Breve biografia di Edith Irene Södergran (San Pietroburgo, 4 aprile 1892 – Raivola, 24 giugno 1923) è stata una poetessa finlandese di lingua svedese. Iniziatrice dell’espressionismo in Finlandia, ha influenzato la lirica in lingua svedese fra le due guerre mondiali. Dopo aver frequentato a San Pietroburgo la scuola tedesca, trascorse lunghi anni in sanatorio, soprattutto in Svizzera, dove venne in contatto con le avanguardie letterarie europee. Tornata in patria, diede inizio a un’attività poetica, eroicamente proseguita in anni bui di guerra, di difficoltà materiali e di isolamento. Alla prima raccolta Dikter (“Poesie”, 1916), seguirono Septemberlyren (“Lira settembrina”, 1918), Rosenaltaret (“L’altare di rose”, 1919) e Framtidens skugga (“L’ombra del futuro”, 1920), in cui è evidente l’influsso nietzschiano. Il linguaggio, sostenuto sempre da una forte tensione spirituale (dopo l’iniziale atteggiamento estatico di fronte alla natura e alla vita la S. si accostò all’antroposofia per approdare infine alla semplicità evangelica), raggiunge una consapevole, rigorosa misura/”>misura, che l’estrema musicalità del verso esalta soprattutto in Landet som ikke är (“Il paese che non c’è”, post., 1925).
-Notte stellata-
Tormento vano,
attesa vana,
il mondo è vuoto come le tue risa.
Le stelle cadono –
notte fredda e magnifica.
L’amore sorride nel sonno,
l’amore sogna l’eternità…
Paura vana, dolore vano,
il mondo è meno di niente,
scivola giù nel fondo della mano dell’amore
l’anello dell’eternità.
-Buio di bosco-
Nel bosco malinconico
vive un dio malato.
Nel bosco buio i fiori sono così pallidi
e gli uccelli così timorosi.
Perché il vento è pieno di bisbigli, avvertimenti
e la via oscura piena di presentimenti?
Nell’ombra posa il dio malato
e sogna malvagi sogni…
Edith Södergran, poetessa finlandese
-Il giorno si fa freddo-
Il giorno si fa freddo verso sera…
Bevi il calore dalla mia mano,
la mia mano ha lo stesso sangue della primavera.
Prendimi la mano, prendimi il braccio bianco,
prendi il desiderio delle mie spalle strette…
Sarebbe strano sentire,
una notte sola, una notte come questa,
il tuo capo pesante contro il mio petto.
Hai gettato la rosa rossa del tuo amore
nel mio grembo bianco −
io stringo nelle mani calde
la rosa rossa del tuo amore che appassisce presto…
O sovrano dallo sguardo freddo,
ricevo la corona che mi porgi
e reclina il mio capo sul cuore…
Ho visto il mio signore per la prima volta, oggi,
tremando, l’ho subito riconosciuto.
Ora sento già la sua mano pesante sul mio braccio leggero…
Dov’è la mia sonora risata di vergine,
la mia libertà di donna a testa alta?
Ora sento già la sua stretta salda intorno al mio corpo fremente,
ora odo il duro suono della realtà
di contro ai miei fragili, fragili sogni.
Cercavi un fiore
e hai trovato un frutto.
Cercavi una sorgente
e hai trovato un mare.
Cercavi una donna
e hai trovato un’anima −
tu sei deluso
-Le stelle –
Quando viene la notte,
io sto sulla scala e ascolto,
le stelle sciamano in giardino
ed io sto nel buio.
Senti, una stella è caduta risuonando!
Non andare a piedi nudi sull’erba;
il mio giardino è pieno di schegge.
-Non temo nulla-
Io ho energie.
Non temo nulla.
Luce è il cielo per me.
Se rovina il mondo-
io non rovino.
I miei orizzonti stanno luminosi
sopra la notte tempestosa della terra.
Uscite dal campo di luce misterioso!
Inflessibile, la mia forza aspetta.
Edith Södergran, poetessa finlandese
Breve biografia di Edith Irene Södergran (San Pietroburgo, 4 aprile 1892 – Raivola, 24 giugno 1923) è stata una poetessa finlandese di lingua svedese.Iniziatrice dell’espressionismo in Finlandia, ha influenzato la lirica in lingua svedese fra le due guerre mondiali. Dopo aver frequentato a San Pietroburgo la scuola tedesca, trascorse lunghi anni in sanatorio, soprattutto in Svizzera, dove venne in contatto con le avanguardie letterarie europee. Tornata in patria, diede inizio a un’attività poetica, eroicamente proseguita in anni bui di guerra, di difficoltà materiali e di isolamento. Alla prima raccolta Dikter (“Poesie”, 1916), seguirono Septemberlyren (“Lira settembrina”, 1918), Rosenaltaret (“L’altare di rose”, 1919) e Framtidens skugga (“L’ombra del futuro”, 1920), in cui è evidente l’influsso nietzschiano. Il linguaggio, sostenuto sempre da una forte tensione spirituale (dopo l’iniziale atteggiamento estatico di fronte alla natura e alla vita la S. si accostò all’antroposofia per approdare infine alla semplicità evangelica), raggiunge una consapevole, rigorosa misura/”>misura, che l’estrema musicalità del verso esalta soprattutto in Landet som ikke är (“Il paese che non c’è”, post., 1925).
Uno specchio si riflette nell’altro, gli occhi di lui si avvicinano
al cosmo di nuove prospettive che nascono,
come tatti dell’universo,
degli occhi che moltiplicano
il volto del vecchio.
Una bella donna lo trucca
e lui chiude le palpebre in estasi.
La sposa severa con blusa nera di seta
oppure una tanguera
di bordello.
Lei toglie le spine mortali dal suo viso,
gli mette polveri che danno trasparenza al viso totale
e risalta la vita sulle guance
e le palpebre con ogni pennellata.
Con tre zampe lui misura placidamente il suolo
che trema come un bandoneon
suonato da un ubriaco.
Allora si mette gli occhiali e vede la sfera
piena di fulgore giallastro.
