LIETTA TORNABUONI giornalista e critica cinematografica.
Lietta Tornabuoni-Nata a Pisa da un’antica famiglia aristocratica, iniziò la carriera giornalistica nel 1949 al settimanale “Noi Donne”. Nel 1956 collaborò con Novella ed in seguito con L’espresso, L’Europeo, La Stampa e Il Corriere della Sera. Oltre che cronista e critica cinematografica, pubblicò libri sul cinema e la televisione. Si legò in particolare a Torino, come inviata del quotidiano torinese La Stampa, il Torino Film Festival e le numerose iniziative del Museo nazionale del Cinema e le principali attività cinematografiche della città. Era sorella del pittore Lorenzo Tornabuoni
Aveva cominciato la professione nel 1949 a «Noi Donne», il settimanale dell’Udi, passando nel 1956 a «Novella», poi all’«Espresso»e all’«Europeo». Alla Stampa era arrivata nel 1970, dove ha continuato a lavorare fino a oggi, tranne un breve intervallo dal 1975 al 1978 al «Corriere della sera». Tra i suoi libri: «Sorelle d’Italia», «Album di famiglia della tv», «Era Cinecittà», dove raccontava la “grande famiglia” del cinema, e l’annuale appuntamento di «Al cinema», il volume che periodicamente raccoglieva le sue recensioni.
Raffaella Silipo di lei disse “Era critico cinematografico del nostro giornale: le sue recensioni asciutte e puntuali coglievano sempre il senso profondo dei film. Non si faceva problemi ad alternare il mestiere del critico a quello del cronista, guardava la realtà con curiosità inesausta e affettuoso disincanto, senso dell’umorismo tutto toscano e severo rigore sabaudo, prima di tutto con se stessa. Una gran signora del giornalismo italiano.”
Completa il suo ritratto Donata Righetti: “Lietta con il suo volto da madonna toscana, l’antica bellezza appesantita e l’instancabile presenza era una figura inconfondibile ai grandi eventi di cronaca e ai festival del cinema. Ammirata e anche temuta dai colleghi come concorrente imbattibile. Nei suoi articoli assente quel “colore” che capi e capetti delle redazioni esigevano per pigrizia dalle inviate, niente merletti di parole ma una prosa limpida, necessaria, elegante. Ogni fatto, ogni particolare, ogni nome controllati con implacabile precisione.” (Donata Righetti)
Nel mese di dicembre del 2010 Lietta fu ricoverata al Policlinico Umberto I di Roma per una caduta, muore l’11 gennaio a 79 anni.
La poesia matura di Kiki Dimoulà (1931-2020) ha aggiunto una dimensione completamente nuova alla poesia greca moderna.
Avendo sperimentato il dramma della dissoluzione esistenziale dell’umanità del dopoguerra e, allo stesso tempo, il vicolo cieco di un mondo che ha perso il dono della fede, la sua poesia ha mappato un mondo che è allo stesso tempo “senza casa” e insicuro; un mondo in cui la poeta, per sopravvivere, ha dovuto immergersi nelle dinamiche fondamentali del processo creativo e interferire in modo decisivo con la loro logica. La sua scrittura rivoltava la grammatica della lingua greca contro il significato delle parole, tentando così di rafforzare la forza emotiva del verso attraverso lo stupore e la sorpresa. Tutti i suoi versi suggeriscono la stabilità di un mondo che gli occhi non possono vedere, ma che diventa intero attraverso la sua ricostruzione immaginaria all’interno della poesia come un tutto organico. Questa dimensione di stupore e sorpresa è diventata un fattore emotivo attivo nella poesia greca contemporanea.
La poesia di Dimoulà tratta i temi dell’assenza e dell’oblio come in un caleidoscopio, dove colori e forme si dissolvono e si mescolano per essere ricostruiti in un’armonia e un ordine nascosti. Questa poesia trasforma la fluidità in un processo transustanziante: l’universo ridiventa mondo, l’agonia diventa nostalgia, l’assenza appare come redenzione del tempo. Il linguaggio della poeta rompe le consuetudini e nega le certezze di una tradizione romantica che non vede il tempo perduto come una presenza continua e attiva. Attraverso le sue linee il tempo personale rinasce e si compie per sempre come esperienza collettiva e immagine prismatica. La sua poesia, attraverso le analisi e gli studi di Eraclito, presenta il mondo migliore di un’ontologia personale e lo stabilisce come materiale sensoriale e fenomeno estetico.
Per Dimoulà il silenzio, la migrazione e la minimizzazione entrano nel linguaggio per dissolvere la coerenza di una logica incapace di decifrarne il messaggio. In essi la poeta scopre dimensioni esistenziali che errano nell’esperienza ma che il cervello, ottenebrato com’è dalla vertigine razionalistica, rifiuta di accettarle. È proprio questo lo scopo della poesia di Dimoulà: creare lo spazio per la realizzazione del mondo migliore. Ognuna delle sue poesie individua e registra le dimensioni di questo mondo multidimensionale e ordinato previsto.
La “o” disgiuntiva
Mi ha chiuso in casa la pioggia e ora dipendo dalle gocce.
Ma come sapere se è pioggia o lacrime dal cielo profondo di un ricordo? Sono troppo cresciuta per dare senza riserve un nome ai fenomeni: questa è pioggia e queste sono lacrime.
Rimango asciutta tra due possibilità: pioggia o lacrime, e tra tante ambigue realtà: pioggia o lacrime, amore o modo di crescere, tu o piccola oscillante ombra dell’ultima foglia che saluta. Ogni ultima cosa, la chiamo ultima senza riserve.
Sono troppo cresciuta perché questo sia motivo di lacrime. Lacrime o pioggia, come saperlo? E continuo a dipendere dalle gocce. E sono troppo cresciuta per aspettare una misura quando piove e un’altra quando non piove. Gocce per tutto. Gocce di pioggia o lacrime.
Dagli occhi di un ricordo o dai miei. Io o il ricordo, chi lo sa. Sono troppo cresciuta per distinguere i tempi. Pioggia o lacrime. Tu o piccola oscillante ombra dell’ultima foglia che saluta.
(Traduzione di Maria Paola Minucci)
da “L’adolescenza dell’oblio”, Crocetti Editore.
È per questo che ogni sua poesia mina il dominio del silenzio, ogni parola abolisce il potere dell’oscurità e dell’oscurità. La poeta vuole far luce su quelle forze mobilitanti della psiche – non il subconscio freudiano dei desideri repressi, ma l’area dell’Es, l’oscura Persefone che appartiene a ciascuno dei mortali e regna nel nostro Ade personale: una sorgente personale, una via verso la molteplicità. Ciascuna poesia di Dimoula è quindi un rito funebre omerico, una rievocazione dei morti attraverso la sottomissione del senso assente che hanno lasciato; e ciascuna sottomissione dona essenza alle sue linee, plasma essenza ed energia, corpo, linguaggio e calore umano.
Per Dimoula tutto vive di una simultaneità a più livelli, nel tempo della memoria dove non c’è distinzione tra istanti e tutto è identificato in modo assoluto e viene liberato alla salvezza attraverso lo stupore della memoria. Perché questa emozione iniziale domina nel suo lavoro: stupore per la perdita e la dissoluzione, per il tempo e la distanza, stupore per il potere del linguaggio che resuscita e sostituisce integralmente tutte quelle cose che sono scomparse e sono state dimenticate. Il poetare di Dimoulà illustra il ristabilimento di analogie simmetriche tra memoria e realtà, tra l’uomo e il suo spazio; infine, vede la possibilità della transustanziazione dalla decadenza, la resistenza concessa al caos e alla confusione della storia dalla potenza del linguaggio.
Cravatta nera
Innaffia tu la pianta e lasciami piangere. Scrivi però le ragioni, forse devo altro dolore. Voglio avere la coscienza in pace di avere sofferto per tutto.
Scrivi che piango per uno specchio. Un tempo oggetto ornamentale, oggi oracolo. Per la brusca buonanotte che danno le poche possibilità e si dileguano. Scrivi che piango per la tua finestra, chiusa e senza saluti, melanconica per nascita. Per gli uccelli dell’ultimo decennio. Il loro terrore delle antenne televisive. Per il loro adattarsi e svolazzare tra questi alberi di ferro.
Scrivi. Per questo sabato sera sepolto tra due cipressi nella chiesa di campagna. Per la luna in lutto – indossa una cravatta nera nuvola, scrivi che piange. Piango perché mi hai chiesto se ho visto la luna piena. No, non ho visto niente di pieno, non ho vissuto. Piango perché i ragazzi portano lo zaino come una conoscenza già completa, e non entrano nel tenero rassicurante delle ore ancora acerbe e non giocano.
Scrivi che piango per le madri. Le più antiche madri. Belle ed esili, amanti delle finestre, arpiste della vedetta che la morte ha colto impreparate e sono longeve materne nelle fotografie del salotto e nei ricami.
Piango perché hanno acceso le luci e la domenica gatta raggomitolata sulla mia finestra. Scrivi che piango per le bufere, il poco cibo, per tutto il Poco, per i terremoti senza preavviso. Piango perché va sprecata la notizia che mi hai dato della prima farfalla vista ieri. Piango perché non fa notizia l’effimero.
Scrivi. Piango perché la sorte si è chiusa in casa, la dilazione è arrivata al boia, la borraccia è arrivata nel deserto, la gioventù nella fotografia. Piango perché chissà chi chiuderà dei miei giorni gli occhi.
Innaffia tu la pianta e lasciami piangere perché…
Fotografia 1948
Ho un fiore in mano forse. Strano. Nella mia vita deve esserci stato un giardino un tempo.
Nell’altra mano stringo una pietra. Con fiera grazia. Nessun sospetto per preavvisi di mutamenti, sentore di difese piuttosto. Nella mia vita deve esserci stata ignoranza un tempo.
Sorrido. La curva del sorriso, il cavo del mio umore, somiglia a un arco ben teso, pronto. Nella mia vita deve esserci stato un bersaglio un tempo. E predisposizione a vincere.
Lo sguardo affondato nel peccato originale: assapora il frutto proibito dell’attesa. Nella mia vita deve esserci stata fede un tempo.
La mia ombra, nient’altro che un gioco del sole. Addosso un’uniforme d’incertezza. Non ha ancora fatto in tempo a essermi compagna o delatrice. Nella mia vita deve esserci stata abbondanza un tempo.
Tu non ci sei. Ma se c’è un precipizio nel paesaggio se io sto sull’orlo con un fiore in mano e sorrido, vuol dire che da un momento all’altro arriverai. Nella mia vita deve esserci stata vita un tempo.
(Traduzione di Maria Paola Minucci)
da “L’adolescenza dell’oblio”, CrocettiEditore.
Addio a Kiki Dimoula | L’Altrove
25/02/2020 /Addio a Kiki Dimoula | L’Altrove
Ci ha lasciato, ad ottantanove anni, la poetessa greca Kiki Dimoula.
Kiki nacque ad Atene il 6 giugno 1931, nella vita fu impiegata nella Banca Nazionale Grecia, ma ebbe un grande successo con la sua poesia.
Esordì nel 1952 con la raccolta Poesie e successivamente pubblicò una decina di raccolte in versi. Le sue poesie vennero tradotte in molte lingue, in Italia fu la Crocetti Editore a pubblicarla. Con L’adolescenza nell’oblio, del 1994, vinse il prestigioso Premio dell’Accademia di Atene.
La ricordiamo con una sua poesia:
La pietra perifrastica
Parla. Dì qualcosa, qualsiasi cosa. Soltanto non stare come un’assenza d’acciaio. Scegli una parola almeno, che possa legarti più forte con l’indefinito. Dì: “ingiustamente” “albero” “nudo” Dì: “vedremo” “imponderabile”, “peso”. Esistono così tante parole che sognano una veloce, libera, vita con la tua voce. Parla. Abbiamo così tanto mare davanti a noi. Lì dove noi finiamo inizia il mare Dì qualcosa. Dì “onda”, che non arretra Dì “barca”, che affonda se troppo la riempi con periodi. Dì “attimo”, che urla aiuto affogo, non lo salvare, Dì “non ho sentito”. Parla Le parole hanno inimicizie, hanno antagonismi se una ti imprigiona, l’altra ti libera. Tira a sorte una parola dalla notte. La notte intera a sorte. Non dire “intera”, Dì “minima”, che ti permette di fuggire. Minima sensazione, tristezza intera di mia proprietà Notte intera. Parla. Dì “astro”, che si spegne. Non diminuisce il silenzio con una parola. Dì “pietra”, che è parola irriducibile. Così, almeno, che io possa mettere un titolo a questa passeggiata lungomare.
