo como convidados especiais a cantora Baby Consuelo e vários líderes indígenas internacionais. Organizou vários cursos referentes à Saúde e Diretos Reprodutivos das Mulheres Indígenas e foi consultora de outros encontros sobre o tema.[12]
Em 1992 foi cofundadora/pensadora do Comitê Inter-Tribal 500 Anos (“kari-oka”), por ocasião da Conferência Mundial da ONU sobre Meio-Ambiente, junto com Marcos Terena, Idjarruri Karajá, Megaron e Raoni e muitos outros líderes indígenas do país, além de ter participado de dezenas de assembleias indígenas em todo o Brasil.[13]
Discutiu a questão dos direitos indígenas em vários fóruns nacionais e internacionais, governamentais e não governamentais, propondo diversas diretrizes e estratégias de ordem político-econômica, inclusive no fórum sobre o Plano Piloto para a Amazônia, em Luxemburgo, em 1999.
No final de 1992, por seu espírito de luta, traduzido na sua obra “A Terra é a Mãe do Índio”, foi premiada pelo Pen Club da Inglaterra[14], no mesmo momento em que Caco Barcelos (“Rota 66”) e ela estavam sendo citados na lista dos “Marcados para Morrer”, anunciados no Jornal Nacional da Rede Globo de Televisão, em rede nacional, por terem denunciado esquemas duvidosos e violação dos direitos humanos e indígenas.[15]
Em 1995, na China, no Tribunal das Histórias Não Contadas e Direitos Humanos das Mulheres/Conferência da ONU, narrou a história de sua família que emigrou das terras paraibanas na década de 1920 por ação violenta dos neo-colonizadores e as consequências físicas e morais desta violência à dignidade histórica de seu bisavô, avós e descendentes. Contou também o terror físico, moral e psicológico pelo qual passou ao buscar a verdade, além de sofrer violência psicológica e humilhação por ser detida pela Polícia Federal por estar defendendo os povos indígenas, seus parentes, do racismo e exploração. O seu nome foi caluniado na imprensa do estado da Paraíba.[16]
Foi Conselheira da Fundação Palmares/Minc, e “fellow” da organização internacional ASHOKA, dirigente do GRUMIN e membro do Women’s Writes World. Participou de 56 fóruns internacionais e para mais de 100 nacionais culminando na Conferência Mundial contra o Racismo na África do Sul, em 2001 e outro fórum sobre os Povos Indígenas em Paris, em 2004.
O seu carro chefe é a obra intitulada “Metade Cara, Metade Máscara” que está na sua terceira edição pela GRUMIN Edições e aborda a questão indígena no Brasil. Metade Cara, Metade Máscara está nos Anais da Mostra Científica. Mestrandos e doutorandos estudam suas obras literárias, foi adotado pelo TCU (Tribunal de Contas da União) do Mato Grosso do Sul e a Secretaria de Educação do DF está aplicando o livro Metade Cara, Metade Máscara nas escolas.[18]
Em 2023 lançou pela GRUMIM Edições o livro “O Vento Espalha Minha Voz Originária”.[19]
Foi homenageada em 10/01/2024 pela Maurício de Sousa Produções (Turma da Mônica) no Projeto Donas da Rua.[20]
DESCRIZIONE-Torino operaia e fascismo- Una storia orale –Questo libro, pubblicato per la prima volta quarant’anni fa e tradotto in inglese pochi anni dopo, è basato sulla memoria di circa settanta donne e uomini nate-i tra il 1884 e il 1922, intervistate-i nella seconda metà degli anni settanta, comparata con una serie di fonti d’archivio (rapporti di polizia, cinegiornali dell’Istituto Luce, documenti giudiziari). I protagonisti, appartenenti alla classe operaia torinese, raccontano la loro visione della vita, della storia, di se stessi, evocando il periodo fascista e il rapporto ambivalente tra Mussolini e le masse. Si delinea così un quadro multiforme della Torino operaia degli anni venti e trenta nel secolo scorso: i divertimenti e le canzoni popolari, la condizione delle donne, l’atteggiamento verso i meridionali, la religione, il fascismo nella vita di tutti i giorni.
