Antonio Nazzaro – Poesie Inedite pubblicate dalla Rivista AtelierRivista Atelier-
Antonio Nazzaro (Torino, Italia, 1963). Giornalista, poeta, traduttore, video artista e mediatore culturale. Fondatore e coordinatore del Centro Cultural Tina Modotti. È direttore di diverse collezioni di poesia italiana e latinoamericana per differenti case editrici.
* * *
adesso che non ho più il silenzio
ma un fischio senza fine
sento solo il silenzio degli altri
quello a fare solitudine
la lingua incagliata tra i denti
della parola non detta
quella di un mondo del lavoro
a negare la dignità senza dire
orfano di terra di madre
parlo con te acufene
un ascoltare te
che non ascolti me
*
sono una conchiglia di terra
muovo passi sul mattino alpino
alla finestra lo sguardo
fa il cielo mare piatto
sono una conchiglia
l’orecchio porta nella testa
l’eco degli oceani e dei mari
tutti quelli possibili dell’emigrante
l’acufene seduto sul lobo
canta mille lingue e terre
in un solo fischio
*
sento il canto delle sirene d’Ulisse
il richiamo dell’onda mediterranea
il frangersi della spuma degli oceani
il muoversi lento del lago
il vento a spazzare le strade d’Europa
il ciclone a scuotere le palme caraibiche
il turbinio delle foglie d’autunno
il pizzicare della cetra sull’incendio di Roma
il ritmo del charango sulla povertà dei barrios
il ballo del tango e delle balere di periferia
il suono dell’arte continuo
come Van Gogh lascio
l’orecchio sul comodino
a sentire lo scorrere del Rodano
a passare senza posa come un acufene
*
non mi perderò nella nebbia densa di Londra
trafitta dal canto perduto di Trafalgar
né in quella spessa dell’Eridano
a riecheggiare le urla della batracomiomachia
né in quella impigliata alle cime andine
attraversata dal fischiettare del Libertador
né in quella versata da Atena sulle coste d’Itaca
a nascondere lo sguardo d’Ulisse
né in quella dolce addormentata sulle Highlands
tessuta dagli elfi dell’acqua
il fedele acufene destriero dello stridio
dalle nebbie richiama alla terra
e non si può perdere il cammino
solo seguire l’infinito sibilo
*
ho un dio nella testa
sicuramente ortodosso
non scende mai dal pulpito
o dal minareto
la sua chiamata è costante
si è rubato il silenzio
confonde le parole sulla lingua
e gioca a girarmi intorno a farmi girare
è un demiurgo che non smette di battere
uno stakanovista dimenticato in miniera
sbatte come il vento le finestre
e si porta via i pensieri
anche quelli amorosi soffia via
lasciandomi in una solitudine piena
piena di lui ovviamente
e non è neanche bello
sembra un neon impazzito
che non smette di vibrare la luce
tutti mi dicono di non pensarci
ma lui non smette di pensarmi
acufene l’allarme che
un ladro non sa spegnere
Biografia di Antonio Nazzaro (Torino, Italia, 1963). Giornalista, poeta, traduttore, video artista e mediatore culturale. Fondatore e coordinatore del Centro Cultural Tina Modotti. È direttore di diverse collezioni di poesia italiana e latinoamericana per differenti case editrici. Ha pubblicato le sillogi: Amore migrante e l’ultima sigaretta (RiL Editores, Chile; Arcoiris, Italia, 2018), Corpi Fumanti (Uniediciones, Bogotá, 2019) e Diario amoroso senza date, Fotoromanzo poetico (Edizioni Carpa Koi, Italia, 2021), La dittatura dell’amore (Edizioni Delta 3, collezione Aeclanum, Italia, 2022). Un libro di racconti brevi: Odore a (Edizioni Arcoiris, Italia, 2014) e il libro di cronaca e poesia: Appunti dal Venezuela, 2017, Vivere nelle proteste (Edizioni Arcoiris, Italia, 2017). Suoi testi sono stati pubblicati in differenti lingue su riviste e antologie nazionali e internazionali.
Biblioteca DEA SABINA
-La rivista «Atelier»-
http://www.atelierpoesia.it
La rivista «Atelier» ha periodicità trimestrale (marzo, giugno, settembre, dicembre) e si occupa di letteratura contemporanea. Ha due redazioni: una che lavora per la rivista cartacea trimestrale e una che cura il sito Online e i suoi contenuti. Il nome (in origine “laboratorio dove si lavora il legno”) allude a un luogo di confronto e impegno operativo, aperto alla realtà. Si è distinta in questi anni, conquistandosi un posto preminente fra i periodici militanti, per il rigore critico e l’accurato scandaglio delle voci contemporanee. In particolare, si è resa levatrice di una generazione di poeti (si veda, per esempio, la pubblicazione dell’antologia L’Opera comune, la prima antologia dedicata ai poeti nati negli anni Settanta, cui hanno fatto seguito molte pubblicazioni analoghe). Si ricordano anche diversi numeri monografici: un Omaggio alla poesia contemporanea con i poeti italiani delle ultime generazioni (n. 10), gli atti di un convegno che ha radunato “la generazione dei nati negli anni Settanta” (La responsabilità della poesia, n. 24), un omaggio alla poesia europea con testi di poeti giovani e interventi di autori già affermati (Giovane poesia europea, n. 30), un’antologia di racconti di scrittori italiani emergenti (Racconti italiani, n. 38), un numero dedicato al tema “Poesia e conoscenza” (Che ne sanno i poeti?, n. 50).
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Grazia Deledda- Nuova luce sul suo esordio letterario-
– Articolo di Fabrizio Federici-
Nel 2021 ricorreranno 150 anni dalla nascita (Nuoro,1871) di Grazia Deledda, l’autrice di “Canne al vento” ed “Elias Portolu”, Nobel per la Letteratura 1926, scrittrice poliedrica che tanti critici hanno cercato inutilmente d’ inquadrare nei piu’ vari filoni letterari, dal verismo ( ebbe, in effetti, le lodi di Luigi Capuana, per il suo romanzo del 1896 “La via del male”, e di Giovanni Verga) al regionalismo, al decadentismo, all’ esistenzialismo (dato anche il suo interesse per Dostoevskij e Tolstoi) . Neria De Giovanni, scrittrice e giornalista, presidente dell’ Associazione Internazionale Critici Letterari, organizzatrice del “Premio Nazionale Alghero Donna di Letteratura e Giornalismo”, ha pubblicato, ultimamente, un altro saggio sulla Deledda ( cui ha dedicato, sinora, 15 libri): “Grazia Deledda- Corrispondenze giovanili” (Nemapress ed., Alghero,e. 15,00).
Saggio in cui l’ Autrice evidenzia la falsità del clichè che vorrebbe la Deledda “scrittrice per caso”, esordita nella letteratura per una serie di circostanze fortuite: in realtà, la scrittrice nuorese inizia a scrivere a soli 17 anni, pubblicando alcuni racconti, “Sangue sardo” e “Remigia Helder”, sulla rivista romana “L’ultima moda”, diretta da Epaminonda Provaglio. Sulla stessa testata sarà poi pubblicato, a puntate, il romanzo “Memorie di Fernanda”, mentre nel 1890 uscirà sempre a puntate ,sul quotidiano di Cagliari “L’avvenire della Sardegna”, firmato con lo pseudonimo Ilia de Saint Ismail, il romanzo “Stella d’Oriente”; e a Milano, presso l’editore Trevisini, “Nell’azzurro”, libro di novelle per l’infanzia.La De Giovanni ricostruisce attentamente ,attraverso appunto le sue corrispondenze giovanili, gli esordi letterari e i primi amori della Deledda; a lungo combattuta – un po’come già Leopardi, diremmo -tra l’amore per la sua terra natale e l’uggia quotidiana provata nel vivere in “borgo selvaggio” che non puo’ che andarle sempre piu’ stretto.
Nel 1892 – vero anno chiave della storia d’Italia, che vede il primo governo Giolitti, la rivolta popolare dei fasci siciliani, lo scandalo della Banca Romana e la nascita, al congresso di Genova,in agosto,del Partito dei Lavoratori Italiani, il futuro PSI – la Deledda pubblica sul quindicinale “La vita sarda” la sua prima recensione, riguardante il romanzo “Vigliaccherie femminili”, del giornalista e scrittore Giulio Cesari. Nipote di quel Padre Antonio Cesari in passato protagonista di polemiche “cruscanti” sul purismo nella lingua italiana, e amico di Italo Svevo. E’ il primo passo di un viaggio che porterà gradualmente Grazia a contatto con l’ ambiente cosmopolita e poliedrico della mitteleuropea Trieste di fine ‘800- primi decenni del ‘900: la Trieste, in definitiva, di Svevo, Umberto Saba, Scipio Slataper, del gallerista e critico d’arte Leo Castelli e di un certo James Joyce, agli inizi della sua parabola…
Nel libro, Neria de Giovanni ha potuto pubblicare – vera “chicca” filologica- la riproduzione dell’originale (4 fogli scritti fronte/retro) della recensione deleddiana del romanzo di Cesari, donatole, nel 2004, dall’avvocato Pasquale Giordano, professionjsta romano e collezionista d’arte; che l’aveva avuta, a sua volta, dal prozio Arturo Giordano, a suo tempo in corrispondenza con Grazia Deledda.
Sempre all’ aspra, quanto nobile, terra di Sardegna, appartiene un’altra autrice che ha pubblicato con Nemapress: Maria Teresa Petrini, medico, docente di geriatria all’ Università di Cagliari, membro dell’ AMSI, Associazione Medici Scrittori Italiani, nell’ XI legislatura eletta consigliere regionale e poi Presidente della commissione Cultura del Consiglio regionale sardo. “La magia dei ricordi nascosti” (2019, e. 18,99) . Un romanzo che trasporta invece il lettore nella Sardegna di oggi, sospesa tra sviluppo tecnologico e fascino del suo millenario passato, natura straordinaria e spinte indipendentiste: la Sardegna di Gavino Ledda, delle miniere del Sulcis e di…Graziano Mesina. Sì, perché al centro del romanzo c’è la vicenda di un sequestro di persona: che subisce Anna Marchi, medico originario di un paesino della Barbagia, improvvisamente rapita da professionisti del sequestro per torbidi interessi politici. In uno scenario da film, con tecnica appunto cinematografica, la Petrini narre le peripezie di Anna Marchi (suo possibile “alter ego”. diremmo), indulgendo a un joyciano ”giocare a rimpiattino” con sogni e ricordi.
Biografia di Grazia Deledda-Scrittrice italiana (Nuoro 1871 – Roma 1936). Scrittrice intensa e feconda, la sua fama si diffuse anche all’estero; nel 1926 le fu conferito il premio Nobel per la letteratura. La sua narrativa muove dal verismo a fondo regionale e folcloristico: cronache e leggende paesane, storie di passioni elementari e di esseri primitivi; ma a un mondo del peccato e del male, sentito come fatalità, e rappresentato con cupi accenti, si accompagnano o piuttosto si contrappongono un’ansia di liberazione e di riscatto, un estroso e romantico senso della vita, che trovano espressione soprattutto nella leggerezza idillica e trasognata del paesaggio.
Vita e opere
Sposatasi nel 1900 con P. Madesani, si trasferì a Roma. Esordì giovanissima con novelle e romanzi, pubblicati in modesti giornali e riviste; la prima notorietà le venne dal romanzo Anime oneste (1895), presentato da R. Bonghi, a cui seguirono La giustizia, 1899; Dopo il divorzio, 1903, ristampato col titolo Naufraghi in porto, 1920; Elias Portolu, 1903; Cenere 1904; L’edera, 1908; ecc., che presentano inconciliati i termini del dualismo tra il mondo del male e l’ansia del riscatto. Ma via via, come quella visione religiosa che la D. ha della vita viene temperando il suo biblico rigore in un senso di cristiana pietà, così quel contrasto tra verismo e lirismo viene sempre meglio componendosi in un’aria incantata, favolosa, dove le vicende umane arcanamente s’intrecciano con quelle della natura e del paesaggio. Le novelle di Chiaroscuro (1912), i romanzi Colombi e sparvieri (1912) e Canne al vento (1913) segnano i varî gradi di questo processo di fusione tematica e stilistica, il quale culminerà nei romanzi e racconti del cosiddetto secondo periodo o maniera della D. (Il segreto dell’uomo solitario, 1921; Il Dio dei viventi, 1922; Annalena Bilsini, 1927; La vigna sul mare, 1932; Cosima, post., 1937; ecc.), che mostrano come la sua narrativa, affrancatasi ormai da ogni regionalismo, per certi aspetti partecipi (fra gli autori prediletti della D., insieme con Verga e i romanzieri russi, ci fu sempre D’Annunzio) di quell’atteggiamento della sensibilità e del gusto che va sotto il nome di “decadentismo”.