Da Il poco del mondo
Rivista L’Altrove
“La poesia non cerca seguaci, cerca amanti”. (Federico García Lorca)
Con questo presupposto, L’Altrove intende ripercorrere insieme a voi la storia della poesia fino ai giorni nostri.
Si propone, inoltre, di restituire alla poesia quel ruolo di supremazia che ultimamente ha perso e, allo stesso tempo, di farla conoscere ad un pubblico sempre più vasto.
Troverete, infatti, qui tutto quello che riguarda la poesia: eventi, poesie scelte, appuntamenti di reading, interviste ai poeti, concorsi di poesia, uno spazio dedicato ai giovani autori e tanto altro.
Noi de L’Altrove crediamo che la poesia possa ancora portare chi legge a sperimentare nuove emozioni. Per questo ci auguriamo che possiate riscoprirvi amanti e non semplici seguaci di una così grande arte.
Biografia di Elizabeth BISHOP,Poetessa statunitense di origine canadese, nata a Worcester, Massachusetts, l’8 febbraio 1911, morta a Boston il 6 ottobre 1979.Rimasta presto orfana di padre, la madre ricoverata qualche anno dopo in una clinica psichiatrica, la B. compie gli studi universitari e comincia a viaggiare in Europa e in Africa del Nord, poi in Messico (dove entra in amicizia con P. Neruda) e in Brasile, a Rio de Janeiro, dove vive quasi ininterrottamente dal 1952 al 1972, e conosce e traduce opere di V. de Moraes, C. Drummond de Andrade e O. Paz (cfr. An anthology of twentieth-century Brasilian poetry, 1972). Ha vinto nel 1956 il premio Pulitzer, il National Book Award nel 1969 e il Books Abroad/Neustadt nel 1976.
Amica di M. Moore e di R. Lowell, ai quali era legata da profonde affinità, non lontana dalle vedute modernistiche sull’arte espresse da R. Frost e W. Stevens, fa rivivere nella sua poesia lo spirito metafisico di E. Dickinson. In North and South (1945) alla dimensione spaziale si sovrappone l’ordine metaforico, al topos letterale il complesso simbolico, al segno grafico quello linguistico. La fissità della carta geografica − in Maps − rivela un mondo pulsante, dove l’inusuale ravviva all’improvviso il familiare. Nelle nuove poesie della raccolta A cold spring (1955) la conoscenza del territorio si arricchisce della conoscenza della storia. Con l’esperienza brasiliana, tradotta poeticamente in Questions of travel (1965), la vastità del continente America s’impone nella poesia della B., ma non riesce a occupare interamente il suo spazio interiore: la sua ricerca continua, in un percorso sempre più approfondito, dentro l’essere. Sul paesaggio domestico di Geography III (1976) si affaccia delicatamente la presenza dell’impenetrabile e si afferma il senso di mistero universale.
Modernista nel rendere l’irrazionale o il prerazionale ricorrendo al mito e nel riproporre lo stato del linguaggio primitivo, la poesia della B. può dirsi postmoderna nella costruzione di uno spazio linguistico culturale entro il quale l’io si mette in gioco e si definisce fino a identificarsi con l’umanità intera.
Una scelta di poesie è stata tradotta in italiano: L’arte di perdere (1982).
Bibl.: C. W. MacMahon, E. Bishop: a bibliography 1927-1979, Charlottesville (Virginia) 1980. Si vedano inoltre: A. Stevenson, E. Bishop, New York 1966; L. Schwartz, S. P. Estess, E. Bishop and her art, Ann Arbor (Michigan) 1983; E. Bishop, a cura di H. Bloom, New York 1985.
L’iceberg immaginario
Meglio per noi l’iceberg della nave,
pur segnando il termine del viaggio.
Pur se piantato come un piolo, un nuvolo petroso
in un mare di marmo in movimento.
Meglio per noi l’iceberg della nave; meglio
questa piana innevata che respira,
pur con le vele stese sopra il mare
come neve non sciolta sulle acque.
Ondeggiante, solenne campo, un iceberg
con te riposa, ne sei consapevole?,
per bruciare al risveglio le tue nevi.
Una scena così un marinaio darebbe gli occhi per vederla.
La nave viene ignorata. L’iceberg s’alza
e risprofonda; i suoi vitrei pinnacoli
correggono le ellittiche del cielo.
Una scena così rende spontaneamente enfatico chi sta
sul palco. Corde sottilissime fornite
da trecce eteree di neve bastano
ad alzare il velario. I begli ingegni di quei picchi bianchi
duellano col sole. Liceberg rischia
il proprio peso su una ribalta mobile
e ristà, gli occhi sgranati.
Quest’iceberg taglia dall’interno
le sue sfaccettature. Si conserva
in eterno come i gioielli di una tomba
e adorna solo se stesso o, al più, le nevi
che tanto ci stupiscono sul mare.
Addio, diciamo, addio, la nave salpa
dove le onde cedono alle onde e le nuvole
trascorrono in un cielo più caldo.
Gli iceberg si attagliano all’anima
(un’altra che si è fatta da sé con elementi quasi invisibili)
a vederli così: polputi, belli, eretti invisibili.
(da Miracolo a colazione, traduzione di Damiano Abeni, Riccardo Duranti, Ottavio Fatica, Milano, Adelphi, 2006)
*
The Imaginary Iceberg
We’d rather have the iceberg than the ship,
although it meant the end of travel.
Although it stood stock-still like cloudy rock
and all the sea were moving marble.
We’d rather have the iceberg than the ship;
we’d rather own this breathing plain of snow
though the ship’s sails were laid upon the sea
as the snow lies undissolved upon the water.
O solemn, floating field,
you are aware an iceberg takes repose
with you, and when it wakes my pasture on your snows?
This is a scene a sailor’d give his eyes for.
The ship’s ignored. The iceberg rises
and sinks again; its glassy pinnacles
correct elliptics in the sky.
This is a scene where he treads the boards
is artlessly rethorical. The curtain
is light enough to rise on finest ropes
that airy twists of snow provide.
The wits of these white peaks
spar with the sun. Its weight the iceberg dares
upon a shifting stage and stands and stares.
This iceberg cuts its facets from within.
Like jewerly from a grave
it saves itself perpetually and adorns
only itself, perhaps the snows
which so surprise us lying on the sea.
Good-bye, we say, good-bye, the sheeps steers off
where waves give in to one another’s waves
and clouds run in a warmer sky.
Icebergs behoove the soul
(both beeing self-made from elements least visible)
to see them so: fleshed, fair, erected ivisible.
Il miscredente
Dorme sulla cima dell’albero maestro.
Bunyan
Dorme sulla cima dell’albero maestro
con gli occhi serrati.
Sotto di lui si sciolgono le vele
come le lenzuola del suo letto, esponendo
all’aria notturna la testa del dormiente.
Trasportato lassù nel sonno,
nel sonno s’è raccolto
in una palla d’oro in cima all’albero,
o si è arrampicato dentro un uccello d’oro,
o alla cieca s’è seduto a cavalcioni.
“Ho pilastri di marmo a fondamenta”
ha detto una nube. “Non mi sposto mai.
Vedi i pilastri là nel mare?”.
Sicuro nell’introspezione adesso
scruta i liquidi pilastri del proprio riflesso.
Un gabbiano, le ali sotto le sue,
ha osservato che l’aria
“sembrava marmo”. Lui ha risposto “Quassù
torreggio per il cielo perché le ali
di marmo in cima alla mia torretta volano”.
Ma dorme sulla cima del suo albero maestro
con gli occhi sigillati.
Il gabbiano ha frugato nel suo sogno
che era: “Non devo finire tra i flutti.
Il mare luccicante mi vuole tra i suoi flutti.
È duro come il diamante; vuol distruggerci tutti”.
Miracolo a colazione (Adelphi, 2006), trad. it. D. Abeni, R. Duranti, O. Fatica
The Unbeliever
He sleeps on the top of a mast.
Bunyan
He sleeps on the top of a mast
with his eyes fast closed.
The sails fall away below him
like the sheets of his bed,
leaving out in the air of the night the sleeper’s.
Asleep he was transported there,
asleep he curled
in a gilded ball on the mast’s top,
or climbed inside
a gilded bird, or blindly seated himself astride.
“I am founded on marble pillars”,
said a cloud. “I never move.
See the pillars there in the sea?”.
Secure in introspection
he peers at the watery pillars of his reflection.
A gull had wings under his
and remarked that the air
was “like marble”. He said: “Up here
I tower through the sky
for the marble wings on my tower-top fly”.
But he sleeps on the top of his mast
with his eyes closed tight.
The gull inquired into his dream,
which was, “I must not fall.
The spangled sea below wants me to fall.
It is hard as diamonds; it wants to destroy us all”.
Un’arte sola
L’arte di perdere s’impara facilmente:
tante cose si sforzano d’andar perdute,
che la perdita non è un grave incidente.
Perdi una cosa al giorno. Apri all’inconveniente
delle chiavi smarrite, delle ore sprecate.
L’arte di perdere s’impara facilmente.
Prova a perdere di più, e più velocemente:
luoghi, e nomi, e destinazioni stabilite
per un viaggio. Non ne verrà un grave incidente.
Ho perso l’orologio di mia madre e – gente! –
l’ultima, o quasi, di tre case molto amate.
L’arte di perdere s’impara facilmente.
Ho perso due care città, e un continente;
due fiumi, reami vasti e certe mie tenute.
Mi mancano, però non è un grave incidente.
— Anche se perdo te (la voce tua ridente,
un gesto che amo), è chiaro, non farò smentite:
l’arte di perdere s’impara facilmente,
ma pare un grave (Scrivilo!) grave incidente.
The art of losing isn’t hard to master;
so many things seem filled with the intent
to be lost that their loss is no disaster.
Lose something every day. Accept the fluster
of lost door keys, the hour badly spent.
The art of losing isn’t hard to master.
Then practice losing farther, losing faster:
places, and names, and where it was you meant
to travel. None of these will bring disaster.
I lost my mother’s watch. And look! my last, or
next-to-last, of three loved houses went.
The art of losing isn’t hard to master.
I lost two cities, lovely ones. And, vaster,
Some realms I owed, two rivers, a continent.
I miss them, but it wasn’t a disaster.
— Even losing you (the joking voice, a gesture
I love) I shan’t have lied. It’s evident
the art of losing isn’t hard to master
though it may look like (Write it!) like disaster.
Dobbiamo ammirare la perfetta mira
di quest’aria d’inverno, cacciatrice provetta
la cui arma spianata non ha bisogno di mirino,
se non fosse che, lontano o vicino,
la sua preda è sicura, il colpo netto.
L’infimo tra di noi è così che tira.
Per ridurre il margine d’errore
sono ferme le barche e di gesso gli uccelli;
la galleria dell’aria coincide
con quella angusta che il suo sguardo incide.
Il centro del bersaglio, la pupilla,
collima con la mira e con l’ardore.
Ha il tempo in tasca, col suo ticchettio
segna il passo su un attimo. Non cura
momento e circostanze, lei, ha invocato
l’atmosfera per questo risultato.
( E l’orologio chiude l’avventura
tra ruote, foglie e nubi a scampanio).
Miracolo a colazione (Adelphi, 2005), trad. it. Damiano Abeni, Riccardo Duranti, Ottavio Fatica
The Colder The Air
We must admire her perfect aim,
this huntress of the winter air
whose level weapon needs no sight,
if it were not that everywhere
her game is sure, her shot is right.
The least of us could do the same.
The chalky birds or boats stand still,
reducing her conditions of chance;
air’s gallery marks identically
the narrow gallery of her glance.
The target-center in her eye
is equally her aim and will.
Time’s in her pocket, ticking loud
on one stalled second. She’ll consult
not time nor circumstance. She calls
on atmosphere for her result.
(It is this clock that later falls
in wheels and chimes of leaf and cloud.)
