Anna Maria Carpi, di famiglia tosco-emiliano-irlandese, vive a Milano. Ha insegnato letteratura tedesca all’Università di Macerata Marche e a Ca’Foscari a Venezia. E’ autrice di saggi, racconti e romanzi (fra cui Vita di Kleist, Mondadori 2005, Rowohlt 2011, e Uomini ultimo atto, 2016) e traduttrice della lirica tedesca (Nietzsche, Rilke, Benn, Bernhard, Gruenbein e a.), premio Ministero dei beni culturali (2011) e Città di S.Elpidio (2015), premio Carducci (2015). Nella poesia esordisce con A morte Talleyrand (1993, premio Pisa 1993), cui seguono Compagni corpi (2004, 22005), E tu fra i due chi sei(2007), L’asso nella neve (2011, 2 edizioni), Quando avrò tempo (2013) e L’animato porto (2016). Da Hanser (Monaco 2015) è uscita l’antologia con testo a fronte Entweder bist du unsterblich e da Marcosymarcos, Milano 2016, il complessivo E io che ancora parlo. Sue poesie sono apparse su “Oktjabr’ (Mosca,1998), “Akzente“(Monaco 2001 e 2011), e di recente su “Ulisse”, “Nuovi argomenti”, “Le parole e le cose”.
STORNI nell’aria,
migrano questi figli dell’autunno,
una mano gigante li ha lanciati
su in cielo. Sbandano, ritornano,
nel loro giubilo d’essere nessuno,
i bimbi del creato.
Tutti via, poi il gioco ricomincia,
il gioco in alto, al freddo, senza tempo.
Non c’è gioco per noi, noi giù nel tempo
per le vie del quartiere.
Foglie, una cosa sola, solo qualche fruscio,
un giacere comune, ultimi battiti,
poi una terrea quiete.
LAGHI E LAGHI
LAGHI E LAGHI senza l’altra sponda,
boschi d’inverno fragili schiomati
come teste di vecchio e poi la neve
e lacrime di ghiaccio alle tettoie.
Le poche case accenti circonflessi.
Un piccolo nel mio scompartimento
fa merenda e gioca con l’orsetto
con davanti la madre
che guarda fuori e il padre col giornale,
tutto è fidato e tutto è famigliare.
Essere lui, poter ricominciare.
In casa al video o in tavola o per strada
o in metrò o in qualche ufficio o alla stazione
non so dov’ero ieri e cos’ho fatto
né stamattina fino a un’ora fa,
non so più quando ho visto i miei amici
se erano loro
cosa ci siamo detti.
Ci vediamo di furia
solo per dire: non ci siamo persi,
poi è il sollievo di un “anche questa è fatta”.
Dove sei, gioia? Dove sei, speranza?
l mio cuore ha l’accesso stretto
il sangue non ci passa facilmente
o rigurgita o rimane dentro,
così gli altri non sanno
che passione ho per loro
che potrei
fermare anche gli ignoti per la strada
e dirgli
tutto quello che ho dentro e non mi passa –
e sarebbe la grazia.
Una vita sola? Io so che ce n’è un’altra:
sarà come stasera,
questo caffè dentro la stazione
e la pioggia che lucida il piazzale
e il vai e vieni di colori e di ombrelli.
Caldo e voci all’interno –
tu cosa bevi? e tu? Sempre lo stesso?
Salute!
Salute a te, e dimmi come stai.
Tu mi ascolti la faccia tra le mani
e io ti ascolto con i cinque sensi
e questa sera non andiamo a casa.
Quel che diciamo – cose da niente,
ma ritorna il candore
e la voglia di ridere
e una giovane smania di consacrazioni.
Anna Maria Carpi (Milano, 1939), inedito
IL MARE
qui sotto la casa: ascolta,
ha come mani e dita,
sembra scartino e incartino – che cosa?
un messaggio, un regalo?
Di tanto in tanto un tonfo ed un singulto
e sullo scoglio l’onda
schiuma e si spande, poi ritorna indietro.
Che ci voleva dire?
Che è per lei la sponda?
Il senso è al largo, e intanto cala il buio,
e verso terra in fretta con un ultimo
volo prima di notte
anche i gabbiani cercano un rifugio.
10
E DALL’OCEANO irrompe a Gibilterra
ed è già nel Tirreno
e già nel Golfo.
Dal Golfo all’isola è una sola ondata,
è già qui sotto casa
a schiumar sugli scogli,
sembra un’immensa veste agitata dal vento
balze ricami e frange
su un pudore primario della terra.
E tutta notte è un andirivieni
di flutti e sfasci,
e io in ascolto a finestre aperte
fra la veglia e il sonno
rapita da quest’essere-nonessere,
dal fraterno disciogliersi fra loro
di slanci tonfi e vuoti.
11
DALLA GAIA PIAZZETTA coi negozi
che vendono di tutto alla rinfusa,
moda smart e bijoux,
scende in curva una strada che va al mare:
all’angolo un cartello con la freccia
traffico consentito
ECCETTO AI BUS, AI CAMION, ALLE MOTO.
Ma le moto
coi minorenni in sella
curvano giù beate lampeggiando,
e spariscono in fondo
con un urlo di gioia i trasgressori.
Il vigile? E’ là al bar, che si fa un drink.
E anche qui per vicoli e stradine
per vetrine e per muri i manifesti
dell’eclatante, del trionfo umano.
Il contagio è arrivato all’innocente:
vende frutta e verdura nel paese
in un suo bugigattolo,
con fuori un suo cartello,
in stampatello dice
HERE THE GLOBAL PRIMIZIA.
Viva la vita, mai fu così grande.
Anna Maria Carpi è nata nel 1939 a Milano, da madre emiliana e padre di origine irlandese. Ha studiato lingue e letterature straniere alla Statale di Milano. Ha vissuto a più riprese a Bonn, a Berlino e a Mosca. Ha insegnato letteratura tedesca all’ Università di Macerata (1968-80) e alla Ca’ Foscari di Venezia (1980-2009) e dal 2001 insegna traduzione letteraria dal tedesco alla Statale di Milano. Vive a Milano. È autrice di un diario inedito di 15.000 pagine e di studi su Kleist, Mann, Handke e sulla poesia tedesca del ‘900. Nel 1993 ha vinto il Premio Nazionale Letterario Pisa per la Poesia.[1] La traduzione di A metà partita di D. Grubein le ha meritato il Premio Monselice nel 2000.[2] Per le sue traduzioni dalla poesia tedesca (Friedrich Nietzsche lirico, Benn, Paul Celan, Enzensberger, H.Mueller, Gruenbein, Krueger) ha avuto nel 2012 il Premio nazionale per la traduzione. Nel settembre 2015 ha ricevuto il Premio Città di Sant’Elpidio a mare, per la miglior traduzione italiana della poesia straniera, È membro delle giurie del Premio Monselice e del Premio internazionale Wuerth di Stoccarda e dal 2013 dell’Akademie der Sprache und der Dichtung di Darmstadt. Nel 2014 ha ricevuto il Premio Carducci alla carriera.
Opere
Poesia
A morte Talleyrand, Udine, Campanotto, 1993
Compagni corpi. Tutte le poesie 1992-2002, Milano, Scheiwiller, 2004
E tu fra i due chi sei, Milano, Scheiwiller, 2007
L’asso nella neve. Poesie 1990-2010, Massa, Transeuropa, 2011, (prima e seconda edizione)
Quando avrò tempo. Poesie 2010-12, Massa, Transeuropa, 2013
Entweder bin ich unsterblich, Monaco, Edition Lyrik Kabinett bei Hanser, 2015, traduzione di Piero Salabé, Postfazione di Durs Grünbein
L’animato porto, Milano, La Vita Felice, 2015
E io che intanto parlo. Poesie 1990-2015, Milano, Marcos y Marcos, 2016
Né io né tu né voi, Milano, La Vita Felice, 2018
Doroghie drughie, Pietroburgo, edizione Aleteija, 2018, traduzione di T.Stamova
E non si sa a chi chiedere, Milano, Marcos y Marcos, 2020
L’aria è una, Torino, Einaudi, 2022
Romanzi
Racconto di gioia e di nebbia, Milano, Il Saggiatore, 1995
E sarai per sempre giovane, Torino, Bollati Boringhieri, 1996, (trad tedesca: Forever young, Rowohlt, Reinbek 1997)
Il principe scarlatto, Milano, La Tartaruga, 2002
Un inquieto batter d’ali. Vita di H.v.Kleist , Milano, Mondadori, 2005 ( *Kleist. Ein Leben, Berlino, Insel, 2011)
Il mio nome era un altro. Due bambini dell’Est , Roma, Perrone, 2013
Racconti
Tagtraeume, in “Zukunft? Zukunft (6 autrici sul “futuro”)”, Gehrke, Tuebingen, 2000
Piccola Anna, Querini-Stampalia, Venezia 2007
Uomini ultimo atto, Moretti & Vitali, Bergamo 2015
-Giovanna Cinieri-Estratto da “Piccola stregheria”
-Rivista L’Altrove-
Biblioteca DEA SABINA-L’AUTRICE–Giovanna Cinieri, poeta e scrittrice, è nata a Taranto e ha studiato all’Accademia di Belle Arti di Bologna. È stata semifinalista al Premio Calvino racconti nel 2021 e nel 2022 e ha vinto il premio della critica sezione racconti al Premio Inedito Colline di Torino.
Questo tempo di correre a notte chiara di neve l’ho fatto, e stare qui dentro marzo neutrale agli elementi, all’orario che conta meglio i minuti rimanenti e gli sputi che la tua faccia a bassa frequenza mi schiva, fa del respiro un fischio che porta i cani dritti a casa: eccoli abbandonati tutti, nonostante padrona rimanga dall’alto una luce.
in me accetti di morire: ti serve essere due dove c’è tutto e polvere e un pezzetto di Dio ti riguarda, così dritto che è un proiettile. e poi hai la fine ad occhi aperti, tu disperato di grazia, perché insieme dura la vita.
Amore che mi hai dato il coltello il pane col burro di fumo e piangevi è in fiamme il comodino mi hai detto di notte, seduto tremando la sedia del più bel velluto non hai scritto la voce risalita in gola col bastone amore che mi hai fatto nero l’occhio celeste hai messo la voglia caduta aspettandomi fuori da scuola nell’auto storpia la lama spalma, hai promesso non taglia ho cose nel sangue anche ora a Luna Park spento hai girato la Ruota hai fatto il fantasma e gli specchi, la bara conoscevi il mio nome hai strappato il vestito viola che avevo mancandomi molto alla comunione con Dio sporcato il tavolo sceso in cantina parlato ai nemici di me lavata in giardino amore che mi hai dato resurrezioni di marmo la carne è del sangue, solo suo hai mangiato dal seno pregandomi non dirlo a nessuno che ero io che ti entravo di nascosto.
Ti piace guardare la notte che ho negli occhi dove ti inginocchi, ai miei piedi sporchi parli anche a me piace cercare le ossa degli avi tra i tuoi denti.
fare molecole dai capelli oppure niente coperta dai fantasmi del futuro.
e così i miei discendenti stanno dritti, negli spazi rotti di linguaggi nei secoli gli attimi incontabili.
smettere è un continuo ti dico che mi serve. mi dai teoriche dimensioni subatomiche dici a me che vuoi prendere dici a me che vuoi molecole
se cadessero fuochi e fosse irreversibile procedere in disfatta su questa terra classica a conferma delle leggi già da anni inaccettabili mangeremmo l’armamento con i nuclei nella bocca.