Ne emerge un quadro di piccoli episodi di «resistenza» quotidiana come graffiti e scherzi, una cravatta rossa o una vecchia canzone socialista, ma anche da eventi traumatici come l’aborto, unico mezzo di controllo della fertilità largamente disponibile ancorché clandestino. È quindi documentata una negoziazione quotidiana col potere che va al di là del semplice dilemma consenso/dissenso. Un capitolo finale è dedicato a un evento «mitico» della Torino operaia e antifascista: il silenzio degli operai della Fiat in risposta al discorso del duce, nel corso dell’inaugurazione della Fiat Mirafiori nel 1939. Il testo combina approcci mutuati dalla storiografia, dall’antropologia, dalla psicologia e dalla microsociologia, offrendo un ampio spettro di forme narrative e metodologiche e una riflessione sui meccanismi della memoria e sul suo rapporto con il presente in cui è elaborata. La sua riproposta invita ad attualizzare il ruolo centrale di una categoria politica e sociale come la vita quotidiana in quanto luogo privilegiato della soggettività, e a prendere in considerazione quanto i «grandi mutamenti» devono a «decisioni individuali».
Autore-Luisa Passerini-Emerita di Storia all’Istituto Universitario Europeo di Firenze, ha usato fonti orali, scritte e visuali per lo studio dei soggetti del cambiamento sociale e culturale, dai movimenti di liberazione africani ai movimenti operai, delle donne e degli studenti. Ha indagato il rapporto tra il concetto di identità europea e quello di amore romantico. Tra i suoi libri: La quarta parte (Manifestolibri, 2023); Storie d’amore e d’Europa (L’ancora del Mediterraneo, 2008); Memoria e utopia. Il primato dell’intersoggettività (Bollati Boringhieri, 2003); L’Europa e l’amore (Il Saggiatore, 1999); Storie di donne e femministe (Rosenberg & Sellier, 1991); Mussolini immaginario (Laterza, 1991); Autoritratto di gruppo (Giunti, 1988).
Editore-Officina Libraria
Officina Libraria • LO edition • Ab Ovo
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Officina Libraria, “casa editrice” in latino umanistico, ha vocazione internazionale ed è specializzata in pubblicazioni d’arte e illustrati.
Fondata nell’ottobre 2006 a Milano e oggi a Roma, l’Officina Libraria di Marco Jellinek e Paola Gallerani ha pubblicato da allora oltre 450 titoli, che spaziano dalla saggistica storico artistica alla fotografia, dal design di gioielli alla ceroplastica, aprendo di recente alla storia e alla letteratura.
Molti dei volumi più ricercati sono produzioni o coedizioni con prestigiose istituzioni italiane e straniere: dalla I Tatti – The Harvard University Center for Italian Renaissance Studies (l’imponente catalogo della collezione di dipinti, la collana I Tatti Research Series), al Kunsthistoriches Institut di Firenze e al Centro Internazionale Studi di Architettura Andrea Palladio; dalla Galleria d’Arte Moderna di Milano (la guida di tutti i dipinti esposti e il catalogo della mostra 100 anni di scultura) alla Galleria Borghese (le mostre su Bernini, Picasso e Valadier e i prossimi cataloghi ragionati delle Sculture e degli Arredi), le Gallerie Nazionali Barberini Corsini (diversi cataloghi e i 100 capolavori), dal Museo del Bargello (il catalogo ragionato degli avori) all’Accademia Carrara di Bergamo (100 capolavori, il catalogo ragionato dei dipinti del XIV-XV secolo) per citarne alcuni. Senza dimenticare il musée du Louvre, di cui Officina è il solo coeditore italiano: con la preziosa collana di facsimili del Cabinet des dessins, la serie dei cataloghi ragionati dei disegni italiani e i volumi per mostre come Giotto, Messerschmidt, Valentin de Boulogne, Rembrandt fino a Le corps et l’ame, sulla scultura italiana del ’500, insignito del Prix du catalogue d’exposition 2021, e che nell’edizione italiana accompagna la mostra Il corpo e l’anima al Castello Sforzesco di Milano.