Biografia Elizabeth BISHOP di – di Maria Anita Stefanelli – Enciclopedia Italiana –
Biografia di Elizabeth BISHOP,Poetessa statunitense di origine canadese, nata a Worcester, Massachusetts, l’8 febbraio 1911, morta a Boston il 6 ottobre 1979. Rimasta presto orfana di padre, la madre ricoverata qualche anno dopo in una clinica psichiatrica, la B. compie gli studi universitari e comincia a viaggiare in Europa e in Africa del Nord, poi in Messico (dove entra in amicizia con P. Neruda) e in Brasile, a Rio de Janeiro, dove vive quasi ininterrottamente dal 1952 al 1972, e conosce e traduce opere di V. de Moraes, C. Drummond de Andrade e O. Paz (cfr. An anthology of twentieth-century Brasilian poetry, 1972). Ha vinto nel 1956 il premio Pulitzer, il National Book Award nel 1969 e il Books Abroad/Neustadt nel 1976.
Amica di M. Moore e di R. Lowell, ai quali era legata da profonde affinità, non lontana dalle vedute modernistiche sull’arte espresse da R. Frost e W. Stevens, fa rivivere nella sua poesia lo spirito metafisico di E. Dickinson. In North and South (1945) alla dimensione spaziale si sovrappone l’ordine metaforico, al topos letterale il complesso simbolico, al segno grafico quello linguistico. La fissità della carta geografica − in Maps − rivela un mondo pulsante, dove l’inusuale ravviva all’improvviso il familiare. Nelle nuove poesie della raccolta A cold spring (1955) la conoscenza del territorio si arricchisce della conoscenza della storia. Con l’esperienza brasiliana, tradotta poeticamente in Questions of travel (1965), la vastità del continente America s’impone nella poesia della B., ma non riesce a occupare interamente il suo spazio interiore: la sua ricerca continua, in un percorso sempre più approfondito, dentro l’essere. Sul paesaggio domestico di Geography III (1976) si affaccia delicatamente la presenza dell’impenetrabile e si afferma il senso di mistero universale.
Modernista nel rendere l’irrazionale o il prerazionale ricorrendo al mito e nel riproporre lo stato del linguaggio primitivo, la poesia della B. può dirsi postmoderna nella costruzione di uno spazio linguistico culturale entro il quale l’io si mette in gioco e si definisce fino a identificarsi con l’umanità intera.
Una scelta di poesie è stata tradotta in italiano: L’arte di perdere (1982).
Bibl.: C. W. MacMahon, E. Bishop: a bibliography 1927-1979, Charlottesville (Virginia) 1980. Si vedano inoltre: A. Stevenson, E. Bishop, New York 1966; L. Schwartz, S. P. Estess, E. Bishop and her art, Ann Arbor (Michigan) 1983; E. Bishop, a cura di H. Bloom, New York 1985.
I 7 libri di Charles Dickens da leggere assolutamente.
Scrittore ma anche giornalista, editore e persino attore: Charles Dickens è una vera star dell’Europa vittoriana. Secondogenito di undici figli, a dodici anni viene costretto a lavorare in una fabbrica di lucido da scarpe per ripagare i debiti del padre, finito in galera. Insomma, il grande narratore inglese non ha inventato nessuna delle disavventure occorse a Oliver Twist o David Copperfield: i suoi romanzi raccontano il lato oscuro di una Londra che lui conosce bene, in piena rivoluzione industriale, tra sfruttamento e progresso, miseria e prestigio.
Dickens è dunque il cantore di Londra, ma i suoi libri uscivano a puntate attesi con grande trepidazione in tutta Europa e in America. Prima di scrivere, era solito fare lunghe passeggiate, anche di notte, tra il rumore delle fabbriche e i quartieri ricchi. Per questo, come spiega George Orwell, le atmosfere cittadine dickensiane sono ancora così vivide: “Quando Dickens descrive una cosa una volta, la si ricorda per tutta la vita”. Oltre al lato socialmente impegnato dell’autore, Dickens è anche maestro di ironia e satira: indimenticabili le bizzarre caricature del Circolo di Pickwick e degli altri scritti d’esordio. La vera grandezza di Dickens sta però nell’attualità dei suoi romanzi e nella modernità dello stile narrativo. Bisognerebbe leggerli tutti, ma per chi vuole (ri)scoprire l’opera di un grande scrittore, ecco quelli che secondo noi sono i 7 libri di Charles Dickens da leggere assolutamente almeno una volta nella vita.
1) Il Circolo Pickwick –
Primo di una lunga serie di romanzi bestseller, Il Circolo Pickwick resta un capolavoro dell’umorismo. La trama funge da cornice per presentare gag memorabili e una miriade di personaggi bizzarri (a cominciare dalla strepitosa comitiva viaggiante composta da mister Pickwick, Sam Weller e soci) che mettono alla berlina la fragilità della morale inglese d’epoca vittoriana.
2) Le avventure di Oliver Twist
Le avventure di Oliver Twist è il secondo romanzo pubblicato da Charles Dickens. Sicuramente l’avrete incontrato per la prima volta a scuola, in un edizione per ragazzi o sull’antologia (o forse nella trasposizione cinematografica di Roman Polanski?). In verità questo libro è molto di più di un romanzo di formazione: la storia del giovane Oliver ha mille sfaccettature e rimane un superclassico che vale sempre la pena di custodire nella propria biblioteca e di annoverare tra i libri di Dickens da leggere assolutamente.
3) David Copperfield
Una delle commedie umane più lette d’ogni tempo. E difficilmente si trova in letteratura una descrizione più efficace del mondo visto dagli occhi di un bambino. “Di tutti i miei libri”, diceva Dickens, “amo soprattutto David Copperfield.” E si sa anche il perchè. Questo romanzo è considerato una sorta di fiction autobiografica: il racconto retrospettivo della vita di David ricorda da vicino molte delle peripezie vissute dal vero Dickens tra infanzia e maturità.
4) Canto di Natale
La più celebre delle storie sul Natale è un racconto dai profondi insegnamenti sul Bene e il Male, adatto a tutte le età, qui in una bella edizione con prefazione di Gianrico Carofiglio. Come noto, i tre fantasmi del Natale appariranno in infinite trasposizioni narrative, dal cinema al fumetto (lo stesso personaggio dello zio Paperone disneyano ha come prototipo l’avarissimo Ebenezer Scrooge). Con questo romanzo breve Dickens si consacra anche come l’inventore letterario della magia del Natale.
5) Una storia tra due città
Le due città di questo memorabile romanzo storico di Dickens sono Londra e Parigi, maestose scenografie su cui lo scrittore ambienta la sua era della Rivoluzione. Secondo alcuni sarebbe uno dei libri più venduti di tutti i tempi (con la bellezza di 200 milioni di copie). Comunque sia, resta una grande storia in cui il passato si sovrappone al presente e delinea inesorabile i rapporti tra i diversi e ancora una volta straordinari personaggi ideati da Dickens.
6) Tempi difficili
In una fittizia città industriale del tardo ‘800, papà Grandgrin, come molti suoi contemporanei, educa la famiglia a fuggire gli idealismi e la fantasia. Così spinge la figlia Louisa a un matrimonio senza amore ma assai economicamente vantaggioso. Si vedrà presto costretto a dover prendere le distanze dalle proprie convinzioni…
Il grande romanzo della maturità di Dickens: una macchina travolgente in cui ricorrono gli ingredienti consueti della sua scrittura, ma con in più un tono di favola che a tratti stempera gli eventi persino in chiave comica.
7) Grandi speranze
Grandi speranze è l’ultimo romanzo di formazione dickensiano, nonché un capolavoro assoluto del genere. Protagonista indimenticabile è il giovane orfano Pip nel suo sogno di far fortuna e salvarsi la vita. Molti critici vedono anche nella filigrana di Grandi speranze una traccia autobiografica: narratore e protagonista, Pip racconta da adulto il suo cammino di conoscenza e disillusione di fronte ai casi della vita in un misto di humour e compassione nel ricordare la propria ingenuità.
David Copperfield di Charles Dickens – Articolo di Giovanni Teresi-Fonte RAI Cultura-
David Copperfield è l’ottavo romanzo dello scrittore inglese Charles Dickens e rientra nei romanzi sociali . L’opera, inizialmente, è stata pubblicata a puntate mensili tra il 1849 e il 1850 con il titolo originale The Personal History, Adventures, Experience and Observation of David Copperfield the Younger of Blunderstone Rookery (Which He Never Meant to Be Published on Any Account).
É il romanzo più popolare ed autobiografico di Dickens.
David Copperfield, dopo la morte della madre, lascia Blunderstone per Londra. Mr Murdstones, il patrigno, lo obbliga ad andare a lavorare al magazzino di vini di Murdstone and Grimby. All’ età di dieci David diventa un piccolo apprendista. Egli lavora insieme con altri tre o quattro ragazzi che lavorano sotto il controllo di un supervisore adulto. David descrive la miseria e la sporcizia del posto di lavoro. Così, sotto la sferza del tirannico maestro Creakle e la fatica del lavoro in fabbrica, sperimenta presto la durezza della vita.
Ma grazie alle cure della bizzarra zia Betsey, che lo aiuta a sistemarsi presso l’avvocato Wickfield e a terminare gli studi, David scoprirà la propria vocazione letteraria e riconquisterà il suo rango borghese. Impareggiabile nel raccontare paure ed emozioni dell’universo infantile, Dickens sfodera doti di acuto osservatore nel disegnare la galleria di tipi umani che ruota attorno al protagonista: da Mr. Micawber, sempre sull’orlo del fallimento ma capace del più genuino entusiasmo, all’ammirato compagno di studi Steerforth, che rivelerà da adulto la sua natura spregiudicata e viziosa, al servile e viscido Uriah Heep, il cattivo della storia. Alla fine del diciannovesimo secolo il lavoro minorile e le dure condizioni erano considerate una cosa normale e i piccoli lavoratori erano sottoposti a grossi rischi. Ma David non può esprimere la segreta agonia della sua anima. Egli vede il futuro in modo negativo e non ha speranza: nessuna possibilità di crescere e di distinguersi come individuo. La miseria del suo lavoro e la sua condizione sociale soffocano i suoi sogni e le sue aspettative.
Con geniale esuberanza il romanzo intreccia commedia e tragedia sullo sfondo di una Londra prototipo della metropoli moderna e tetra incubatrice di miseria, solitudine, crimine.
Charles Dickens miscelando insieme una buona dose di dramma ma anche di ironia, riesce a trasmettere al lettore una miriade di emozioni, che passano dalla tristezza, alla gioia, dalle risate alle lacrime, dalla rabbia ai sospiri. Insomma, immergersi tra le pagine di David Copperfield equivale a vivere un vero e proprio viaggio non solo in un’epoca passata, ma anche in sensazioni molto forti, che rendono la lettura un’esperienza completa e piena.
Stoccolma 22 ottobre 1964 – L’Accademia di Stoccolma conferisce a Jean-Paul Sartre il Nobel per la letteratura allo scrittore e filosofo francese Jean Paul Sartre. Ma questi rifiuta il riconoscimento. Come aveva già spiegato in occasione del conferimento della Legione d’Onore nel 1945, e dell’attribuzione del seggio al Collegio di Francia, egli ritiene che tali onori alienino la sua libertà di pensiero.
Jean-Paul Sartre:”Le ragioni personali sono le seguenti: il mio rifiuto non è un atto di improvvisazione. Ho sempre declinato gli onori ufficiali. Quando nel dopoguerra, nel 1945, mi è stata proposta la Legione d’Onore, ho rifiutato malgrado avessi degli amici al governo. Ugualmente non ho mai desiderato entrare al Collège de France come mi è stato suggerito da qualche amico…. Non è la stessa cosa se mi firmo Jean Paul Sartre o Jean Paul Sartre Premio Nobel… Lo scrittore deve rifiutare di lasciarsi trasformare in istituzione, anche se questo avviene nelle forme più onorevoli, come in questo caso.”
Breve Biografia di Jean-Paul Sartre-Romanziere, drammaturgo e filosofo francese (Parigi 1905 – ivi 1980).Pensatore tra i più significativi del Novecento, la sua filosofia si riallaccia alla fenomenologia di E. Husserl e all’analitica esistenziale di M. Heidegger. Abbracciato poi il marxismo, S. volle integrarlo con le scienze umane, al fine di fondare un metodo di conoscenza “progressivo-regressivo”, capace di ricostruire la formazione globale degli individui. Egli cercò altresì di cogliere le condizioni e le strutture invarianti della dialettica storica. Vasta la sua produzione filosofico-letteraria: tra le sue opere principali meritano di essere citate Le mur (1939; trad. it. 1947); Les mouches (1943); L’existentialisme est un humanisme (1946; trad. it. 1964).