Rivista- L’Altrove
“La poesia non cerca seguaci, cerca amanti”. (Federico García Lorca) Con questo presupposto, L’Altrove intende ripercorrere insieme a voi la storia della poesia fino ai giorni nostri.
Si propone, inoltre, di restituire alla poesia quel ruolo di supremazia che ultimamente ha perso e, allo stesso tempo, di farla conoscere ad un pubblico sempre più vasto.
Troverete, infatti, qui tutto quello che riguarda la poesia: eventi, poesie scelte, appuntamenti di reading, interviste ai poeti, concorsi di poesia, uno spazio dedicato ai giovani autori e tanto altro.
Noi de L’Altrove crediamo che la poesia possa ancora portare chi legge a sperimentare nuove emozioni. Per questo ci auguriamo che possiate riscoprirvi amanti e non semplici seguaci di una così grande arte.
Sacha Piersanti è nato nel 1993 a Roma, dove vive e lavora. Ha pubblicato Pagine in corpo (Empirìa 2015), L’uomo è verticale (Empirìa 2018) e il saggio Zero, nessuno e centomila. Lo specifico teatrale nell’arte di Renato Zero (Arcana 2019; 2022). Tra il 2016 e il 2019 ha co-ideato il progetto teatrale L’ora dell’Alt, basato sulla poesia di G. Caproni e messo in scena a Roma e a Parigi. Traduttore dal latino (Plauto) e dall’inglese (Durham), è tra i curatori del progetto culturale La casa del Poeta, per la riqualificazione e conservazione della celebre ‘baracca’ del poeta V. Zeichen, e co-dirige lo spazio Zeugma, a Roma.
LA MANCANZA
È il crepuscolo del mondo e tu dov’eri
mentre mi sforzavo di dormire per sognarti
e nel sogno sei crudele e io ti sogno
perché crudele vuol dir viva
vicina attenta addosso a me che vivo
fuori dal sogno crudele anch’io ma senza
te contro cui spuntare armi
e è il crepuscolo del mondo e tu dov’eri
quando mi sforzavo di svegliarmi per sentire
il vuoto tuo di te già in dormiveglia
tra le braccia di un altro me che mi somiglia,
un me distorto, un me figura
di me che ha corpo nel tuo corpo
ma è il crepuscolo del mondo e ecco il vento
a gridare che non manchi solo a me,
manchi e noi manchiamo, amore, al mondo
che manda a morte senza bara e senza urna
migliaia di suoi figli perché infuria
l’indicibile dolore – la mancanza
inesauribile che scorre ma non passa
come la sabbia alla clessidra
testimone della fine e dell’eterno
del tempo muto nel deserto.
IL TRADIMENTO
Contra miglior voler voler mal pugna. (Purgatorio, xx, 1)
Come se le ceneri dall’urna
fosse ancora vita che spaventa,
come se la neve alla tormenta
fosse essenza e non l’abbaglio
di bianco all’occhio degli umani
come se il fumo che mi serve
per pensare e scrivere e parlare
fosse già il tumore e non soltanto
l’invenzione comoda, il perché
a un certo punto poi si muore
come se davvero fosse tutto
così come lo schediamo
noi gran vermi a dire io –
a dimenticare che fu Dante, non il contrario, padre a dio.
IL LASCITO
a E.C., studentessa di liceo classico
E insegnarti anche a tradurre
l’oggettiva senza verbo della morte,
insegnarti anche a convivere
con l’ombra che in silenzio sottintende
tutti i soggetti della storia
tutti gli io che alla memoria
stanno come gli accenti alle parole.
Insegnarti le parole,
donna bambina che non sai
quanto corpo nascondono quei suoni,
quanto sangue scorre ancora
dentro ai morti e quanta rabbia
che tu provi, quanto amore
che non dici – quanto tutto
sia già tutto esistito
in loro, quei mortali
che hanno fatto di morire un verbo transitivo.
Insegnarti a ricordare
che conta ricordare
il senso delle cose,
non quell’infinita
cronistoria delle rosae perché un giorno anche tu,
anche tu che adesso hai denti
tutti bianchi e occhi aperti,
tu che adesso ti diverti
anche tu ti troverai
a pezzi e senza forze,
con lo stomaco piagato
da un vuoto che non sai
e saranno quegli umani
dalle dita di scrittura
a toccarti sulla fronte,
nell’incavo delle ossa
tra i passi e l’intenzione.
Insegnarti anche a soffrire,
a respingere l’antidoto,
la preghiera, il sedativo
ché tanto è l’ablativo
del dolore poi a guarirci.
Insegnarti la bellezza
del dativo e dei servili
(occhio: siano attivi
ché il passivo è schiavitù),
la finta concretezza
di ogni possessivo
e l’inganno fiero
di noi umani tutti quanti
che diamo solo nomi
ma non solo nominiamo
perché dire è partorire
e senti come suonano
fratelli fiato e feto.
Insegnarti che gli umani
sono tutte coordinate
di un periodo senza punti
(forse scritto male,
tra refusi e altri errori
di copia o traduzione)
e che è solo il nostro tempo
delle feste comandate,
dei confini, del potere
che stravolge la sintassi
e c’impone gerarchie –
tu ricorda me che mentre parlo e insegno imparo e ascolto te.
AL TEMPO, CON AFFETTO
E non proviamo più
nemmeno a dargli contro
nemmeno a darci dentro
se non a graffi, con le unghie
(della penna o della mano
che in fondo tutto è umano
anche quel che non respira,
dai brividi del sasso
al fiato del carbone)
una parete, una a caso:
lo sterno o la galera
la memoria o il foglio bianco.
E allora fugga tutto
cancelli pure il nulla
il Tempo, e polverizzi
ogni nome, ogni storia
calpesti tutti noi
coi suoi tacchi da bolero
(zoccoli da toro)
e coi denti di chi ignora
la fame non la gola
ci mastichi e divori.
Ché qui sarà passato
qualcuno, qui, e qualcosa
qui sarà successo
e alla fine della carne
quando tutto sarà stato
resteranno le parole:
vivi fossili a sancire,
Tempo,
il tuo fallimento.
Sacha Piersanti è nato nel 1993 a Roma, dove vive e lavora.Ha pubblicato Pagine in corpo (Empirìa 2015), L’uomo è verticale (Empirìa 2018) e il saggio Zero, nessuno e centomila. Lo specifico teatrale nell’arte di Renato Zero (Arcana 2019; 2022). Tra il 2016 e il 2019 ha co-ideato il progetto teatrale L’ora dell’Alt, basato sulla poesia di G. Caproni e messo in scena a Roma e a Parigi. Traduttore dal latino (Plauto) e dall’inglese (Durham), è tra i curatori del progetto culturale La casa del Poeta, per la riqualificazione e conservazione della celebre ‘baracca’ del poeta V. Zeichen, e co-dirige lo spazio Zeugma, a Roma.
Biblioteca DEA SABINA- La rivista «Atelier»
La rivista «Atelier» ha periodicità trimestrale (marzo, giugno, settembre, dicembre) e si occupa di letteratura contemporanea. Ha due redazioni: una che lavora per la rivista cartacea trimestrale e una che cura il sito Online e i suoi contenuti. Il nome (in origine “laboratorio dove si lavora il legno”) allude a un luogo di confronto e impegno operativo, aperto alla realtà. Si è distinta in questi anni, conquistandosi un posto preminente fra i periodici militanti, per il rigore critico e l’accurato scandaglio delle voci contemporanee. In particolare, si è resa levatrice di una generazione di poeti (si veda, per esempio, la pubblicazione dell’antologia L’Opera comune, la prima antologia dedicata ai poeti nati negli anni Settanta, cui hanno fatto seguito molte pubblicazioni analoghe). Si ricordano anche diversi numeri monografici: un Omaggio alla poesia contemporanea con i poeti italiani delle ultime generazioni (n. 10), gli atti di un convegno che ha radunato “la generazione dei nati negli anni Settanta” (La responsabilità della poesia, n. 24), un omaggio alla poesia europea con testi di poeti giovani e interventi di autori già affermati (Giovane poesia europea, n. 30), un’antologia di racconti di scrittori italiani emergenti (Racconti italiani, n. 38), un numero dedicato al tema “Poesia e conoscenza” (Che ne sanno i poeti?, n. 50).
Direttore responsabile: Giuliano Ladolfi Coordinatore delle redazioni: Luca Ariano
Redazione Online Direttori: Eleonora Rimolo, Giovanni Ibello Caporedattore: Carlo Ragliani Redazione: Mario Famularo, Michele Bordoni, Gerardo Masuccio, Paola Mancinelli, Matteo Pupillo, Antonio Fiori, Giulio Maffii, Giovanna Rosadini, Carlo Ragliani, Daniele Costantini, Francesca Coppola.
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Federica Ziarelli-Poesie “Tu sei bellezza” (Terre D’Ulivi 2022)
Federica Ziarellinata a Perugia il 25 luglio 1980, ha esordito con il romanzo di formazione “Sono venuto a portare il fuoco” (Porzi editoriali, 2010). Nella primavera del 2016, pubblica “Aspettando l’aurora”una raccolta di poesie e racconti a sfondo mitologico (Midgard edizioni) e nel medesimo anno, la silloge poetica “Gli occhi dei fiori” con la quale si avvale del premio “Midgard poesia.” Nel 2019 è coautrice insieme a Nicoletta Nuzzo e Silvana Sonno, del saggio sulla poetica femminile umbra “Un’oscura capacità di volo” (Era Nuova edizioni) opera vincitrice del Premio internazionale di scrittura al femminile “Il Paese delle donne, 2020.” È del novembre 2019 la raccolta di poesie “In erba” (Terra d’ulivi edizioni).
Appena hai schiuso per me le palpebre del sepolcro
l’oscuro mi è apparso accettabile
tutto ha potuto la tua manina
mia musa consolante
amica del cuore
canticchiavi alle mie orecchie
per tenermi allegra
quando la morte non restituiva i suoi furti
le mie lacrime indurivi in diamanti
me li appoggiavi al mattino
mucchio luce sopra il banco.
*
Non resisto a questa sete di primavera
sarò ubriaca
ancor prima della sera
faccia in giù tra i cespugli di menta
per fortuna a questa stagione piaccio così: disponibile e spettinata
può stiepidirmi la soglia
popolare di pesci rossi il mio ghiaccio cardiaco
immergermi in prati che non fanno che crescermi.
*
Mi ha voluta pratica e tranquilla
la logica
luce accesa all’occorrenza.
Però a me piaceva scombinare le carte
zizzagare le linee
il vento sulla tovaglia del pic-nic
a rovesciare il vino
mandare all’aria insieme
panini e buoni consigli.
*
Non posso dimenticare
nostro ondoso Eden
il mare ci ha scacciati
e noi in prati artificiali a rincorrere
l’infanzia grondante
il fogliame tremulo delle scaglie.
Capita che l’erba si alzi
e commossa di rugiada
ci restituisca alle antiche gocce
il conforto il nutrimento
del latte abissale.
* * *
Ma di cosa sei fatta, tu?” “Di quello che ami” disse lei. “Più l’acciaio”.