Che si tratti di cataloghi di mostre, opere di fondo, guide o saggistica applichiamo all’editoria contemporanea, che ha tempi di produzione sempre più serrati, l’attenzione e la cura editoriale d’altre epoche, sia nella redazione che nei progetti grafici e nella riproduzione delle immagini. Alla base del nostro lavoro c’è il progetto culturale di fare libri di qualità, nei contenuti e nella forma, restituendo all’editore quel ruolo di mediazione culturale e non semplice marchio di produzione che gli è proprio, nella scelta dei progetti, nell’interazione con autori, istituzioni e committenti, nella realizzazione dei volumi, e nella loro promozione e diffusione a pubblicazione avvenuta, sia attraverso le librerie (in Italia siamo distribuiti da Messaggerie Libri; in Francia da Daudin (DOD & Cie), in US-UK e resto del mondo da ACC Art Books) che nei principali bookshop di mostre e musei, e con campagne mailing specifiche presso le biblioteche italiane e straniere.
Gli editori
Marco Jellinek • Laureato in chimica e filosofia alla University of Kansas, ha cominciato ad occuparsi di editoria nel 1987 come redattore e responsabile commerciale extra-librario alla Jaca Book di Milano, per passare alla Disney Libri come senior editor e poi come direttore marketing da Skira. Nel 2002 ha fondato la 5 Continents Editions e nel 2005 la consociata Equatore che ha diretto fino all’ottobre 2006, pubblicando prestigiosi volumi d’arte e fotografia, come Parate Trionfali e New Guinea, rispettivamente vincitori dei premi Justus Lipsius e 2006 AAM Museum Publications Design Competition.
È la mente economica e strategica di Officina Libraria e le scelte editoriali poggiano sulla sua cultura storico artistica, seconda soltanto alla sua passione per la montagna.
Paola Gallerani • Laureata e specializzata in storia dell’arte all’Università degli Studi di Milano, è stata caporedattore della 5 Continents Editions dalla sua fondazione al maggio 2006, occupandosi del coordinamento editoriale dei volumi d’arte e saggistica e di tutte le coedizioni con il musée du Louvre. Ha collaborato con la Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, catalogando l’archivio Giovanni Testori, di cui è la principale esperta, e ha insegnato Organizzazione delle attività editoriali all’Accademia di Belle Arti di Brera.
Nell’ottobre 2006 fonda con Marco Jellinek l’Officina Libraria, occupandosi oltre che della direzione editoriale anche della grafica della maggior parte dei volumi. Dal 2011 si occupa anche di LO, l’etichetta per bambini, scegliendone i titoli con Marco, spesso traducendoli e a volte inventandoli (anche con lo pseudonimo di Amélie Galé). Nel 2016 crea Ab Ovo edizioni, il marchio di Officina dedicato a salute e benessere.
In occasione dei 110 anni dalla nascita di Robert Capa (22 ottobre 1913) rendiamo omaggio al grande fotografo ungherese con una mostra personale che ripercorre i principali reportage di guerra e di viaggio che Capa realizzò durante vent’anni di carriera, anni che coincisero con i momenti cruciali della storia del Novecento.
Realizzata grazie alla collaborazione con l’agenzia Magnum Photos, la mostra riunisce un eccezionale corpus di fotografie: oltre 80 stampe originali, alcune delle quali mai esposte prima in una mostra italiana, accompagnate da una rara intervista rilasciata dal fotoreporter a una radio americana nel 1947 e da alcuni documenti d’epoca provenienti dalla collezione di Magnum.