Vita
Dopo gli studî all’École normale supérieure, dove ebbe condiscepoli P. Nizan e R. Aron e conobbe S. de Beauvoir, cui fu legato per tutta la vita, insegnò filosofia nei licei a Le Havre e a Parigi. Nel 1933-34 usufruì di una borsa di studio presso l’Istituto francese di Berlino. Chiamato alle armi (1939), fu fatto prigioniero dai Tedeschi; liberato nel 1941, tornò a Parigi e partecipò alla Resistenza. Nel 1945 fondò la rivista Les temps modernes, attraverso la quale poté diffondere le sue posizioni filosofiche, politiche e letterarie. Dopo l’esperienza (1948-49) nel Rassemblement démocratique révolutionnaire, critico verso il gaullismo come verso lo stalinismo, si avvicinò alle posizioni della sinistra marxista, accentuando negli anni successivi il suo impegno politico, che, apparso oscillante tra marxismo democratico e comunismo sovietico, gli procurò sia le critiche dei comunisti sia quelle degli anticomunisti (clamorosa la rottura, nel 1952, con A. Camus, e quella, nel 1953, con M. Merleau-Ponty). Intervenne in difesa dell’Indocina (1953), contro la repressione sovietica in Ungheria (1956), a sostegno della libertà algerina (1960), contro i crimini di guerra statunitensi nel Vietnam (nel 1967 fu presidente del Tribunale Russell), contro l’invasione della Cecoslovacchia (1968). Allineatosi durante il “maggio francese” con le posizioni della sinistra extraparlamentare, fu direttore de La cause du peuple (dal 1970), di Révolution (dal 1971) e di Libération (dal 1973). Nel 1964 aveva ottenuto il premio Nobel per la letteratura, che tuttavia rifiutò.
Pensiero e opere filosofiche
Il pensiero filosofico di S. è esposto in una serie di scritti pubblicati tra il 1936 e il 1960: L’imagination (1936; trad. it. 1962); Esquisse d’une théorie des émotions (1939); L’imaginaire (1940; trad. it. 1948); L’être et le néant (1943; trad. it. 1958); il già citato L’existentialisme est un humanisme; Critique de la raison dialectique (1960; trad. it. 1964). A partire dalla fenomenologia di Husserl e dall’esistenzialismo di Heidegger, S. perviene all’elaborazione di un’analisi esistenziale della coscienza, che gli si rivela come un “nulla d’essere”. Di qui il tema esistenzialistico dell’assoluta libertà a cui l’uomo è condannato e dell’angoscia e dello scacco a cui la libertà conduce. Il pessimismo radicale del primo periodo della speculazione sartriana sarebbe stato successivamente temperato in una prospettiva intesa a fare dell’esistenzialismo un “umanismo” in cui l’assoluta libertà, dapprima avvertita come fonte di angoscia, viene reinterpretata in termini di responsabilità etica e politica nei confronti della società e della storia. Si comprende così, almeno in parte, l’avvicinamento di S. al marxismo, anche se quello sartriano sarà sempre un marxismo non dogmatico. È soprattutto nella Critique de la raison dialectique che S., pur accettando il materialismo storico e il concetto di alienazione, elabora un’aspra critica del marxismo ufficiale e dell’ideologia dei partiti comunisti, caratterizzati da dogmatismo e sterilità euristica. In particolare, del marxismo ufficiale S. respinge l’economicismo e il materialismo dialettico, proponendo un’integrazione tra marxismo ed esistenzialismo, dalla quale emerga la centralità dell’uomo nella società e nella storia.
Opere letterarie
Strettamente legata alla speculazione filosofica è l’opera letteraria di S., a cominciare dal romanzo La nausée, pubbl. nel 1938 (trad. it. 1947), cui seguirono la già citata raccolta di novelle Le mur e il ciclo di romanzi, rimasto incompiuto, Les chemins de la liberté (L’âge de raison, 1945, trad. it. 1946; Le sursis, 1945, trad. it. 1948; La mort dans l’âme, 1949, trad. it. 1954), in cui dai temi dell’angoscia e della nausea si passa, con la tecnica cinematografica della simultaneità, al dramma generale dell’Europa della seconda guerra mondiale. Nel teatro si avvalse di un’azione breve e violenta e di un linguaggio sobrio per dibattere mediante il ricorso al mito le grandi questioni del mondo contemporaneo: la prima pièce fu la summenzionata Les mouches (1943), una trasposizione moderna dell’Orestiade. Seguirono Huis clos (1944; trad. it., col precedente, 1947), in cui l’idea che ognuno vivendo si crea il proprio inferno è espressa attraverso la figura dei tre personaggi costretti a stare insieme e ad essere ciascuno dei tre il carnefice degli altri due; La putain respectueuse (1946; trad. it. 1947), che affronta il tema del razzismo; Morts sans sépulture (1946), dramma della Resistenza; Le mains sales (1948; trad. it., col precedente, 1949), che contrappone idealismo rivoluzionario e realismo politico; Le diable et le bon Dieu (1951; trad. it. 1966); Nekrassov (1956); Les séquestrés d’Altona (1959, trad. it. 1966). Una forte tensione conoscitiva anima anche il libro autobiografico Les mots (1964; trad. it. 1964) e la ricca produzione saggistica: Réflexions sur la question juive (1946; trad. it. Ebrei, 1948); Baudelaire (1947; trad. it. 1947); Situations, I-X (1947-76), raccolta che include Qu’est-ce que la littérature? (trad. it. 1966); Saint Genet, comédien et martyr (1952; trad. it. 1972), volume introduttivo alle opere di J. Genet; L’idiot de la famille: Gustave Flaubert de 1821 à 1857 (3 voll., 1971-72; trad. it. 1977); ecc. Postumi sono apparsi, tra l’altro: Les carnets de la drôle de guerre (1983, nuova ed. accr., 1995; trad. it. 2002); Cahiers pour une morale (1983; trad. it. 1991); Lettres au Castor et à quelques autres, 1926-1963 (2 voll., 1983; trad. it. 1996), lettere d’amore; il 2º vol. incompiuto della Critique de la raison dialectique (1985; trad. it. 1990); Verité et existence (1989; trad. it. 1991); Les écrits de jeunesse (1990), raccolta di testi composti tra il 1922 e il 1927.
Breve Biografia di Antonia Petrone è nata e vissuta a New York, ha due figli e ora vive in Italia. La natura, la bellezza dei campi e del cielo e l’istinto che riscalda il cuoreè la sua fonte di ispirazione poetica. Scrive poesie in inglese e in italiano, queste ultime pubblicate per la prima volta nella collana Tracce. Pubblica con “Poeti e Poesia” nel 2018 le sue prime opere in inglese fino ad ora conservate gelosamente. Viaggiare e fotografare le immagini che danno ispirazione alle sue opere è diventata una vera passione.
Crede nel profondo che la gioia nasce ed esiste da sempre dentro di noi e che la gioia di dare è più grande di quella che si riceve.
Una donna un fiore
Con piacere la guardi
luminosa e dai mille colori
una donna, un fiore.
Con gentilezza la sfiori
mai violento e con tenerezza
una donna, un fiore.
Con dolcezza le sussurri
pensieri, rispettando la sua essenza
una donna, un fiore.
Con attenzione l’ascolti
solo il suo sguardo racconta mille cose
una donna un fiore.
Con amore assapori
il suo modo di essere, la sua vitalità
un uomo che ama, una donna, un fiore.
Sole stella madre
Il cielo è azzurro e lui splende.
Le colline attorno sono verdi
e accolgono ogni suo raggio.
Accompagna il giorno lieto e festoso
lentamente poi si addormenta
e si nasconde dietro le colline
perché nessuno si accorga della sua assenza.
Mi fermo davanti a lui
e catturo la sua immagine
mentre scompare dietro la collina.
E’ bello anche quando si addormenta e
ci regala i suoi colori unici.
Ora riposa per poi lentamente
svegliarsi l’indomani e donarci ancora
la sua infinita bellezza.
Tu e il mare
Il mare, Grande e Generoso come Te
Il Mare pieno dei suoi frutti
e Tu pieno di valori e risorse,
Il Mare che crea le prime forme di vita
con amore senza tempo
e Tu che costruisci il focolare
per i tuoi cari con amore infinito,
Il sole tramonta sul Mare
che Tu amavi tanto
È solo un riposo momentaneo,
Il dolce risveglio è illuminato
da un sole raggiante
e finalmente i tuoi sforzi appagati
da tanto candore.
Sei Albero nel mio cuore
Ti portò il vento sul mio prato,
cadde una pioggia dolce e insistente
e tu lentamente crescesti.
Le tue radici invasero il mio terreno
senza che io potessi fermarti.
Ora ti guardo così alto, forte e vivo
e mi emoziona vederti così bello, così armonioso.
Sento volare le farfalle che fuori escono dal mio cuore
per posarsi sulle tue foglie verdi, tenere e accoglienti
a farti solletico per ricevere una tua carezza
e addormentarsi fra i tuoi rami dolcemente.
Un occhio sul mare a Varigotti
Splende attraverso l’occhio
l’azzurro, il riflesso, la purezza,
la sua meraviglia incanta.
D’un tratto una scintilla risveglia lo sguardo
e l’occhio si riempie di gioia.
Rimane lì a guardare per sempre il suo amato,
il mare, che con tanta semplicità ha saputo
riempire l’occhio di eterno amore.
Quando lei…
Quando lei con un solo gesto sa riempire il vuoto che hai dentro
Quando lei ti guarda negli occhi e ti dice che sei speciale
Quando lei si muove lentamente e ti tende la mano
Quando lei vola ad abbracciarti senza pensare
Quando lei sa capirti senza parlare
Quando lei ride con te
Quando lei ti ama
Quando e’
lei
il
tuo
calice
di cristallo prezioso e delicato,
sii frizzante e brinda sempre alla sua felicità.
The Painter
God like a painter draws our life from a blank piece of paper
they are all so different, one from the other.
Some of our pages may be gracefully lit with color,
Others are sketched with no clear outlines.
Some are completely white but never insignificant.
Colored ones can fade, sketched ones be dashed with color
and the white may never even turn to grey.
Why.. we ask ourselves… why may this painter
that is so creative leave a white page blank?
Pureness is white, simplicity is clear, love is blind.
And so are our eyes in front of a white page.
God, enlighten our eyes to see simply and clearly
your boundless and everlasting love
whatever your drawing of our life may be…
My love fly high….
Just about to fly thousands of feet high in the skies,
his thoughts so sweet for children’s tender eyes.
A loving heart that shelters hope, joy and kindness,
so afraid of his own heart, behind a shield of shyness.
May he open up to happiness and look up with no regret,
stand tall soon on the ground, mind and soul that don’t forget.
Let the bells of joy resound and ring far up in the sky so blue
So that once we meet again his heart opens to my love so true.
To my Daughter
She loves to travel the world
and discover new places
although on her own
she welcomes new faces
her life like a precious book
with colorful bright images
words and pictures full of love
fill all of her precious pages.
with all my love
Mom
Dark sky shine your light
Dark patches above in the sky
moving slowly over my head
a blink of lightning passing by
soft is the wind coming ahead.
No shower yet to feed the hungry field
no gusts of wind to wipe away our sorrow
only shy lightning to a promise sealed
sky shine your light through our tomorrow.
Gioia
Corrile incontro, forza corri
e abbracciala teneramente abbandonati.
Lei che ti accompagna quando senti la felicità che nasce,
lei che ti incoraggia quando la tristezza ti prende,
lei che si muove lenta e si maschera nella tua vita.
Donale fiducia, sorridi, afferrala,
scopri il suo valore, apprezzala.
Respira e vivi la sua essenza,
meravigliati ogni volta che la incontri
eccola che arriva, prendila, Gioia ti attende.
Una lacrima in viaggio
Quanto pensate possa durare il viaggio di una lacrima?
Pensate che duri poco?
Che la sua vita sia breve?