La guarda e legge la propria sorte
scritta sulle striature della tigre
come un indovino maya.
Il suono smarrito dell’organetto rotto
che hanno portato i marinai
apre l’orizzonte della pampa.
Quelli che giunsero laggiù con speranza
adesso muoiono crocifissi dalla nostalgia per la patria,
abbandonati due volte dalla propria patria e dalla terra nuova,
senza tessere neppure un brandello di sogno,
vagano per il gran labirinto del tempo
e incontrano il proprio volto vero ed eterno
un secondo prima della morte.
Il poeta ha scoperto il suo destino,
il suo volto era il volto stesso della madre.
“Mamma, mamma, nella sua origine
la mia vera esistenza è solo la metà di me stesso
il resto è tuo!
Tu vivi in me mentre io mi trucco”.
Il poeta chiede al cameriere un sacchetto dalla cucina
per l’arancia e le bucce.
La gente di periferia non capisce mai
perché lui conservi tanto premurosamente questo frutto volgare.
(Traduzione di Ikuko Sagiyama)
Satoko Tamura Kawamura è nata in Giappone nel 1947. Ha seguito i corsi di Letteratura Ispanoamericana presso l’Università Nazionale Autonoma del Messico (UNAM) e di teoria dell’espressione poetica presso l’Università Complutense di Madrid, e ha conseguito il dottorato presso l’Università Ochanomizu di Tokio. Dal 1989 è stata eletta Membro Straniero dell’Accademia Cilena della Lingua. Ha pubblicato numerose raccolte poetiche e traduzioni da Naruda, Cortazar, Marquez e altri. Fra i numerosi riconoscimenti internazionali, ha ricevuto il dottorato ad honorem in lettere dalla World Academy of Arts and Culture (California, Usa).
-Bertolt Brecht IL PEGGIOR ANALFABETA È L’ANALFABETA POLITICO – La nostra civiltà è intrisa di un profondo analfabetismo, eppure tutti sanno leggere e scrivere. Bertolt Brecht, grande poeta e drammaturgo della prima metà del ’900, traccia il profilo del nuovo analfabeta, per l’appunto l’analfabeta politico, il peggiore della categoria. Oltre la porta di casa tutto ciò che c’è è affare che non riguarda se stessi. Eppure questa ignoranza produce effetti drammaticamente deleteri perché fa regredire l’uomo da cittadino a suddito il quale non fa altro che apprendere apaticamente e subire le decisioni dall’alto. Brecht ci riporta anche degli atteggiamenti esteriori del nostro analfabeta. “Si vanta e si gonfia il petto dicendo che odia la politica”.
AL MOMENTO DI MARCIARE MOLTI NON SANNO
Al momento di marciare molti non sanno
che alla loro testa marcia il nemico.
La voce che li comanda
e’ la voce del loro nemico.
E chi parla del nemico
e’ lui stesso il nemico.
PER CHI STA IN ALTO
Per chi sta in alto
parlare di mangiare e’ cosa bassa.
Si capisce: hanno gia’
mangiato, loro.
Chi sta in basso deve andarsene dal mondo
senza aver mangiato
un po’ di carne buona.
Per pensare di dove venga e dove
vada, chi e’ in basso,
nelle belle serate,
troppo e’ sfinito.
I monti e il mare grande
non li hanno ancora visti
che il loro tempo gia’ e’ passato.
Se chi e’ in basso non pensa
alla bassezza, mai
potra’ venire in alto.
Bertold Brecht
IL PANE DEGLI AFFAMATI E’ STATO MANGIATO
Il pane degli affamati e’ stato mangiato.
Non si sa piu’ cos’e’ la carne. inutilmente
e’ stato versato il sudore del popolo.
Gli allori sono stati
tagliati.
Dalle ciminiere delle fabbriche di munizioni
sale fumo.
Bertolt Brecht
QUELLI CHE PORTANO VIA LA CARNE DALLE TAVOLE
Quelli che portano via la carne dalle tavole
insegnano ad accontentarsi.
Coloro ai quali il dono e’ destinato
esigono spirito di sacrificio.
I ben pasciuti parlano agli affamati
dei grandi tempi che verranno.
Quelli che portano all’abisso la nazione
affermano che governare e’ troppo difficile
per l’uomo qualsiasi.
Bertolt Brecht
CHI STA IN ALTO DICE: PACE E GUERRA
Chi sta in alto dice: pace e guerra
sono di essenza diversa.
La loro pace e la loro guerra
sono come il vento e la tempesta.
La guerra cresce dalla loro pace
come il figlio dalla madre.
Ha in faccia
i suoi lineamenti orridi.
La loro guerra uccide
quel che alla loro pace
e’ sopravvissuto.
Bertolt Brecht
QUANDO CHI STA IN ALTO PARLA DI PACE
Quando chi sta in alto parla di pace
la gente comune sa
che ci sara’ la guerra.
Quando chi sta in alto maledice la guerra
le cartoline precetto sono gia’ compilate.
QUELLI CHE STANNO IN ALTO
Quelli che stanno in alto
si sono riuniti in una stanza.
Uomo della strada
lascia ogni speranza.
I governi
firmano patti di non aggressione.
Uomo qualsiasi,
firma il tuo testamento.
Bertolt Brecht
SUL MURO C’ERA SCRITTO COL GESSO
Sul muro c’era scritto col gesso:
vogliono la guerra.
Chi l’ha scritto
e’ gia’ caduto.
CHI STA IN ALTO DICE
Chi sta in alto dice:
si va alla gloria.
Chi sta in basso dice:
si va alla fossa.
LA GUERRA CHE VERRA’
La guerra che verra’
non e’ la prima. Prima
ci sono state altre guerre.
Alla fine dell’ultima
c’erano vincitori e vinti.
Fra i vinti la povera gente
faceva la fame. Fra i vincitori
faceva la fame la povera gente egualmente.
QUANDO LA GUERRA COMINCIA
Quando la guerra comincia
forse i vostri fratelli si trasformeranno
e i loro volti saranno irriconoscibili.