Poesie di Meira Delmar – poetessa colombiana di origini libanesi-
Meira Delmar, era figlia di immigrati libanesi e compì gli studi a Barranquilla per poi trasferirsi a Roma, dove si laureò. Non si sposò mai perché, secondo le sue stesse parole, “aspettava l’amore, e non è mai arrivato”. La ricompensa a questa assenza tuttavia fu non solo la fortuna di avere grandi amici, ma anche l’ispirazione che fece di questa attesa il filone d’oro della sua poetica, attraversata da una sensualità di fondo: così ha analizzato i percorsi dell’amore e dell’oblio, descrivendo la vita con toni pacati e una gozzaniana nostalgia per ciò che non può essere. Della sua poesia la scrittrice colombiana Águeda Pizarro ha detto che “si legge come si osserva un tramonto sul mare. Ci illumina con il ricordo del giorno passato e della coscienza, tornasole come lo è il tramonto della notte che segue”.Fonte-Le Poesie provengono da -Maledetti Poeti-Blog- Il Canto delle Sirene
ASSENZA DELLA ROSA
Sospesa
nel fiume trasparente
del vento,
con un altro nome, amore,
la chiamerebbe
il cuore.
Non resta niente
del suo profumo. Nessuno
può credere, crederebbe,
che qui c’era la rosa
in un altro tempo
Soltanto io so che se faccio scivolare
la mano nell’aria, ancora
mi feriscono le sue spine.
(da Liuto della memoria, 1995)
. . CASIDAS DELLA PAROLA
1. Lampeggia, fuggendo,
la parola.
Oro del pesce che svanisce
nella schiuma, improvviso.
2. Cade dall’albero
la parola foglia.
Il poeta la segue.
Non la raggiunge.
Così giace a terra
quando avrebbe potuto
ah! vivere nel verso.
3. Arriva
la parola.
La voce vuole
afferrarla.
Ma fugge e si perde
sul dorso
dell’aria
4. Solo,
nell’azzurro mattino vola
un airone.
Lo sa Dio quale poeta
distratto
si è lasciato scappare
una parola
(da Liuto della memoria, 1995)
. MEIRA DELMAR BREVE
Arrivi quando meno
ti ricordo, quando
più lontano sembri
dalla mia vita.
Inatteso come
quelle tempeste che si inventa
il vento
un giorno immensamente azzurro.
Poi la pioggia
trascina i suoi stracci
e cancella le tue impronte.
. Il ricordo talvolta appare così, proprio come un improvviso annuvolarsi del cielo, un incresparsi dell’acqua, come lo evoca la poetessa colombiana di origini libanesi Meira Delmar. Il ricordo rimane dentro di noi, in remote lande di sinapsi e di neuroni, per poi affiorare senza preavviso. È qualcosa che ci lavora dentro, e forse è vero quello che scrive Hermann Hesse: “Credo anch’io che la nostra vita e le nostre percezioni si sviluppino a partire da un groviglio di ricordi sommersi. Forse quello che chiamiamo anima non è se non l’insieme di questi oscuri detriti di ricordi”. Poi viene la pioggia, sotto forma di oblio, a sciogliere quelle arcane macerie, a cancellare le tracce misteriosamente riapparse.
MEIRA DELMAR BREVE
Arrivi quando meno
ti ricordo, quando
più lontano sembri
dalla mia vita.
Inatteso come
quelle tempeste che si inventa
il vento
un giorno immensamente azzurro.
Poi la pioggia
trascina i suoi stracci
e cancella le tue impronte.
.
Il ricordo talvolta appare così, proprio come un improvviso annuvolarsi del cielo, un incresparsi dell’acqua, come lo evoca la poetessa colombiana di origini libanesi Meira Delmar. Il ricordo rimane dentro di noi, in remote lande di sinapsi e di neuroni, per poi affiorare senza preavviso. È qualcosa che ci lavora dentro, e forse è vero quello che scrive Hermann Hesse: “Credo anch’io che la nostra vita e le nostre percezioni si sviluppino a partire da un groviglio di ricordi sommersi. Forse quello che chiamiamo anima non è se non l’insieme di questi oscuri detriti di ricordi”. Poi viene la pioggia, sotto forma di oblio, a sciogliere quelle arcane macerie, a cancellare le tracce misteriosamente riapparse. MEIRA DELMAR IL RICORDO
Questo giorno dall’aria di colomba
sarà presto ricordo.
Mi riempirò di esso
come un’anfora di vino,
per berlo a sorsi quando vorrò
ritrovare il suo sapore.
Prima che voli nel tramonto, prima
di vedere come svanisce nella notte. . Il tempo che scorre inesorabile, il susseguirsi dei giorni, il presente che si trasforma in passato e inevitabilmente in memoria: la poetessa colombiana di origini libanesi Meira Delmar riesce però a cogliere un istante, a scoprirne un’armonia da conservare. È allora, forse, che “il tempo, fermato, trabocca / come un fiume d’oro. / E lascia scorgere sul suo fondale / chissà quali cose dimenticate”.
MEIRA DELMAR ISTANTE
Vieni a guardare con me
la fine della pioggia.
Cadono le ultime gocce come
diamanti staccatisi
dalla corona dell’inverno,
e torna a essere
nuda l’aria.
Presto un raggio di sole
accenderà il verde
del cortile,
e salteranno sul prato
ancora una volta gli uccelli.
Vieni con me e infilziamo l’istante
– farfalla di vetro –
su questa pagina.
. L’istante, il momento, l’attimo esatto in cui l’emozione si presenta: la poetessa colombiana Meira Delmar ne comprende appieno la portata, tanto da volerlo fermare, bloccare, fossilizzarlo per poterlo poi rivivere nella memoria. MEIRA DELMAR LAGGIÙ
Se un giorno dall’altro lato della vita
per caso noi di nuovo ci incontrassimo,
i nostri occhi si riconoscerebbero
o saremmo soltanto due estranei?
Ad ogni modo, ti amerei lo stesso
insieme o separati.
(da Passa qualcuno, 1998)
. La nostalgia dell’impossibile, il desiderio di qualcosa che non può essere se non nei sogni è alla base di gran parte della poetica di Meira Delmar, autrice colombiana. Questo anelito per un amore atteso e mai giunto, oppure arrivato e perduto, non è però fine a se stesso, è un perenne stato di vita, è il sottofondo di un’intera esistenza.
. MEIRA DELMAR LA SERA
Ti dirò della sera, amico mio.
La sera di campane e violette
che spargono lentamente il loro piccolo
firmamento di profumo.
La sera in cui non sei.
Il tempo, fermato, trabocca
come un fiume d’oro.
E lascia scorgere sul suo fondale
chissà quali cose dimenticate.
Il giorno si volge ancora in un lampo
del sole,
e spilla farfalle dorate
sul vetro dell’aria…
Suona un flauto nel silenzio, una
malinconica bocca innamorata,
e nella torre tinta dal crepuscolo
le colombe ripetono il loro bianco.
La sera in cui non sei… la sera
in cui ti desidero.
Qualcuno che non conosco,
apre segretamente i gelsomini
e vi rinchiude una a una le parole.
. La malinconica dolcezza di un tramonto, la bellezza dolorosa della luce del crepuscolo, quando la lontananza della persona amata fa più intenso il desiderio: così la poetessa colombiana di origini libanesi Meira Delmar racconta le sue sensazioni e le sue emozioni al calare della sera: “Vieni con me, / vieni al mio fianco / a guardare con i miei occhi / versarsi nel mare / il tramonto”.
MEIRA DELMAR PROFUMO
Ti ho ancora, amore,
come se mai
mi avessi lasciato.
Le tue mani percorrono
dolcemente il mio viso,
e sento la tua voce in un
sussurro
sfiorarmi l’orecchio.
Ti ho ancora
e penso al profumo
che di nuovo mi ferisce
sebbene il gelsomino non esista.
(da Qualcuno passa, 1998)
. Quel profumo che “di nuovo ferisce” la poetessa colombiana Meira Delmar è quello dolce e amaro del ricordo, della nostalgia che si trasforma in un’acre malinconia. È allora che “Il tempo, fermato, trabocca / come un fiume d’oro. / E lascia scorgere sul suo fondale / chissà quali cose dimenticate. // La sera in cui non sei… la sera in cui ti desidero”.
MEIRA DELMAR QUESTO AMORE
Come andare quasi insieme
ma non insieme,
come
camminare fianco a fianco
e tra noi due un muro
di vetro,
come il vento
del sud che chiamano
Vento del Sud sembra
che fugga con il suo nome,
questo amore.
Come il fiume che unisce
con le sue mani d’acqua
le rive che separa,
come anche il tempo,
come la vita,
che scorrono vivendo,
lasciandoci
ogni volta meno nostri
e più suoi,
questo amore.
Come dire domani
e pensare mai,
come sapere che non andiamo
da nessuna parte
e tuttavia niente
potrebbe fermarci,
come la mitezza
del mare, che è il rovescio
di tempeste nascoste,
questo amore.
Questo
amore disperato. (da Ricongiungimento, 1981)
. “La sera in cui non sei… la sera / in cui ti desidero”: è lontano l’amore di Meira Delmar. La poetessa colombiana di origini libanesi ha costruito tutta la sua poetica su questa assenza, su questa continua attesa dell’amore che diventa un disperato desiderio: “Di quell’amore che mai è stato mio / e tuttavia si è preso la mia vita / resta una nostalgia ribadita / all’infinito, che pianga o che rida”. MEIRA DELMAR REMINISCENZA
Si incrociarono un breve istante
il tuo sguardo e il mio.
E seppi all’improvviso
– non so se anche tu –
che in un tempo
senza anni né orologi,
un altro tempo,
i tuoi occhi e i miei
si erano incontrati,
e quella di allora
non era che un’eco,
l’onda che ritorna,
attraversando mari,
all’antica spiaggia.
. Gli antichi uomini – mito narrato nel Simposio di Platone – erano forniti di due teste, quattro braccia e quattro mani e di entrambi i sessi, e con la loro forza arrogante mossero guerra gli dei: per punirli Zeus decise di tagliare ciascuno di essi in due “come si tagliano le sorbe per conservarle, o come si taglia un uovo con un filo”. Ogni metà è condannata ad andare in cerca dell’altra metà. È un mito, d’accordo, ma capita talvolta di incontrare una persona e di sentire quell’emozione, di pensare che sia la nostra altra metà separata, quella che si definisce anche “anima gemella”. È il caso raccontato dalla poetessa colombiana Meira Delmar, la percezione di essersi già incontrati, di essere l’altro atteso per anni: basta uno sguardo per far ritornare l’onda partita un giorno alla stessa spiaggia dove nacque. . Olga Isabel Chams Eljach (Barranquilla, 21 agosto 1922 – 18 marzo 2009), poetessa colombiana di origini libanesi, sin dal 1937 usò lo pseudonimo Meira Delmar. Professoressa di Storia dell’Arte e Letteratura, diresse per molti anni la Biblioteca Pubblica dell’Atlantico. Le sue poesie sono caratterizzate da una sensualità di fondo. Maledetti Poeti-Meira Delmar (Barranquilla, 1922 – Barranquilla, 2009), <<Nella mia poesia c’è sempre l’amore, però anche il dolore.E, come figura principale, la nostalgia.>> *Dichiarazione di poetica di Meira Delmar (Barranquilla, 1922 – Barranquilla, 2009), una delle più importanti e famose autrici sudamericane di liriche del ventesimo secolo. Nata da genitori libanesi, la poetessa colombiana compì gli studi a Barranquilla ed a Roma, dove si laureò. Lavorò in seguito come professoressa di Storia dell’Arte e Letteratura e, dal 1958, diresse per 36 anni la Biblioteca Pública Departamental del Atlántico, struttura che oggi porta il suo nome. Già nel 1950, quando era appena ventottenne, la sua celebre collega uruguaiana Juana de Ibarbourou le riconosceva in una lettera: “Voglio che tu sappia che per me il primo poeta colombiano sei tu, e che, nonostante la tua giovinezza, sei anche, per me, tra i grandi d’America.” Secondo l’ispanista Martha Canfield, la Delmar svolse anche un ruolo pionieristico per la letteratura femminile latinoamericana in un’epoca, a metà del Novecento, in cui la Poesia era nel suo Paese appannaggio degli autori maschi: “In un panorama dominato dal segno maschile, una delle prime e costanti eccezioni è proprio la poetessa della Costa Atlantica, la dolce e nostalgica, forte e lucida Meira. La sua figura deve essere considerata come eccezionale e dirompente, la prima di una lunga e ricca serie di scrittrici cui lei stessa, probabilmente, apre la strada.” Sulla sua opera, afferma la scrittrice Águeda Pizarro: “La sua poesia si legge come si osserva un tramonto sul mare. Ci illumina con il ricordo del giorno passato e della coscienza, tornasole come lo è il tramonto della notte che segue.”
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PARLAMI DEL MARE (Meira Delmar, pseudonimo di Olga Isabel Chams Eljach)
Amica mia, dici,
parlami del mare.
E ti racconto della mia infanzia
che mi insegnò a guardare
la terra come terra,
come cielo il mare.