Attraverso sette sezioni e con un percorso diacronico vengono raccontati i più importanti reportage in bianco e nero realizzati da Robert Capa, dagli esordi a Berlino e Parigi (1932-1936) alla guerra civile spagnola (1936-1939); dall’invasione giapponese in Cina (1938) alla seconda guerra mondiale (1941-1945); dal reportage di viaggio in Unione Sovietica (1947) a quello sulla nascita di Israele (1948-1950), fino all’ultimo incarico come fotografo di guerra in Indocina (1954).
Nei suoi vent’anni di carriera ha raccontato la storia restando sempre fedele al suo celebre aforisma: “se le tue foto non sono abbastanza buone, vuol dire che non eri abbastanza vicino”.
L’azione – con tutta la sua dinamicità e forza propulsiva – spicca tra gli scatti come un fil rouge, che si dipana anche nei ritratti presenti in mostra, volutamente pochi e scelti per ricordare al pubblico i volti della Storia – come quello di Trockij ardente oratore – o della sua storia personale, come quello di Picasso, fotografato nel suo studio di Parigi dove era rimasto anche durante l’occupazione, e dell’amico Steinbeck con cui intraprese il viaggio oltre la cortina di ferro, nel ’47.
«Per una benvenuta dismisura». Estasi, voce e follia nella poesia di Claudia Ruggeri
di Germana Dragonieri
Hölderlin: “siamo un segno senza significato”: / ma dove le due serie entrano in contatto? / Ma è vero? E che sarà di noi? / E tu perché, perché tu? / E perché e che fanno i grandi oggetti / e tutte le cose-cause / e il radiante e il radioso?
Andrea Zanzotto, La beltà
Life’s […] a tale / told by an idiot, full of sound and fury / signifying nothing
William Shakespeare, Machbeth
Pallaksch. Pallaksch
Paul Celan, Tubinga, gennaio
Una comune radice indoeuropea (*bhl) tiene insieme le parole flatus (“fiato”, “soffio”, “respiro”, poi “suono”) e follis intorno all’idea di un fluire sonoro, ritmico, vocale (flumen, fluere, fluxus, flectere, flexio) ingovernabile: «il follis», ci informa Corrado Bologna, è infatti «il “mantice”, il sacco vuoto e quindi ripieno di aria sonora; da cui, per estensione metaforica, il “folle”, dal “movimento incontrollato”, l’uomo sacco, “ripieno di vuoto”» (Flatus vocis. Metafisica e antropologia della voce, Il Mulino, Bologna, 2000, p. XXII). Il folle è quindi l’uomo-vuoto che però risuona, che emette il flatum, la phoné, la voce: vale a dire il significante puro e libero che precede qualsiasi opposizione di distinti, qualsiasi significato. Il poeta è, in questo senso, un follis: qualcuno che non parla ma è parlato dalla propria voce; qualcuno la cui parola – lungi dal pretendere di affermare o distinguere, di «separare il no dal sì», per citare Celan (in Parla anche tu) – piuttosto siflette, oscillando indifferentemente tra il sì e il no, seguendo il flusso vitalissimo del significante: Pallaksch. Pallaksch[1].
Non è dunque un caso che una poeta della voce qual è stata Claudia Ruggeri (Napoli 1967 – Lecce 1996) apra la propria plaquette-poemetto inferno minore (1988-1990) con un ciclo di componimenti intitolato Il Matto (prosette). Tratto distintivo della sua scrittura – insieme a quell’ipercitazionismo che aveva suscitato nel dedicatario Fortini l’impressione, alquanto miope, di una poesia «ingioiellata», eccessiva e immatura – è proprio il predominio da lei accordato al suono-significante sul senso-significato, del quale restituiscono una traccia sensibile anche le registrazioni delle sue memorabili letture in pubblico. «Il mio fine», scrive la poeta in una prosa significativamente intitolata Elogio della follia, «non è quello di partecipare al lettore la genesi passionale dei miei versi, quanto l’indurlo ad ascoltare un istante di sé. […] Non è da cercare di comprendere il senso che io ho descritto con la parola, quanto il risalire ad un senso personale ed appassionato graziato dal solo ritmo».