Ma voi dovete rimanere eguali.
Andranno in guerra, non
come ad un massacro, ma
ad un serio lavoro. Tutto
avranno dimenticato.
Ma voi nulla dovete dimenticare.
Vi verseranno grappa nella gola
come a tutti gli altri.
Ma voi dovete rimanere lucidi.
MIO FRATELLO AVIATORE
Avevo un fratello aviatore.
Un giorno, la cartolina.
Fece i bagagli, e via,
lungo la rotta del sud.
Mio fratello e’ un conquistatore.
Il popolo nostro ha bisogno
di spazio. E prendersi terre su terre,
da noi, e’ un vecchio sogno.
E lo spazio che s’e’ conquistato
sta sui monti del Guadarrama.
E’ di lunghezza un metro e ottanta,
uno e cinquanta di profondita’.
GENERALE, IL TUO CARRO ARMATO E’ UNA MACCHINA POTENTE
Generale, il tuo carro armato e’ una macchina potente
spiana un bosco e sfracella cento uomini.
Ma ha un difetto:
ha bisogno di un carrista.
Generale, il tuo bombardiere e’ potente.
Vola piu’ rapido d’una tempesta e porta piu’ di un elefante.
Ma ha un difetto:
ha bisogno di un meccanico.
Generale, l’uomo fa di tutto.
Puo’ volare e puo’ uccidere.
Ma ha un difetto:
puo’ pensare.
Bertolt Brecht
Nelle città venni al tempo del disordine,
quando la fame regnava.
Tra gli uomini venni al tempo delle rivolte
e mi ribellai insieme a loro.
Cosí il tempo passò
che sulla terra m’era stato dato.
Il mio pane, lo mangiai tra le battaglie.
Per dormire mi stesi in mezzo agli assassini.
Feci all’amore senza badarci
e la natura la guardai con impazienza.
Cosí il tempo passò
che sulla terra m’era stato dato.
Al mio tempo, le strade si perdevano nella palude.
La parola mi tradiva al carnefice.
Poco era in mio potere. Ma i potenti
posavano piú sicuri senza di me; o lo speravo.
Cosí il tempo passò
che sulla terra m’era stato dato.
Le forze erano misere. La meta
era molto remota.
La si poteva scorgere chiaramente, seppure anche per me
quasi inattingibile.
Cosí il tempo passò
che sulla terra m’era stato dato.
I bambini giocano alla guerra
I bambini giocano alla guerra.
E’ raro che giochino alla pace
perché gli adulti
da sempre fanno la guerra,
tu fai “pum” e ridi;
il soldato spara
e un altro uomo
non ride più.
E’ la guerra.
C’è un altro gioco
da inventare:
far sorridere il mondo,
non farlo piangere.
Pace vuol dire
che non a tutti piace
lo stesso gioco,
che i tuoi giocattoli
piacciono anche
agli altri bimbi
che spesso non ne hanno,
perché ne hai troppi tu;
che i disegni degli altri bambini
non sono dei pasticci;
che la tua mamma
non è solo tutta tua;
che tutti i bambini
sono tuoi amici.
E pace è ancora
non avere fame
non avere freddo
non avere paura.
Bertolt Brecht
“Generale – il tuo carro armato”.
Generale, dietro la collina Ci sta la notte crucca e assassina E in mezzo al prato c’è una contadina Curva sul tramonto, sembra una bambina Di cinquant’anni e di cinque figli Venuti al mondo come conigli Partiti al mondo come soldati E non ancora tornati Generale, dietro la stazione Lo vedi il treno che portava al sole? Non fa più fermate, neanche per pisciare Si va dritti a casa senza più pensare Che la guerra è bella, anche se fa male Che torneremo ancora a cantare E a farci fare l’amore L’amore dalle infermiere Generale, la guerra è finita Il nemico è scappato, è vinto, battuto Dietro la collina non c’è più nessuno Solo aghi di pino e silenzio e funghi Buoni da mangiare, buoni da seccare Da farci il sugo quando viene Natale Quando i bambini piangono E a dormire non ci vogliono andare Generale, queste cinque stelle ‘Ste cinque lacrime sulla mia pelle Che senso hanno dentro al rumore di questo treno? Che è mezzo vuoto e mezzo pieno E va veloce verso il ritorno Tra due minuti è quasi giorno È quasi casa, è quasi amore
L’ANALFABETA POLITICO (BRECHT) “Il peggiore analfabeta è l’analfabeta politico. Egli non sente, non parla, nè s’importa degli avvenimenti politici. Egli non sa che il costo della vita, il prezzo dei fagioli, del pesce, della farina, dell’affitto, delle scarpe e delle medicine dipendono dalle decisioni politiche. L’analfabeta politico è così somaro che si vanta e si gonfia il petto dicendo che odia la politica. Non sa l’imbecille che dalla sua ignoranza politica nasce la prostituta, il bambino abbandonato, l’assaltante, il peggiore di tutti i banditi, che è il politico imbroglione, il mafioso corrotto, il lacchè delle imprese nazionali e multinazionali.”