La valle, la montagna,
erano la realtà.
Il mare l’incertezza
il sogno, l’inquietudine.
E io, tu lo sai bene,
sono rimasta con il mare.
Un giorno vicino al molo
un vecchio pescatore,
tra le mani da bambina
mi mise una conchiglia.
La portai all’orecchio,
ne riconobbi il suono
e iniziò a diventarmi
fugace il cuore,
come fragile barca
che porta una canzone.
Attraverso le mie vene che partono
da un lontano Simbad,
me ne vado, strano cammino,
a cercare un altro mare
dove un giorno mi vedranno
navigando a caso,
la distanza negli occhi,
il viso contro il vento.
Ancora mi bacia le labbra
il sapore del sale.
Amica mia, dici,
parlami del mare!
VERDE MARE
Dal tanto amarti, mare,
il mio cuore è divenuto
marinaio.
E mi inizia a cantare
sui pennoni d’oro
della luna, nel vento.
Qui la voce, il canto,
il cuore lontano
dove risuonano i tuoi passi
lungo le rive del porto.
Dal tanto amarti, mare,
la tua assenza mi fa soffrire
fin quasi a farmi piangere.
Mare!
Ed è come se, all’improvviso,
fosse tutto chiaro.
Angeli nudi, angeli
di brezza e luce. Il canto
dell’acqua che danza,
sarabanda di cristallo.
Isole, onde, conchiglie.
Bianco grido di sale…
E il cuore, battito
dopo battito, dice Mare!
Meira Delmar, poetessa colombiana di origini libanesi, di cui oggi ricorre il centenario della nascita, era figlia di immigrati libanesi e compì gli studi a Barranquilla per poi trasferirsi a Roma, dove si laureò. Non si sposò mai perché, secondo le sue stesse parole, “aspettava l’amore, e non è mai arrivato”. La ricompensa a questa assenza tuttavia fu non solo la fortuna di avere grandi amici, ma anche l’ispirazione che fece di questa attesa il filone d’oro della sua poetica, attraversata da una sensualità di fondo: così ha analizzato i percorsi dell’amore e dell’oblio, descrivendo la vita con toni pacati e una gozzaniana nostalgia per ciò che non può essere. Della sua poesia la scrittrice colombiana Águeda Pizarro ha detto che “si legge come si osserva un tramonto sul mare. Ci illumina con il ricordo del giorno passato e della coscienza, tornasole come lo è il tramonto della notte che segue”.
Marco Ercolaniè nato a Genova nel 1954, dove vive e lavora come psichiatra. Scrive racconti fantastici e vite immaginarie e indaga il rapporto arte/follia. Tra i suoi libri di narrativa: Col favore delle tenebre (Coliseum, 1987), Vite dettate (Liber, 1994), Lezioni di eresia (Graphos, 1996), Sindarusa (Tabula fati, 1997), Il mese dopo l’ultimo (Graphos, 1999) Carte false (Hestia, 1999), Il demone accanto (L’Obliquo, 2002), Taala (Greco & Greco, 2004) e Il tempo di Perseo (Joker, 2004.) È autore di due volumi di critica poetica, Fuoricanto (Campanotto, 2000) e Vertigine e misura (La vita felice, 2008). Ha curato il volume collettivo Tra follia e salute: l’arte come evento (Graphos, 2002) e il convegno L’arte della follia (Genova, Biblioteca Berio, 2004.) Suoi testi sono pubblicati in Riga, Poesia, Il gallo silvestre, Ipsofacto, Nuova Corrente, Anterem, La clessidra, Nuova Prosa, La mosca di Milano, Ciminiera. È stato redattore di Fanes, rivista di cultura psicoanalitica, e di Arca. Quaderni di scrittura. Con Luisella Carretta ha ideato la collezione di arte e scrittura Scriptions. In coppia con Lucetta Frisa ha scritto L’atelier e altri racconti (Pirella, 1987), Nodi del cuore (Greco & Greco, 2000) e Anime strane (ibidem, 2006) e dirige per le edizioni Joker «I libri dell’Arca».
Per la mano sinistra
La forma è limpida – per esprimere cose e opache.
Ma se, dalla porta in cui appaio, fossi già scomparso?
Certi giorni, che trascorrono senza di me.
Scrivere è un atto di violenza, un magico errore, una gioia senza nome.
La poesia non nasconde e non svela.
La forma della poesia confluisce in suoni che ne cancellano l’architettura.
Prima di scrivere, maturo la gioia di tacere.
Sciolse la scena del disastro con parole che risuonarono armoniose.
Somigliando a qualcuno mi scopro inimitabile.
Lo spostamento di un avverbio è più eversivo di una rivoluzione vittoriosa.
Le opere inessenziali hanno una grazia particolare.
I fiumi si differenziano per i detriti che trascinano.
***
La pertinenza del testo: modulare una passione.
Le perfezioni sono attimi.
La poesia è abitare desideri impossibili.
Il fulmine frantuma lo specchio che riflette il lampo.
Lo scrittore ha un solo dovere: essere cosciente delle proprie visioni.
Perché la mia lingua sia vera, deve averla nutrita il buio.
L’immobilità: limite estremo del rallentamento del moto.
Lo scoglio non esaurisce il flusso delle onde.
Scrivo per prepararmi a scrivere in qualche impossibile giorno
Siamo perduti, solo se siamo stati ingiusti.
Disimpari lo stupore e cominci a morire.
Disorientare il presente: sopravvivere.
***
Allo scrittore accade di anticipare se stesso senza conoscersi ancora.
La parola è indicibile. Ma occorre scrivere per saperlo.
Morirò per non essere sopraffatto dalla morte.
Maldestri e inutili, stupidi e balordi. Eletti.
Qualcuno si crede originale per eccesso d’ignoranza.
Il linguaggio può trasformare, ma bisogna esserne all’altezza.
Non c’è nulla di conforme: mi aiuta la scienza del deforme.
Nascere sempre nel tempo sbagliato.
Scrivo per ripetere ciò che non sono. Per allontanarmi da me
Non avendo più nessun desiderio, come posso desiderare la morte?
Solo quando la casa va a fuoco, è visibile la sua architettura.
***
Chi è cieco grida di non vedere. Non scrive aforismi sulla cecità.
Distruggere quel suono solo per aprire le orecchie a un altro suono.
L’arte, consumando opere, non si annulla ma cambia forma.
La parola è trasparenza dell’io all’esperienza dell’abisso.
Non si crea verità ma la si dissotterra.
Prima necessità: esprimersi. Prima necessità: ammutolire. Da dove si inizia?
Un uomo che guardi se stesso da lontananze estreme e trovi un linguaggio possibile.
La forma dell’io, alla radice, è visione del non-io: vertigine dello specchio.
Un dio – ma simile al fumo che sale dalle macerie.
La forma più primitiva del sapere è un soffio di vento.
Il passato non è mai certo della sua estinzione.
***
La follia, come l’arte, presume di sconfiggere la morte.
La scrittura è spartito per la voce.
Troppe parole, nella pagina, e pochissimi ricordi, nella mente.
Uccidermi sarebbe perdere il flusso vivente di cui solo io sono occhio e orecchio.
Avvicinarsi alla mancanza di maschere è la via maestra per togliersi la vita.
Scrivere è parlare di un vento di cui non ricordiamo il suono.
Nessuna interiorità è personale.
Tutte le idee vengono dal sonno.
Solo chi si sveglia può osservare dormire.
Dormire è appartenere al segreto di un altro.
All’interno del sonno c’è un risveglio di cui la scrittura è complice.
Il testo è il risveglio ma il fondo della parola è il sonno.
Stile: gioco di equilibri attorno a un precipizio.
***
La scrittura è il sogno illegittimo ma reale della resurrezione.
Il sonno rende la veglia un territorio misterioso.
La vita: progressivo misconoscimento del mondo.
Ci sono fantasmi che devono esistere per noi e oltre di noi.
Farsi sopraffare dalle voci è la volontà di creare un non-luogo della letteratura.
Il punto più in ombra corrisponde al centro della luce più intensa.
Disegni fatti di fuliggine e cenere, di ciò che è esistito ed è bruciato.
Il vero incendio è dove soffochi, non nel chiarore delle fiamme.
Ricordo impossibile: il sole sotto il cuscino.
L’opera deve restare segreta, se occorre, contro il suo stesso autore.
Annotare, ma lentamente.
***
Missione impossibile ma necessaria: trovare le frasi lucide dello stordimento.
E’ l’opera stessa a inventare l’io nel quale vuole esprimersi.
La scrittura può descrivere i colori, ma ogni descrizione è un’ombra.
La musica tradisce il corpo meno della parola.
Della musica attrae il silenzio suscitato dalle note.
Scrivere: emorragia che non può essere fermata.
Ci sono ferite che richiudere sarebbe un delitto.
Aveva molto buio, nelle dita.
Accettare il fallimento personale come la linfa necessaria.
***
Perseverare nel sogno: scegliere il delirio contro l’annientamento.
Alcuni intervalli, dentro il mio sonnambulismo: gli atti vitali.
Riposare dai miei folli. Non vivere più in loro ostaggio.
Ritrovare, sotto il torace, la gaia, palpitante oppressione di creare.
Letteralmente non togliere mai la penna dal foglio.
Stupirsi per chi ti chiede cosa stai scrivendo.
I libri: la propria ferita, inarrestabile, scesa a patto con delle cicatrici.
La «cifra del tappeto» di tutta la mia opera è la necessità di vivere nonostante.
Per chi esige una certa luce, l’ombra non sarà mai sufficiente.
Non vivere neppure un attimo senza le potenzialità della parola.
Pagina mai vuota – inesauribile esorcismo.
Silloge dal titolo celaniano, incantevole: Da quale rupe riflessa (finalista al Premio Lorenzo Montano 2021, sezione «Raccolta inedita»). Ossia: dall’impossibilità di guardare in faccia, senza schermi, la luce. E qui si parla di giochi sui sipari che sono riverberi di oggetti deprivati di consistenza, ombre d’acqua, resti del diluvio.
Marco parla di uno «stormire» come brezza della dismisura oceanica più che brusio di foglie. L’acqua e l’aria appaiono elementi trionfali e trionfano, vorticosi e dolorosi elementi, sulla terra e sul fuoco, esperienze deludenti. Che il poeta si sia annidato nel riflesso per deviare l’urlo del ‘reale’ lacaniano, della Chose?
Protezione, forse, raffica parata continuamente per un indice di salvezza. Ercolani tenta di mettersi salvo, lungi dal suo credo ogni senso o sentimento della Redenzione. Sparire è il suo traguardo, nel silenzio, tra le ammirate nuvole, tra i fumi e gli ectoplasmi di una Genova opaca e graffiante, sparire, walserianamente. Quasi un sì, quasi un’obbedienza in extremis. Obbedienza all’altrove, alle nebbie.
Poesia mentale, tutta tesa alla cosa estraente, al nucleo e alla polvere particellare. Fino al sinistro di certe ombre persecutrici. Ombre che sopraggiungono allorché la distanza si fa più netta ed esatta. Appare allora il desiderio taciuto del salto, l’affondo nel buio. Non un buio romantico, decadente, ma deangelisiano, irto di editti e spaventi.
Tutto avviene, scrive il poeta, come se «quel lungo incredibile altrove […] non esistesse e l’aria fosse / ancora quel precipizio del volo perfetto / sopra la pietra finale».
Alfonso Guida
***
Non parli la nostra lingua
arrivi e non parli:
guardi quel doppio sole,
come i fuggiti dal mondo guardano,
senza lacrime dopo la fuga,
la doppia luce e non abbassano gli occhi.
Arrivi, e questo cielo a picco
è tuo.
***
Cenere sognata dai morti
numero primo –
sillaba.
Senza una parola che rompa il muro della lingua
posso trascrivere me?
Vagabondo nelle stazioni
ma non ho occhio di folle.
La corda dondola vuota dal ramo.
Quale testa sprofonderà nell’ombra?
***
Qui non foglie, non alberi,
ma l’immagine esatta di una porta
nel profumo del giorno.
I venti, sulla maniglia,
indifferenti alla morte.
Torniamo
verso la luce bianchissima
inventiamo
un cielo mai, mai
notturno.
La vista ritorni,
del mare muto.
Marco Ercolani è nato nel 1954 a Genova, dove vive e lavora come psichiatra. S’interessa alla poesia contemporanea e al rapporto arte-follia. Numerose sono le sue pubblicazioni, in ambito sia scientifico sia letterario, sia come unico autore sia in coppia con Lucetta Frisa.