Il senso graziato, salvato dal ritmo: così l’autrice delega alla tessitura fonico-linguistica dei propri componimenti – straripanti di figure di suono quali assonanze, allitterazioni, poliptoti, rime al mezzo, anadiplosi, omeoteleuti e spesso composti proprio in vista di un’esecuzione orale – il compito di creare una consequenzialità non più rinvenibile, perché programmaticamente occultata e stravolta, sul piano della punteggiatura, della sintassi e delle funzioni del discorso. Ne risulta una sorta di «scrittura ad alta voce» (Roland Barthes, Il piacere del testo, Einaudi, Torino, 1974, p. 65): un dettato poetico privo di nessi logici, imperscrutabile e oscuro sul piano del significato, che chiede di essere ascoltato prima che decifrato, e che domanda al pubblico quell’atto di «compartecipazione» e «co-autorialità» che sempre si produce all’interno di una comunità d’ascolto, di fronte a una performance (Paul Zumthor, La presenza della voce. Introduzione alla poesia orale, Il Mulino, Bologna, 1984, p. 290).
«ormai la carta si fa tutta parlare, / ora che è senza meta e pare un caso…», recita l’incipit di il Matto II. «Parlare», «senza meta», «caso»: tre parole-chiave nella poetica ruggeriana, tutte contenute in quella radice *bhl, nello spazio semantico che intercorre tra il flatus e il follis. La poesia è infatti per l’autrice soprattutto un «suono mago» (in [ma la fiamma della forma ha incendiato]), un flatus follis: magico e mai padroneggiabile dettato, attività involontaria, impersonale e «senza meta» come la vita poetica del pazzo che, scrive Agamben a proposito di Hölderlin, è tale in quanto «vive secondo un dettato, in un modo che non è possibile decidere né padroneggiare» (La follia di Hölderlin, Quodlibet, Macerata, p. 223). «Soffriva di una mancanza di consequenzialità nel pensiero…», riferisce Thedor Vischer a proposito di un incontro col poeta tedesco (ivi, p. 130).
Sull’onda di una simile mancanza di consequenzialità e seguendo più il principio di casualità che quello di causalità, anche la poesia di Ruggeri non dice, bensì vive secondo un dettato: in essa la φωνή (“parola che non afferma e non nega, ma accenna”), la voce, il ritmo e il caos prevalgono sul λόγος (“parola che afferma” o “che nega”) il discorso, la sintassi, l’ordine. Come per Celan «Un fragore: è / la Verità in persona / entrata / fra gli uomini, / nel mezzo del / turbine delle metafore» (in Svolta del respiro), così anche per la poeta salentina il fragore e il suono prevalgono sulla metafora e sul senso quali portatori di una verità in persona, corporea e insindacabile, che non afferma ma piuttosto accenna, balbetta, canta.
Di questo predominio della voce sul senso è emblematico il gusto, mutuato in parte dalla poetica di André Breton e dei surrealisti spagnoli tradotti dal conterraneo Vittorio Bodini, per l’ecolalìa e per il suo corrispettivo retorico, l’anadiplosi: ovvero per la ripetizione di una o più parole della frase e/o del verso, tesa a simulare il «richiamo disanimale» del Matto, il linguaggio follis dei malati mentali: «non son non son castelli ma qui ma qui ti specchia»; «e il biancore il biancore che spossa» (in il Matto IV). Come il mantra della mistica buddhista o la “preghiera del cuore” del misticismo ortodosso – che prevedono la ripetizione incessante di una stessa formula secondo il ritmo del respiro, allo scopo di meglio «discendere dentro il proprio cuore» (Racconti di un pellegrino russo, Rusconi, Milano, 1973, p. 16) –, anche le poesie-preghiere-lalìe ruggeriane agiscono più sul piano del corpo e del respiro che su quello della comunicazione funzionale, mostrando peraltro lo stretto legame tra oralità e orazione: «nel mio cervello elettrico / solo un circuito ancora regge il carico / quello della preghiera» (in Al padrone).