Bertolt Brecht
-Bertolt Brecht IL PEGGIOR ANALFABETA È L’ANALFABETA POLITICO – La nostra civiltà è intrisa di un profondo analfabetismo, eppure tutti sanno leggere e scrivere. Bertolt Brecht, grande poeta e drammaturgo della prima metà del ’900, traccia il profilo del nuovo analfabeta, per l’appunto l’analfabeta politico, il peggiore della categoria. Oltre la porta di casa tutto ciò che c’è è affare che non riguarda se stessi. Eppure questa ignoranza produce effetti drammaticamente deleteri perché fa regredire l’uomo da cittadino a suddito il quale non fa altro che apprendere apaticamente e subire le decisioni dall’alto. Brecht ci riporta anche degli atteggiamenti esteriori del nostro analfabeta. “Si vanta e si gonfia il petto dicendo che odia la politica”. La frase è tipica e, ahimè, troppo diffusa nella nostra società. La politica è affare di tutti e non si manifesta solo in senso stretto prendendo parte a questo o quel partito politico. Essere politicizzati significa comprendere di far parte di una società complessa, di una realtà che non può e non deve rimanerci indifferente. “Zoon politikon” diceva Aristotele, l’uomo è un “animale politico” e questa caratteristica è insita nella natura dell’essere umano. Rimanere indifferenti dinanzi alla società in cui si vive, riempendosi la bocca di espressioni come: “la politica è sporca”, “lo stato è corrotto”, “è già tutto deciso”, ci preclude di essere parte attiva, di avere un ruolo. Chi non pone rimedio alla propria ignoranza politica non sa scindere il bene dal male di una comunità. Brecht in maniera probabilmente anche molto forte fa una carrellata di esempi lampanti delle conseguenze del considerare la politica altro da sè, fuori dalla propria sfera di interessi. “Il bambino abbandonato, la prostituta, l’assaltante, il mafioso corrotto” sono solo alcuni esiti. Certamente la politica oggi non ci invita ad un suntuoso banchetto, ma nello stesso tempo non possiamo non partecipare alla mensa perchè i piatti non sono di nostro gradimento.
Poesie di Jude STEFAN- Pubblicate nel 1985-Giornale FINE SECOLO
Biblioteca DEA SABINA-Jude STEFAN tradotto da Sergio SOLMI
Le liriche di Jude Stefan sono tratte da Libères, Paris, Gallimard, 1970; le traduzioni di Sergio Solmi da Quaderno di traduzioni II, Torino, Einaudi, “Collezione di Poesia”, 1977.
Le chiese defunte
Ogni domenica all’ora morta quando
traversano le piazze divagando
i cani quando non s’odono le nuvole
addormentate le dimore e la voce
d’umani incappellati
nei vuoti del giorno risuona si vede
un’ombra che s’incammina al rifugio del Dio
alta navata deserta dove le statue
pregano spettri nel silenzio dorato:
talvolta una panca vi crolla sollevando
polvere talvolta vi trema un cero
segnalando l’anima senza luogo talvolta
l’organo glorioso la leggendaria
disgrazia vi deplora.
Animali
Animali come i caprioli nella loro
rimessa solitaria il cavallo
che pascola o la civetta sulla trave
Voi pure vivete in corpi talvolta
di lunga vita fatti di carne e pelli
dove gli occhi farebbero credere perfino
a un’anima quando ci guardate
come noi animati ma il silenzio
vi salva dalla morte che in noi parla
accreditando la sua potenza e più giusti
passate più stabili ossami
senza ricordi.
Jude e Judith
E l’inverno Jude? L’inverno è oblio
della primavera ancora qui sotto la neve
dei lillà (o tempo bianco lugubre
uffizio come un bacio rassomiglia
all’odio violentato su belle
labbra abbiette di ladruncola schiacciata
contro un albero mentre rauche
in lento grido svolazzano le cornacchie
essa l’occhio e la carne io la loro sbattente
ossessione!). E questi giusti nomi
d’estate, autunno? La furia di maturare
poi di colpo appassire.
A Malherbe più che uomo
Dunque dopo tre quattro secoli in questo
vicolo ecco un neo-poeta intirizzito
cui la mente assiduo visitò l’illustre
poeta dello stadio del ginnasio e della dimora
ingiallita dove alto e pallido staziona
il suo profilo tra altri furtivi
spiando la sua preda. Malherbe è morto da lunghi
anni e la poesia delle rose ma rimane la sua casa severa
come lui drappeggiata nell’alterigia delle pietre.
Che laggiù l’Orne invernale si contempli
d’ombre riflettenti la bruma di cui
il velo le avviluppa fino al tempo
ch’esse rapite rivedano egli ha detto
il puro croco che il giorno conduce
dal mare.
Del tempo presente
Per pietà che mi si dia del tempo! Ma dove mai
sono gli istanti non fuggenti? Dove
siete voi bei segni del tempo voi qui
ragazze presenti Denise dalle mani
troppo rosse Agnese dai grossi polpacci
Viviane la silvestre la funebre Margot
Irene la gatta la linguetta rude
d’Agathe Bora? In quale paese di gesta
in quale anno di regno? Dove i vostri occhi quando
da lungi vi si chiama? Dove mai sono i momenti
presenti?
Congedo
E’ progressivamente scomparso il sole
repentino come capita l’ineluttabile
dopo il tempo dopo l’amore fino
alla morte stessa all’ovest una riga
di pioppi dove le nuvole fanno
lunga ombra verdastra e un tempo
gli uccelli volavano già in cielo?
Ora lo si riode il fiume lenta-
mente la bruma si dilata
ogni giorno per me cambiare la rosa
addio a parole come macerie e devastazione.
Le liriche di Jude Stefan sono tratte da Libères, Paris, Gallimard, 1970; le traduzioni di Sergio Solmi da Quaderno di traduzioni II, Torino, Einaudi, “Collezione di Poesia”, 1977.
Jude STEFANSergio SolmiJude STEFAN
Breve Biografia di -Stéfan, Jude. – Pseudonimo del poeta, saggista e novelliere francese (n. Pont-Audemer 1930) Jacques Dufour, che allude al romanzo di T. Jacques Dufour, e al joyciano Stephen Dedalus. Ha studiato diritto, filosofia e letteratura e le prime quattro opere poetiche, da Cyprès (1967) a Libères (1970), da Idylles a Cippes (1973), recepite in italiano nella scelta Poesie (1978),nascono nel clima sperimentale della rivista letteraria Tel Quel. Il massimo equilibrio fra la vena provocatoria e la componente elegiaca è colto in Alme Diane (1986; trad. it. 1999) e À la vieille Parque (1989), poesie che celebrano l’eros e la morte, in cui la versificazione appare originale. Parallelamente, è molta anche la produzione saggistica e narrativa, esemplificata dalle prose di Lettres tombales (1983; trad. it. 2005), mentre qualche segno di ripetizione mostrano le raccolte poetiche più recenti, da La Muse Province (2002) a Que ne suis-je Catulle (2010), che tuttavia confermano l’energia formale della sua arte fluida e priva di remore sentimentali.