– Nota di Irene Ester Leo- Rivista «Atelier»
Mi trovo a sentire queste parole così in linea con quanto vi dirò a seguire, parole che prendo per un po’ e faccio mie, parole di Ernest Hemingway. Vi è un’estrema delicatezza nella voce di Federica Ziarelli, antica e preziosa, quasi proveniente da un modo parallelo nel quale i sogni toccano terreno e danzano, su un filo sottile ma fatto di coraggio e di bellezza. La delicatezza è la corazza più forte e inestimabile, è l’acciaio: pozione salva cuore al grigio che affossa, ma in questo libro, ricchissimo e fatto di parole respiranti, questo acciaio è la poesia. Poesia che non si arrende. Apre il libro la sezione dedicata all’Aria, dove il senso evocativo dei passi di danza è la levità di un soffio che è ritmato dall’incedere di immagini care alla poetessa, e commoventi. Segue poi la sezione Terra, che è la meraviglia della scoperta ed ha negli occhi la natura, che è fame e sete di vita, e germogliante tra le vene. Ma lasciata la terra il viaggio continua con l’approdo verso l’Acqua, terza sezione. Ed è il mare che si apre a noi come una visione, un rimedio, un viaggio, un ricordo e l’anima diventa una sirena azzurra, e in quest’acqua che alleggerisce il peso di ogni cosa, appaiono anche volti cari e familiari. Ma nel dondolare degli opposti urge la fiamma del Fuoco che illumina la quarta sezione, che non distrugge ma alimenta sentimenti e moti interiori, riflessi dal vero, desideri, Cristo e le passioni, e scalda e spegne per far rinascere ogni cosa. Federica Ziarelli è una poetessa che ha fatto dello spessore e della grazia il suo stile, non v’è dubbio che ogni verso in questo libro abbia un peso e sia lontano anni luce dagli esercizi di stile di molte altre voci che affastellano la poesia contemporanea, non cerca la ribalta, il clamore, ma costruisce ponti, cattedrali, nel silenzio della creazione e senza l’urlo di chi vuole esserci. E’ un lavoro duro quello dei poeti che scavano dentro ogni loro vena per offrirsi al mondo e lasciarsi attraversare, è un lavoro severo e costante, coraggioso, di chi non somiglia a nessuno che non sia se stesso. Non vi è una battaglia contro le cose, ma un racconto di crescita ed evoluzione che lascia orme preziose ed un dono immenso. Come scrive con estrema precisione e attenzione Alessandra Corbetta, poetessa di valore, nella postfazione al libro, la Ziarelli si rivolge al lettore guardandolo negli occhi. Così come farebbe Whitman ad esempio, e sussurrandogli : Tu sei bellezza, titolo della raccolta e chiave sacra di volta. Cade dunque ogni barriera, non esiste differente altezza tra poetessa e lettore, quel Tu, è vicinanza e allontanamento di ogni timore reverenziale, è tendere la mano all’altro, è in questo gesto che la bellezza si dipana e fiorisce, non è una statua ieratica, ma senso profondo e significato del vivere, e su tutto unicità: “Sii tenace nel permanere di bellezza..”.
Breve biografia di Irene Ester Leo, 1980, laureata in Storia dell’arte, critico d’arte e letterario. Ha pubblicato: “Canto Blues alla deriva”(Besa, 2007); “Sudapest”(Besa, 2009) ; “Io innalzo fiammiferi”, con prefazione di Antonella Anedda ( Lietocolle, 2010)( Premio Letterario Nazionale di Calabria e Basilicata 2010, primo classificato); “Una terra che nessuno ha mai detto”, prefazione di Andrea Leone (Ed.della Sera 2010); “Cielo”, prefazione Davide Rondoni (La Vita Felice, 2012)(Secondo classificato Premio Laurentum 2012). I suoi versi sono stati tradotti in lingua spagnola, per l’America Latina, e in inglese su riviste internazionali.
Biblioteca DEA SABINA-
La rivista «Atelier»
http://www.atelierpoesia.it
La rivista «Atelier» ha periodicità trimestrale (marzo, giugno, settembre, dicembre) e si occupa di letteratura contemporanea. Ha due redazioni: una che lavora per la rivista cartacea trimestrale e una che cura il sito Online e i suoi contenuti. Il nome (in origine “laboratorio dove si lavora il legno”) allude a un luogo di confronto e impegno operativo, aperto alla realtà. Si è distinta in questi anni, conquistandosi un posto preminente fra i periodici militanti, per il rigore critico e l’accurato scandaglio delle voci contemporanee. In particolare, si è resa levatrice di una generazione di poeti (si veda, per esempio, la pubblicazione dell’antologia L’Opera comune, la prima antologia dedicata ai poeti nati negli anni Settanta, cui hanno fatto seguito molte pubblicazioni analoghe). Si ricordano anche diversi numeri monografici: un Omaggio alla poesia contemporanea con i poeti italiani delle ultime generazioni (n. 10), gli atti di un convegno che ha radunato “la generazione dei nati negli anni Settanta” (La responsabilità della poesia, n. 24), un omaggio alla poesia europea con testi di poeti giovani e interventi di autori già affermati (Giovane poesia europea, n. 30), un’antologia di racconti di scrittori italiani emergenti (Racconti italiani, n. 38), un numero dedicato al tema “Poesia e conoscenza” (Che ne sanno i poeti?, n. 50).
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Donatella Bisutti è nata nel 1948 a Milano, dove vive. E’ giornalista professionista. Ha collaborato in particolare alla collana I grandi di tutti i tempi (Mondadori) con volumi su Hoghart Dickens e De Foe e ha tenuto per otto anni una rubrica di poesia sulla rivista Millelibri (Giorgio Mondadori editore). Nel 1984 ha vinto il Premio Montale per l’inedito con il volume Inganno Ottico (Società di poesia Guanda,1985). Nel 1990 è stata presidente della Association Européenne pour la Diffusion de la Poésie a Bruxelles. Di poesia ha poi pubblicato Penetrali (Boetti & C, 1989), Violenza (Dialogolibri, 1999), La notte nel suo chiuso sangue (ed. bilingue, Editions Unes, 2000), La vibrazione delle cose (ed. bilingue, SIAL, 2002), Piccolo bestiario fantastico (viennepierre edizioni, 2002), Colui che viene (Interlinea, 2005, con prefazione di Mario Luzi), Rosa alchemica (Crocetti, 2012). E’ in via di pubblicazione a New York l’antologia bilingue The Game tradotta da Emanuel di Pasquale e Adeodato Piazza Nicolai (Gradiva Publications, New York). La sua guida alla poesia per i ragazzi L’Albero delle parole, è stata costantemente ripubblicata e ampliata dal 1979 e attualmente edita nella collana Feltrinelli Kids (2002). Il saggio La Poesia salva la vita pubblicato nei Saggi Mondadori nel 1992 è negli Oscar Mondadori dal 1998. Nel 1997 ha pubblicato presso Bompiani il romanzo Voglio avere gli occhi azzurri. Fra le traduzioni il volume La memoria e la mano di Edmond Jabès (Mondatori, 1992), La caduta dei tempi di Bernard Noel (Guanda, 1997) e Estratti del corpo di Bernard Noel (Mondatori, 2001). Il suo testo poetico L’Amor Rosa è stato rappresentato come balletto al Festival di Asti con musica del compositore Marlaena Kessick. Ha curato per Scheiwiller l’edizione postuma delle poesie di Fernanda Romagnoli, dal titolo Il Tredicesimo invitato e altre poesie (2003). E’ nel comitato di redazione della rivista Poesia di Crocetti per cui cura la rubrica Poesia Italiana nel Mondo, nella redazione delle riviste Smerilliana e Electron Libre (Rabat, Marocco), tiene una rubrica di attualità civile, Il vaso di Pandora, sulla rivista Odissea e una rubrica di interviste La cultura e il mondo di oggi sulla rivista di Renato Zero Icaro. Collabora a diversi giornali e riviste, tra cui l’Avvenire, Letture e Studi Cattolici, Fonopoli, Leggendaria, La Clessidra, Semicerchio. Dirige la rivista Poesia e Spiritualità. E’ membro dell’Associazione Culturale Les Fioretti a Saorge in Francia. Tiene corsi di scrittura creativa per adulti, corsi di aggiornamento per insegnanti anche a livello universitario e laboratori di poesia per le scuole. Ha ideato e dirige la collana di poesia autografata A mano libera per le edizioni Archivi del ‘900 in cui sono apparsi finora testi di Luzi, Spaziani e Adonis. E’ tra i soci fondatori di Milanocosa.
POESIE
da INGANNO OTTICO
Vivendo Contro il vetro
il disegno di un respiro
– prima e dopo, invisibile.
Paura Non della morte, ma
della metamorfosi
– accettare di privarsi di sé
come acqua che si lasci versare
e prende forma da ciò che la contiene
e corre via – e l’assorbe la terra
ed è e non è più – senza pena, forse
eppure non va persa.
Lenta, arrischiata
ogni cosa matura
per un attimo
di colma beatitudine
poi trabocca
come l’acqua di un vaso
fugge la pienezza.
Canzone d’amore cannibale So che ti ritroverò
non potrai sfuggirmi
mia è l’immaginazione
catturato come un insetto e trafitto
immobilizzato spaventato rassegnato
comunque sarai
lì
farò di te quello che non vorrai
con calma mi appresterò a divorarti
l’amore non lascia niente sul piatto
neanche le chele.
Ti avrò mangiato e succhiato
svuotato
– non vorrei tuttavia che tu soffrissi
vorrei che godessi anche tu
della felicità immensa
dì essere cibo.
Conoscenza La conoscenza avviene per semplificazione Non è un aggiungere, ma un togliere, fino alla
perfetta trasparenza. Lasciare depositare in fondo al vaso i detriti, il pulviscolo inutile che
si è mescolato all’acqua trasportando il vaso da una parte all’altra della stanza. Anche
vivere non è aggiungere tempo al tempo accumulato, ma sottrarre l’eccedenza del tempo
fino alla perfetta consumazione Anche in questo caso il pulviscolo inutile viene depositato
in un vaso.
da PENETRALI
Natura morta Fuori nevica.
Una brocca
sul tavolo ha rosse trasparenze.
Sbucci piano la mela.
Ti tenta l’avventura
di quella buccia lucida
che avvolge
la luce della stanza.
Ogni oggetto
ha una sua consistenza inutile,
così rassicurante,
Il piatto dì lucida ceramica
se l’inclini
riflette un cielo nitido
di calce bianca.
Anniversario dei morti Tu che con braccia severe
mi allontanavi
e mi atterrivi con storie di fantasmi
ora t’affacci timida da sopra il muro
per timore di essere scacciata.
Nevica
e i tuoi piedi freddi in una
vaga foschia lasciano impronte.
Inconsolata mi tendi
la mano, ché la speranza è anche dei morti.
Così madre bambina percorri i viali
tu che dominavi, incerta,
finalmente un sorriso
sulla chiusa falce delle labbra.
Ma nevica e la giornata
volge alla sua fine – nemmeno questa volta
apportando il perdono
o l’oblio.
Su un quadro di Nolde al Museo di Copenaghen L’avvampare del rosso e dei giallo
con selvaggia delizia
l’Orco divora i suoi bambini
amando sé nella carne e nel sangue.