No affatto, in realtà è un viaggio lunghissimo
e percorre una strada morbida e lenta.
Si ferma a tratti per riempirsi sempre più di ricordi.
Poi prosegue fino a scendere e cadere in un mare sconosciuto
e perdersi nella sua immensità.
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La casa editrice romana PAGINE è stata fondata nel 1992 da Letizia Lucarini. Pagine mira a coprire diversi settori di un’attività tanto vasta come quella letterari, partendo da due filoni principali; uno riservato alla pubblicazione di riviste specializzate ad alto livello culturale e uno dedicato a testi universitari e scolastici. La casa editrice inoltre organizza e sostiene varie iniziative legate al mondo della poesia, dell’arte e della cultura in generale.
A questo proposito è nata la Rivista internazionale Poeti e Poesia, diretta da Elio Pecora; è stato istituito il Premio Pagine di Poesia e pubblicate, nell’elegante collana “Il Cigno”, voci importanti della poesia contemporanea come Corrado Calabrò, Vito Riviello, Dante Maffia.
Le altre riviste che la casa editrice pubblica sono: “Avanguardia”, quadrimestrale di letteratura contemporanea diretta dai professori Francesca Bernardini Napoletano e Aldo Mastropasqua dell’Università di Roma “La Sapienza”, affiancata dal fascicolo di Avanguardia Scuola, che propone esercizi didattici per la scuola superiore sia di I grado sia di II grado. “Scholia”, rivista dedicata allo studio delle lingue classiche, diretta dal prof. Alessandro Cesareo. La rivista di matematica “Progetto Alice”, d0.0iretta dal Prof. Mario Barra dell’Università “La Sapienza” di Roma. “Plaisance”, diretta dal prof. Gabriele-Aldo Bertozzi dell’Università “G. D’Annunzio” di Pescara. Fiori all’occhiello sono le nuove riviste “Lavori in corso”, diretta dalla Prof. Stefania Senni e composta da due fascicoli rivolti alla scuola primaria e a quella secondaria di primo grado, che propone un’ampia scelta di unità di apprendimento e di laboratori didattici da sottoporre agli studenti e “Teatro contemporaneo e cinema”, diretta dal Prof. Gianfranco Bartalotta (Cattedra di Storia del Teatro e dello Spettacolo, Facoltà di Scienze della Formazione Roma Tre) con la consulenza e la presidenza onoraria dell’insigne storico del cinema Mario Verdone e la collaborazione di numerosi studiosi delle più prestigiose Università italiane, di esperti del settore (attori, registi, scenografi, doppiatori, sceneggiatori, critici e giornalisti) e studiosi di didattica, formazione e mass media. La pubblicazione, a cadenza quadrimestrale, si propone di analizzare gli aspetti fondamentali delle correnti teatrali e cinematografiche del Novecento, il “secolo breve” che stravolge le certezze positivistiche e i valori tradizionali.
Dal 2009 riprende vita, infine, Voce Romana, bimestrale di 64 pagine diretto da Sandro Bari, che si occupa di cultura, poesia, dialetto, storia, arte e tradizioni popolari e che continua idealmente la rivista fondata dal Prof. Giorgio Carpaneto, e che darà ampio spazio alla voce della varie associazioni culturali romane in modo da diventare di fatto l’organo del Salotto Romano, la finalità del quale è la massima e pienamente libera diffusione della cultura romana in ogni suo aspetto, senza alcuna restrizione.
Di grande rilevanza per la casa editrice è il filone che segue i testi universitari e scolastici, tra cui segnaliamo le opere in sei volumi de La Critica Italiana Moderna e Contemporanea, La Poesia Moderna e Contemporanea, dirette dal prof. Carlo Muscetta, Il Teatro Contemporaneo, diretto dal prof. Mario Verdone, Le Novelle Italiane, a cura di Goffredo Bellonci e Mario Petrucciani, La Storia Contemporanea, diretta da Armando Saitta, La Letteratura Italiana Contemporanea, diretta da Mario Petrucciani, Scrittori di Grecia e di Roma, diretta dal prof. Giovanni D’Anna, La Letteratura Americana diretta da Elemire Zolla e La Storia del cinema del prof. Gian Piero Brunetta.
Ampio spazio è dedicato alle iniziative culturali: è stato realizzato, con il contributo della Provincia di Roma, il progetto di portare i Poeti e la poesia nelle scuole superiori di Roma e provincia; è stato pertanto bandito un concorso, con in palio tre borse di studio, rivolto agli studenti di tutte le scuole superiori.
La casa editrice, inoltre, ha organizzato degli incontri di poesia con grandi poeti nel carcere di Rebibbia e realizza ogni anno dei corsi di scrittura creativa per i detenuti e le detenute.
In collaborazione con la rivista di letteratura latina e greca “Scholia”, Pagine ha organizzato il Certamen Horatianum a Licenza, in provincia di Roma, dove si trova la villa del poeta latino Orazio.
Da diversi anni va in onda su Sky una trasmissione di Poesia.
La casa editrice Pagine sarà lieta di poter rispondere ad ogni suo quesito. Non esiti a contattarci: La casa editrice Pagine sarà lieta di poter rispondere ad ogni suo quesito.
pubblicate dalla Rivista «Atelier»-Nota di Pietro Barbera
Ilaria Palomba, scrittrice, poetessa, studiosa di filosofia, ha pubblicato i romanzi Fatti male (Gaffi; tradotto in tedesco per Aufbau-Verlag), Homo homini virus (Meridiano Zero; Premio Carver 2015), Una volta l’estate (Meridiano Zero), Disturbi di luminosità (Gaffi), Brama (Perrone), Vuoto (Les Flâneurs; presentato al premio Strega 2023 e vincitore del premio Oscar del Libro 2023); le sillogi Mancanza (Augh!), Deserto (premio Profumi di poesia 2018), Città metafisiche (Ensemble), Microcosmi (Ensemble; premio Semeria casinò di Sanremo 2021; premio Virginia Woolf al premio Nabokov 2022), Scisma (Les Flâneurs, settembre 2024), ; il saggio Io Sono un’opera d’arte, viaggio nel mondo della performance art (Dal Sud). Ha scritto per La Gazzetta del Mezzogiorno, Minima et Moralia, Pangea, Il Foglio, Succedeoggi. Ha fondato il blog letterario Suite italiana, collabora con le riviste La Fionda, Le città delle donne, Inverso, Versolibero.
«Io sono l’onorata e la disprezzata». Sulla poesia di Ilaria Palomba-Nota di Pietro Barbera
Avendo avuto l’opportunità di leggere in anteprima la nuova silloge della poetessa Ilaria Palomba, mi consento qualche osservazione, spunto critico, trasalimento, in piena libertà.
Il poemetto è abbagliante: le immagini si susseguono di giorno in giorno, di stanza in stanza, in piena terribile nudità, senza simbolismi eccessivi, né orpelli, né caricature. Non si ravvisa maniera qui. Si trafigge (e ci si trafigge) dritto per dritto, e ciò nonostante mantenendo sempre un’ammirevole compostezza formale, scevra da sbavature.
“Cos’è la dignità? Sono rimasta nel mezzo – immobile – nella vastità di nessuno”, scrive Palomba. Scisma certo parla (anche) di suicidio, ma non è, a mio parere, un diario poetico di un’esperienza personale. Questo è un punto di tema, di contenuto, che considero assai dirimente: NON è il diario poetico di un’esperienza suicidaria che si dipana secondo il classico mitologema Morte/Rinascita. Infatti la poetessa non è “rinata”, ma è stata “restituita”, quasi suo malgrado. Perché non è stata lasciata andare via? Dio, il Caso? “Devi restare, creatura infelice/nella bolgia della mente/nella frattura del mondo/del tuo mondo/nell’avversione al corpo/al nulla caduco /al nulla vacuo/all’immobilita/alla paralisi”. Palomba attraversa la suprema seduzione della Caduta che la consegnerebbe alla sottrazione radicale, alla dissoluzione dell’ego ed estinzione d’ogni conflitto (“essere cielo”), ed invece si trova restituita, ma smembrata, lacerata, nell’angusta immobilità di un letto d’ospedale, per tanti mesi, dove protagoniste sono la stanza, le infermiere, le pareti con le loro voci, i persecutori interni mai sazi. E il cielo sì riappare, ma scorto, perlopiù immaginato, dalla finestra di quella stanza. E sono tutti i cieli del mondo, condensati dalla colpa e dalla nostalgia: “cosa ho fatto al mio corpo?”. Domanda che la attanaglia senza tregua. E allora Scisma, ma anche crepa, crepaccio, ferita, frattura, lacerazione: tutti sostantivi che rimandano ad un’irredimibile separazione (dal sé di prima, “Non avrai più nome. Rinuncia al tuo nome”, dall’amato, dalla vita di prima). Ma il”volo”; non è pieno, è cavo, appartiene al regno dell’indicibile. E la Poetessa si ritrova non già corpo vivo e animato, ma Korpen, “nuda materia plasmabile”; per usare le sue parole, a guardare le “enormi fauci dell’ospedale”; che “masticano i corpi”; dei convenuti a giudizio. Ma il suicidio si rivela ancora epifenomeno: il più profondo tema sotteso a tutta la silloge é la lettera”s”. Si, proprio una singola lettera: quella s anteposta che porta Oltre sempre (sconfinare, smarginare, sbordare, sradicare, sgretolare), e l’estremo pericolo insito in questo cammino, la necessità di praticarlo con un controllo, con una funzione coscienziale liminale che permetta di “dissipare senza dissiparsi”, citando ancora l’Autrice. Tutto questo ha presentato un conto salatissimo (“Il volo cavo/il prezzo della furia”): la necessità di affrontare quotidianamente il non accettato, il corpo, i nuovi limiti imposti. Prezzo della Colpa: esito paradossale, feroce nemesi per chi avrebbe voluto sempre “slimitare”;. Palomba infatti prova struggente nostalgia per il corpo e la vita che precede lo Scisma, ma anche per l’ospedale e financo per la “pazzia”, per la libertà dell’infinito sbordare: costretta a vivere nell’ “altrimenti”; sorto dalla restituzione, indossando nuove maschere che rendano praticabile una vita in sé sempre impossibile. L’Appello si palesa a Dio e al mondo alla fine del giorno 73: “alta marea è vicina e forte è la buriana/Ancorate la nave!”. Il rischio supremo é avviluppato al proprio destino di sconfinatrice ed esploratrice di abissi (i propri in primis): ma parrebbe profilarsi anche un’altra via all’agognata dissoluzione, forse la rinuncia al mondo (che resta senza possibilità di Verità), forse l’estatica contemplazione del muto mistero che tutto sovrasta. Riuscirà Ilaria Palomba a “rinunciare al suo nome”? E, soprattutto, veramente lo vorrà? Leggere “Scisma” significa farsi attraversare dal “Pericolo” di artaudiana memoria, sondare (senza per forza abbracciare) costituenti antropologiche annidate nell’interiorità di ciascuno; parallelamente però richiede al lettore un’ineludibile disponibilità, un abbandono, un eclissarsi di difese in una temporanea epochè.
Pietro Barbera-
Pietro Barbera, quarantaseienne libero di stato, privo di precedenti letterari e di altra natura, vive a Novara e vi lavora svolgendo la professione di assistente a-sociale. Ha alle spalle studi sociologici e la frequenza del Master in “Death Studies; the End of Life” presso l’Università degli Studi di Padova, nel cui contesto la poetessa e indologa Laura Liberale, durante un seminario, l’ha sollecitato a dedicarsi con maggiore impegno alla scrittura. Burocrazie del Dolore, edito da Giuliano Ladolfi Editore 2024, ne è l’opera prima.
Poesie di Ilaria Palomba
Da “Scisma” (Les Flâneurs, 2024)
Giorno 11
Le infermiere aprono la finestra
il mattino trabocca di lacrime
violaceo azzurrato l’albore tuona –
Schubert copre la nudità dei corpi
avvizziti gremiti di piaghe.
Al mattino il Colosseo Quadrato
sporge nel tramestio di nubi.
Al mattino penso al mio corpo
alla fine del sogno
alla fine dei giochi
un corpo disabitato – l’anima
anela prega piange –
tentativo di uscirne.
Devi restare, creatura infelice,
nella bolgia della mente
nella frattura del mondo
del tuo mondo
nell’avversione al corpo
al nulla caduco
al nulla vacuo
all’immobilità
alla paralisi.