Fonte Enciclopedia TRECCANI
Les feues églises
Chaque dimanche à l’heure morte où
parcourent les places en divaguant
les chiens quand on n’entend pas les
nuages que dorment les demeures et que la voix d’humains enchapeautés
aux vides du jour résonne on voit
une ombre qui va au refuge du Dieu
haute nef déserte où les statues prient
des spectres en le silence doré:
parfois y tombe un blanc suscitant
la poussière parfois y tremble un cierge
signalant l’âme sans lieu parfois
y déplore le malheur légendaire l’orgue
de gloire.
Animaux
Animaux comme les chevreuils en leur
remise solitaire le cheval qui
paît ou sur la poutre la chouette
Vous aussi vivez en corps parfois
de longue vie faits de chairs et
peaux où les yeux feraient croire aussi
à une âme quand Vous nous regardez
comme nous animés mais le silence
vous sauve de la mort en nous qui parle
accréditant sa puissance et plus justes
Vous passez plus stables ossements sans
souvenirs.
Jude et Judith
– Et l’hiver Jude? – L’hiver est oubli
du printemps là encore sous la neige
des lilas (O temps blanc lugubre
ministère comme un baiser ressemble
à la haine violenté sur belles lè-
vres abjectes de maraude écrassée
contre un arbre tandis que rauques
en lent cri volettent les corneilles
elle l’oeil et la chair moi leur bat-
tante hantise!) – Et ces justes noms
d’été d’automne? – La passion de mûrir
puis de flétrir déjà.
À Malherbe mieux qu’homme
Après donc trois quatre siècles en cette
venelle voici un néo-poète et
transi que hanta l’illustre poète
du stade et du gymnase et de l’hôtel
jauni où pâle et haute stationne
sa silhouette parmi furtives autres
guettant sa proie. Malherbe est mort depuis
longues années et la poésie des
roses mais demeure sa maison sévère
drapée comme lui du dédain des pierres.
Que là-bas l’Orne d’hiver se mire
d’ombres réfléchissant sa brume dont
le voile les enveloppe jusqu’au temps
ravies qu’elles revoient a-t-il dit
ce pur safran par le jour apporté
de la mer.
Breve biografia di Marino Moretti è nato nel 1885 a Cesenatico, dove è scomparso nel 1979, con lunghi soggiorni a Firenze. Le sue raccolte di poesia: Fraternità (1905), Sentimento (1907), Poesie scritte col lapis (1910), Poesie di tutti i giorni (1911), Il giardino dei frutti (1916), Poesie (1919), L’ultima estate (1969), Tre anni e un giorno (1971), Le poverazze (1973), Diario a due voci (1973), Diario senza le date (1974). È autore di racconti e di romanzi: Il sole del sabato (1917), La voce di Dio (1920), I puri di cuore (1923), Il segno della Croce (1925), Andreana (1935), La vedova Fioravanti (1941), I coniugi Allori (1946), La camera degli sposi (1958). Nel 1922 cominciò la sua collaborazione trentennale con la pagina letteraria del Corriere della Sera. Nel 1925 firmò il manifesto antifascista di Croce e per questo si vide rifiutare da Mussolini, nel 1932, il Premio dell’Accademia d’Italia.
MORETTI E CESENATICO -articolo di Giuseppina Giacomazzi.
Negli scrittori crepuscolari i luoghi, fisici o idealizzati, dimore reali o letterarie, costituiscono spesso l’essenza della loro espressione artistica. Il legame con la provincia è una caratteristica comune: nel caso di Marino Moretti, Cesenatico e la Romagna. Nella scelta dei paesaggi, che sono sempre dell’anima, forte è l’influenza dei simbolisti francesi, le cui opere sono pervenute a questi scrittori italiani attraverso riviste quali la “Revue des deux mondes” e “Mercure de France”. Per i simbolisti francesi, come Francis Jammes e Georges Rodenbach, il paesaggio idealizzato è quello della provincia, con i ricordi struggenti e gli oggetti ad essa legati e aventi profonda risonanza interiore: conventi, chiostri, ospedali (luoghi appartati e solitari, in contrapposizione con quelli dei futuristi) e giardini, orti, cimiteri, organetti di Barberia, proiettati in una stagione autunnale e grigia, i vecchi angoli di una città, i mobili di una casa, le fotografie ingiallite, le stampe. Gli oggetti, entrando in colloquio con il poeta, diventano un motivo di sensazioni raffinate e di evasioni, nella trasfigurazione della banalità quotidiana. I personaggi sono spesso malati, beghine, suore o maestre, ma anche signorine di provincia; la terminologia e i toni usati sono perfettamente conformi e coerenti con questa particolare ambientazione. Gli spazi, sia dei luoghi e ambienti natali, sia di quelli lontani, come le Fiandre per Moretti, sono comunque spazi dell’altrove. Egli rifiutò il termine crepuscolare per la sua poesia, non accettò i limiti di tale appartenenza e molto si è dibattuto sulla presenza di elementi crepuscolari nella sua tarda poesia e nella prosa, dove sembrano dominare piuttosto aspetti veristici e naturalistici, ma solo apparentemente, per un continuo coinvolgimento dell’autore, operato attraverso il confronto fra realtà esterna e verità interiore. Non c’è luogo per me che sia lontano, asserisce Moretti (in Andar lontano. Le Poverazze, Milano, Mondadori, 1973) perché ogni luogo, anche il più distante, può essere avvertito come luogo dell’anima. Il paesaggio che fa da sfondo alla sua produzione letteraria non è solo Cesenatico o la Romagna, ma anche Firenze, dove abitò, e le Fiandre, in particolare Bruges, patria di uno dei più significativi suoi modelli di riferimento, Georges Rodenbach. Marabini afferma: separa Moretti dai suoi luoghi una natura contestatrice acutamente critica e sostanzialmente inappagata. […] Si può amare e non amare nello stesso tempo, essere dentro e fuori, essere e non essere borghese, realizzare oggettivamente un mondo ma cercare la verità più gelosa in un altro luogo. Moretti mantiene infatti con l’ambiente che lo circonda indipendenza e capacità polemica, che si esprimono