* Marco Ercolani, Nel fermo centro di polvere (Il Leggio, Chioggia (Ve), 2018
LA POESIA COME ENIGMA NECESSARIO
Marco Ercolani è nato a Genova nel 1954. E’ psichiatra e scrittore. Artista complesso: narratore, critico letterario, saggista, curatore di collane, aforista, poeta. Insomma un autore che pratica la parola ed usa il linguaggio nelle sue forme, stili e strutture diverse. Come ha scritto Dario Capello, questo “È il libro di un poeta che da sempre conosce il senso della vertigine, del doppio movimento, imprendibile, delle cose e della lingua che le nomina. La parola di Marco Ercolani è qui scagliata, scagliata fuori dal suo stesso fluire ritmico, dopo essere stata a lungo macerata, febbrilmente meditata.” E’ la padronanza del linguaggio che prima di tutto colpisce in questa raccolta raffinata, articolata, profonda. La lingua qui “ritrova una forza non comune, un’originalità di dizione che altri poeti hanno perduto o non sanno trovare” (così scrive Antonio Devicienti nella sua introduzione) per cui la raccolta è portatrice di un piacere in sé, quello di incontrare una scrittura forte e piena, consapevole e ricca di sfumature. In un momento storico in cui la perdita di qualità del linguaggio va di pari passo con lo scadere della qualità della vita sociale e culturale del nostro Paese, credo che Ercolani ci offra una via di riflessione critica necessaria. Persona che analizza lucidamente, spietatamente il proprio lavoro, autore critico con se stesso, come con gli altri, Ercolani, nell’intervista curata da Gabriela Fantato che arricchisce il libro, chiarisce il senso del suo lavoro e della sua poetica. “La poesia, in quanto enigma, è esperienza dell’inconciliabile. Tutto non è mai come appare: l’universo di ogni parola ha l’inafferrabilità e la potenza del miraggio. La magia del canto incrina la compattezza del discorso, lo dissolve…”. La scrittura di Ercolani, per sua stessa indicazione, cerca “sequenza musicali” che nascono non dalla retorica (vera o presunta) della rima, ad esempio, ma dalla forza intrinseca dei significati che il poeta esprime, allude, indica, scolpisce. La poesia assume così un senso ontologico, fluttuante magari in certi momenti, ma sempre determinato. La poesia di Ercolani è un viaggio che cerca l’Altro dentro di noi e così facendo si sorprende e sorprende il lettore di pari passo. Il lirismo di Ercolani è di una forma diversa da quello abituale: siamo dinnanzi ad un lirismo “metafisico” non perché trascenda le cose, ma perché accede alle cose, entra nel vivo della materia poetica. Un lirismo quindi che sa fondere intelletto ed emozione, riflessione e visione intuitiva. La poesia di Ercolani è colta, ricca di riferimenti espliciti ed impliciti, ma mai pedante; egli sa connettere pensiero e visionarietà, un po’ come accade appunto per la musica. La scrittura nella poesia di Ercolani cerca il senso ed è senso essa stessa nel momento in cui si dice; la lingua accade e così si descrive, riflette su se stessa, propone una direzione a se stessa nel momento in cui indica le cose. Non ci si attenda quindi una poesia cerebrale, intellettualistica: “Nel fermo centro di polvere” è fuoco, passione che brucia, segreto che non si svela, miraggio necessario del nostro andare.
Stefano Vitale
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Lei tace, tu abbandoni le braccia.
Torna segreto, il sole.
Lettere ancora bianche, mai scritte, mai perdute.
Aprono i cancelli. Ma del vento nessuna traccia.
Soffierà, forse.
In cima alle pietre.
Buio agli occhi. Vertigine.
Naufraghi sul tavolo.
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Torre alta. Parto da qui.
Il bianco che le onde lasciano alla notte
è schiuma viva, dove l’acqua evapora:
restano, sempre, le fitte d’ombra dei versi.
Io parlo da qui:
insperabile reale limpida
voce.
Respiro, ma ai miei giorni
manca qualcosa di terrestre e di dolce.
Il lavoro poetico?
Rigorosa dilapidazione.
Essere nel nulla e non salvarsi. Cancellare
le parole nel foglio vuoto.
Leggere le pagine di chi fu vivo
e guardare la bellezza del cielo:
ritardare il congedo dal mondo,
léggere, non
scrivere più,
smettere di ripararsi dal cielo.
Finalmente
non capire.
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Le maschere della mente
Immobile durante il giorno a leggere e a pensare,
ma ogni notte, la testa sul cuscino,
le gambe ferme, a perdifiato
nella terra lucente per sognare,
nella terra sconosciuta, in cima ai torrenti,
fra i monti percossi dai venti,
correre,
con cose strane da guardare,
nessun incubo a potermi spaventare…
Ma poi svegliarsi
e inutile e lungo torna il giorno.
Impossibile trovare la terra non vista,
impossibile riascoltare il sogno:
muto alle parole adulte
diventare il bambino trasparente
che abita la stanza di niente,
fumo di parole
le maschere della mente.
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Ostuni
Dove sono le pietre che l’occhio inventava fra viso e mondo,
la masseria tra gli ulivi, le mura circolari e in alto
l’abbagliante, bellissima Ostuni?
La ricordo e la cerco
mentre scrivo all’interno del foglio,
lettera sotto lettera:
sotterro le frasi
concentro lo spazio
attendo che si laceri
la mia invisibile, affilata parola.
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Tornare e tacere
A chi mi chiede, scrollo la testa.
È un no a ogni domanda:
appena ricorderei
qualcosa come odissee e ciclopi,
uno spazio invaso da navi e acqua,
il mondo interrotto dal ritmo del navigare
fra cieli sotterranei.
Il segreto è tornare, e tacere.
Ciò che ha vibrato
tradurlo in brevi bisbigli e rinascere
in silenzio, la nebbia dissolta,
in una vaga fedeltà
di testimoni di nulla.
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Note sull’Autore Marco Ercolani (Genova, 1954), è psichiatra e scrittore.
Per la narrativa scrive: Col favore delle tenebre, Praga, Il ritardo della caduta, Vite dettate, Lezioni di eresia, Il mese dopo l’ultimo, Carte false, Il demone accanto, Taala, Il tempo di Perseo, Discorso contro la morte, A schermo nero, Sentinella, Turno di guardia, Camera fissa, Preferisco sparire. Colloqui con Robert Walser 1954-1956, Destini minori.
Per la saggistica: Fuoricanto, Vertigine e misura, L’opera non perfetta, Il poema ininterrotto, L‘archetipo della parola. René Char e Paul Celan e Fuochi complici.
Per la poesia: Il diritto di essere opachi, Si minore, Nel fermo centro di polvere. I suoi taccuini sono raccolti in Nottario. Partecipa al convegno internazionale Bruno Schulz: il profeta sommerso. Suoi testi in riviste (Nuova Corrente, Poesia, La mosca di Milano), antologie (Altra marea) e siti web (La dimora del tempo sospeso, Doppio zero).
Vince il Premio Montano, il Premio per l’Aforisma “Torino in sintesi”, il Premio Morselli e il Premio Smasher. In coppia con Lucetta Frisa cura “I libri dell’Arca” e scrive: L’atelier e altri racconti, Nodi del cuore, Anime strane (Âmes inquiètes, tr. fr. di Sylvie Durbec, Éditions des états civils, 2011), Sento le voci (J’entends les voix, ibidem, 2011), Il muro dove volano gli uccelli, Diario doppio e Furto d’anima.
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Nota biobibliografica–Marco Ercolaniè nato a Genova nel 1954, dove vive e lavora come psichiatra. Scrive racconti fantastici e vite immaginarie e indaga il rapporto arte/follia. Tra i suoi libri di narrativa: Col favore delle tenebre (Coliseum, 1987), Vite dettate (Liber, 1994), Lezioni di eresia (Graphos, 1996), Sindarusa (Tabula fati, 1997), Il mese dopo l’ultimo (Graphos, 1999) Carte false (Hestia, 1999), Il demone accanto (L’Obliquo, 2002), Taala (Greco & Greco, 2004) e Il tempo di Perseo (Joker, 2004.) È autore di due volumi di critica poetica, Fuoricanto (Campanotto, 2000) e Vertigine e misura (La vita felice, 2008). Ha curato il volume collettivo Tra follia e salute: l’arte come evento (Graphos, 2002) e il convegno L’arte della follia (Genova, Biblioteca Berio, 2004.) Suoi testi sono pubblicati in Riga, Poesia, Il gallo silvestre, Ipsofacto, Nuova Corrente, Anterem, La clessidra, Nuova Prosa, La mosca di Milano, Ciminiera. È stato redattore di Fanes, rivista di cultura psicoanalitica, e di Arca. Quaderni di scrittura. Con Luisella Carretta ha ideato la collezione di arte e scrittura Scriptions. In coppia con Lucetta Frisa ha scritto L’atelier e altri racconti (Pirella, 1987), Nodi del cuore (Greco & Greco, 2000) e Anime strane (ibidem, 2006) e dirige per le edizioni Joker «I libri dell’Arca».
Poesie scelte di ALEJANDRA PIZARNIK-Poetessa argentina-
Alejandra Pizarnik -(Buenos Aires- il 29 aprile 1936 – 25 settembre 1972)-nasce ad Avellanedain una famiglia di emigrati ebrei di origine russa. Assieme alla sorella maggiore Myriam compie i primi studi in una scuola ebraica, dove impara a leggere e a scrivere in yiddish. Durante l’adolescenza comincia a fare uso di anfetamine per curare i disturbi fisici di origine nervosa che la affliggono. A 18 anni si iscrive alla facoltà di Filosofia, poi a quella di Lettere e infine alla Scuola di giornalismo, ma non porta a termine gli studi. Dal 1960 al 1964 vive a Parigi. Muore a Buenos Aires nella notte tra il 24 e il 25 settembre 1972 per un’overdose di barbiturici.
Testi selezionati da La figlia dell’insonnia (trad. di C. Cinti, Crocetti, 2004)
Poesia
Tu scegli il luogo della ferita
dove dicemmo il nostro silenzio.
Tu fai della mia vita
questa cerimonia troppo pura.
Anelli di cenere
a Cristina Campo
Stanno le mie voci al canto
perché non cantino loro,
i grigiamente imbavagliati nell’alba,
i camuffati da uccello desolato nella pioggia.
C’è, nell’attesa,
una voce di lillà che si spezza.
E c’è, quando si fa giorno,
una scissione del sole in piccoli soli neri.
E quando è notte, sempre,
una tribù di parole mutilate
cerca asilo nella mia gola,
perché non cantino loro,
i funesti, i padroni del silenzio.
La notte
Della notte so poco
ma di me la notte sembra sapere,
e più ancora, mi assiste come se mi amasse,
mi ammanta di stelle la coscienza.
Forse la notte è la vita e il sole la morte.
Forse la notte è nulla
e nulla le nostre congetture
e nulla gli esseri che la vivono.
Forse le parole sono l’unica cosa che esiste
nel vuoto enorme dei secoli
che ci graffiano l’anima coi ricordi.
Ma la notte conosce la miseria
che succhia il sangue e le idee.
Scaglia l’odio, la notte, sui nostri sguardi
che sa pieni di interessi, di incontri mancati.
Ma accade che la notte, ne senta il pianto nelle ossa.
Delira la sua lacrima immensa
e grida che qualcosa è partito per sempre.
Un giorno torneremo a esistere.
Le opere e le notti
per riconoscere nella sete il mio emblema
per significare l’unico sogno
per non aggrapparmi di nuovo all’amore
sono stata tutta un’offerta
un puro errare
di lupa nel bosco
nella notte dei corpi
per dire la parola innocente
Presenza
la tua voce
in questo non potersene uscire le cose
dal mio sguardo
mi spossessano
fanno di me un vascello in un fiume di pietre
se non è la tua voce
pioggia sola nel mio silenzio di febbri
tu mi liberi gli occhi
e per favore
parlami
sempre.
Gli occhi aperti
Qualcuno misura singhiozzando
l’estensione dell’alba.
Qualcuno pugnala il cuscino
in cerca del suo impossibile
spazio di quiete.
Questa notte, in questo mondo
a Martha Isabel Moya
questa notte in questo mondo
le parole del sogno dell’infanzia della morte
non è mai questo che si vuol dire
la lingua materna castra
la lingua è un organo di conoscenza
del fallimento di ogni poesia
castrata dalla sua stessa lingua
che è l’organo della ri-creazione
del ri-conoscimento
ma non della resurrezione
di qualcosa in forma di negazione
del mio orizzonte di maldoror col suo cane
e niente è promessa
tra il dicibile
che equivale a mentire
(tutto ciò che si può dire è menzogna)
il resto è silenzio
solo che il silenzio non esiste
no
le parole
non fanno l’amore
fanno l’assenza
se dico acqua berrò?
se dico pane mangerò?
questa notte in questo mondo
straordinario il silenzio di questa notte
con l’anima succede che non si vede
con la mente succede che non si vede
con lo spirito succede che non si vede
da dove viene questa cospirazione d’invisibilità?
nessuna parola è visibile
ombre
spazi viscosi dove si occulta
la pietra della follia
neri corridoi
li ho percorsi tutti
oh fermati un altro po’ tra di noi!
la mia persona è ferita
la mia prima persona singolare
scrivo come chi alza un coltello nel buio
scrivo come dico
la sincerità assoluta sarebbe sempre
l’impossibile
oh fermati un altro po’ tra di noi!
lo sfacelo delle parole
che sloggiano il palazzo del linguaggio
la conoscenza tra le gambe
che cosa hai fatto del dono del sesso?
oh miei morti
li ho mangiati mi sono strozzata
non ne posso più di non poterne più
parole camuffate
tutto scivola
verso la nera liquefazione
e il cane di maldoror
questa notte in questo mondo
dove tutto è possibile
tranne
la poesia
parlo
sapendo che non si tratta di ciò
sempre non si tratta di ciò
oh aiutami a scrivere la poesia più prescindibile
quella che non serva nemmeno
a essere inservibile
aiutami a scrivere parole
in questa notte in questo mondo
***
La poesia che non dico,
quella che non merito.