La bellezza è forse una
più intensa voracità
al centro della vita?
Intorno a lava incandescente
gli smorti colori della cenere.
Quando l’occhio
cessa di essere abbagliato
allora scopre le viole – dopo
soltanto dopo.
Schive e affollate –
una corona alla luce.
Cancellano l’aggressività delle corolle.
Silenziosamente trasformano la sconfitta in vittoria,
nude e luminose di buio.
Ora non vedi che queste. Le sole
a muoversi: il movimento
percorre il quadro. Non più una tela cosparsa di colore,
ma una pagina che si sfoglia.
Alcune sono aperte, altre si inclinano, altre ancora si chiudono al vento che le investe.
Sono l’ombra dei fiori luminosi, diversa dall’offerta della vita:
piuttosto, ciò che essa sottrae,
il velato splendore
i loro gambi, lacci.
Vivono una straordinaria animazione:
curiose, tumultuose, si muovono
in diverse direzioni
Fuggono quella pennellata grigia:
il turbine che sopravviene.
Soggette al vento, quindi
Capaci di servirsene,
di sottrarsi
alle insidie dei cervi e delle lepri.
Poi noti il loro centro giallo
un astro minuscolo nel buio:
la luce è il seme.
Solo alla fine scopri che le margherite
nella gloria apparente del loro rosso e giallo
arretrano.
Ammassate contro il vaso lanciano
grida di terrore e i petali sono braccia
levate a proteggere i volti
paonazzi di polline, teste
che saranno tagliate.
Ti accorgi che
anche le viole sono piegate e vinte,
si stanno reclinando nel vaso,
muoiono.
da COLUI CHE VIENE
La notte lo ti amo ti amo gridi non sai a chi
ed esci nel buio a cercarti
in luoghi perduti di merci e di anime
dove ti circonda una siepe di uomini
e un’alta siepe di muri
e tu con quel grido senza vedere nulla
che mastichi e inghiotti fermo a un angolo dì strada
io ti amo a chi non sai balbetti
perché tu non sei e dici
sì a chiunque
allora sei prostituta e drogato, spacciatore e ladro
non per amore dell’uomo
ma per orrore dell’uomo
allora senti quell’antica voglia di uccidere
temendo di frugare nella tua stessa carne.
Il viandante Come una vela sospinto sulla strada
finché viene il crepuscolo
e il vento cade come un’onda grigia.
Gli alberi hanno pelame dì animali
le loro cime velano le stelle
e il cuore del bosco si allontana dentro il bosco
da ogni suo punto si dipartono strade
eppure il centro è sempre nell’attesa
di un silenzio più fitto e più sospeso
dove non si è formata la parola.
da VIOLENZA
Anche nell’orrore
la rosa.
La rosa di sangue.
Pulizia Uccidere da lontano
Senza toccare.
Evitare il contagio.
Lavarsi le mani
sporche di sangue.
Lavarsi le mani
nel sangue.
*
Gli angeli
con vesti di filo spinato
Gli angeli dalle lingue strappate.
Gli angeli senza grido.
*
Di ossa facciamo spade.
Armi.
Da un teschio uno scudo rotondo
INEDITI
Eros
Pauroso, che ti nascondi in grembo ad una vecchia
e preferisci i libri al libro inesauribile del corpo,
allo sfogliare gli strati della pelle
fino alla nudità paonazza di Eros, lo scorticato.
Avevo un cappello di pelo di lupo
E nei tuoi occhi la luce era un riso
Che non cessa di gorgogliare in gola.
Da allora molte volte mi è parso di vedere assai più chiaro
ma più spesso sono stata un cieco abbandonato
in uno spiazzo vuoto.
Hai portato via la mia vita
dimmi dove.
Non è con te – tu non l’avevi cara
non è con me – che non ho più palato né odorato.
Dimmi dove l’hai condotta, sola e nuda.
E ancora trema
per te, la condannata.
L’albero dei cachi Primo viaggiatore L’albero dei cachi si sviluppa
contro il cielo dell’ultima stazione.
sulla nudità dei rami
la bassa traiettoria dei soli invernali.
Per loro l’albero ha rinunciato
alla sontuosa lucentezza delle foglie.
Si concentra nel miele del pensiero.
Secondo viaggiatore Albero dì un eden spoglio, nel sogno ha ottenuto
di riportare l’inverno all’estate.
Nulla indica più chiaramente
che la vita non nasce dalla necessità
ma dal sovvertimento
e la bellezza è il frutto dell’immaginazione.
Se Se un cavallo fosse solamente un cavallo
e non tutti i terrori che fremono nella sua coscia rotonda
o la tempesta che scuote la criniera
se non fosse l’occhio visionario e folle
che cela il segreto dell’acqua
o la coda imperiale nella sua forma arcuata
a sferzare lo schiavo
se esso non fosse un’oscura montagna
sotto di te
ma – come è – un animale timoroso e irruente
pronto a valersi di ogni astuzia
per essere libero e giocare
e tu sapessi amarlo con tenerezza
ma non seriamente –
quando si impenna sulla sabbia
gli assesterai un colpo deciso nei fianchi
spingendolo fra le onde.
Lo sguardo Il gatto
apparve dal fondo dei giardino
leccò un po’ dalla ciotola
poi sedette immobile
lo sguardo diritto fisso
le sue pupille nelle mie pupille
senza ringraziare né chiedere
solo guardare.
Ed io fui intera nelle sue pupille
interamente dentro quello sguardo
senza giudizio senza attesa
quietamente fui.
Il libro a Aldo Palazzeschi Dal fondo del tempo si leva
la nera figura che addita
la colpa e misura la pena.
Qual’era la colpa?
Di essa si è persa memoria.
La nera figura non sa
solo il custode del libro lo sa
il libro col nero sigillo
nel libro sta scritto e il passato
non è mai cancellato.
Ah potessi quel libro sfogliare
lasciare
al suo posto
un bianco senza futuro.
Ah non fossi mai nata
io sono la non amata.
Voce io senza voce
voce cieca
voce accecata
io senz’occhi
io muta e cieca
io afona
voce strozzata
voce che strozza
io parola
senza voce senz’occhi
io parola vibrante
a tastoni gemendo
voce impalata
gola
agnello impalato
io nuda
esco fuori
su tacchi
altissimi
corpo nudo
bellissimo
io
bellissima
sfido lo sterminio
parlo
di me parto
io danzo
e canto
il mondo mi vede.
Nascita Tu uscita dal buio e dal dolore
verso la vita
e la tua lontana morte
verso un tuo non richiesto dolore
e sofferenza e rischio
e inevitabile pena
ma anche gioia e pienezza
nel maturare del frutto
appeso al ramo
nella perfetta sfera
carne affonderà i denti
golosa la vita.
Ballata della nascita e della morte Separata da quel ventre
di umori e succhi
che fu la mia casa
e volendo dimenticare mi rifiuta
pezzetto di carne sanguinosa
piombo
nel precipizio oscuro della notte. Ti capovolgi e ruoti precipitando fra le stelle perfori la chiusa volta celeste nel cunicolo del sangue e delle feci pezzetto di carne sporca ora puoi solo esplorare il buio e perderti. La notte non ha appigli non sai se precipiti o sali e le tue dita battono sul vetro quando dal nero abisso d’acqua affiori a respirare. Tu non sei nulla. Proiettata fuori da quel corpo che ora ad altri si dà il tuo solo legame è con ciò che odi.
Ed ora questo grande corpo morto davanti a me
ha lasciato l’ormeggio
allontanandosi immenso
quella parte di me che è morta.
——–Aprite questa bara
——–ancora non ho conosciuto il mondo.
——–Questo corpo che mi è stato caro
——–dovrà dunque disfarsi?
Per A ung San Suu Kyi prigioniera Dalla chiusa corteccia germogliando
senza braccia né mani
senza gambe né piedi
tu parli o silenziosa
giorno per giorno
della morte
fai cibo.
Chi farà tacere il silenzio?
Chi fermerà ciò che non si muove?
Ti hanno rinchiusa,
non sapevano di farti seme.
Natività di Rennes. Crisalide strettamente avvolta
Da fasce
Ancora tutta avvolta nel sogno del parto
Partorita dalla nuda
verticalità del rosso
che ancora tutta la sommerge
come chiaro sangue
il rosso
il rosso
il rosso.
Non sappiamo ancora.
Nel buio del grembo fosti intero
ed ora
in un buio papavero di luce
sei la crisalide.
Ancora non sappiamo.
Orizzontale
traspare
dentro il suo cuore rosso
tinge la chiara veste che nasconde il seno
rigida
vuota
che da un suo punto oscuro tesse
l’attesa della stoffa
l’attesa di quel rosso.
Fonte – ITALIAN POETRY
l sito www.italian-poetry.org funziona correntemente dal 2000. Era nato l’anno precedente, dopo una serie di incontri e di confronti con la Poetry Society americana, ai cui criteri di severa selezione si ispira, antologizzando la poesia italiana moderna e contemporanea dagli inizi del Novecento fino ai giorni nostri, a partire dai poeti nati nei primi anni del XX secolo e attivi nei decenni successivi.
Il sito ha totalizzato più di 14 milioni di visualizzazioni nei primi quindici anni di vita ed è indicizzato quale primo risultato di Google per “poesia italiana”.
Il nuovo logo del sito, introdotto nel 2014, all’insegna di Montale, Quasimodo e Ungaretti, rimanda simbolicamente alla grande avventura della poesia italiana contemporanea dal principio del Novecento fino ad oggi.
Giornata contro la violenza sulle donne: la poesia africana
Rivista L’Altrove
Giornata contro la violenza sulle donne -la poesia africana-I dati riferiscono che nel mondo il 35% delle donne ha subito una forma di violenza. In Africa questi dati salgono ancora di più. Si parla del più del 50%; in alcuni Paesi come il Kenya, l’Etiopia, la Tanzania o il Sudafrica i casi di violenza sulle donne sono all’ordine del giorno, un uomo su quattro ha commesso un reato sessuale.
La povertà dilagante, la cultura, gli usi e i costumi di queste genti rendono la situazione ancora più drammatica. Essere donne in Africa significa essere private di qualunque cosa, della propria libertà, della propria femminilità, della propria dignità e soprattutto della propria vita.
La violenza assume diverse forme: discriminazioni, abusi, matrimoni forzati e precoci, mutilazioni genitali, malattie.
Le disuguaglianze di genere, l’analfabetismo obbligato, rendono le violenze ancora più diffuse e insensate. Le donne che non hanno un lavoro o un istruzione dipendono ancora di più dai loro mariti e vengono maggiormente sottomesse alla loro volontà.
Ancora oggi molte bambine vengono date in sposa prima che compiano la maggiore età e si ritrovano presto madri, ferite, scoraggiate e senza futuro. Sposandosi da bambine devono anche subire una delle pratiche più crudeli e atroci che una donna possa affrontare: la mutilazione. Più di duecento milioni di bambine e donne tuttora in vita hanno subito mutilazioni genitali. Le conseguenze delle mutilazioni genitali femminili sono diverse: infezioni, rapporti sessuali dolorosi, ripercussioni psicologiche, persino la morte della donna.
Ogni violenza porta con sé altra violenza.