attraverso l’ironia. A differenza di Guido Gozzano guarda più al presente o ad un passato più vicino, anche se i paesaggi e gli oggetti sono idealizzati e trasfigurati in atmosfere che sottolineano uno stato di malinconia, di noia esistenziale e di nostalgia del non vissuto, di malessere, suscitando interrogativi senza risposte. Moretti è consapevole dell’esaurimento di uno stile poetico che nella nuova realtà ha perso ogni funzione di messaggio. La poesia è poesia della non poesia, della sua impossibilità. Cesenatico e la sua casa sul porto canale sono presenti soprattutto nelle prime raccolte poetiche. Luogo privilegiato dell’interiorità è il giardino della sua casa, spazio in cui forte è il richiamo della morte, hortus conclususche chiude lo scorrere del tempo e consente apparizioni, ma anche giardino dell’Eden, frutteto antidannunziano, metafora di poesia. Il giardino dei frutti (Napoli, Ricciardi, 1916) dà il titolo ad una raccolta poetica, e fiori e frutti non sono che i prodotti della sua creatività, del suo impegno letterario. “Ecco: dicon queste cose, / ma non so se vero sia: / che un bel fiore è poesia / e che il frutto è solo prosa”. Il giardino Hortus incultus, hortus animulae, il giardino di casa sua, in Poesie scritte col lapis (Bari, Palomar, 1992) è anche il giardino della memoria familiare e del ricordo. “Angolo d’hortulus / E’ dolce ricordare! Ogni fil d’erba / dell’orto mio potrebbe ricordare, / ché molto sa […]. Ne Il giardino dei morti, in Poesie scritte col lapis, il cimitero in cui riposa il fratellino, scomparso ad un mese d’età, che Marino non conobbe: “Il piccol camposanto / è un precluso giardino. / Precluso”, perché in esso è il mistero che si schiuderà con la morte. Il giardino della stazione di piccoli luoghi della provincia romagnola, che si scorge dal finestrino del treno, è un luogo dove non ci si ferma quasi mai, perché: “poveri illusi, si va / in cerca di felicità, / verso città sempre nuove, / verso l’ignoto e la sera!” (Il giardino della stazione, in Il giardino dei frutti) e il petalo che cade nella fontana richiama la vita che passa inesorabilmente. Posto privilegiato fra gli spazi familiari occupa la cucina, alla quale viene dedicata una sezione intera della raccolta Il giardino dei frutti; la cucina in cui il poeta desidera sempre vedere sua madre in un ruolo casalingo e rassicurante. Nella poesia La madre risponde, la madre comunica al figlio di amare gli utensili presenti in essa: “[…] e vorrò bene a quella / casseruola di rame, al testo ed al tegame, / al vaglio e alla gretella …” e il sentirli nominare “… / in quell’ora / omai crepuscolare” (Mia madre risponde, in Il giardino dei frutti) tranquillizza Marino, legato ad un ruolo tradizionale della donna all’interno della società e della famiglia. Nelle ultime raccolte, oltre a quelli della sua casa, gli spazi rievocati sono Cesenatico e la Romagna, rivissuta dall’interno. Si tratta sempre di un paese ripercorso e guardato dalle mura domestiche, in una dimensione familiare e locale che lo salva dalla vita assente e dal deserto dell’anima. Moretti volge lo sguardo ai luoghi della quotidianità: la locanda denominata L’albergo della tazza d’oro (in Poesie scritte col lapis), un salone di parrucchiere di provincia, dove i bei conversari ironizzati da Gozzano, diventano pettegolezzi, conversari popolari, rivissuti dal poeta con l’ambiguità dell’odio e del sorriso bonario che nasce dalla comprensione. “Il tedio pio di tutta questa gente / che forse è ancor dei sogni e dei segreti!” (Salone, in Poesie scritte col lapis). Il suo paese è un paese marino, nel quale “il mare è da per tutto”, ma “In cimitero s’ode / Così come alla riva / Lì ci verranno a stare godendo il lido in pace”(Cesenatico vecchia, in Diario senza le date, Milano, Mondadori, 1974). Il paesaggio marino che si presuppone ridente e assolato, spesso si adombra di immagini crepuscolari. Il ponte sul porto canale ricostruito secondo criteri moderni suscita un sentimento di nostalgia, al ricordo di quello antico che il poeta attraversava tornando da scuola. (I due ponti, in Diario senza le date). La spiaggia del suo paese balneare ritorna ad appartenergli allorquando, deserta, mostra “gusci e alcunché d’informe, / tracce del mare infido (Paese balneare, in L’ultima estate, Milano, Mondadori, 1969) quando possono scorgersi rifiuti e meduse morenti sulla battigia. (Battigia, in L’ultima estate). Nella raccolta Le Poverazze, che prende il nome da un onesto mollusco, cibo dei poveri, si ripropongono gli stessi temi della casa protettiva e degli oggetti quotidiani: la cucina-tinello, il giardino, la libreria, gli animali domestici. Anche i versicoli del poeta sono le ultime poverazze, metafora, nella loro umiltà, della scrittura: “Le poverazze: cronache dell’io. / Le poverazze: cronache di pena. / Le poverazze: scelte per la cena. / Le poverazze: scelte per l’addio. Le immagini e il tono, dimessi nella loro semplicità, sono pervasi da malinconia. La poesia crepuscolare è percorsa da una concezione del tempo, quale tempo dell’anima disgiunto da quello storico, spesso inteso come vuoto, noia esistenziale che scandisce la monotonia della vita di provincia, ripetitività e non senso che conducono alla morte. Uno dei temi ricorrenti della poesia di Marino Moretti è quello della Domenica, spazio tempo del grigiore e della noia, nei quali è immersa la provincia. A tale tema è dedicata un’intera sezione delle Poesie scritte col lapis. Fra queste, un posto particolare occupa La Domenica di Bruggia, nella quale Moretti introduce un nuovo luogo dell’anima, quello delle Fiandre che acquisteranno centralità nel romanzo La casa del Santo Sangue.