Paura di essere due
sulla via dello specchio:
qualcuno che dorme in me
mi mangia e mi beve.
***
no, la verità non è la musica
io, triste attesa di una parola
qual è il nome che cerco
e che cosa cerco?
non il nome della deità
non il nome dei nomi
ma i nomi precisi e preziosi
dei miei desideri nascosti
qualcosa in me mi punisce
da tutte le mie vite:
– Ti abbiamo dato tutto il necessario perché comprendessi
e hai preferito l’attesa,
come se tutto ti annunciasse la poesia
(quella che non scriverai mai perché è un giardino inaccessibile
– sono solo venuta a vedere il giardino –)
Poesie pubblicate da «Avamposto» è uno spazio di ricerca, articolato in rubriche di approfondimento, che si propone di realizzare un dialogo vivo rivolto allo studio della poesia attraverso un approccio multidisciplinare, nella consapevolezza che una pluralità di prospettive sia maggiormente capace di restituirne la valenza, senza mai sfociare in atteggiamenti statici e gerarchizzanti. Ma «Avamposto» è anche un luogo di riflessione sulla crisi del linguaggio. L’obiettivo è interrogarne le ragioni, opponendo alla tirannia dell’immediatezza – e alla sciatteria con la quale viene spesso liquidata l’esperienza del verso – un’etica dello scavo e dello sforzo (nella parola, per la parola). Tramite l’esaltazione della lentezza e del diritto alla diversità, la rivista intende suggerire un’alternativa al ritmo fagocitante e all’omologazione culturale (e linguistica) del presente, promuovendo la scoperta di autori dimenticati o ritenuti, forse a torto, marginali, provando a rileggere poeti noti (talvolta prigionieri di luoghi comuni) e a vedere cosa si muove al di là della frontiera del già detto, per accogliere voci nuove con la curiosità e l’amore che questo tempo non riesce più a esprimere.
IL BARBIERE DI SIVIGLIA di Gioacchino Rossini-Trama, Libretto, Opera completa e Personaggi-
il barbiere di Siviglia è un’opera in due Atti di Gioachino Rossini su libretto di Cesare Sterbini tratto dalla commedia omonima di Beaumarchais. Il titolo originale dell’opera era Almaviva, o sia l’inutile precauzione.Prima di Rossini, Giovanni Paisiello aveva messo in scena il suo Barbiere di Siviglia nel 1782 (dieci anni prima della nascita di Rossini). Con quella stessa opera, Paisiello aveva riscosso uno dei maggiori successi della sua fortunata carriera.
Il precedente successo di Paisiello (uno dei maggiori rappresentanti dell’opera napoletana) faceva sembrare inammissibile che un compositore di ventitre anni – per quanto dotato – osasse sfidarlo.
Rossini in realtà non aveva nessuna responsabilità sulla scelta del soggetto. L’opera fu infatti scelta dall’impresario del teatro Argentina di Roma, il duca Francesco Sforza Cesarini; questi voleva commissionare a Rossini un’opera per l’imminente carnevale.
A quei tempi qualsiasi rappresentazione doveva scontrarsi con le forbici della censura pontificia. Per andare sul sicuro, l’impresario propose come soggetto “Il barbiere di Siviglia”, che fu subito approvato dai censori pontifici.
La prima rappresentazione ebbe luogo il 20 febbraio 1816 al Teatro Argentina a Roma e terminò fra i fischi. Il clima generale era di totale boicottaggio, dovuto ai sostenitori della versione dell’opera di Paisiello, favorito anche dall’improvvisa morte dell’impresario del Teatro Argentina.
Già dalla seconda recita, il pubblico acclamò l’opera di Rossini, portandola ad oscurare la precedente versione di Paisiello e diventando una delle opere più rappresentate al mondo.
Personaggi
Il Conte d’Almaviva – tenore
Don Bartolo, dottore in medicina, tutore di Rosina – basso buffo
Rosina, ricca pupilla in casa di Bartolo – mezzosoprano
Figaro, barbiere – baritono
Don Basilio, maestro di musica di Rosina, ipocrita – basso
Berta vecchia governante in casa di Bartolo – soprano
Fiorello, servitore di Almaviva – baritono
Ambrogio, servitore di Bartolo – basso
un ufficiale, un alcalde, o Magistrato; un notaro; Alguazils, o siano Agenti di polizia; soldati; suonatori di istrumenti
La scena si rappresenta in Siviglia.
ATTO I
Siviglia. La bella Rosina abita nella casa di don Bartolo, il suo anziano tutore. Don Bartolo vuole tenere Rosina con sè, per amministrarne il patrimonio. Intanto il Conte d’Almaviva, appena arrivato in città, si innamora della bella fanciulla e cerca il modo di avvicinarla; decide di presentarsi a lei sotto le mentite spoglie di Lindoro.
Lui organizza delle serenate sotto la finestra della fanciulla, tanto da destare le preoccupazione di don Bartolo; questi, per non essere costretto a rinunciare alla fortuna della ragazza, decide di chiederla in matrimonio, ma lei rifiuta.
Il Conte incontra Figaro, sua vecchia conoscenza, barbiere oltre che “factotum” nella casa di Don Bartolo. Figaro consiglia al Conte di presentarsi a Rosina facendo finta di essere un soldato ubriaco in congedo, con un permesso di soggiorno proprio in casa di don Bartolo. Nel frattempo Rosina affida a Figaro una lettera indirizzata a Lindoro.
Il maestro di musica di Rosina, don Basilio, sa della presenza in città del Conte; per favorire l’amico don Bartolo, gli suggerisce di calunniarlo per sminuirne la figura.
Secondo quanto pianificato con Figaro, il Conte di Almaviva fa irruzione nella casa di don Bartolo fingendosi un soldato ubriaco; Figaro gli ha anche procurato il falso permesso di soggiorno. Don Bartolo pur non riconoscendo nel soldato il Conte di Almaviva, cerca di allontanare il fastidioso rivale. Ne scaturisce una lite che richiama in casa i Gendarmi. Nella confusione generale (nel frattempo è entrato in casa anche Figaro) il Conte riesce a passare un messaggio a Rosina.
Per trarsi infine d’impaccio, il Conte rivela all’ufficiale delle guardie la sua vera identità; i soldati sono quindi costretti a lasciarlo andare senza arrestarlo.
ATTO II
Nella dimora di don Bartolo arriva don Alonso, sedicente insegnante di musica e sostituto di don Basilio; in realtà si tratta sempre del Conte di Almaviva con un nuovo travestimento.
Don Bartolo dubita delle sue reali intenzioni; don Alonso gli porge quindi la lettera di Rosina.
Intanto giunge Figaro, intenzionato a distrarre don Bartolo con la scusa della rasatura. Mentre il Conte cerca di spiegare la situazione a Rosina, irrompe Don Bartolo che lo caccia immediatamente.
Don Bartolo mostra a Rosina la sua lettera e le fa credere che il suo amato Lindoro sia in realtà un emissario del Conte.
Rosina – per dispetto – accetta infine la proposta di matrimonio del suo tutore. Don Bartolo chiama immediatamente il notaio per sugellare la loro unione.
In un ultimo disperato tentativo, il Conte e Figaro fanno irruzione nella camera di Rosina, usando una scala per entrare dalla finestra. Il Conte svela i suoi travestimenti a Rosina e le dichiara il suo amore e la sua volontà di sposarla; la bella Rosina accetta la proposta del Conte.
Proprio quando stanno per fuggire, i tre si accorgono che la scala fuori dalla finestra di Rosina, è stata tolta; è stato don Bartolo, che, sospettando la presenza di un estraneo in casa, è andato a chiamare le autorità. Memore della strana scena cui ha assistito, con il soldato ubriaco lasciato andare, non si fida della polizia. E’ corso dunque direttamente dal magistrato.
Nel frattempo, il notaio fatto chiamare da don Bartolo arriva in casa; Figaro e il Conte, approfittando della prolungata assenza del padrone di casa, convincono il notaio che il matrimonio che è stato chiamato a redigere sia quello tra il Conte e Rosina.
Quando don bartolo ritorna a casa il contratto di matrimonio è già stato siglato. Quando il Conte decide di rinunciare alla dote portata da Rosina, il non troppo disinteressato don Bartolo tira un sospiro di sollievo e benedice gli sposi.
Poesie di Maria Pia Quintavalla da MaledettiPoeti-
Maria Pia Quintavalla, nata a Parma, vive a Milano, è una delle voci più alte della Poesia italiana degli ultimi quarant’anni. Andrea Zanzotto la considerava nel 2000 un’autrice “che ha un posto di singolarissimo rilievo, di forte evidenza entro il quadro della ricerca poetica attuale.”
Narratrice e critica letteraria, la scrittrice e poetessa emiliana è laureata in Pedagogia. Dal 1983 collabora con l’Università Statale di Milano curando laboratori sulla Lingua italiana.
Ha pubblicato la sua prima raccolta di liriche, ‘Cantare semplice’, nel 1984. Da allora tutte le sue numerose sillogi sono state tradotte in diverse lingue, inglese, rumeno, serbo-croato, spagnolo, francese e tedesco, e prefate nelle edizioni originali da importanti poeti, come Nadia Campana, Maurizio Cucchi, Giancarlo Majorino, Andrea Zanzotto, Giampiero Neri e Franco Loi.
Quest’ultimo, nel 2005 ha accostato la ricerca poetica della Quintavalla a quella di una protagonista storica della letteratura italiana del ‘900, Amelia Rosselli: “La parola -afferma Loi- è rivelazione di sé e della propria esperienza nelle cause più profonde. Maria Pia sa ormai quale sia il cammino e come ci si debba applicare al passo. Mi viene in mente un altro percorso e un’altra fede nella taumaturgia della parola, quella di Amelia Rosselli. Anche in Maria Pia è sopravvenuta la resistenza alla corruzione e al dolore del vivere.”
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CARO PADRE
(Maria Pia Quintavalla)
Caro padre
dal cappello e cappotto infagottato,
come un uomo dell’ultima guerra
che fu soldato, maestro povero,
poi deportato; infine fu salvato
e ritornato, qui generò la sua secondogenita
uscita da un getto d’amore imprevisto,
un interruptus che mia madre non pensava,
facendola pregna –
Caro padre,
senza nessun foulard o corona,
si mantenne agli studi mentre lavorava,
che sgobbando ricordava
cosa è la fame –
ERA FIGLIA
Era figlia già quando nessuno conosceva,
era lombrico molle piccolo
nella tua mano, e silenziosa.
Ora che scappa e ride con le amiche
piano poi copia parole da poeta,
da una canzone, come un’orsa agile leggera;
dicono non ti somigli, e invece
piano, lei scrive in versi la sua notte,
si trucca gli occhi, ride. Si seduce.
L’immagine che guarda fissa è la sua vita,
non lo sai se è aperta
o chiusa al tuo orizzonte ma
decisa, scende dalla sua strada
in una sua radura…
Ogni mattina,
chiude piano le porte.
ESISTE LA DELIZIOSA
Esiste la deliziosa,
prossimità, non il perfetto amore.
E intanto
lunghi tragitti tratti
erosi da pianto, polvere
di sentieri assembrati angoli della mente
che stavano per sfollare e – sostano,
campi desertici
trasferimento, letto come strada
silenzio non ancora pace.
La Casa dodici dedicato alla dodicesima casa astrale, ultima, connessa al segno dei pesci
La Casa dodici è uno spazio ospitale,
tutte le struggenti grazie piovono
e segnano
di religiose dimore i rossi sogni
struggenti di sangue piovàno
esse parlano –
da soffitti immensi o a cielo aperto:
nella casa dodici
noi si entrerà aux splendides villes.
A volte le parole non servono
a descrivere
di epiche navigazioni, a cavalcare
la casa delle sciagure perché
in fondo essa dista miglia
e se più saggi, ce ne dimentichiamo,
le sue struggenti angosce.
Ma un cavallo puntato ad
est
verso il cielo, le ausculta
è diritto e corre
un cavallo più bianco è la sua mente
e corre più veloce del baleno
fu il passato –
ma nell’oceano possiamo alfine riposare,
disposti i musi dei cavalli all’eterno
dove sono rivolti,
le teste sui cuscini o alle ginocchia
dei nostri estatici compagni.