Pure l’eccesso di significati di cui la fitta rete intertestuale di riferimenti e citazioni carica la sua poesia, lungi dall’essere solamente il sintomo di un patologico horror vacui, risponde invece alla necessità profonda di neutralizzare i significati stessi, per farne nenia pre-/in-significante, melodia a servizio di un estatico “sapere senza conoscenza”. Come avviene nell’arte barocca – della quale l’autrice aveva peraltro un esempio vivo nella sua città (Lecce) e un eccellente interprete e studioso in Bodini –, anche nella sua poesia l’eccesso e l’iper-saturazione della pagina mirano a lanciare chi la scrive verso lo smisurato, l’infinito; se si vuole, verso un Dio che non è che «la parola che, in ogni civiltà, ha avuto la funzione di indicare esattamente questa dismisura» del sentire e del sapere umani (Jean-Luc Nancy, Federico Ferrari, Estasi, Luca Sossella Editore, Bologna, 2022, p. 14).
Proprio come le guglie barocche, i versi di Claudia sono una cosa stretta e altissima che trascina estaticamente verso l’alto: «e le sbronze testuali dove il verso inscenò / cose strette e altissime» (in [Napoli l’ebbi strana ed il porto]); «T’avrei lavato i piedi / oppure mi sarei fatta altissima / come i soffitti scavalcati di cieli» (in Lamento della sposa barocca). Verso l’alto – o verso il basso, indifferentemente: l’opera ruggeriana – rimasta inedita durante la vita dell’autrice e pubblicata integralmente solo nel 2020 con la curatela di Annalucia Cudazzo (Musicaos, Lecce) – racconta infatti da un lato di una catàbasi nel caos del proprio inferno minore (la depressione, la debilitazione fisica e mentale), dall’altro del tentativo di un’ascesa spirituale, che si intensifica a partire dalla seconda e ultima raccolta, )e pagine del travaso. qui per riudire la pazzesca evenienza del dattilo, la cui stesura coincide non a caso con gli ultimi e durissimi anni della sua vita (1990-1996). Un doppio e simultaneo movimento, insomma, verso quella che lei stessa chiama «una benvenuta dismisura» (in lettera al Matto sul senso dei nostri incontri).
Per capire (sentire) questa poesia vertiginosa e barocca, bisogna allora fare proprio l’insegnamento di Wittgenstein e «gettar via la scala dopo averla usata»: rinunciare al senso logico di ciascuna frase, dopo essere ascesi o discesi «per essa – su di essa – oltre essa» (Tractatus logico-philosophicus, 6.54). Il trobar clus, dotto e pluristilistico di Ruggeri – il cui registro poetico spazia agilmente dall’aulico al volgare, dal colloquiale all’arcaico, dalle lingue straniere al dialetto locale – è teso infatti non tanto a centrare un significato, quanto a moltiplicarlo fino a rimuoverlo, al fine di conservare l’equivocità del senso propria della lingua poetica: «mi tengo in limine. mi conservo l’equivoco / degli stili incrociati», si legge in [che cos’è che sale dal deserto come una colonna di fumo]. Tenendosi in limine, ovvero non introducendo nella in-flessione della voce la pietra dura del significato, la poesia sprigiona infatti quell’«eccesso semiotico» che rende possibile «l’interminabilità del processo di attribuzione di senso» che la caratterizza come genere (Franco Bifo Berardi, Respirare. Caos e poesia, Luca Sossella Editore, Bologna, 2019 p. 21).