Articolo di Giuseppina Giacomazzi da -Repubblica Letteraria Italiana
Laura Boscardin – POESIE dalla raccolta “FERITE SINUOSE”
Laura Boscardin è nata a Bassano del Grappa (VI) nel 1995. È laureata in lingue e letterature straniere all’Università Ca’ Foscari di Venezia. Vive a Barcellona, dove lavora come agente letterario. Questa è la sua prima pubblicazione
Dalla raccolta inedita “Ferite sinuose”
Distese con i palmi delle mani all’insù guardiamo le montagne sporgersi come canini nel cielo stellato: la luna è uno spicchio d’unghia incarnata in queste dita che sfioriamo per ricordare cos’è la tenerezza quando incombe minacciosa l’oscurità di quella domanda che pende dalle labbra come una corda nera sopra il vuoto abissale degli occhi dirupo.
*
a F.
Una vestaglia argentata di onde a ciuffo il mare nel tramonto di luglio la sabbia affollata e noi pelli salate palmo su piede in una carezza che è miele fuso viene dall’arancione tenue laggiù dove l’ora si specchia sopra l’acqua e cristallizza le nove e diciotto la luce sfiamma nel tiepido cielo e la notte insiste a farsi strada.
*
Siedi nel divano amaro quando in testa pungono aghi incendiati di pressione. Increspi la fronte avvolgi il petto tra le braccia provi a calmare le membrane lacerate dal rigore della regola. Ma sprofondi nell’orizzonte dello schienale fino a non farti più vedere: una larva schiacciata dalla sua stessa forza.
*
“Memory and real care sit under the surface, like still reservoirs waiting to be drawn from.”
Cynan Jones. The Long Dry
Sono crateri di pelle morta quei crepi nelle mani depositi di ricordi dal passato dove il viso s’indurisce la mandibola scrocchia all’aprirsi la bocca sgancia sospiri per vivere come bombe in un prato che è lingua: lì crescono papaveri macchiati da parole tenute nascoste.
*
Lentiggini come laghi fangosi popolano quel viso pietrificato. Occhi grigi nell’ufficio sterile persi tra pile di fogli bianchi dove la tua miseria si scrive. La poltrona accoglie gambe accavallate e il piede destro inquieto dondola l’ansia di dover spiegare a parole la voragine dell’anima.
Breve biografia di Laura Boscardin è nata a Bassano del Grappa (VI) nel 1995. È laureata in lingue e letterature straniere all’Università Ca’ Foscari di Venezia. Vive a Barcellona, dove lavora come agente letterario. Questa è la sua prima pubblicazione
La piccola Thérèse di Lisieux s’impossessò senza timore delle virtù di Cristo per avvicinarsi a Dio. La sua poesia “Se io avessi commesso tutti i crimini possibili…” riassume perfettamente la grazia della sua “piccola via”, alla portata di tutti.
Santa Thérèse di Lisieux è un genio spirituale la cui audacia si fonda su una teologia sicurissima. La Chiesa non l’ha forse riconosciuta come uno dei suoi dottori? È alla luce della sua solidità dottrinale che possiamo meditare la sua celebre poesia “Se io avessi commesso…”:
Se io avessi commesso tutti i crimini possibili
conserverei sempre la stessa fiducia,
perché so bene che quella legione di offese
non è che una goccia d’acqua in un braciere ardente.
La rivelazione del Sinai ci insegna che Dio è un fuoco che non consuma. A che può servire un fuoco, se non a bruciare? Ora, il mistero di un fuoco che brucia senza consumare non è comprensibile che se vediamo all’opera un Essere che, come un “braciere ardente”, brucia in noi i nostri peccati senza distruggerci. E poiché Dio è infinito in misericordia, quest’ultima sarà sempre superiore all’insieme delle nostre trasgressioni, cosa che sostiene Thérèse nel conservare fiducia malgrado “tutti i crimini possibili”. Benché serissimi, questi ultimi sono come “gocce d’acqua” comparate al braciere della misericordia divina.
Un cuore che soffre
Sì, ho bisogno di un cuore tutto ardente di tenerezza,
che resti punto di appoggio per me, e che senza alcun tornaconto
ami tutto di me, perfino la mia debolezza,
e che non mi lasci mai, né di giorno né di notte.
Qui la poesia sottintende la divinità di Cristo: quale altro cuore potrebbe non lasciare il credente «né di giorno né di notte», se non quello onnipresente di Dio? Anzi, Dio – che conosce le proprie creature – non è mai disgustato dalle loro debolezze, al contrario vi ravvisa l’occasione di spalancare ancora di più la propria misericordia.
No: non sono riuscita a trovare alcuna altra creatura
che mi amasse fino a questo punto, e senza mai morire.
Perché ho bisogno di un Dio che prenda la mia natura,
che diventi mio fratello, e che possa soffrire.
In questa quartina Thérèse sottolinea la realtà dell’Incarnazione: in Gesù, Dio si è fatto pienamente uomo al punto da essere diventato capace di soffrire. Egli resta nondimeno Dio, e dopo essere risorto al terzo giorno non può più morire.
Notiamo che la fraternità di Cristo rispetto a noi risulta esemplata sulla sua capacità di soffrire come noi e con noi. È questa amicizia nella solidarietà che spinge Thérèse a meravigliarsi di un Dio che l’«amasse fino a questo punto».
La santità di Gesù è la nostra
So fin troppo bene che tutti i nostri atti di giustizia
non hanno il minimo valore davanti al tuo sguardo,
e per dare prezzo a tutti i miei sacrifici
sì, voglio gettarli fin dentro al tuo cuore divino.
Thérèse non si fa troppe illusioni sulla giustizia degli uomini. Ad ogni modo non si scoraggia: non cerca in sé stessa la virtù, ma in Gesù. La comunione dei santi significa anzitutto comunione nelle cose sante. Ora, la prima “cosa santa” è Gesù stesso. Quel che è suo è pure, per l’opera della Redenzione, diventato nostro, così come nell’Incarnazione quel che è nostro è diventato suo. Noi gli abbiamo dato una natura mortale e, in cambio, egli ci ha donato la sua santità. In virtù di questo admirabile commercium, tutto a nostro vantaggio, i nostri sacrifici assumono valore quando vengono appuntati sulla Croce.