Ed ora non vedo più l’angelo sterminatore
che accompagnò la prima volta
che seppi di abitare, anch’io
la casa dodici –
casa dalle infinite e rutilanti procelle,
dove le barche progrediscono
nel non visto e temibile eco.
Ecco,
sono giovani sirene a farsi incontro
nella magnifica casa dodici,
di procellose promesse
e addormentati sogni a loro prova,
ma Lei è viva.
Le scalinate delle rose, a esempio
sono reali,
sono di un trono che abbandonammo,
divino, per sederci in basso
da pellegrini sempre più
piccoli. E che fare allora,
ritirare le allettanti promesse.
Nella casa dodici si procede
e si nuota come pesci
nell’infinito rotante delle lune.
*
Sono un nave libica
Sono una nave libica migrante
in rotta,
la sembro e vedo mentre mi parlano
qui dentro il tram serale,
code di cavallo rinverdite da mèche
mi scuotono
davanti ai gesti che parlano nel tram;
e i tram corrono circolarmente,
su circonvallazioni eterne
di periferia.
Ero una vita in tram,
ero una donna in treno e troppe vite insanamente,
chi spezzate, chi incapaci a parlarsi,
sordomute
ero una nave libica sferzata,
ogni giorno e ogni notte a viaggiare,
rifuggendo, e poi morire;
fiato di molle rabbia ragionata,
stortura del controllo sulle vite
trattate, e poi vendute
come la mia, migrante.
Per una vita di periferico abbandono,
io, tradotta di melma e nulla,
sgranata forma del mio nulla,
e della cenere che non guarisce.
Sembro una nave già affondata,
da anni senza più pensiero senza
sue parole, senza un suo cuore fluido
nero,
incattivita senza un piano bar una musica,
un silenzio dove
nelle formate storie riprodurre
il senso suono della vita.
*
SAUDADE 2020-2022
dal latino: solitas, solitatis = solitudine,
intenso desiderio di qualcosa di ASSENTE
in quanto perduto, o non ancora raggiunto
Assetati di giustizia
Gli assetati di giustizia non sanno scrivere
i comizi dell’amore;
dove rinascono parole la terra cresce
sul limen del paesaggio,
in case già disabitate –
(da quando tu sparisti, l’eterno tutto
qui insepolto, chiuso
in un pugno della mano).
Quello che fu distrutto
non fu per distrazione, ma per incuria
per assenza di tempo,
di battito del cuore, e intorno tante piccole vite –
le più vicine erano a lei lontane.
Gli assetati di giustizia deposero le colpe,
le ossessioni, le calmarono
in un composita solvantur
e dietro, la visione-fioritura,
le fattezze dell’amore.
*
Giorni come fucilazioni
Giorni come fucilazioni,
i lunedì come bolle d’aria
e restare là apneici, per giorni interi –
senza pensieri tortorelle, senza
più luminose della fronte, stelle
in una fucilazione imprevedibile,
di serenate attese.
Invece,
la vita fu accettata (tu, accettala
perché un dono),
cosi avrai la tua parte di appestata,
inebetita di anima viva,
solamente perché così si è vivi –
Essere felice per volere di una
figlia, è possibile.
Ecco la bontà della plastica, le dissi un giorno,
mostrandole il filmato ecologico
sulla deriva galoppata di monnezza,
nelle acque interne del pianeta si parlava
di cambi climatici
e Lei là, che si truccava gli occhi,
ad essi soli riconsegnava il mondo.
Ogni fare è potente, e valoroso
come un arco:
un soldato che difende la vita,
tutto questo è una figlia.
Mi piacerebbe scrivere prose religiose
per non ferirmi più,
per il volere di un dio sopra ogni cosa
dire che io e te siamo già un cosmo,
ripensarlo, e il grazie costruire.
Ma la gente non accoglieva i suoi tesori,
e quindi li stipava insieme.
Maria Pia Quintavalla, nata a Parma, vive a Milano I suoi libri: Cantare semplice, Tam Tam‘84, Lettere giovani Campanotto ’90, Il Cantare, Campanotto‘91, Le Moradas, Empiria‘96, Estranea(canzone)Manni 2000, Corpus solum, Archivi‘900, 2002, Album feriale Archinto 2005, Selected Poems, Gradiva 2008, N.Y. China, Effige 2010, I Compianti, Effigie 2013/ ‘15, Vitae, La Vita felice 2017, Quinta vez, Stampa2009, 2018, Estranea (canzone), ristampata e riveduta, Puntoacapo 2022. Cura dal 1985 la rassegna, Donne in poesia/Incontri con le poetesse italiane, e le sue antologie e sue rubriche, da Le Silenziosea a La giovinezza del canone. Ha curato Bambini in rima / La poesia nella scuola dell’obbligo, Atti su Alfabeta 1988, Coppie del ‘900 in poesia / Un canone italiano, Palatina 2018, Parma. Tra i premi: Cittadella, Alghero Donna, Nosside, Città S.Vito, Contini, Alda Merini, Pontedilegno, Città di Como, Europa in versi. In cinquina al Viareggio.Premio alla carriera a Cerreto d’Esi, Paesaggio interiore, 2023. Ultime antologie: Braci a cura di Arnaldo Colasanti, Bompiani 2020, La Poesia italiana degli anni ottanta, IV volume a cura di Sabrina Stroppa, UniTo, ed.Pensa. Tradotta: Certa, Une autre poésie italienne, Tubinga Università, Europa in versi etc).Compare nell’Atlante voci poesia, curato da Giovanna Iorio, e sue installazioni,(Londra,Praga, Italia). Redattrice Menabò, in Giuria Premio Terre d’ulivi. Collabora a Metaphorica. Conduce labs lingua italiana a Lettere, UniMi.
Franco Leggeri Fotoreportage-Murales Ospedale Spallanzani di Roma
4)Prof.Elio Guzzanti già Ministro della Sanità
Premessa-Franco Leggeri Fotoreportage:4)Prof.Elio Guzzanti già Ministro della Sanità – Roma -Portuense-Vigna Pia e Dintorni-Murales Ospedale Spallanzani di Roma- Questo reportage, come quelli a seguire, vuole essere un viaggio che documenta e racconta la storia di un quartiere di Roma: Portuense-Vigna Pia e i suoi Dintorni con scatti fotografici che puntano a fermare il tempo in una città in continuo movimento. Non è facile scrivere, con le immagini di una fotocamera, la storia di un quartiere per scoprire chi lascia tracce e messaggi. Ci sono :Graffiti, Murales, Saracinesche dipinte, Vetrine eleganti che sanno generare la curiosità dei passanti ,il Mercatino dell’usato, il Mercato coperto, le Scuole, la Parrocchia, il Museo, la Tintoria storica della Signora Pina, La scuola di Cinema, la scuola di Musica, Palestre , il Bistrò oltre i Bar , Ristoranti e Pizzerie e ancora Parrucchieri e specialisti per la cura della persona , Artigiani e per finire, ma non ultimo, il Fotografo “Rinaldino” . Il mio intento è di presentare un “racconto fotografico” che ognuno può interpretare e declinare con i suoi ”Amarcord” come ad esempio il rivivere “le bevute alla fontanella”, sita all’incrocio di Vigna Pia-Via Paladini, dopo una partita di calcio tra bambini oppure ricordando i “gavettoni di fine anno scolastico; e ancora vedendo il tronco della palma tagliato ma ancora al suo posto, poter ricordare, con non poca tristezza, la bellezza “antica” di Viale di Vigna Pia.
Roma lungo via Folchi ,dall’inizio di via Portuense, si trovano i Murales che raffigurano gli scienziati che hanno combattuto e vinto le battaglie contro le malattie infettive. Eroi veri ma dimenticati su questo muro di cinta – I Murales ora rischiano il degrado e la “polverizzazione” dell’intonaco. Il muro di cinta costeggia l’Ospedale “Lazzaro Spallanzani” e fa da “sostegno” e “tela” è un muro di cinta di 270 metri, lungo il quale, dal mese di aprile del 2018 sono immortalati 13 volti di scienziati che hanno scritto la storia della ricerca sulle malattie infettive. Un progetto dei Murales è finalizzato a celebrare gli 80 anni della struttura ospedaliera, iniziato a febbraio – e inaugurato il 3 maggio – grazie alla collaborazione fra la Direzione dello Spallanzani e l’Associazione Graffiti Zero, associazione che promuove l’integrazione fra la Street Art e i luoghi che la ospitano. Unica pecca, peccato grave, non vi è immortalata nessuna donna.
Verranno pubblicati le foto dei Murales di tutti i 13 scienziati , uno alla volta, questo al fine di poter evidenziare la biografia e la loro Opera in maniera più completa possibile. Le biografie pubblicate a corredo delle foto sono prese da Enciclopedio Treccani.on line e Wikipedia
Prof. Elio Guzzanti (1920-2014)-Fonte –Il Sole24Ore
Il 2 maggio 2014 è deceduto a Roma all’età di 93 anni il Prof. Elio Guzzanti, già Ministro della Sanità. Il Prof. Guzzanti è stato tra i primi in Italia ad occuparsi ad alto livello di programmazione, organizzazione e gestione dei servizi ospedalieri e sanitari.
Ha trasferito la sua straordinaria esperienza prima clinica e poi organizzativa maturata, anche come sovrintendente sanitario dal 1976 al 1980 del Pio Istituto di Santo Spirito Ospedali Riuniti di Roma, nell’attività scientifica e poi nella legislazione sanitaria e nella pratica amministrativa.
Nel corso della sua lunga e brillante carriera è stato Direttore Sanitario degli Ospedali San Camillo, Santo Spirito ed Umberto I di Roma, componente del Consiglio Superiore di Sanità, Direttore dell’Agenzia per i Servizi Sanitari Regionali e Commissario ad acta per la Sanità del Lazio.
Modelli organizzativi sanitari attualmente di uso comune come i dipartimenti, i ricoveri in day-hospital e day-surgery, la preospedalizzazione e le dimissioni protette debbono essere fatti risalire in gran parte all’attività prima teorico-scientifica e poi di “letteratura grigia” con la quale il Prof. Guzzanti ha contribuito alla stesura di leggi sanitarie promulgate da vari governi.
Quando egli stesso fu chiamato alla responsabilità di Ministro della Sanità nel governo Dini dal 1995 al 1996 produsse una serie di atti di indirizzo e coordinamento alle Regioni per la realizzazione dei modelli organizzativi di cui abbiamo parlato. Il suo ministero si è caratterizzato in particolare per l’introduzione in Italia del sistema DRG che non è soltanto un metodo di remunerazione per prestazione, ma anche un sistema di valutazione comparata di qualità e quantità delle prestazioni ospedaliere stesse.
Credo però che sia un dovere ricordarlo anche sul nostro Giornale Italiano di Cardiologia per i suoi contributi alla crescita nel nostro Paese dei settori della Cardiologia, Cardiologia Pediatrica e Cardiochirurgia. Fin dai primi anni ’80 infatti, prima con la presidenza del Prof. Stefanini, poi con quella del Prof. Donato, il Prof. Guzzanti è stato vice-presidente della Commissione Nazionale del Ministero della Sanità per la Cardiologia e Cardiochirurgia. Tale Commissione ha introdotto per la prima volta in Italia gli standard internazionali di attività e gestione per questi settori.
Sulla base di questa esperienza e in qualità di Sovrintendente Sanitario e Direttore Scientifico dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma il Prof. Guzzanti realizzò nel 1982 il primo Dipartimento Medico-Chirurgico di Cardiologia Pediatrica che vedeva l’attività integrata di cardiologi, cardiochirurghi e intensivisti formalizzata in procedure che prevedevano responsabilità specifiche. Questo Dipartimento Medico-Chirurgico, che è stato nei primi anni diretto dal Prof. Guzzanti stesso, ha rappresentato in Italia un modello organizzativo sia per le specialità cardiologiche che per quelle neurologiche e gastroenterologiche.
Il Prof. Guzzanti è stato un maestro per molte generazioni di direttori sanitari e manager della sanità. Il suo tratto umano, la sua ironia e la sua profonda cultura per tutti gli aspetti della medicina come scienza, ma principalmente come applicazione pratica, ne facevano una guida per chiunque entrava in contatto con lui. Tutti gli operatori sanitari e in particolare quelli del settore della Cardiologia e Cardiochirurgia del nostro Paese avranno sempre un debito di riconoscenza per il Prof. Elio Guzzanti.