*
Giorno 17
Valium. Litio. Clozapina. Lyrica. Polveri mefitiche lassative. Più di dieci farmaci. La pillola per il fegato: in rianimazione avevo il fegato perforato, l’arteria epatica pronta a deflagrare. Ventotto trasfusioni. È abbastanza come anestesia? Tornati nelle stanze dormiamo tutto il giorno per vivere una vita che non sia questa, per dimenticare il dolore, per inventare un fuori. Dimentica la successione del ricordo, cancella la persona, non esiste il prima. Infettate le pareti; sporche di merda le lenzuola. Cos’è la dignità? Sono rimasta nel mezzo – immobile – nella vastità di nessuno.
*
Giorno 26
Qui è la ghiera del persecutore interno,
non hai rivali fuori da te stessa.
L’uomo illuminato dal demonio
parla la lingua delle bestie:
Qui si smarrisce la coscienza.
Qui si aprono i multipli.
Vuoi vivere o morire?
Rinuncia al tuo nome, o la vita o il tuo nome.
Guarda, guardalo. Anche lui è qui.
Sono tutti qui. Aspettano.
Siamo qui per pulire.
*
Giorno 29
Non voglio essere salva
per restare nell’ombra.
Adesso, sai, non ricordo
il volo cavo,
il prezzo della furia.
Nuda materia plasmabile.
Proteggi le ossa,
allontana la bestia.
Si schiude la ferita, sangue e buio
giacere sgraziata all’esistenza,
crebbe in te la ferita, restò nuda,
avrebbe martellato l’osso sacro,
avrei guardato tutto l’angelico
suppurare in infero, smarginare.
*
Giorno 49
La vecchia nella mia stanza ha un mieloma, è peggiorata. Siamo una moltitudine di solitudini. Li ho guardati qualche volta negli occhi. Erano i restituiti. Veniva l’uomo della stanza accanto a portarmi il cornetto. Lo chiamo F. Diceva: Come sei finita dentro il tumulto? L’ospedale aveva enormi fauci e masticava i nostri corpi. Trovare la forza di portare a termine il pensiero.
Come sei finita?
Un pensiero fecondo mentre muovo la gamba cattiva. Dovrò occuparmi di tutto ciò che ho lasciato. Nulla si può sospendere se non l’attesa. Dovrò occuparmi dell’ottusità.
*
Giorno 54
È rimasto qualcosa di umano in te?
Quanto ancora dovrai attendere?
E la tua smania, chi saprà estirparla?
Una pietà maldestra ti apre all’ascolto
ma un giudizio feroce ti ottunde il pensiero.
Non puoi più seguire i desideri,
Imparerai ogni cosa di nuovo
e sarà un po’ diversa.
Avrai un altro nome.
*
Giorno 73
Nella lontananza dell’idrogeno
il cloro si annoia. Tu con me
aderendo fino alla fine, foglia,
non ti annoi, se l’albero si
scuote e ti strappa via. Io
foglia non mi arrendo se
tu vita mi strappi via. Io,
nella lontananza di questo
reparto, dopo aver gettato
la spugna, risalgo alla vita
stessa. Che sia il barbaglio
di questo sole, sradicamento,
il suicidio non conosce
retrovie, non ho visto il
mio corpo cadere ma
ho sentito cantare un
coro soave. Dove siete,
sorelle? Io vi chiamo
dal letto diciotto, della
stanza numero quattro
dell’unità spinale. Venite,
nel giardino, dove possiamo
camminare, zoppicando.
Era l’alta marea in me
a gettare scompiglio,
era l’altra, colei che
non voglio, e non sono.
Ognuno nel fondo è
un altro. Riprendere
il timone, ancorare la
nave. Dentro un tormento
cui non sono pronta,
l’alta marea è vicina
e forte è la buriana.
Ancorate la nave!
*
Inediti
Se io non fossi l’acerbo sventrato
ma il verbo dell’oltre,
se non avessi macchiate le vesti
di sangue,
se io non portassi in grembo i segni
del mare,
se fossi limpida come il mare
che bagna i tormenti,
se fossi limpida come il mare
che bagna i suoi campi,
se conoscessi il preludio e il perdono,
se una pietà abitasse il corpo,
se una pietà venisse a strapparmi dal
gesto,
se avessi occhi di madre e non sguardo
furioso di figlia,
se io fossi foglia e non magnolia,
se io potessi scombuiare e svanire,
se io potessi smarrire il senno e svenire,
se solo potessi annientarmi e obliare,
se non vedessi gli occhi e gli sguardi,
se non fossero forbici le mani
e gli occhi pugnali,
se non scimitarre le bocche
o gherigli,
e se potessi non rispondere
all’ingiuria col pianto,
ma con l’incanto di chi conosce la fine,
ma con la voce che risale il perdono,
ma con la voce del perdono accolto,
ma con l’avvento di una pietà smarrita,
ma con la memoria di una vita arresa,
non patirei le mani, gli occhi, gl’inganni.
La mente vacilla, il suono del ricordo
annerisce i palmi, oscura le mani.
Io mi rivolsi al cielo e lui mi vinse,
mi rivolsi al mare e l’abisso mi tagliò
in porzioni sottili più e più volte.
alla città fantasma
*
Se tu tornassi io ti accoglierei
nelle mie braccia, ti accoglierei
viva e morta, ti accoglierei,
tu nemesi, tu cieco, tu traudito,
sei il seme dell’uomo e della donna,
il sangue e il giogo e la caduta,
il cervello raccolto dalle membra,
sei la via verso il vuoto,
l’aspersione del fianco,
anima mundi e anima immundi,
sei sangue del mio sangue,
sei cuore del mio cuore,
sei ventre sventrato,
sei la parola smembrata nel vizio,
sei il santo cui votai il crollo,
l’unico biancore del precipizio,
sei tenebra e luce,
accecato e ritornante,
sei l’immondo amante,
sei catena di ruggine rappresa,
sei la mia intera discesa
tra i palazzi crepati della terra,
qui batte il sole e ragliano i cani,
qui siamo all’ora dell’orizzonte vermiglio,
e le case bucate hanno finestre di occhi,
e io fui tua moglie e tu mio figlio,
e fosti il padre e la madre e la conchiglia,
fioritura nera di crisalide estinta,
io sono la tua nemesi spuria,
impara il tempo del mio tempo,
l’arte feroce dello smembramento,
– io sono l’onorata e la disprezzata
io sono la prostituta e la santa
io sono la sposa e la vergine
io sono la prima e l’ultima –
Iside cieca sul fondo
della tua stirpe brunita,
sono la menade e il sacrificio,
e tutte le guerre furono arrese
alla grazia della tua immensa sparizione.
a Iside
*
La notte prima della crocifissione
guardammo le frane e la terra,
guardammo l’algore dell’uomo,
nessuno seppe chiedere perdono.
Perché sono tornata a te adesso?
Per sconquassare la ruggine
nelle mani o per non sapere,
non ho coscienza delle piaghe,
nell’altissimo cercare l’uomo,
la via baluginante nella gioia,
alla ferita succede l’abbandono.
a Gesù Cristo
La rivista «Atelier»
La rivista «Atelier» ha periodicità trimestrale (marzo, giugno, settembre, dicembre) e si occupa di letteratura contemporanea. Ha due redazioni: una che lavora per la rivista cartacea trimestrale e una che cura il sito Online e i suoi contenuti. Il nome (in origine “laboratorio dove si lavora il legno”) allude a un luogo di confronto e impegno operativo, aperto alla realtà. Si è distinta in questi anni, conquistandosi un posto preminente fra i periodici militanti, per il rigore critico e l’accurato scandaglio delle voci contemporanee. In particolare, si è resa levatrice di una generazione di poeti (si veda, per esempio, la pubblicazione dell’antologia L’Opera comune, la prima antologia dedicata ai poeti nati negli anni Settanta, cui hanno fatto seguito molte pubblicazioni analoghe). Si ricordano anche diversi numeri monografici: un Omaggio alla poesia contemporanea con i poeti italiani delle ultime generazioni (n. 10), gli atti di un convegno che ha radunato “la generazione dei nati negli anni Settanta” (La responsabilità della poesia, n. 24), un omaggio alla poesia europea con testi di poeti giovani e interventi di autori già affermati (Giovane poesia europea, n. 30), un’antologia di racconti di scrittori italiani emergenti (Racconti italiani, n. 38), un numero dedicato al tema “Poesia e conoscenza” (Che ne sanno i poeti?, n. 50).
Direttore generale e responsabile: Giuliano Ladolfi Coordinatore delle redazioni: Luca Ariano
Redazione Online
Direttore editoriale: Giovanni Ibello Caporedattrice: Valentina Furlotti Redazione: Giovanna Rosadini, Gisella Blanco, Lucrezia Lombardo, Sarah Talita Silvestri, Massimo D’Arcangelo, Piero Toto, Emanuele Canzaniello, Giovanni Di Benedetto. Collaboratori ed ex collaboratori: Michele Bordoni, Gerardo Masuccio, Antonio Fiori, Matteo Pupillo, Giulio Maffii, Daniele Costantini, Francesca Coppola, Mario Famularo, Paola Mancinelli
Redazione Cartaceo
Direttore: Giovanna Rosadini Redazione: Mario Famularo, Giulio Greco, Alessio Zanichelli, Mattia Tarantino, Giuseppe Carracchia, Carlo Ragliani, Eleonora Rimolo.
Da ragazza visse per un breve periodo nella casa della deceduta Edna St. Vincente Millay, dove aiutò la sorella di costei, Norma, nel riordino e nella conservazione delle carte di famiglia. Negli anni cinquanta ha frequentato sia l’Ohio State University che il Vassar College, ma senza conseguirvi diplomi. Ha abitato a Provincetown, Massachusetts, per più di quarant’anni. La sua partner, Molly Malone Cook, le ha fatto da agente letterario per tutta la vita.
Opera
Intensa e gioiosa osservatrice del mondo naturale, Mary Oliver viene spesso paragonata a Walt Whitman e Henry David Thoreau. Le sue poesie sono ricche di immagini quotidiane provenienti dalle paludi vicino a casa sua a Provincetown: pivieri, serpenti d’acqua, le fasi della luna e le megattere, sono gli elementi maggiormente rappresentati. Maxine Kumin chiama la Oliver “una pattugliatrice delle paludi” allo stesso modo in cui Thoreau era un esploratore delle “bufere di neve” e “una infaticabile guida al mondo naturale”.[1] La sua opera, infatti, rappresenta uno dei punti più elevati della poesia consacrata alla natura. Coi suoi lavori ha aperto molte strade per la presa di coscienza della crisi ambientale. Oliver usa uno stilelinguistico semplice e chiaro per far condividere ai lettori il suo amore per gli altri esseri viventi. La sua casa è la “Grande Madre” terra che onora nelle sue poesie.
No Voyage, and Other Poems (1963, prima edizione; 1965, (edizione ampliata)
The River Styx, Ohio, and Other Poems (1972)
The Night Traveler (1978)
Twelve Moons (1978)
Sleeping in the Forest (1979)
American Primitive (1983)
Dream Work (1986)
Provincetown (1987, edizione limitata con incisioni in legno di Barnard Taylor)
House of Light (1990)
New and Selected Poems (1992)
A Poetry Handbook (1994)
White Pine: Poems and Prose Poems (1994)
Blue Pastures (1995)
West Wind: Poems and Prose Poems (1997)
Rules for the Dance: A Handbook for Writing and Reading Metrical Verse (1998)
Winter Hours: Prose, Prose Poems, and Poems (1999)
The Leaf and the Cloud (2000, poema in prosa)
What Do We Know (2002)
Owls and Other Fantasies: poems and essays (2003)
Why I Wake Early: New Poems (2004)
Blue Iris: Poems and Essays (2004)
Long Life: Essays and Other Writings (2004)
New and Selected Poems, volume two (2005)
At Blackwater Pond: Mary Oliver Reads Mary Oliver (2006, audio cd)
Thirst: Poems (2006)
Our World (2007) con fotografie realizzate da Molly Malone Cook
Mary Oliver – Poetessa statunitense LE OCHE SELVATICHE
*
Non devi essere buono.
Non devi trascinarti ginocchioni,
pentito, per cento miglia attraverso il deserto.