A raccontarla ci pensano le poetesse. È una sola voce potente quella che ci arriva dallo Stato Africano. A portarla nel nostro Paese è l’iniziativa chiamata Afro Women Poetry, un progetto ambizioso che vuole far conoscere al pubblico italiano e internazionale l’Africa vissuta dalle donne. Le poetesse esprimono bene le violenze di genere di cui sono vittime; tra loro Mariska Araba Taylor-Darko, Maame Afia Konadu Sarpong e Line Zokro descrivono la brutalità della violenza domestica.
Sono poesie di facile lettura, che, nella loro semplicità di forma, provocano nel lettore tristezza e rabbia. Sono testi narrativi, lunghi monologhi liberatori, che somigliano alla spoken word poetry, la parola-poesia parlata, recitata e quasi urlata.
Sì, in questi versi è possibile sentire anche il grido di ogni donna africana, di richiesta d’aiuto, di ribellione.
Alcune poesie scelte per la Giornata Internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne:
Picchiare per amore
Il tuo pugno mi ha colpito in viso Sono rimasta sotto shock Senza muovermi né urlare La prima volta che è successo Dicesti che mi picchiavi perché mi amavi
Mi hai incolpata Non ricordo d’aver sbagliato Il tuo gioco d’azzardo e le bevute Il tuo andare a donne, il flirtare I tuoi problemi e preoccupazioni Era tutta colpa mia Dicevi che mi picchiavi perché mi amavi
Ti ho chiesto perché lo facevi “Mi hai costretto tu!” hai detto “Devo correggerti, amore mio” “Ti amo, per questo ti picchio”
Non sapevo l’amore fosse così Forse nessuno me l’aveva detto Pensavo l’amore fosse amare e prendersi cura Risate e felicità Non questo: paura ed essere picchiata “per amore”
Sono invecchiata nel cuore Il mio amore si è trasformato in paura e odio Vivevo solo nel terrore di quel pugno in faccia Perché non me ne sono andata, perché? La vergogna di affrontare il mondo di dire la verità Perché ti amavo Perché mi minacciavi Dicevi di amarmi, per questo mi picchiavi Mi addormentavo piangendo, in silenzio Perché lui non mi sentisse e non arrivasse un altro pugno in viso
È amore questo? Un pugno in faccia Devo aver sognato l’altro amore Quello delle stelle del cinema Quello dei libri Cosa ho fatto per meritarmi questo? Questo pugno “d’amore” in faccia
La mano che mi colpisce mi accarezza Non riesco ad andare via Né a dire cosa ho nel cuore Nessuno deve conoscere la mia vergogna Giaccio maltrattata e morta dentro Aggrappata a te, non per amore ma per paura Mentre temo il mattino perché avrò un altro pugno in faccia Mi chiederai, mentre io mi farò scudo “Sei sveglia?” E sussurrerai tra i baci “Ti picchio perché ti amo”
Di Mariska Araba Taylor-Darko.
Traduzione di Serena Piccoli
Non voglio sposarmi mai
Non voglio sposarmi Svegliarmi ogni mattina e vedere la faccia di mia mamma dipinta di sonori schiaffi dai palmi di papà, fa male all’anima Le cingeva il collo con le mani per prenderle la vita Dio sa quanto l’ha picchiata
Mio papà non mangia cibo stantio e mio papà è quel tipo pulito, sempre in ordine preciso, curato, il classico uomo alla moda di Bristol così la mamma ha dovuto lasciare il lavoro mollare la sua vita e fare lavori a domicilio: pompini, effusioni da letto sfruttando leve e controluce cucinare e pulire
Ogni notte lui abusava sessualmente di lei in svariati modi fino a toglierle il fiato, incessantemente Quello stesso fiato che le toglieva la mattina dopo picchiandola anche se aveva fatto tutto bene Mia madre era solo un manichino che indossava ferite come sciarpe e calci invece di camicie
Io, piccola bimba, sbirciavo tra i due cardini della porta per guardare la mamma che implorava che la lasciasse stare Quel che vedevo nei suoi occhi erano solo ferite nell’anima Mia madre cadeva in ginocchio e pregava come se Gesù dovesse prendere il posto di papà Piangeva e urlava a Dio di prendersi le sue pene o la sua vita Piangeva sempre
Quando la mamma disse che stava andando via tutto ciò che papà rispose fu “Ciao, Felicia” Non gli importava che lei stesse andando via Dopo tutto era solo un perfetto nessuno che nessuno era triste di veder partire Ma poi mia madre non è poi mai partita e questo per i suoi figli
Mia madre non ha sposato un uomo ha sposato la violenza Girata e rigirata come una trottola Era al suo servizio tutto il giorno e comunque la notte le squarciava la cervice L’amore era andato e lei aveva perso la fiducia e la capacità di parlare, a forza di nascondere le prove delle due azioni, eppure lui non si pentiva
Il suo corpo era una mappa Ogni linea un sentiero, una strada di classe una via verso una città Ogni città, un ricordo d’amore e dolore Il suo amore era un rapper e lei era tutto il suo pubblico I segni dei suoi pugni erano sofferenze d’amore nascoste Il corpo, l’ego, l’amore, lo spirito e l’anima di lei erano un mucchio di cicatrici incasinate
Non voglio mai sposarmi A volte mi chiedevo perché rimanesse. Ma se solo il dolore non facesse male se si potesse tornare indietro nel tempo senza rimpianti L’uomo di cui si era innamorata era cambiato era diventato uno squilibrato Ha lasciato che lui avesse il coltello dalla parte del manico e che stabilisse ogni quanto le fosse permesso di non poterne più di lui
Tutto questo mi cambiò Mi girava nella testa di giorno, di notte e proprio non trovavo pace La mia famiglia veniva presa in giro la gente spettegolava perché il matrimonio dei miei era diventato un incontro di boxe
Lei aveva perso il suo gusto per la moda il suo stile erano maniche lunghe occhiali scuri e trucco pesante Notti lunghe di chiacchiere piene di risate erano ora un disastro Ma mia madre non si è mai arresa
Mio padre era un cocainomane e quando lei si lamentava lui la prendeva a schiaffi e urlava “Me ne sbatto di quello che pensi!” Quindi un’altra guancia bluastra e un labbro rotto perché lei aveva cercato di distoglierlo dall’ennesima sniffata Fu troppo tardi quando realizzò che i suoi cieli blu erano diventati grigi e i suoi ricordi erano svaniti
Mia madre era incinta eppure mio padre la forzava a fare sesso con lui Stavano facendo a botte quando lei cadde dal settimo gradino E con la vista appannata, è rotolata giù giù, giù e ancora più giù fino a che la sua vita non si è spenta Era morta
Che gran dolore fu pensare che era l’ultima volta che vedevo mia madre E tutti continuavano a dire “va tutto bene”, “lui cambierà” “le cose andranno meglio” Mia madre è ora due metri sottoterra e io non so cosa sente Non può neanche sapere quanto mi manca né vedere come sto crescendo male e non c’è nessuno che mi dica “Ama, andrà tutto bene”
Sono stata stuprata più volte Sono diventata una dannata Mio fratello ora è un tossicodipendente e io una ninfomane perché non c’è nessuno con cui parlare e nessuna madre da cui andare Mio padre, mio padre è in prigione per droga Se solo potesse capire la bellezza della resilienza Se solo potesse capire la bellezza della resilienza non soffrirebbe le conseguenze di questo seguito grottesco ‘Mi dispiace’ ora è soltanto una parola
Fidatevi, c’è stato un tempo prima delle guerre un tempo prima delle cicatrici un tempo in cui per lei lui non era che dolce e adorabile un tempo in cui non si era accorta del difetto della sua stella candente C’è stato un tempo in cui lei era il suo mondo, la sua casa
Quando le promesse dovevano arare l’amore tra di voi perché hai consentito a te stessa di essere così acerba?
Non voglio mai sposarmi… con un uomo come mio padre
Innamorarsi di un violento è come vivere in un sacchetto di plastica Ti sembra di avere abbastanza aria per respirare ma sai per certo che morirai Allora prenditi un momento e ricordati che non c’è fretta per il matrimonio Prenditi tempo per trovare te stessa e migliorarti Le relazioni e i matrimoni di successo non prosperano di solo amore, ma di vera amicizia Non voglio mai sposarmi con un uomo come mio padre.
– Questo lavoro mi è stato ispirato dai fatti accaduti nella famiglia di una cara amica.
Di Maame Afia Konadu Sarpong
Traduzione di Serena Piccoli
L’amore
C’era una volta l’amore Un sentimento divenuto così raro che ogni cuore lo chiama con tutto se stesso C’era una volta l’amore E finalmente un giorno l’amore è venuto a lei Amore benedetto amore delirio amore commovente In nome di questo amore il suo cuore è rimasto sordo Sordo quando le si diceva che il suo era pesante, pesante per troppi sentimenti cattivi Rispondeva, io lo amo, non c’è amore senza dolore E durante questi giorni feroci In queste notti pungenti in un sanguinoso silenzio Ha sopportato la sua violenza In amore ci si mette in coppia per costruire e vivere insieme Lui preferisce distruggerla e ridere quando lei trema All’inizio era splendente e gioviale Colpo dopo colpo è sfiorita e divenuta pallida Le sue illusioni sul loro idillio sono scomparse Ormai nella sua vita accumula bile I suoi occhi sono un torrente inesauribile La sua vita un castello di sabbia Le sue promesse delle favole In amore ci si mette in coppia per rendersi felici Ma lui preferisce coprirla di lividi Un atto disumano non è quando un cane fa del male ad un altro cane È sicuramente un linguaggio che ogni cuore capirà L’amore non è mai stato compagno della violenza Se vivi questo calvario Sappi che hai il diritto di dire sì Sì a un cambiamento radicale Sì all’amore…
Breve biografia di Karin Maria Boye – Poetessa svedese (Göteborg 1900 – Alingsås 1941). L’immoralismo eroico di Nietzsche, l’umanesimo socialisteggiante predicato da E. Blomberg e la psicanalisi formano il sostrato della sua opera lirica e narrativa, in cui si rispecchia il cammino ideale di tutta una generazione: dalla rivolta alla religione tradizionale fino al vitalismo e al nichilismo. Alle prime raccolte di poesie: Moln (“Nubi”, 1922); Gömda land (“Terre nascoste”, 1924); Härdarna (“I focolari”, 1927), seguirono För trädets skull (“Per amore dell’albero”, 1935); De sju dödssynderna (“I sette peccati mortali”, 1941, postumo). L’urgenza di irrisolti problemi morali è eloquentemente illustrata nel romanzo autobiografico: Kris (“Crisi”, 1934) e nell’allegoria politica alla Huxley, Kallocain (1940), sul paventato trionfo d’una dittatura universale. Morì suicida.
Sento i tuoi passi nella sala
Sento i tuoi passi nella sala,
sento in ogni nervo i tuoi rapidi passi
che nessuno nota altrimenti.
Intorno a me soffia un vento di fuoco.
Sento i tuoi passi, i tuoi amati passi,
e l’anima fa male.
Cammini lontano nella sala,
ma l’aria ondeggia dei tuoi passi
e canta come canta il mare.
Ascolto, prigioniera dell’oppressione che consuma.
Nel ritmo del tuo ritmo, nel tempo del tuo tempo
batte il mio polso nella fame.
Come posso dire
Come posso dire se la tua voce è bella.
So soltanto che mi penetra
e che mi fa tremare come foglia
e mi lacera e mi dirompe.