Fonte –Giornale italiano di Cardiologia-Articolo di Bruno Marino-
Bruno Marino
U.O.C. Cardiologia Pediatrica
Dipartimento Attività Integrata di Pediatria
Sapienza Università di Roma
Elio Guzzanti, un padre putativo e un maestro- Fonte –Il Sole24Ore
di Giuseppe Ippolito (National Institute forInfectious Diseases Lazzaro Spallanzani)
È morto Elio Guzzanti, per me un padre, e per la sanità italiana, oltre che per le malattie infettive, un grande stratega. Avevo avuto la fortuna di incontrarlo all’inizio degli anni ’80 quando mi suggerirono di rivolgermi a Lui per avere suggerimenti per uno studio di incidenza sulle infezioni ospedaliere nei reparti di terapia intensiva. Lo studio l’avevo scritto come prova di ammissione a un corso negli Stati Uniti e volevo sapere se fosse realizzabile in Italia. Volevo presentarlo al Programma del Cnr sulle malattie da infezione, all’epoca diretto da Ferdinando Dianzani. Elio Guzzanti mi diede appuntamento una domenica mattina nel suo studio, mi ascoltò, s’informò sui miei programmi, cercò di sondare se ero conscio della difficoltà dell’avventura. Mi diede suggerimenti preziosi e si attivò per farmi incontrare le persone del mondo della rianimazione che potevano consentirmi di realizzare lo studio.
Da quel momento è diventato per me un punto di riferimento. Solo pochi giorni fa mi chiese di trovargli la Sua famosa circolare su Ebola del 1996, con la quale aveva definito la strategia nazionale contro le febbri emorragiche. Ero in partenza e avevo lasciato la copia della circolare al portiere, perdendo così l’occasione di salutarlo per l’ultima volta. Avevamo continuato a discutere del permanere della validità dei contenuti e di come una costante attenzione verso le malattie infettive sia la migliore linea di risposta per affrontare l’inatteso.
Era stato così che si era confrontato, nella seconda metà degli anni ’80, nella realizzazione del grande piano contro le malattie infettive alla comparsa dell’Aids. Erano anni terribili: l’incredulità e il preconcetto dominavano; i pazienti non avevano alcuna speranza; il personale sanitario era impaurito.
Con una grande attenzione e con un metodo stringente aveva iniziato a studiare il fenomeno con rigore scientifico e curiosità organizzativa, a valutare i bisogni assistenziali, a dare attenzione ai sentimenti e alle paure, a cercare un dialogo con le associazioni dei pazienti e le organizzazioni sindacali, gli scienziati puri, a visitare gli ospedali e le carceri. Sono fiero di averlo aiutato in questo lavoro, ho visto come gestiva il rapporto con i politici con sereno distacco, come affrontava persone e situazioni “difficili”. Non si arrendeva mai, era pronto al confronto, ma senza perdere mai di vista il proprio obiettivo.
Quando lo conobbi aveva già molte esperienze positive e difficili alle spalle, era il riferimento della programmazione sanitaria nazionale, della costruzione e della gestione degli ospedali. Per Lui non faceva differenza se era Pronto Soccorso, Cardiochirurgia, Rianimazione o Malattie infettive. Lui applicava un metodo che partiva da una conoscenza degli ospedali dall’interno, delle persone che ci lavorano e di quelli che ci vanno per farsi curare. Amava dire che gli ospedali erano fatti di tecnologie e di contatto umano, di insegnamento continuo, di cambiamento giorno per giorno.
Quando mi scelse come collaboratore per l’avventura del piano Aidsiniziammo una stretta frequentazione, soprattutto domenicale. Nel corso di tali incontri commentava i materiali prodotti, scrivendo a mano appunti con penne di più colori. Aveva letto sempre un lavoro nuovo, un nuovo modello di valutazione, dei dati di prevalenza. Di aggiustamento in aggiustamento, il piano prendeva corpo per coprire non solo la costruzione degli ospedali, ma anche la prevenzione, la ricerca, l’introduzione dell’innovazione.
Questo permise all’Italia di avere un piano organico, strutturale e finanziato, prima che la stessa Organizzazione mondiale della sanità redigesse il documento per la preparazione dei piani nazionali.
Che dire poi delle sue capacità di gestire il confronto nelle commissioni e nelle audizioni, alle quali arrivava preparato nei minimi dettagli, con un piano generale e un’exit strategy, senza mai perdere la calma, senza mai una parola di troppo. Anche quando si trovava a frenare posizioni intemperanti, incluse le mie, lo faceva con estremo garbo, cercando sempre di costruire, anche nelle difficoltà, nei dissidi, nelle posizioni contrastanti. Amava investire sui giovani e sul fatto che da tutti si poteva apprendere, ma prima di tutto dalla frequentazione delle biblioteche. Teneva rigidamente distinto il professionale dal personale e limitava al massimo gli eventi sociali e conviviali.
Ma era ed è stato fino all’ultimo sempre disponibile a letture critiche di documenti e a fornire suggerimenti o a scrivere piani. È questa la fase in cui le attività di Guzzanti si legano al destino dello Spallanzani, che lui vedeva come punto centrale dell’intero piano. Conosceva in dettaglio lo Spallanzani come Ospedale e la sua esperienza pregressa di medico impegnato sulle malattie infettive faceva il resto. Eravamo in un momento in cui sembrava che solo il nord Italia avesse ospedali, conoscenze e competenze uniche per affrontare l’epidemia. Non era vero. Già da circa 10 anni lavorava al progetto per la costruzione del nuovo Spallanzani e l’Aids gli dava la possibilità di portarlo a termine, grazie anche al senso di appartenenza e al desiderio di riscatto degli operatori tutti dell’Ospedale che con lui, e grazie a lui, vedevano la realizzazione di un miraggio.
Fu così che mentre era ministro, a metà degli anni ’90, a un consiglio dei ministri europei, si impegnò affinché ogni Paese europeo identificasse una istituzione nazionale per le malattie infettive e avviò la realizzazione presso l’Istituto del laboratorio Bsl4 e la trasformazione in Irccs.
Da allora ha sempre seguito con la massima attenzione le vicende dell’Istituto con un affetto da padre nobile che gioiva in maniera sincera e assolutamente disinteressata degli sviluppo dell’Istituto. Fino alla fine è stato lucido e lungimirante, ottimista anche quando sembrava che non ci fossero speranze. Con la sua morte l’Italia perde un grande uomo, io un padre putativo e lo Spallanzani un grande supporter.
Sento di poter dire che tutti quelli dello Spallanzani che lo hanno conosciuto, e anche quelli che ne hanno solo sentito parlare, condividano il profondo dolore per la perdita di un grande uomo e per me un grande maestro.
Specialist in respiratory diseases and in hygiene, he was director of the hospitals Santo Spirito, San Camillo and Policlinico Umberto I in Rome. From 1976 to 1984 and from 1991 to 1993 he was a member of the Italian Superior Council of Health. From 1985 to 1994 he was health director of the Bambino Gesù Children’s Hospital and from 1996 to 1998 he was director of the Agency for Regional Health Services.
Author of numerous publications on health organization, from 17 January 1995 to 17 May 1996 he was Minister of Health with the Dini Cabinet.
He was president of the scientific committee of the Cesare Serono Foundation. On 28 October 2009, following the resignation of the President of the Lazio Region, Piero Marrazzo, he was appointed by the Berlusconi Cabinet as Commissioner for Health in the same Region.
He was scientific director of the Institute for Scientific Hospitalisation and Care IRCCS Oasi di Troina (Enna).
È stato presidente del comitato scientifico della Fondazione Cesare Serono. Il 28 ottobre 2009, in seguito alle dimissioni del presidente della Regione LazioPiero Marrazzo, è stato nominato dal Governo Berlusconi commissario ad acta per la Sanità nella stessa Regione[1].
È stato direttore scientifico dell’Istituto di ricovero e Cura a Carattere Scientifico IRCCS Oasi di Troina (Enna).
Morte
È morto il 2 maggio 2014 all’età di 93 anni al Policlinico Gemelli di Roma, dove era ricoverato da qualche giorno[3].
Laura Conti- Madre dell’ecologia italiana è stata partigiana, medico, politica Deputata PCI, scrittrice-
Nata a Udine il 31 marzo 1921, Laura Conti è stata partigiana, medico, politica, scrittrice e ambientalista che, attraverso il suo lavoro rivolto su più fronti, ha inciso un solco nel Novecento italiano, contribuendo allo sviluppo dell’etica ambientale in Italia e alla nascita delle narrazioni ecologiche. A causa dell’impegno antifascista della famiglia, è costretta più volte a cambiare dimora, fino a stabilirsi a Milano, e dopo aver terminato le scuole superiori si iscrive alla facoltà di medicina. Nel 1944, però, sente il bisogno di partecipare alla Resistenza entrando nel “Fronte della gioventù” con un incarico di propaganda presso le caserme: un attivismo che le costa l’arresto e la deportazione nel Campo di transito di Bolzano, un’esperienza dalla quale, qualche decennio più tardi, nascerà La condizione sperimentale (1965), opera nella quale ripercorrerà quei momenti; mentre la sua prima opera narrativa, Cecilia e le streghe, uscirà nel 1963. Rientrata a Milano, si laurea in Medicina e si specializza in Ortopedia, ma fin da subito continua nella sua attività politica, prima nel Psi e poi nel Pci, riuscendo, tra il 1960 e il 1970, a diventare consigliera alla Provincia di Milano, poi alla Regione Lombardia, e infine ad essere eletta alla Camera dei Deputati. Durante il suo impegno politico si occupa di tematiche femministe e ambientali, svolgendo un ruolo importante nella gestione della catastrofe ambientale che colpì Seveso nel 1976, trattata anche attraverso la pubblicazione di un saggio, Visto da Seveso (1977), e di un romanzo come Una lepre con la faccia di bambina (1978): la sua idea di politica ambientale la porta a elaborare un metodo di lavoro che l’accomuna ad una ricercatrice, convinta dell’importanza di sostenere le decisioni politiche che possano poggiarsi su solide basi scientifiche. Nella notte del 25 maggio 1993 muore a Milano per un malore improvviso.
(a cura di Andrea Pardi)
Nata a Udine il 31 marzo 1921, ha vissuto a Trieste dove la famiglia aveva un’azienda commerciale che persero, a seguito del loro impegno antifascista. Si trasferirono prima a Verona e poi a Milano.
Non sono una scienziata, ma una studiosa dei problemi ecologici. Pur trovando affascinante lo studio, penso che sia importante anche agire ed operare. Per questo motivo ho deciso di fare politica: non basta studiare, bisogna anche darsi da fare.
Laura Conti, madre del movimento ecologista italiano, è stata partigiana, medica, ambientalista, scrittrice, politica eco-femminista. Ha fondato Lega per l’Ambiente, poi diventata Legambiente.
Ha scritto ventisei libri e una sterminata quantità di articoli e saggi per riviste e giornali, soprattutto per L’Unità.
Dotata di una grande potenza di scrittura, ha da sempre avuto un’attenzione particolare per i problemi dell’inquinamento ambientale.
Il suo pensiero contiene un dettagliato programma politico, mai attuato da nessuno, al cui centro risiede la tutela dei patrimoni genetici delle specie viventi.
Appassionata di natura e biologia sin da bambina, venne folgorata dalla lettura della biografia di Marie Curie che ne ispirò le scelte di studio.
Frequentava la facoltà di Medicina quando, nel 1944, è entrata a far parte del Fronte della gioventù per l’indipendenza nazionale e per la libertà. Giovane partigiana, col rischioso compito di fare propaganda nelle caserme, venne presto arrestata e detenuta, prima a San Vittore e poi rinchiusa nel Campo di transito di Bolzano, da cui riuscì miracolosamente a tornare. È l’unico caso che si ricordi in cui un’internata sia riuscita a far avere al giornale l’Avanti (che allora usciva clandestino) un articolo di denuncia sui campi di sterminio, ripreso poi anche da Radio Londra.
Quella forte esperienza fece spostare il suo interesse sull’impatto dell’ambiente sul corpo umano, soprattutto quello delle donne che le fece continuare la lotta politica e avvicinarsi al femminismo.
Dopo essersi laureata in medicina ha svolto servizio all’Inps, attività che le ha permesso di osservare gli strani effetti di certi ambienti industriali sulla salute di operai e operaie.
Ha militato nelle file del Partito Socialista e, dal 1951, in quello Comunista. Ha ricoperto l’incarico di consigliera della provincia di Milano per dieci anni e per altri dieci della regione Lombardia.
Segretaria della Casa della Cultura, ha fondato e diretto l’Associazione Gramsci. Nel 1980, ha partecipato alla fondazione della Lega per l’ambiente la famosa associazione ecologista che promuove attività concrete per la salvaguardia della natura e i suoi abitanti, di cui è stata presidente del Comitato scientifico.
Il suo primo libro è stato Cecilia e le streghe, con cui nel 1963 ha vinto il premio Pozzale. Romanzo che prende le mosse da un misterioso incontro fra due donne, nelle strade deserte di Milano in una sera di mezz’agosto e in cui affronta con toni poetici i temi della malattia, della morte, del dolore, della fede e dell’eutanasia, affrontando pienamente le pieghe del rapporto fra medico e paziente.
Sempre sull’esperienza nel lager, nel 1965, ha scritto il romanzo La condizione sperimentale.