Era proprio alla Dismisura, al Vuoto, a Dio o un dio che Ruggeri parlava – e a quella figura-tarocco del Matto che è di tutto questo una sorta di simbolo totemico: «ò spensierato ò grande», si legge ancora in il Matto II. La sua scrittura è una lode allo spensierato, ovvero al senza-pensiero, all’insensato, al folle, il cui linguaggio non può che prendere forma di preghiera, canto o poesia: di una lingua, insomma, balbettante, innocua, anti-economica e smisurata. È infatti, a mio avviso, anche e soprattutto della lingua, della voce e della poesia il «folle volo» cui la poeta si riferisce – citando Dante – in uno dei suoi ultimi componimenti, e che presagisce il (non più metaforico) salto nel vuoto con cui si ucciderà, gettandosi dal balcone della casa dove viveva con la madre, a Lecce, il 27 ottobre 1996, a soli 29 anni: «e volli / il ‘folle volo’ cieca sicura tuta / volli la fine dell’era delle streghe volli // il chiarore di chi ha gettato gli arnesi / di memoria di chi sfilò il suo manto / poggiò per sempre il libro» (in [ma la fiamma della forma ha incendiato]).
Sono versi testamentari, ultimi, che depongono per sempre la volontà di dire e quindi di essere: «mi tolgo / dal dettaglio di questi ultimi versi» (in …[(i tuoi occhi come colombe su ruscelli d’acqua]). L’omonimìa tra il corpo e il testo, tipico delle scritture performative e orali come la sua, si spinge nel caso di Claudia fino all’estremo più tragico: «E, vedi, il nostro corpo / il nostro corpo soltanto può dire: bianco, tellina, lontano / vento», recitano i versi altrettanto ultimi, scritti cioè a ridosso della morte, di un altro poeta che ci ha lasciati troppo presto, e altrettanto colpevolmente dimenticato dalla critica ufficiale (Antonio Santori, La linea alba, Marsilio, Venezia, 2007 p. 98). Finita l’era delle streghe, finito cioè l’incanto estatico dello scrivere-dire poetico, anche quel corpo che soltanto può dire si appresta a finire e si spegne, tirato giù – nel caso di Claudia – dal peso intollerabile delle malattie, della morte del padre e di alcuni amici (tra cui il poeta Dario Bellezza, portato via dall’AIDS nello stesso anno); soprattutto, dal peso dell’incomprensione e dell’isolamento intellettuali e umani che l’avevano spinta a definirsi una rosa-fungo che «non si addice ai prati».
Tirata giù, infine, da «un’immensa nostalgia» di altrove: come scrive in uno dei suoi ultimi appunti, l’autrice a ridosso della morte sa ormai di essere finita «in basso tra quelli che non sono più leggeri, ed hanno completamente abolito nei loro sogni la funzione del volo: quando si trovano nel vuoto non ricordano più che si vola e sono portati giù dalla loro immensa nostalgia» (in Claudia Ruggeri, Poesie, a cura di Annalucia Cudazzo, Musicaos, Lecce, 2020, p. XXXIII).
“…
“mi tengo in limine, mi conservo l’equivoco
degli stili incrociati ché nel pieno rumore
dell’infrenabile selva, altro splendore, sai,
altre memorie, altro si lega si strega si ride;
prima della parola ò autore prima
della parola che ti erra e che ti erra
e che ti sbenda, prima che smazzata che ti mette
nella legge e tutto inizia
a muoversi non esprimendo non misurando delimitando a rito;
quale sicura sicura andatura,
quale percorso per entro inchiostri spinti
contraffarà l’ingorgo and so stay there my art
e questo libro senza controllo e questa ottava
inappagata questa mandragora murata, e nondimeno tu
dormi incastrata, qui, nella terra nulla dove la rosa
è un fungo e non si addice ai prati
[che cos’è che sale dal deserto come una colonna di fumo], vv. 20-35, da ) e pagine del travaso, in Claudia Ruggeri, Poesie, a cura di Annalucia Cudazzo, Musicaos, Lecce, 2020, p. 47.
[1]Pallaksch è una parola senza senso cui, stando alla testimonianza del suo primo biografo ed editore, Cristoph Theodor Schwab, Hölderlin attribuiva talora il significato di “sì”, talaltra di “no”.