Cosa so della tua pelle e delle tue membra.
Mi scuote soltanto che sono tue,
così che per me non c’è sonno nè riposo,
finché non saranno mie.
Ricordo
Quieta voglio ringraziare il mio destino:
mai ti perdo del tutto
Come una perla cresce nella conchiglia,
così dentro di me
germoglia dolcemente il tuo essere bagnato di rugiada.
Se infine un giorno ti dimenticassi –
allora sarai tu sangue del mio sangue
allora sarai tu una cosa sola con me –
lo vogliano gli dei.
Il meglio
Il meglio che possediamo
non lo si può dare,
non lo si può dire
e neanche scrivere.
Il meglio del tuo animo
niente lo può lordare.
Risplende profondo laggiù
per te e per Dio solamente.
È il colmo della nostra ricchezza
che nessun altro possa raggiungerlo.
È il tormento della nostra miseria
che nessun altro possa averlo.
Io non ti perderò mai-
Nessun cielo di una notte d’estate senza respiro
giunge così profondo nell’eternità,
nessun lago, quando le nebbie si diradano,
riflette una calma simile
come l’attimo –
quando i confini della solitudine si cancellano
e gli occhi diventano trasparenti
e le voci diventano semplici come venti
e niente c’è più da nascondere.
Come posso ora aver paura?
Io non ti perderò mai.
Certo che fa male
Certo che fa male, quando i boccioli si rompono.
Perché dovrebbe altrimenti esitare la primavera?
Perché tutta la nostra bruciante nostalgia
dovrebbe rimanere avvinta nel gelido pallore amaro?
Involucro fu il bocciolo, tutto l’inverno.
Cosa di nuovo ora consuma e spinge?
Certo che fa male, quando i boccioli si rompono,
male a ciò che cresce
male a ciò che racchiude.
Certo che è difficile quando le gocce cadono.
Tremano d’inquietudine pesanti, stanno sospese
si aggrappano al piccolo ramo, si gonfiano, scivolano
il peso le trascina e provano ad aggrapparsi.
Difficile essere incerti, timorosi e divisi,
difficile sentire il profondo che trae, che chiama
e lì restare ancora e tremare soltanto
difficile voler stare
e volere cadere.
Allora, quando più niente aiuta
si rompono esultando i boccioli dell’albero,
allora, quando il timore non più trattiene,
cadono scintillando le gocce dal piccolo ramo,
dimenticano la vecchia paura del nuovo
dimenticano l’apprensione del viaggio –
conoscono in un attimo la più grande serenità
riposano in quella fiducia
che crea il mondo.
Salva
(da Nuvole, 1922)
Il mondo scorre da fango, vuoto lo riempie.
Ferite, che il giorno ha aperto, si chiudono, quando è sera.
Calma, calma inclino il capo
a una santa visione, il tuo ricordo che indugia.
Tempio; rifugio; purificazione;
santuario mio!
Sulle tue scale lontana la tenebra, salva,
serena come un bimbo mi addormento.
Le stelle
(da Terre nascoste, 1924)
Ora è finita. Ora mi sveglio.
Ed è quieto e facile l’andare,
quando non c’è più niente da attendere
e niente da sopportare.
Oro rosso ieri, foglia secca oggi.
Domani non ci sarà niente.
Ma stelle ardono in silenzio come prima
stanotte, nello spazio intorno.
Ora voglio regalare me stessa,
così non mi resterà alcuna briciola.
Dite, stelle, volete ricevere
un’anima che non possiede tesori?
Presso di voi è libertà senza difetto
lontana la pace dell’eternità.
Non video forse mai il cielo vuoto,
chi dette a voi il suo sogno e la sua lotta.
(da I focolari, 1927)
Credo che la morte sia come te,
alta e pallida e diritta come te,
tempie ugualmente incurvate,
occhi di mare, occhi di lontananze come te
le stesse labbra chiuse nel dolore.
Sei la morte. Io sono tua,
tua la mano e tua la mente.
Hai stordito tutte le forze della vita,
cullato in un triste torpore
sogno e atto, che appena hanno provato l’ala.
Ma ti amo, mia morte,
tu mia lunga amara morte,
nella cui mano chiusa inaridisce la mia vita.
Tu mia dolce, dolce morte –
Ti benedico ogni istante che tormenti!
Il violoncello profondo della notte
(da Per l’albero, 1935)
Il violoncello profondo della notte
scaglia nelle ampie distese la sua oscura esultanza.
Le immagini vaghe delle cose sciolgono la loro forma
in fiumi di luce cosmica.
I marosi, brillando lunghi,
si frangono onda su onda attraverso l’eternità blu notte.
Tu! Tu! Tu!
Spiegata leggera materia, schiuma fiorente del ritmo,
sospeso, vertiginoso sogno di sogni,
bianco abbagliante!
Un gabbiamo io sono, e su ali plananti
bevo beatitudine salata di mare
molto più ad est di tutto ciò che so,
molto più ad ovest di tutto ciò che voglio,
e sfioro il cuore del mondo –
bianco abbagliante!
Molte voci parlano
(da I sette peccati capitali e altre poesie postume, 1941)
Molte voci parlano.
La tua è come acqua.
La tua è come pioggia,
quando cade attraverso la notte.
Mormora sottovoce,
scende brancolando,
lenta, incerta,
penosamente viva.
Trema come terra
dietro ogni rumore,
stilla e cola
contro la mia pelle,
morbidamente s’avvolge,
mi avviluppa,
riempie le mie orecchie
di ricordi sussurranti.
Voglio sedere in silenzio
dove non posso disturbarti.
Voglio abitare e vivere
dove posso udirti.
Molte voci parlano.
Attraverso tutte queste
odo solo la tua
cadere come pioggia notturna.
Chandra Livia Candiani poesie da “Bevendo il tè con i morti”
Edizioni Interlinea
Chandra Livia Candiani è nata a Milano nel 1952. È traduttrice di testi buddhisti e tiene corsi di meditazione. Ha pubblicato le raccolte di poesie Io con vestito leggero (Campanotto 2005), La nave di nebbia. Ninnananne per il mondo (La biblioteca di Vivarium 2005), La porta (La biblioteca di Vivarium 2006), Bevendo il tè con i morti (Viennepierre 2007) e La bambina pugile ovvero la precisione dell’amore (Einaudi 2014). È presente nell’antologia Nuovi poeti italiani 6 curata da Giovanna Rosadini (Einaudi 2012).
Verso sera
i morti siedono sui fili della luce
come gocce di pioggia
che è già caduta.
—
Bevendo il tè con i morti
c’è sempre uno
che sottilmente tace
non un silenzio esangue
ma un narrare interdetto
che non vuole
nell’ascolto pace.
—
Il vecchio cedro è caduto
in una notte di litigi
tra la bufera di notizie
della primavera e l’assoluta
stanza dell’inverno.
Non più verticale al sogno
della terra, ora non separa
radici e uccelli ma profumando
esala l’ultimo urlo
di meraviglia della creatura:
«La primavera, possibile,
solo una stagione?»
—
Ti amo come
ho amato il tuo abisso,
di solito degli esseri
io amo il bacio
dell’orma sul terreno,
la tua era scucita
e non lasciava segni
se non come nuvole e uccelli
segni di aria
liberata.
—
Abito nella tua voce e quando tace il silenzio è alato abito sotto la violenza delle tue ali e quando il silenzio è sommerso dai rumori essi sono il cuore del mondo abito nel mondo e le piume del mondo sanno che la bellezza esiste: «Quando arriverà il tuo passo metterò una conchiglia sopra la soglia e nell’aprirla i frantumi volando reciteranno il tuo nome».
Dall’autrice di uno dei più recenti casi editoriali di poesia con La bambina pugile ovvero la precisione dell’amore (Einaudi) un libro originale: non sulla morte ma sui morti, su un mondo di ombre più vive dei vivi, fantasmi amici e compassionevoli, abitanti di un regno che è la patria della memoria e la compagnia dei solitari. Candiani ci consegna una doppia vista con un linguaggio che ammutolisce grazie a versi che hanno per interlocutore il silenzio. «Candiani vive in un suo pianeta, come il Piccolo Principe, cui molto assomiglia. Traduce testi buddhisti, recita, dipinge… Molti suoi versi non vi usciranno più dal cuore e dalla mente» (Vivian Lamarque).
In copertina Chandra Candiani in un dettaglio da una foto di Melina Mulas.
Grazia Calanna -Intervista a Chandra Livia Candiani-7 luglio 2014
“La poesia è la quintessenza dell’ascolto”
“Quando vuoi pregare, / quando vuoi sapere / quel che sa la poesia, / sporgiti, / e senza esitazione / cerca il gesto più piccolo che hai, / piegalo all’infinito, / piegalo fino a terra, / al suo batticuore”. Quelli di Chandra Livia Candiani (autrice di La bambina pugile ovvero La precisione dell’amore, Einaudi, 2014) sono versi rotondi di rinnovamento, ricostruzione, incanto, incantamento, “sereno disincanto”. Leggendoli, ora ci si sente benamati, “per avere luce / bisogna farsi crepa, / spaccarsi, / sminuzzarsi, / offrire”, ora ci si sente abbandonati, “nella prospettiva fluttuante dell’ignoto”, ora ci si sente parte (tutt’uno) di un universo animato, interminabile, “La mia famiglia sono io / vive all’insaputa di me”.
Quali i ricordi legati alla tua prima poesia? Hanno (forse) a che fare con la possibilità di lasciarsi “guidare dall’orma asciutta della gioia”?
Se la gioia non è (come non è) l’opposto del dolore, allora sì. Perché la mia prima poesia è nata, verso i 9 anni, in morte di un pesce rosso, vinto al luna park. Un giorno, tornata da scuola, l’ho trovato a galleggiare su un fianco. Il mistero della sua presenza vuota mi ha colpito quasi più del dolore e ho scritto una serie di ieri contrapposti a una serie di oggi, era quel suo essere sgusciato fuori dal tempo e avermi lasciato con delle azioni sospese, così, senza preavviso, a disorientarmi, perdevano senso le azioni, anche quella di chiamarlo per nome, infatti la poesia terminava con: ieri ti chiamavo Xxxxx, oggi non ti chiamo più. Ma scrivere era cercare a tentoni la gioia possibile anche nel male, ‘la gonfia gioia del riconoscere’, la definizione che Mandel’štam dà della poesia. C’è sempre questa gioia asciutta della conoscenza che può prendere il posto della pretesa che ci possa andare tutto bene. Bene come? Bene cosa? E secondo quali criteri?
Quali i poeti dell’anima (per quali ragioni, con quali legami)?