Devi soltanto permettere a quel mite animale, al tuo corpo, di amare ciò che ama.
Parlami della tua disperazione, io ti racconterò la mia.
Intanto, il mondo va avanti.
Intanto, il sole e gli splendenti sassolini della pioggia
attraversano i paesaggi,
passano sopra le praterie e gli alberi dalle profonde radici,
sopra le montagne e i fiumi.
Intanto, le oche selvatiche, alte nel limpido azzurro,
fanno nuovamente ritorno a casa.
Chiunque tu sia, per quanto tu possa essere solo,
il mondo si offre alla tua immaginazione,
ti manda il suo richiamo come le oche selvatiche, aspro ed eccitante:
annuncia incessantemente la tua appartenenza
alla famiglia delle cose.
—————————————————–
Mary Oliver – Tre inediti dalla Rivista ATELIER-(Traduzione di Giuseppe d’Abramo)
Il sole
Hai mai visto
niente
nella tua vita
di più prodigioso
del modo in cui il sole,
ogni sera,
ampio e disteso,
fluttua verso l’orizzonte
dentro nuvole e colline,
o nel mare spiegazzato,
per perdersi –
e come sbuchi ancora
fuori dall’oscurità,
ogni mattina,
dall’altra parte del mondo,
come un fiore rosso
galleggiando verso l’alto sui suoi oli celesti,
diciamo, un mattino di inizio estate,
alla sua perfetta suprema distanza –
e hai mai sentito per qualcosa
un tale amore selvaggio –
pensi che esista in qualche posto, in una qualsiasi lingua,
una parola che si gonfi abbastanza
per il piacere
che ti riempie,
mentre il sole
si allunga,
ti riscalda
quando sei lì in piedi
a mani vuote –
o anche tu ti sei allontanato
da questo mondo –
oppure
sei impazzito
per il potere,
per il possesso?
Alcune domande che potresti fare
L’anima è solida come il ferro?
O è tenera e fragile come le ali
di una falena nel becco di un gufo?
Chi ce l’ha, e chi no?
Continuo a guardarmi intorno.
La faccia dell’alce è triste
come la faccia di Gesù.
Il cigno apre lentamente le sue ali bianche.
In autunno, l’orso bruno trasporta le foglie nell’oscurità.
Una domanda segue l’altra.
Possiede una forma? Come un iceberg?
Come l’occhio di un colibrì?
Ha un polmone, come il serpente o il pettine di mare?
Perché dovrei averla io e non il formichiere
che ama i suoi cuccioli?
Perché io e non il cammello?
Pensaci bene, che dire degli alberi d’acero?
Cosa dell’iride blu?
Cosa dire di tutti i sassolini seduti soli al chiaro di luna?
Cosa dire delle rose, e dei limoni, e delle loro foglie lucenti?
Che dire dell’erba?
Dormendo nella foresta
Pensavo che la terra si ricordasse di me, che
mi riportasse indietro così teneramente, sistemandosi
la gonna scura, le tasche piene di semi
e di licheni. Dormivo come mai prima d’ora,
una pietra sul letto del fiume, nulla
tra me e il fuoco bianco delle stelle,
soltanto i miei pensieri che si libravano
agili come falene tra i rami
degli alberi perfetti. Per tutta la notte
sentivo attorno a me i piccoli regni
respirare, gli insetti e gli uccelli che svolgono
il loro lavoro nell’oscurità. Per tutta la notte
caddi e mi rialzai, come in acqua, lottando
con un destino luminoso. Al mattino
ero svanita almeno una dozzina di volte
in qualcosa di migliore.
Mary Oliver (1935-2019)-Poetessa statunitense, vincitrice del National Book Awards 1992 e del Premio Pulitzer 1984, è autrice di 32 raccolte poetiche e di quattro saggi sulla poesia. Il New York Times l’ha definita “Di gran lunga, la poetessa di questo paese che ha venduto di più”.
Giuseppe D’Abramo (1988), laureato in Lettere Moderne, vive a Milano. Ha pubblicato poesie e racconti sulle riviste Atelier, Gradiva, Inchiostro, Sagarana, Grado Zero, A4, Il Raccoglitore e su la Repubblica di Roma e Milano per Bottega di poesia.
L’Altrove -Blog di poesia contemporanea italiana e straniera
Uno dei giganti della poesia britannica del XX secolo è senza dubbio Ted Hughes
Ted Hughes nacque a Mytholmroyd, nello Yorkshire, nel 1930. Dopo aver prestato servizio nella Royal Air Force, frequentò Cambridge, dove studiò archeologia e antropologia, interessandosi in particolare di miti e leggende. Nel 1956 conobbe e sposò la poetessa americana Sylvia Plath, che lo incoraggiò a presentare il suo manoscritto a un primo concorso di libri organizzato dal The Poetry Center. Giudici dal calibro di Marianne Moore, WH Auden e Stephen Spender assegnarono il primo premio a TheHawk in the Rain (1957) cosa che assicurò a Hughes la reputazione come poeta di statura internazionale.
Secondo il poeta e critico Robert B. Shaw la poesia di Hughes ha segnato un drammatico allontanamento dalle modalità prevalenti del periodo. La poesia stereotipata dell’epoca era determinata a non rischiare troppo: educatamente domestica nell’argomento, sobria e leggermente ironica nello stile. Al contrario, Hughes ha schierato un linguaggio di risonanza quasi shakespeariana per esplorare temi che erano mitici ed elementari.
La lunga carriera di Hughes include volumi di successo senza precedenti come Lupercal (1960), Crow (1970), Selected Poems 1957-1981 (1982) e The Birthday Letters (1998), oltre a molti amati libri per bambini, tra cui The Iron Man (1968). Con Seamus Heaney curò due popolari antologie. Nominato esecutore testamentario del patrimonio letterario di Sylvia Plath, curò diversi volumi del suo lavoro. Fu anche traduttore di alcune opere di autori classici, tra cui Ovidio ed Eschilo.
Poeta, traduttore, editore e autore di libri per bambini incredibilmente prolifico, Ted Hughes venne nominato poeta laureato nel 1984, incarico che ha ricoperto fino alla sua morte. Tra i suoi numerosi riconoscimenti, la nomina all’Ordine al Merito, una delle più alte onorificenze britanniche.
Il paesaggio rurale della giovinezza di Hughes nello Yorkshire ha esercitato un’influenza duratura sul suo lavoro. Leggere la poesia di Hughes significa entrare in un mondo dominato dalla natura, soprattutto dagli animali. Questo vale per quasi tutti i suoi libri, da The Hawkin theRaina Wolfwatching (1989) e MoortownDiary (1989), due delle sue ultime raccolte. L’amore di Hughes per gli animali è stato uno dei catalizzatori nella sua decisione di diventare un poeta. Secondo il London Times, Hughes una volta ha confessato “di aver iniziato a scrivere poesie nell’adolescenza, quando si rese conto che la sua precedente passione per la caccia agli animali nel suo nativo Yorkshire si era conclusa con il possesso di un animale morto o, nel migliore dei casi, con una trappola. Voleva catturare non solo animali vivi, ma la vitalità degli animali nel loro stato naturale: la loro natura selvaggia, la loro quiddità, la volpe della volpe e il corvo del corvo. Tuttavia, l’interesse di Hughes per gli animali era generalmente meno naturalistico che simbolico. Utilizzando figure come “Crow” per approssimare un mitico uomo comune, il lavoro di Hughes parla della sua preoccupazione per i poteri vatici, persino sciamanici, della poesia. Lavorando in sequenze ed elenchi, Hughes ha spesso scoperto una sorta di lingua inglese autoctona, ma letteraria. Secondo Peter Davisonnel New York Times, “Mentre abita i corpi delle creature, per lo più maschi, Hughes si arrampica di nuovo lungo la catena evolutiva. Cerca in profondità anche negli enigmi del linguaggio, quelli che precedono ogni lingua data, lingua che puzza di foresta o addirittura di giungla. Tali poesie spesso contengono un tocco, o più di un tocco, di melodramma, delle brutali tragedie di Seneca che Hughes ha adattato per il palcoscenico moderno.
Le pubblicazioni postume di Hughes includono Selected Poems 1957-1994 (2002), una versione aggiornata e ampliata dell’edizione originale del 1982, e Letters of Ted Hughes (2008), che sono state curate da Christopher Reid e mostrano la voluminosa corrispondenza. Secondo David Orr le “lettere di Hughes sono immediatamente interessanti e accessibili a terzi a cui non sono indirizzate” , e le sue osservazioni disinvolte sulla poesia possono essere sorprendentemente perspicaci. La pubblicazione di Collected Poems (2003) ha fornito nuove intuizioni sul suo processo di scrittura. Sean O’Brien ha osservato: “Hughes ha condotto più di una vita come poeta”. Pubblicando entrambi i volumi singoli con Faber, Hughes ha anche pubblicato un’enorme quantità di lavoro attraverso piccole macchine da stampa e riviste. Queste poesie spesso non venivano raccolte e sembra che il poeta considerasse i suoi sforzi di piccola stampa come esperimenti per vedere se le poesie meritassero di essere collocate nelle raccolte. O’Brien ha continuato: “Chiaramente [Hughes] aveva bisogno di scrivere tutto il tempo, e molte delle poesie fino a quel momento non raccolte hanno l’aria provvisoria di riposare per un momento prima di essere portate a termine, tranne per il fatto che metà del tempo non è stato completato. e non era nemmeno il problema… per quanto riguarda l’intero corpus di lavoro, Hughes sembra essere stato più interessato al processo che al risultato”.
Sebbene Hughes sia oggi inequivocabilmente riconosciuto come uno dei più grandi poeti del XX secolo, la sua reputazione di poeta durante la sua vita fu forse ingiustamente incorniciata da due eventi: il suicidio di Sylvia Plath nel 1963 e, nel 1969, il suicidio della donna per la quale lasciò Sylvia, Assia Wevill, che a sua volta tolse la vita alla loro giovane figlia, Shura. In qualità di esecutore testamentario di Plath, la decisione di Hughes di distruggere il suo diario finale e il suo rifiuto dei diritti di pubblicazione delle sue poesie infastidirono molti nella comunità letteraria. Plath fu presa da alcuni come simbolo del genio femminile soppresso nel decennio successivo al suo suicidio, e in questo scenario Hughes fu spesso scelto come cattivo. Le sue letture furono interrotte da grida che lo indicavano come “assassino” e il suo cognome, che compare sulla lapide di Plath, fu ripetutamente deturpato. Le decisioni impopolari di Hughes riguardo agli scritti di Plath, su cui aveva il controllo totale dopo la sua morte, erano spesso al servizio della sua definizione di privacy; rifiutò perfino di discutere del suo matrimonio con Plath dopo la sua morte. Fu quindi con grande sorpresa che, nel 1998, il mondo letterario ricevette il ritratto piuttosto intimo di Plath di Hughes sotto forma di Birthday Letters, una raccolta di poesie in prosa che coprono ogni aspetto del suo rapporto con la sua prima moglie. La raccolta ricevette elogi e censure dalla critica; Il desiderio di Hughes di rompere il silenzio intorno alla morte della moglie venne accolto con favore, anche se le poesie stesse furono spesso esaminate. Tuttavia, nonostante le riserve, Hughes ricevette recensioni positive e in queste la raccolta venne definita come “emozionante e diretta”, le poesie più forti del libro come “tranquille, riflessive e colloquiali” e lo stesso poeta come “un vecchio marito che sfoglia un album di fotografie con un fantasma.”
Sebbene segnato da un periodo di dolore e polemiche negli anni ’60, la vita successiva di Hughes fu trascorsa scrivendo e coltivando la terra. Sposò Carol Orchard nel 1970 e con lei visse in una piccola fattoria nel Devon. Continuò a scrivere e pubblicare poesie fino alla sua morte, di cancro, il 28 ottobre 1998. Nel 2011 venne inaugurato un memoriale a Hughes nel famoso Poets Corner of Westminster Abbey.
TED HUGHES – 5 POESIE
TRATTE DA “PENSIERO-VOLPE E ALTRE POESIE” (MONDADORI – 1973)
DONNA CHE HA PERSO LA CONOSCENZA
Russia e America girano intorno l’una all’altra;
minacce dan di gomito a un atto che era senza dubbio
uno sciogliersi della matrice nella madre,
pietre in scioglimento intorno alla radice.