Il velo strappato. Tormenti di una monaca napoletana
di Brunella Schisa -HarperCollins Italia-
Descrizione- Il velo strappato- HarperCollins Italia.- È il 1840, Enrichetta ha diciannove anni e ha da poco perso il padre, Don Fabio Caracciolo, maresciallo del Regno delle Due Sicilie a Reggio Calabria, ultimo figlio del Principe di Forino. Lei è giovane, nobile, innamorata di Domenico. Ma la famiglia di lui non approva l’unione. Sì, Enrichetta vanta ascendenze illustri, ma è priva di solidità economica e il matrimonio non s’ha da fare. Così sua madre, stanca del carattere ribelle della figlia e della sua propensione a scegliere uomini sbagliati, prende una decisione risolutiva: Enrichetta entrerà nel convento di San Gregorio Armeno, a Napoli, e vi resterà fino a quando la situazione finanziaria della famiglia non sarà risolta. A nulla servono le proteste della giovane: i mesi lì dentro diventano anni ed è costretta a prendere i voti. La costrizione la fa ammalare, Enrichetta vuole sfidare le leggi della Chiesa e tornare libera, ma persino le suppliche indirizzate a papa Pio IX vengono respinte. Eppure niente riesce a spegnere la passione che muove il suo animo. Una passione che si fa presto politica e la porta a sposare la causa della rivoluzione contro i Borbone, del sogno di una nuova patria: l’Italia. Brunella Schisa torna a raccontare la sua città natale, Napoli, attraverso una straordinaria eroina, Enrichetta Caracciolo di Forino, monaca, femminista ante litteram, patriota risorgimentale, autrice del bestseller ottocentesco Misteri del chiostro napoletano, da cui Schisa prende le mosse per il suo romanzo. Il velo strappato trascina ed emoziona il lettore, che, attraverso i moti del cuore di una donna eccezionale, rivive un’esistenza indimenticabile e partecipa a una grande lotta per la libertà. Ancora una volta, Brunella Schisa si conferma una delle più grandi autrici italiane di romanzi storici.
Brunella Schisa torna a raccontare la sua città natale, Napoli, attraverso una straordinaria eroina, Enrichetta Caracciolo di Forino, monaca, femminista ante litteram, patriota risorgimentale, autrice del bestseller ottocentesco Misteri del chiostro napoletano, da cui Schisa prende le mosse per il suo romanzo.
Il velo strappato trascina ed emoziona il lettore, che, attraverso i moti del cuore di una donna eccezionale, rivive un’esistenza indimenticabile e partecipa a una grande lotta per la libertà. Ancora una volta, Brunella Schisa si conferma una delle più grandi autrici italiane di romanzi storici
Autrice-
Brunella Schisa è nata a Napoli. Dopo aver lavorato come traduttrice, esordisce nella narrativa nel 2006 con il romanzo La donna in nero(Garzanti), che ha vinto numerosi premi tra cui il Premio Letterario Frignano-Opera Prima, il Premio Letterario Città di Bari e il Premio Rapallo. Giornalista di «Repubblica», ha curato per anni la rubrica dei libri sul Venerdì, cui adesso collabora. Tra le sue opere Dopo ogni abbandono (Garzanti, 2009), La scelta di Giulia (Mondadori, 2013) e La nemica (Neri Pozza 2017).
HarperCollins Italia
Nata come Harlequin Mondadori S.p.A., joint venture tra Harlequin Enterprises e Mondadori Libri e affermatasi come leader nella women’s ficiton, dopo 34 anni di successi è dal 1 ottobre 2015 proprietà del Gruppo Editoriale HarperCollins.
Attualmente è presente sul mercato con tre brand: Harmony, hm ed eLit.
Il portfolio HarperCollins spazia tra dozzine di generi narrativi e annovera tra i propri autori vincitori di prestigiosi riconoscimenti tra i quali Premio Nobel, Premio Pulitzer, National Book Award, le medaglie Newbery e Caldecott e il Man Booker Prize.
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