Si sono susseguiti vari poeti sul percorso, ma gli intramontabili sono Rilke, Marina Cvetaeva, Pasternak, Mandel’štam, Celan, Emily Dickinson. Ci sono legami tematici e altri linguistici. C’è un male che la poesia mi fa, sento di essere costeggiata da un poeta, sento che faremo un po’ di navigazioni e naufragi insieme quando avverto quello speciale male: è un vuoto vivo nel petto, un mancare che non vuole essere riempito ma colto, un’assenza di nomi e di orientamento che vuole essere vista e abitata. Quei poeti mi portano in luoghi di ‘non so’ sconfinati, mi gira la vita, la sento che gira e gira e perde i riferimenti, allora sono senza mondo e ricevo l’essere senza mondo dell’altro, allora siamo svegli in piena vita. O morte, fa lo stesso. L’assoluta devozione di Rilke alla poesia mi ha aiutato a sceglierla come destino, come Via, come rischio e pericolo di perdersi totalmente e di indirizzarsi a un’assenza di riferimenti mondani che non rende proprio proprio tranquilli. Le sue lettere a un giovane poeta, come le sue elegie, sono istruzioni per inoltrarsi dove non ci sono riferimenti consolanti, grammatiche familiari. E i russi sono stati nostalgia di un’anima feroce e famelica di se stessa e della conoscenza, di quando siamo bestie dell’esperimento di vivere che non osavo senza le loro righe per andare dritta. Sentivo questa sproporzione e non sapevo come addomesticarla, è stata soprattutto Marina a dare un perimetro all’esagerazione e a farne verso di poesia e non solo urlo ferito o fame di amore. Pasternak mi ha dato un passo sereno, una sensazione di poter fare epoca a sé senza perdere il contatto col dolore degli altri, un sereno disincanto. Emily Dickinson ha legittimato tanta mia solitudine, tanto universo immenso in un centimetro di prato e il fitto dell’infinito, i tempi stretti dell’eterno, una Maestra di divinità infantile, di pugni serrati e ossa rotte per fissare in faccia il cielo per uno zero più grande. E Celan è maestro di riduzione, di non concedere niente alla narrazione né alla spiegazione ma avere parole come lame di diverse lunghezze, larghezze, affilature, ma sempre lucide, sempre alla luce. Ho ancora molto da apprendere dal suo coraggio di non compiacere, di essere solo lingua. E dettata e dedicata, cioè lasciare che i versi vengano essenziali non dalla cronaca di sé e che si dedichino a dirci e non noi a dire loro.
Due poesie – una tua, una di altri – alle quali sei più affezionata? Sarebbe bello se volessi riportarle come stessi recitandole…
Adesso che non so più niente
che il vuoto è bella dimora
che ho passi senza arsura
che siedo e imparo
a esitare, adesso
che non sei più al centro
e quello che conta non è più
al centro
ma spostato
tra le mani
dove le dita si disarmano
e fanno un gesto limato,
adesso questa categorica bellezza
di rami e cieli
pugnala solo
perché entri luce.
(Chandra L. Candiani da La bambina pugile
ovvero La precisione dell’amore, Einaudi, 2014)
*
Vi sono nell’esperienza dei grandi poeti
tali tratti di naturalezza,
che non si può, dopo averli conosciuti,
non finire con una mutezza completa.
Imparentati a tutto ciò che esiste, convincendosi
e frequentando il futuro nella vita di ogni giorno,
non si può non incorrere alla fine, come in un’eresia,
in un’incredibile semplicità.
Ma noi non saremo risparmiati,
se non sapremo tenerla segreta.
Più d’ogni cosa è necessaria agli uomini,
ma essi intendono meglio ciò che è complesso.
(Pasternak dal poema Le onde in Poesie,
Einaudi, 1957, traduzione di A. M. Ripellino)
Per Goffredo Parise la poesia “é qualcosa che arriva da fuori, va e viene, vive e muore, quando vuole lei, non quando vogliamo noi, un po’ come la vita, soprattutto come l’amore”, per Chandra Livia Candiani?
Sottoscrivo, sì, non so se la poesia venga da fuori solamente o da luoghi intermedi e misteriosi, periferie tra dentro e fuori, sottofondi, frontiere. Dentro e fuori sono coniugazioni di uno stesso spazio, di una nostra imprecisione nel percepire e percepirci. Ma certo quello che precede la poesia è la totale assenza di controllo, forse per questo è sempre stata raffigurata come una dea. Non le importa molto di noi, non ha riguardi. Passo lunghi tempi sottoterra, mi sento sciocca, ottusa, opaca e mi sembra che mai più tornerà un verso di mia anima e poi, quando la poesia torna, tornano i miei versi, ecco che proprio quel tempo sotterraneo si rivela come il più fecondo. Soprattutto come l’amore sì, quando si fa la muta, si cambia pelle e pensiero, ci si ritrova estranei a se stessi e io mi guardo nei miei versi nuovi con imbarazzo e timidezza e allora so che sono tra i migliori, perché non ho interferito con le mie consuetudini e le mie concezioni. Lasciarsi disfare e rifare da capo, lasciarsi dire da qualcosa che è un po’ più di noi. Siamo stanchi di noi. Sappiamo già tutto quello che sappiamo. La poesia mi sbaraglia, se no è un’altra cosa, qualcosa di meno.
“Sapere che non si scrive per l’altro, sapere che le cose che sto per scrivere non mi faranno amare da chi amo, sapere che la scrittura non compensa niente, non sublima niente, che è precisamente là dove non sei: è l’inizio della scrittura”. Una considerazione di Roland Barthes per chiederti: oggigiorno quale dovrebbe essere la funzione della scrittura e, più miratamente, della poesia? E, ancora, in che modo potremmo (o dovremmo) muoverci (tra tutte le difficoltà che conosciamo) per preservare il valore autentico della cultura?
Mantenere viva la parola. Fare ancora della parola innanzi tutto una presenza. Vibrante, vera, che pulsa e intimorisce. Essere vivi e mantenersi vivi non è scontato, è lotta dura. Non assomigliare, non compiacere, non chiedere il permesso, non lasciare, per spiccioli di compagnia, la solitudine, non chiudere la faccia agli altri. Distinguere tra vita e mondo, essere vivi, essere al mondo. Tra i due c’è una preposizione in più. Ce n’è di cose da fare. Alloggiare, abitare, dare asilo. Però io non credo allo scrivere per sé, si è sempre sul balcone o all’aria aperta, semmai si sta chiedendo come Pasternak ai bambini che giocano in cortile: “In che secolo siamo, ragazzi?” Ma anche quella è apertura, è essere con l’altro, senza mimarlo, con la propria sproporzione. ‘Con’ è una parola bella che non leva niente alla solitudine interiore, all’etica della non compiacenza. Scrivere senza programmi certo, senza didascalie, né spiegazioni, ma rivolti sì, rivolti fuori. Sì la scrittura è la dove non sei, è vero e si sposta sempre, come l’orizzonte e le si corre dietro e poi magari si scopre che ti sta alle spalle. Penso che l’importante è essere onesti, sapere quando si sta mentendo e quando no. Non c’entra con il dire l’onestà, ma con il leggere e il lasciarsi dire, con lo studio assiduo, con la devozione. Farsi orti, essere zappati dalla vita, anche cattivamente, lasciarsi rivoltare e innaffiare e lasciarsi osservare mentre si fa la fatica di sbocciare e poi guardare quel che è successo. È un momento importante quella sosta del guardare: ecco, è compiuto, come va? Forse non si tratta di pensare alla cultura perché questo fa subito sentire troppo importanti, e fa costruire armature di parole, io preferisco limitarmi a sentire il mondo, compresa me, con i sensi, incluso quell’organo vuoto che prova compassione per il dolore dell’altro e gioia per la sua gioia, quell’organo coltivabile ed educabile a cui sono stati dati tanti nomi che ora sono tutti decadenti e zuccherosi ma che ha molto bisogno di essere di nuovo abitato. Forse la cultura ha bisogno di sapere che le culture sono tante e lasciarsi mutare, parlare con le altre, fare l’amore e lottare, convivere e trasformarsi come fa l’aperto, la natura, bestie e rocce e alberi, tutto quanto. E non dimenticare i regni non umani, lo smisurato essere vivente che è il cosmo e il pianeta di cui siamo responsabili. Ci preoccupiamo di parlare un inglese bellissimo, ma non ci intendiamo con gli animali. E la nostra ancora oggi totale incapacità di frequentare i regni invisibili. Dove vanno i morti? Dove si è prima di nascere?
“La bambina pugile ovvero La precisione dell’amore”. Perché questo titolo per il tuo nuovo libro?
La bambina pugile è un verso di una poesia che sta dentro il libro, è una faccia che certe mattine ci si ritrova nello specchio, quando si è lottato tutta la notte con le memorie, con l’identità perduta o da conquistare come uno che naufraga e ritrova la terraferma, con la non-voglia di essere al mondo, alla luce, forma tra le forme, con le cattiverie delle persone e le nostre cattive risposte. Ho difeso questo titolo, perché secondo alcuni era aggressivo e non mi si attagliava, ma io in quel titolo vedo l’allenamento, la disciplina, e la precisione è parte essenziale dell’addestramento. Così la precisione dell’amore è la precisione dei colpi che la vita ci sferra, esatti esattissimi per noi e bisogna cercare di essere altrettanto precisi nelle risposte. L’amore è precisissimo, non è romantico, ma matematico, ci insegna come una maestra tradizionale che parte dalle aste e arriva alla fisica quantistica, per me è fatto così. La proposta di unire i due titoli è venuta da Mauro Bersani, responsabile della collana di poesia di Einaudi, perché pensava che La bambina pugile non rappresentasse tutto il libro, ma solo una parte, (il libro è diviso in tre sezioni: La bambina pugile, Pianissimo per non svegliarti, La precisione dell’amore) ed è verissimo, gli sono molto riconoscente perché quel titolo doppio fa riflettere, sia sul pugilato che sull’amore, che sui bambini, tutto alla luce della precisione. ‘Ovvero’, anche questo su suo suggerimento, è una parola meravigliosa che ha qualcosa di settecentesco e ha unito i due titoli rispettandone la differenza e segnando uno spazio vuoto che fa un po’ trasalire, un po’ riflettere. Difendo il titolo, fino in fondo.
Come “sarà la dignità della vita umana, / sorvegliando l’arrivo / della poesia?”.
Citi una poesia che è fatta tutta di domande, per arrivare a chiedersi come sarà la dignità della vita umana che passa in un’attesa accesa e vigile, un’attesa che sorveglia l’arrivo della poesia. Non solo di quella scritta, quella nostra, ma anche poesia del mondo, fare nuovo nel mondo, fare giusto. E la poesia sembra che inviti a scegliersi come si è, un po’ alberi che proprio quando fa più freddo si spogliano, esseri immersi nei paradossi delle meccaniche dell’universo, ma anche un po’ lacrime che non sanno scendere, ferite che non sanno guarire, persone che non sanno parlare, né tenere, né dire il bene. Essere poveracci senza destino ma che sorvegliano l’orizzonte, attenti alla possibilità che arrivi il dono. E in quel sorvegliare c’è la dignità di saper esitare e insieme di fare azione utile e grande nel farsi un po’ da parte, nel farsi fare dal vivere ma non ammazzare dal mondo. E fermare le mani cattive e farsi benedire da quelle buone e non dare le stesse risposte delle domande quando c’è crudeltà, spostare il colpo e il campo, imparare a non colpire chi ci colpisce, ma a non farsi massacrare, fargli trovare lo spazio vuoto davanti, allora sarà la sapienza di quello spazio a fargli intendere come stanno le cose. La poesia come arte marziale.
“Per ascoltare bisogna aver fame / e anche sete, / sete che sia tutt’uno col deserto, / fame che è pezzetto di pane in tasca / e briciole per chiamare i voli, / perché è in volo che arriva il senso / e non rifacendo il cammino a ritroso, / visto che il sentiero, / anche quando è il medesimo, / non è mai lo stesso / dell’andata”. Con i tuoi versi per domandarti: la poesia può (e se può, in che modo?) aiutarci a recuperare la capacità d’ascolto? Può (e se può, in che modo?) ricondurci alla “nudità delle cose”?