È salita alla ribalta nazionale con la catastrofe di Seveso del 1976, provocata dalla fuoriuscita di una nube tossica contenente diossina da un’industria chimica. Per il suo ruolo di consigliera regionale, si era recata immediatamente sul luogo del disastro per seguire da vicino gli abitanti e, in particolare, le donne incinte a cui, per il rischio di malformazione dei neonati, venne eccezionalmente concessa la possibilità di abortire. Diritto raggiunto da tutte le donne soltanto due anni dopo.
Con le pubblicazioni Visto da Seveso e Una lepre con la faccia di bambina la sua popolarità ha varcato i confini nazionali e i suoi studi hanno ispirato, nel 1982, la direttiva sui rischi di incidenti connessi con determinate attività industriali della Comunità Europea, chiamata Direttiva Seveso.
Tra i libri che ha scritto ci sono anche Che cos’è l’ecologia,Questo pianeta e La fotosintesi e la sua storia capolavoro scientifico scritto per le scuole superiori, il cui tema centrale è l’aria e la storia della formazione dell’ossigeno.
Dopo aver ricevuto il Premio Minerva per il suo percorso scientifico e culturale, nel 1987 è stata eletta alla Camera dei deputati col partito dei Verdi.
È morta il 25 maggio 1993 a Milano.
Il suo archivio è stato lasciato alla Fondazione Micheletti di Brescia.
In sua memoria sono state compiute varie iniziative pubbliche, il Comune di Milano l’ha riconosciuta come Cittadina benemerita e le ha intitolato un giardino pubblico, Bolzano, invece, le ha dedicato una strada e sono stati scritti vari libri sulla sua vita e il suo importante contributo.
Laura Conti ha mostrato quanto possa incidere l’ambiente di lavoro sulla salute e quanto sia importante occuparsi di ecologia applicata nelle fabbriche e nelle periferie urbane.
La sua attività di divulgatrice è stata una vera missione politica.
Una donna che abbiamo il dovere di non dimenticare.
Fonte- una donna al giorno
Valeria Fieramonte-La via di Laura Conti
Ecologia, politica e cultura a servizio della democrazia
Una biografia di Laura Conti che racconta la sua storia di impegno politico, che la vide giovane partigiana durante la Resistenza, prigioniera nel campo di concentramento di Bolzano e poi attiva nelle battaglie per i diritti umani, che percorre la passione e la dedizione alla scienza, alla medicina, alla biologia, all’ecologia, che dà conto del suo lavoro intenso di scrittrice e divulgatrice con 26 libri pubblicati e una sterminata quantità di articoli e saggi per riviste e giornali.
Laura Conti ha vissuto intensamente il proprio tempo, la sua storia individuale si è scontrata e intrecciata con gli eventi della Storia di tutti: la guerra, la resistenza, la ricostruzione, le speranze e l’impegno per edificare una società migliore per tutte e tutti, ma ha anche visto molto più lontano, individuando, grazie alla sua peculiare genialità sui temi ambientali, a un pensiero lucido, originale, limpido, alcuni temi che sarebbero diventati di grande importanza molti anni dopo, e che sono rilevantissimi per noi oggi. Come il grande tema dell’ambiente (celebri i suoi reportage e le sue battaglie a seguito del disastro ambientale di Seveso del 1976, quattro leggi della Comunità Europea in questo ambito sono ispirate da lei), della responsabilità del genere umano nei confronti del pianeta Terra, dello sviluppo sostenibile, o come il tema dell’educazione delle giovani generazioni, della
necessità della formazione di un’umanità più consapevole e libera.
Valeria Fieramonte scrive questo racconto in modo partecipe e appassionato tanto da riuscire a restituire quel senso della inestricabiltà della vita concreta di ciascuno: le scelte di vita, la politica, gli studi, i romanzi, i saggi, le esperienze più difficili, i successi e i riconoscimenti, le relazioni si susseguono in questo testo in un unico e coinvolgente flusso, come se quella vicenda umana del passato diventasse parte del nostro vivere di oggi. Alla fine questo notevole personaggio del Novecento ci sembra che potrebbe esserci vicina come una amica cara che conosciamo bene e di cui andiamo orgogliose.
Laura Conti riposa ora nel Famedio tra i milanesi e le milanesi illustri. La sua storia personale e il suo pensiero illuminato costituiscono un patrimonio prezioso che questo libro vuole contribuire a restituire a tutti e tutte.
Valeria Fieramonte, giornalista freelance in campo scientifico, laureata in filosofia all’Università Statale di Milano, ha lavorato in numerose testate, tra cui il «Corriere della Sera» («Corriere Salute»), «Le Scienze» e «Salve». Ha scritto con Giovanna Gabetta Sesso, amore e gerarchia. Pensieri liberi su differenze di genere e potere, 1998 e curato, in Lo snodo dell’origine, il saggio sul pensiero di Lynn Margulis. È membro dell’Ugis (Unione giornalisti scientifici italiani) e dell’Eusja (Associazione dei giornalisti scientifici europei). Nel dicembre 2015 è stata corrispondente per «La nuova ecologia» dal Congresso COP 21 di Parigi. Questo libro su Laura Conti, un tempo sua amica, è frutto di lunghi anni di studio sulla sua vita e sul suo pensiero.
I nostri libri sono distribuiti nelle librerie di tutta Italia da Messaggerie Libri.
La promozione è curata da PEA Italia.
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Franco Leggeri Fotoreportage-Murales Ospedale Spallanzani di Roma
2)Caio Mario Coluzzi Bartoccioni-Biologo-
Roma lungo via Folchi ,dall’inizio di via Portuense, si trovano i Murales che raffigurano gli scienziati che hanno combattuto e vinto le battaglie contro le malattie infettive. Eroi veri ma dimenticati su questo muro di cinta – I Murales ora rischiano il degrado e la “polverizzazione” dell’intonaco. Il muro di cinta costeggia l’Ospedale “Lazzaro Spallanzani” e fa da “sostegno” e “tela” è un muro di cinta di 270 metri, lungo il quale, dal mese di aprile del 2018 sono immortalati 13 volti di scienziati che hanno scritto la storia della ricerca sulle malattie infettive. Un progetto dei Murales è finalizzato a celebrare gli 80 anni della struttura ospedaliera, iniziato a febbraio – e inaugurato il 3 maggio – grazie alla collaborazione fra la Direzione dello Spallanzani e l’Associazione Graffiti Zero, associazione che promuove l’integrazione fra la Street Art e i luoghi che la ospitano. Unica pecca, peccato grave, non vi è immortalata nessuna donna.
Verranno pubblicati le foto dei Murales di tutti i 13 scienziati , uno alla volta, questo al fine di poter evidenziare la biografia e la loro Opera in maniera più completa possibile. Le biografie pubblicate a corredo delle foto sono prese da Enciclopedio Treccani.on line e Wikipedia
Biografia du Caio Mario Coluzzi Bartoccioni-Biologo
Biologo italiano (Perugia 1938 – Roma 2012). Introdotto allo studio scientifico dal padre (noto malariologo), ancora liceale ha pubblicato il suo primo contributo sulla resistenza al DDT dei vettori italiani di malaria (1956). Durante la formazione universitaria e post-universitaria in Malariologia, Genetica e Parassitologia ha continuato le ricerche sugli insetti responsabili della trasmissione e negli anni è giunto a riconoscere sei specie gemelle di zanzara Anopheles (arrivando a identificarne l’intero genoma). Nominato professore ordinario di Parassitologia alla Sapienza di Roma (1982, Facoltà di Medicina e Chirurgia), è stato direttore del Centro Collaboratore per l’Epidemiologia e il Controllo della Malaria dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS). Nel 2008 gli è stato consegnato il BioMalPar Life Award dal gruppo istituito dalla Commissione Europea per la biologia e la patologia del parassita della malaria; nel 2009 C. è diventato membro ordinario dell’Accademia dei Lincei.
Figlio dell’epidemiologo umbro Alberto Coluzzi, e di Anna Wimmer, educatrice tedesca di Passavia, ebbe come sorella l’attrice Francesca Romana Coluzzi. Visse i primi anni con la famiglia in Albania, dove il padre era stato inviato per svolgere attività di ricerca e lotta antimalarica dall’Istituto di MalariologiaEttore Marchiafava, durante il periodo di occupazione italiana. In seguito agli eventi legati all’Armistizio di Cassibile, il 14 ottobre 1943 la famiglia fece ritorno a Perugia, per poi trasferirsi alla fine del 1945 nella Casa delle Palme, una grande casa di campagna sita nella frazione di Monticelli, acquistata dal padre per insediarvi la famiglia, ed affittata dallo Stato Italiano per crearvi congiuntamente un laboratorio sperimentale di indagini malariologiche.
Dopo la laurea in Scienze Biologiche, si è sposato il 14 luglio 1963 con Adriana Sabatini, ricercatrice in Parassitologia all’Istituto Superiore di Sanità di Roma, con la quale ha portato avanti una fruttuosa collaborazione scientifica per anni, e dalla quale ha avuto una figlia, Barbara Coluzzi Bartoccioni, nata a Roma l’8 giugno 1970.[1]
È stato diagnosticato affetto da un Parkinson rigido nel 1994, ed è morto di polmonite ab-ingestio dopo una decina di anni da quando era rimasto immobilizzato in sedia a rotelle a causa della rottura a distanza di poco tempo di un femore dopo l’altro. Nel frattempo la malattia era stata più accuratamente diagnosticata come una paralisi sopra-nucleare progressiva, in base all’esame della RMN.
Contributi scientifici
Iniziato alla ricerca scientifica in giovane età dal padre Alberto (la sua prima pubblicazione risale ai tempi del Liceo classico), è stato autore di oltre 300 pubblicazioni scientifiche. Le ricerche di Mario Coluzzi hanno intanto messo in evidenza gli effetti disastrosi del DDT sull’equilibrio degli ecosistemi (laghetti e simili), quindi anche di medicinali quali la clorochina sull’insorgenza di fenomeni di resistenza del plasmodio responsabile della malaria nella zanzaraAnopheles, vettore della malattia.
Importanti sono i suoi contributi sulla genetica dei vettori malarici, che lo hanno portato al riconoscimento dell’esistenza di sei specie gemelle del genere Anopheles, ciascuna in possesso di diversa capacità di contribuire alla diffusione della malattia, che possono distinguersi solo in base all’esame intanto con microscopio ottico dei cosiddetti “cromosomi giganti”, presenti in particolare nelle ghiandole salivari per permettere la produzione rapida di un’abbondante quantità di saliva (che viene iniettata alla puntura per impedire la coagulazione del sangue, che poi è quella che produce la caratteristica reazione di prurito e nella quale si trovano eventualmente i plasmodi responsabili della malaria). Collegato a questo lavoro è l’ipotesi da lui avanzata negli ultimi anni, su una speciazione tuttora in atto nel complesso Anopheles gambiae, che è stata successivamente confermata da studi di biologia molecolare. Un’altra linea di ricerca originale importante è stata quella sull’origine e diffusione della forma di malaria che può rivelarsi fatale per l’Homo sapiens, dovuta all’opera di diverse specie di Anopheles divenute spiccatamente antropofile circa 6 000 anni fa, in concomitanza con il passaggio dell’Homo sapiens da arboricolo ed allevatore a coltivatore prevalentemente stanziale, dando inizio al processo che avrebbe portato all’espansione e diffusione attuale della malattia nella popolazione umana.
Le sue ricerche genetiche hanno poi portato alla pubblicazione dell’intero genoma dell’Anopheles e del Plasmodium. All’attività di Coluzzi si deve poi la creazione di una scuola scientifica, che conta decine di importanti scienziati, e la promozione e direzione di importanti collaborazioni scientifiche internazionali con paesi in via di sviluppo, per la lotta alla malaria, soprattutto in area sub-sahariana, finanziati dal Ministero degli affari esteri e dall’Istituto Pasteur-Fondazione Cenci Bolognetti. In particolare, è stato dedicato alla sua memoria il nome di una specie identificata in seguito nell’Africa sub-sahariana, l’Anopheles coluzzii.
Gli studi di Mario Coluzzi sui siti riproduttivi del vettore malarico Anopheles gambiae, costituiti da piccoli ed effimeri accumuli temporanei di acqua dolce, hanno mostrato come non sia acriticamente estensibile, all’Africa subsahariana, il modello sinergico che vede, nel mondo occidentale, le pratiche e lo sviluppo agricolo quali importanti elementi di contrasto alla riproduzione del vettore. In ambiente subsahariano, al contrario, i fattori di trasformazione ambientale indotti dall’uomo (deforestazione, irrigazione, desalinizzazione delle aree costiere), hanno il solo effetto di moltiplicare i siti e le opportunità riproduttive del vettore, incrementando la trasmissione del parassita.
^ Jeffrey R. Powell, Nora J. Besansky, Alessandra della Torre, Vincenzo Petrarca, Mario Coluzzi (1938–2012), in Malaria Journal, vol. 13, n. 1, 22 gennaio 2014, pp. 10, DOI:10.1186/1475-2875-13-10. URL consultato il 25 febbraio 2024.
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