Spento il vivo della terra:
la fatica di tutte le nostre epoche una perdita
fino alla foglia e all’insetto. Tuttavia un pensiero fugace
(da non ritenersi ridicolo)
schiva il nero che cancella il mondo
nel gioco della sua ombra: ha imparato
che non vi sono date cui affidarsi (affidate alla fortuna)
quando è stabilito che il mondo brucerà;
che il futuro non è calamitoso mutamento
ma adesso un simulare malattia,
storie, città, volti che nessuna
malignità o disgrazia sconvolgono molto.
Sebbene bombe si contrappongono a bombe,
sebbene l’umanità intera spira e nulla sopravvive –
la terra finita in una vampata fulminea –
una minor morte giunse
sul bianco letto d’ospedale
dove una, stordita oltre i suoi ultimi sensi,
chiuse gli occhi sull’evidenza del mondo
ed affondò la testa nel guanciale
QUATTRO LUGLIO
Le calde secche e i mari da cui rechiamo il nostro sangue
scemarono adagio; raffreddate
in estuario d’acque di scolo, in laghetto vivaio di trote.
Persino il Rio delle Amazzoni è vessato e perlustrato
per stabilire leggi da parte di poche mascelle –
piranha e giaguaro.
Il fiato da venditore ambulante di Colombo
soffiò all’interno attraverso l’America del Nord
uccidendo l’ultimo dei mammut.
Le mappe giuste non hanno mostri.
Ora i vaneggianti spiriti della mente
scacciati dalle loro a detta di viaggiatori
irraggiungibili isole,
dai loro paradisi e dai loro brucianti inferi,
attendono ottusamente al semaforo,
o si curvano sui titoli, senza assimilare nulla.
LA PORTA
Fuori sotto il sole s’erge un corpo.
È crescita del mondo solido.
È parte del muro di terra del mondo.
Le piante della terra – quali i genitali
e l’ombelico infloreo
vivono nei suoi crepacci.
Pure alcun creature della terra – quali la bocca.
Sono tutte radicate nella terra, o mangiano terra, terrose,
ispessendo il muro.
Ma c’è un ingresso nel muro –
un nero ingresso:
la pupilla dell’occhio.
Per quell’ingresso giunse Corvo.
Volando da sole a sole, trovò questa dimora.
ESSERINO
O esserino, che ti nascondi dai monti tra i monti
ferito dalle stelle e che perdi ombra
che mangi la terra medicinale.
O esserino piccolo senz’ossi piccolo senza pelle
che ari con la carcassa di un fanello
che mieti il vento e trebbi le pietre.
O esserino, che tambureggi nel cranio di una mucca
che danzi con le zampette di un moscerino
col naso d’un elefante con la coda d’un coccodrillo.
Diventato così saggio diventato così terribile
suggendo i muffiti capezzoli della morte.
Siediti sul mio dito, cantami nell’orecchio, o esserino.
PENSIERO-VOLPE
Immagino la foresta di questo momento di mezzanotte:
altro è vivo
oltre la solitudine dell’orologio
e questa pagina bianca dove si muovono le mie dita.
Attraverso la finestra non vedo stelle:
qualcosa più vicino
sebbene sia più profonda entro l’oscurità
sta penetrando la solitudine:
freddo, delicatamente come la neve scura,
il naso di una volpe tocca un ramoscello, una foglia;
due occhi servono un movimento che adesso
e ancora adesso e adesso e adesso
depone chiare tracce sulla neve
tra gli alberi, e cautamente un’ombra
storpia si trascina tra ceppi e nell’incavo
di un corpo che ha l’audacia di giungere
attraverso radure, un occhio,
un verde fondo e dilatato,
brillante e concentrato,
che se ne viene per i fatti suoi
sino a che, con improvviso acuto caldo puzzo di volpe
non penetri la buca nera della testa.
Ancora senza stelle è la finestra; batte l’orologio,
la pagina è tracciata.
5 poesie di Ted Hughes (Mytholmroyd, 17 agosto 1930 – Londra, 28 ottobre 1998)
tratte da “Pensiero-volpe e altre poesie”, a cura di Camillo Pennati (Mondadori, 1973).
L’Altrove è un Blog di poesia contemporanea italiana e straniera
L’Altrove intende ripercorrere insieme a voi la storia della poesia fino ai giorni nostri.
Si propone, inoltre, di restituire alla poesia quel ruolo di supremazia che ultimamente ha perso e, allo stesso tempo, di farla conoscere ad un pubblico sempre più vasto.
Troverete, infatti, qui tutto quello che riguarda la poesia: eventi, poesie scelte, appuntamenti di reading, interviste ai poeti, concorsi di poesia, uno spazio dedicato ai giovani autori e tanto altro.
Noi de L’Altrove crediamo che la poesia possa ancora portare chi legge a sperimentare nuove emozioni. Per questo ci auguriamo che possiate riscoprirvi amanti e non semplici seguaci di una così grande arte.
Breve biografia di Giovanna Bemporad nasce a Ferrara nel 1928. È una poetessa precocissima: inizia a pubblicare traduzioni in versi dai classici già a sedici anni (l’Eneide di Virgilio, pubblicata in parte nell’Antologia dell’Epica per i tipi di Enrico Bemporad a Firenze). Frequenta il liceo classico di Bologna, dove conosce altri giovani letterati. Antifascista di famiglia ebrea, atea convinta sfida il regime col proprio comportamento: vive da sola in “un enorme stanzone, un tavolo vastissimo e carico oltre misura di libri”, veste da uomo, si trucca di bianco e tratta alla pari coi coetanei uomini. Vuole, soprattutto, essere libera, essere trattata alla pari.
Scoppia la Guerra, che interrompe la vita. Uno dei compagni bolognesi, Pier Paolo Pasolini, si rivolge agli amici per aiutarlo nel gestire l’improvvisato liceo che sta tenendo a Casarsa, perché è troppo pericoloso per i ragazzi prendere il treno per Pordenone o Udine. Così Giovanna sfolla in Friuli, dove rimarrà fino al 26 gennaio del 1944. A chi gli chiede il motivo dei suoi modi disinvolti, del suo vestire da uomo, risponde provocatoriamente “sono lesbica”. Collabora con la rivista il Setaccio, sotto lo pseudonimo di Giovanna Bembo. Sfuggita alle persecuzioni, nazi-fasciste continuerà per alcuni anni a condurre una vita errabonda, fino al matrimonio con il senatore Giulio Cesare Orlando nel 1957.
La poesia di Giovanna Bemporad si ritagliano una nicchia particolare: classicista fuori dal tempo, filologa (nel senso etimologico del termine), sospesa tra una pulsione decadente della morte e una forte carica erotica, che ricorda i frammenti di Saffo. Minuziosa cesellatrice di parole, dedica la maggior parte della sua vita e della sua creatività alla sua versione dell’Odissea di Omero. Diceva del primo dei poeti greci “Omero è il punto d’arrivo della poesia occidentale. Il più grande di tutti. Tocca l’assoluto con assoluta semplicità”. Di quella traduzione, rimasta incompleta, esistono due edizioni a cura di Le Lettere (1990 e 1992). Morirà a Roma, il 6 gennaio 2013.
Mia compagna implacabile la morte
persuade a lunghe veglie taciturne.
Ma non so che inquietudine febbrile
fa ingombro a questo dolce accoglimento
calando il sole, prima che ogni gesto
si traduca in memoria e che ogni voce
s’impigli nel silenzio. Forse il vento
porta come un rammarico del tempo
che non è più, trascina per le strade
deserte una fiumana d’ombre care.
E biancheggia un’immagine tra i gigli
di giovane assopita nel suo riso.
#
………Variazione su tasto obbligato
Non domare, implacabile, il mio riso
mentre il fiore del melo incanutisce;
non recidermi il filo dei pensieri
d’un tratto, ma da sogni e disinganni
lascia che docilmente io mi separi
solo quando alla tua certezza giova
sacrificare il nostro dubbio stato;
quando non amerò che il mio dolore
tu chiamerai meno importuna al nulla:
io con la fronte smemorata l’orma
seguirò del tuo piede, e questo arcano
insondabile azzurro andrà dissolto
come il sogno di un’alba.
#
Non farmi così sola come il vento
che si dispera in questa notte fonda
fino a morirne, eternamente sola
non farmi, come già sono da viva,
sotto la volta immensa ch’è misura
del nostro nulla. In punto di lasciare
questa mia fragile vicenda, tutte
le mie dolci abitudini, e la gioia
che spesso segue all’urto del dolore,
voglio adagiarmi su una zolla d’erba
nell’inerzia, supina. E avrò più cara
la morte se in un attimo, decisa,
piano verrà, toccandomi una spalla.
per questi testi si ringrazia il sito rebstein
Ex voto
.
Dea velata di marmo e di silenzio
casta, racchiusa nel perpetuo inganno
del tuo corpo ideale, anima impura-
sento alitarmi un sonno di belletti
dalle tue ciglia; vedo tra le labbra
dove il pennello, non l’aurora, ha pianto
petali rossi, ravvivarsi l’ambra
dei tui denti all’assalto delle risa.
Si colma il cuore di un battito d’ali
quando tu accosti la crescente luna
delle tue ciglia alla nuvola ombrosa
dei miei capelli: o ninfa, o baiadera,
non che adirarmi col vento d’amore
sospendo ai tuoi squillanti braccialetti
e alle tue lunghe mani una bianchezza
di mute solitudini, e il tuo collo
sfioro con disarmati occhi indolenti.
.
da Esercizi, Garzanti, 1980.
A UNA ROSA
*
China sul margine del tuo segreto,
o rosa in veste diafana, mollezza
di corpo ignudo, incrollabile tempio
che in vigilanza d’amore mi tieni,
non so di che rilievi si componga
la tua bellezza. E all’onda dei profumi
che col ritmo di un alito tu esali
misuro il tuo pallore e il mio languore.
Mi tenta ogni tuo petalo concluso
nel giro di una linea sensitiva,
mollemente incurvato e pieno d’ombra.
Breve biografia di Giovanna Bemporad nasce a Ferrara nel 1928. È una poetessa precocissima: inizia a pubblicare traduzioni in versi dai classici già a sedici anni (l’Eneide di Virgilio, pubblicata in parte nell’Antologia dell’Epica per i tipi di Enrico Bemporad a Firenze). Frequenta il liceo classico di Bologna, dove conosce altri giovani letterati. Antifascista di famiglia ebrea, atea convinta sfida il regime col proprio comportamento: vive da sola in “un enorme stanzone, un tavolo vastissimo e carico oltre misura di libri”, veste da uomo, si trucca di bianco e tratta alla pari coi coetanei uomini. Vuole, soprattutto, essere libera, essere trattata alla pari.
Scoppia la Guerra, che interrompe la vita. Uno dei compagni bolognesi, Pier Paolo Pasolini, si rivolge agli amici per aiutarlo nel gestire l’improvvisato liceo che sta tenendo a Casarsa, perché è troppo pericoloso per i ragazzi prendere il treno per Pordenone o Udine. Così Giovanna sfolla in Friuli, dove rimarrà fino al 26 gennaio del 1944. A chi gli chiede il motivo dei suoi modi disinvolti, del suo vestire da uomo, risponde provocatoriamente “sono lesbica”. Collabora con la rivista il Setaccio, sotto lo pseudonimo di Giovanna Bembo. Sfuggita alle persecuzioni, nazi-fasciste continuerà per alcuni anni a condurre una vita errabonda, fino al matrimonio con il senatore Giulio Cesare Orlando nel 1957.
La poesia di Giovanna Bemporad si ritagliano una nicchia particolare: classicista fuori dal tempo, filologa (nel senso etimologico del termine), sospesa tra una pulsione decadente della morte e una forte carica erotica, che ricorda i frammenti di Saffo. Minuziosa cesellatrice di parole, dedica la maggior parte della sua vita e della sua creatività alla sua versione dell’Odissea di Omero. Diceva del primo dei poeti greci “Omero è il punto d’arrivo della poesia occidentale. Il più grande di tutti. Tocca l’assoluto con assoluta semplicità”. Di quella traduzione, rimasta incompleta, esistono due edizioni a cura di Le Lettere (1990 e 1992). Morirà a Roma, il 6 gennaio 2013.
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