Certo che può. La poesia è la quintessenza dell’ascolto, prima di tutto per chi scrive, se scrivo quel che so già, non è poesia. Voglio imparare dai miei versi, varcare frontiere che fanno un po’ spaventare di perdersi, rischiare le derive e dopo sapere qualcosa di nuovo, come nei sogni, quando i maestri ci parlano di notte, per immagini, per salti del senso, che poi danno più senso di qualsiasi poco a poco, piano piano dei metodi rassicuranti. La poesia contiene tanto silenzio, gli a capo, ma non solo, quel silenzio delle parole che non possono essere sostituite con altre. E quelle parole che diresti in punto di separazione, quando il silenzio preme fortissimo. Per ascoltare bisogna aver fame dell’altro, se no si ascolta sempre e solo quello che ci conferma. La poesia dovrebbe far sussultare il sapere condiviso, le consolazioni. E aprire varchi, farci intravvedere altre possibilità. Rendere invisibile il visibile diceva Rilke. Ascoltiamo meglio se la mente tace, se non associa e invece risuona. Per risuonare bisogna essere vuoti. Le domande stanno scomparendo dal mondo. Mi fa il cuore stretto passare ore con persone che non mi fanno nessuna domanda, come se fosse impudico, ma in realtà è assenza di differenze, di interesse, come fossimo tutti senza volto e chiedessimo di confermarci che tutto è opaco, che non c’è niente per cui valga la pena lasciare la casa e inoltrarsi nel non conosciuto. I bambini, quando stanno ancora bene, lasciano la casa ogni volta che parlano. Quando ballano poi…
“«La poesia è conoscenza e passione» / ha detto uno di voi / uno di otto anni”, ancora i tuoi versi per chiederti (ricordiamo che da qualche anno curi seminari di poesia in diverse scuole elementari milanesi) di renderci partecipi di alcuni dei momenti più “lirici” trascorsi in compagnia dei tuoi maestri-bambini poeti. E, ancora, avendola, e avendone voglia, potresti riportare una definizione di poeta formulata da una di quelle tue “giovani belve con gli occhi inflessibili”?
Scelgo le scuole periferiche di Milano, quelle con tanti migranti e figli di migranti e italiani spaesati, poveri, perché c’è più necessità di parole, parole per dire il brutto, il poco, il senza qualità. Uno dei momenti più intensi è quando entro per la prima volta in classe, quando mi ‘vedono’. È una questione di vita o di morte, in pochi secondi ti giochi tutto. Per questo seguo anche da tanti anni una formazione clown, per avere una faccia viva, abitabile, accogliente. Con tanti di loro, c’è solo la faccia, le parole non le capiscono. Ne ho tante di storie, tra tante quella di Ginai, cinese. Entro in classe e parlo di cos’è la poesia. Lui mi fissa e dice: “Maestra in Cina non c’è la poesia!”. Io gli dico: “Ma certo che c’è e antichissima anche, ti porto delle poesie la prossima volta”.
L’ultima lezione, Ginai scrive:
La poesia scapa nel mondo
e la mia mamma non lo sa
la poesia dopo la mia mamma
va cercare nel mondo.
E poi un bambino molto ferito che parlava pochissimo, come se le parole bruciassero. Gli do un titolo: Il silenzio. Lui scrive solo una parola: luna. Quando la legge:
Il silenzio.
Luna.
E noi il silenzio l’abbiamo sentito, toccato: luna.
Non ho definizioni di poeta ma della poesia sì, scrivono quasi sempre una poesia che si chiama Cos’è la poesia.
Anita, 9 anni:
La poesia è come vento
viene
e va
ti lascia sola
e poi ritorna.
È un mare
di parole
che ti colpiscono
o ti uccidono.
La poesia
unisce
ma
non si sa cosa.
Edmondo, 9 anni:
La poesia un insieme di cose inspiegabili
come perché esiste l’universo
o chi l’ha creato
queste cose sono inspiegabili
come la poesia
si sono fatte molte ipotesi ma
la poesia però è sempre un mistero
e quando credi di aver trovato
una risposta in verità
hai trovato una risposta ma cento domande.
Ti invito a scegliere una tua poesia (spiegandoci perché l’hai scelta) per salutare i nostri lettori.
La poesia che dà il titolo al libro, perché è semplice, diretta, parla del dopo, dell’adulto nato da un’infanzia che sfracella, e termina con qualcosa che è anche più del perdono, è la comprensione del dolore dell’altro, della solitudine del tiranno, del suo essere fuori mondo, mostro. E così saluto con l’augurio di non cancellare il male, di accoglierlo tutto, di sentirlo in pieno e di spostare solo dopo l’attenzione sull’altro e di vederne la miseria, che non è condonare niente, ma prospettiva ampia che può portare ad azioni forti, ma sempre calibrate dal sapere che i ruoli si invertono, che la complessità della vita non fa sconti, che è necessario rallentare, perfino fermarsi e lasciarsi riflettere, aspettare una comprensione smisurata come l’universo. Forse si chiama giustizia.
Poetessa, scrittrice e traduttrice spagnola Pilar Adón . I suoi testi si trovano inclusi in diverse antologie poetiche e la sua opera è considerata letteratura pura; inoltre ha tradotto autori come Henry James e Joan Lindsay.
Chi si prenderà cura di me quando sarò vecchia?
Chi mi aspetterà, felice di vedermi?
Capelli annodati. Senza pettinature notturne.
Pettini e specchi d’argento.
Sola sulla mia poltrona. Stufa della stanchezza e delle prediche.
Senza figli che mi facciano il bagno,
che mi cucinino arrosto con purè,
che mi portino maglioni taglie forti,
che mi lavino i piedi e le ascelle
quando ci saranno oramai pochi motivi per esistere.
Sconfitta dai ragionamenti
riguardo la raccolta di ciò che è stato seminato.
Celebrazioni, compleanni e feste
in prospettiva di una solitudine rotonda.
Chi verrà a trovarmi
nei fine settimana?
Se non sono una madre.
Se vivo senza riconoscere la devozione, l’ausilio.
La tenerezza. Le visite agli amici in lutto.
Tra scuse, documenti e libri,
lontana dal sentimento originale.
Scappando dalla prima chiamata.
Senza sapere che cos’è il donarsi.
La pietà. La delicatezza
dei bambini fotocopia. La loro mente dolce e semplice
come pezzi di mela cotta. Come sacchetti
di orsetti Haribo.Chi mi abbraccerà quando sarò vecchia?
E sia, sola. E non ci sia nessuno che voglia parlare con me.
E le tende prendano fuoco
e le fiamme salgano al soffitto. E nessuno
possa avvicinarsi
al telefono. Per chiamare i vigili
del fuoco.
Pilar Adón Poetessa, scrittrice e traduttrice spagnola. I suoi testi si trovano inclusi in diverse antologie poetiche e la sua opera è considerata letteratura pura; inoltre ha tradotto autori come Henry James e Joan Lindsay.
Pilar parla dell’oscurità dei misteri quotidiani, si presenta come una forza, i suoi versi sono lucidi, pieni di immagini infantili, ma osservati con la lente delle macerie: “L’odore delle margherite non porterà primavera”. Solitudine, un mondo in arrivo, ricerche del tempo, viaggi verso l’interiore per trovare ciò che non si vede: “Credere. Credere nelle braccia aperte e in una parola.”Questo resta al lettore, la possibilità di credere in un paesaggio che parla, un percorso verso un luogo segreto.
Descrizione L’esordio di Poesie a Casarsa di Pier Paolo Pasolini irrompe sulla scena letteraria del 1942 con la perentorietà dell’eccezione creatrice. Il libriccino conteneva appena 14 testi, ma subito si lasciava alle spalle ogni ipoteca vernacolare o popolareggiante e inaugurava un canto nuovo di raffinata sperimentazione, tra un’acuminata sensibilità d’autore e il filtro di una preziosa cultura poetica, intrisa di echi ermetici e simbolisti. D’eccezione era poi l’intuizione del dialetto come linguaggio naturalmente poetico, «lingua pura per poesia» e tensione alla «melodia infinita». In quel caso era il casarsese, idioma di periferia letterariamente vergine, e inoltre, in quanto suono di eco materna, saturo di implicazioni affettive. In quel codice Pasolini calò la sua Provenza sentimentale, facendovi convergere la squisita mitografia di un sé Narciso, precocemente scisso dalle antinomie tra amore e morte e tra innocenza e peccato, e poi sempre più, con l’ampliarsi di quel félibrige coagulato anche intorno all’«Academiuta», vi espresse l’altro da sé, l’epos della realtà popolare, cristiana e contadina, impigliata nei riti di un’arcaica atemporalità. Con quella operazione Pasolini fornì un geniale esempio di sublimazione a significatività universale del particolare locale e introdusse una sintesi poetica che poi connotò il fenomeno vistoso della poesia in dialetto del secondo Novecento italiano. Fu un’influenza decisiva su cui gettano fasci di luce interpretativa i 14 saggi di questo volume, originariamente presentati al convegno del Centro Studi Pier Paolo Pasolini di Casarsa nel novembre 2012. Essi contribuiscono a rileggere l’apprendistato poetico pasoliniano secondo aggiornati punti di vista linguistico-letterari e insieme a ricostruire la mappa delle intersezioni e del dibattito teorico che la poesia friulana di Pasolini ha saputo riverberare intorno a sé, con le sue espressioni liriche giovanili, come anche con l’antilirico rovesciamento con cui nel 1974 Pasolini riscrisse parte del canzoniere del 1954 La meglio gioventù.
Breve biografia degli Autori-
Giampaolo Borghello
Giampaolo Borghello (Verona, 1946) ha studiato alla Scuola Normale Superiore di Pisa. È stato professore ordinario di Letteratura italiana e direttore del Dipartimento di Italianistica dell’Università di Udine. Nel 2017 ha ricevuto la laurea honoris causa in Lettere dall’Università di Szeged (Ungheria). Si è occupato di Boccaccio, Pascoli, Svevo, Montale, Pasolini, i poeti crepuscolari, la critica letteraria marxista, la letteratura di massa e di consumo, le dinamiche del best seller, la stagione sessantottesca. Tra le sue ultime pubblicazioni segnaliamo: Il getto tremulo dei violini. Percorsi montaliani (Paravia Scriptorium 1999); Cercando il ’68 (Forum 2012); Come nasce un best seller (Forum 2016); Sequenze. Percorsi, problemi e scorci di storia della letteratura italiana (Marsilio 2019); Intorno al Sessantotto. Voci luoghi parole (Istituto Friulano per la Storia del Movimento di Liberazione 2019).
Angela Felice
Angela Felice è critico teatrale. Dirige, dal 2009, il Centro Studi Pier Paolo Pasolini di Casarsa. Per le edizioni Marsilio ha curato: Pasolini e la televisione (2011); Pasolini e il teatro (2012, con Stefano Casi e Gerardo Guccini); Pasolini e l’interrogazione del sacro (2013, con Gian Paolo Gri); Pasolini e la poesia dialettale (2014, con Giampaolo Borghello); Pasolini e la pedagogia (2015, con Roberto Carnero).
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