L’amore perfetto
No, neppure una creatura hai trovato senza colpa
in mezzo ai bagliori: ci donasti allora la tua legge
e nel tuo cuore sacro, Gesù, mi nascondo.
No, non tremo perché la mia virtù sei tu.
Santa Teresa di Lisieux
Questa quartina completa la precedente. La Scrittura afferma che anche gli angeli non sono puri agli occhi di Dio. A fortiori gli uomini! E tuttavia ancora una volta Thérèse «non trema»: «L’amore perfetto esclude il timore» (1Gv 4,18). Effettivamente, perché tremare laddove, per la fede, la nostra virtù non è la nostra ma quella dell’Uomo perfetto, Gesù? In ciascuno di noi il Padre vede il Figlio nel quale «noi ci nascondiamo», secondo le parole della poesia: come potrebbe Egli trattarci altrimenti, allora, che come figlie e figli amatissimi?
Paradossalmente, è la piccola via di Thérèse che ci offre la sicurezza di poter stare senza paura davanti a Dio. Come una bambina, Thérèse si rimette completamente al nostro Padre celeste per arrivare a camminare sulle vette. Anche la sua spiritualità, ancorata in una teologia sicurissima, è liberatrice perché porta a compimento quel che Gesù è venuto a elemosinare su questa terra: la nostra fede e la nostra fiducia. La santa di Lisieux opera una sorta di prodigiosa sintesi dello spirituale e del dottrinale.
[traduzione dal francese a cura di Giovanni Marcotullio]
Poeta Carlo Betocchi– “Poesie e brani in prosa”- scelti da Marco Marchi-
Carlo Betocchi- Poesie e brani in prosa- Tetti del Cielo-Certe volte capisco che il mio tono migliore per parlare di queste cose è quello della leggerezza. Se ci ripenso, credo proprio di essere nato ai miei esercizi di poesia per le vie dell’allegrezza. E sì che mi son capitati, forse, più malanni che contenti. Ma sarà per quell’accoglienza che gli faccio, quando il dolore capita, che per modo di dire chiamerò riflessiva, ma riflessiva non è – come sa chi mi conosce – perché per me non consiste che nell’adottare un comportamento, che in questo caso è la pazienza: la pazienza, poi, si fa compagnia col tempo che passa: sarà per questo, dico, che in tale passaggio anche i malanni, le pene, quand’hanno visto che la pazienza va d’accordo col tempo, cominciano a mutare viso.
Per cui mi torna spesso alla mente la frase che scrisse San Paolo ai Corinti, dopo aver recitato le sue infinite tribolazioni: «Se c’è da vantarsi, io vanterò gli atti della mia debolezza». Che stupenda parola! Anzi, proprio, che parola della poesia. Perché i poeti non sono mica degli spiriti forti. Spiriti forti sono quelli che discutono, oggi, l’inconciliabilità delle due culture, umanistica e scientifica, e che essendo sicuri e bastanti a se stessi, non hanno da compiere atti d’adorazione, e quindi son sempre lì, intorno al bindolo a tirar su l’acqua dal pozzo della loro sapienza, che poi, corri corri, finisce per tornare nel pozzo.
Il mio spirito, invece, è certo che non basta a se stesso. Lo vedevo e lo capivo persino in queste faccende della poesia. E fin da quando, – ero giovane – usavo molto la rima. La usavo sospinto da vaghezza di canto, ma poi capitava un furore in cui, il più spesso, la rima scopriva l’aspetto insospettato della sua natura: che era tale da rendere felice il mio spirito assetato di soccorso. Sì, perché la rima, come sa chi l’ha usata ispiratamente non nasce di certo stillandosi il cervello. Nasce remota, oltre ciò che capirebbe il discorso del poeta, a scioglierne il sangue che tanto spesso coagula: la rima è soprattutto un avamposto della poesia.
(da Diario della poesia e della rima)
***
Io un’alba guardai il cielo e vidi
uno spazioso aere sulla terra perduta;
negletta cosa stava tra i suoi lidi,
tra gli spenti smeraldi oscura e muta.
Innumerevoli angioli neri vidi
volanti insieme ad una plaga sconosciuta
recando seco trasparenti e vivi
diamanti d’ombra eternamente muta.
Andava questo furioso stuolo
estenuandosi verso il fil d’occidente
e lo seguia un intenerito volo
di cerulee colombe alte e lente.
E apparvero, con le puntute ali
di bianco fuoco vivo drizzate e ardenti
gli angeli dalle vallate orientali,
le estreme piume rosee e languenti.
In un immenso lago alto e candido
nascean singolari fronde meravigliose,
le rovesce vallate un lume madido
di rugiade correa, fonde e muschiose.
E dentro i nostri cuori era come
dentro valli ripiene di nebbie e di sonno
un lento ascendere dello splendore
che poscia illuminò i monti del mondo.
(da Realtà vince il sogno)
***
Carlo Betocchi- Foto giovane
Sulla natura dei sogni
Un giovane bruno e uno biondo
abbracciati se ne van danzando
fuor di questo corporal mondo
con un passo soave e blando.
Son essi i miei sogni, essi
i miei veri sogni notturni
che invano inseguo, desti
gli occhi già in sonno taciturni.
E nulla sapendo di queste
creature fuggitive e solenni
ne vedo la turbinosa veste
appena, e gli ombrati capelli.
Pur tanta è la lor potenza
che di essa mi si nutre il cuore
e attende (con mesta pazienza)
a ricordarli per lunghe ore.
Vanno instancabili per vie
stellate, o piene di rotti nuvoli?
son essi insieme, o malinconie
profonde in se stessi gl’isolano?
Io ignoro tutto; ché l’alba
me li rivela uniti insieme
danzanti, e non vuole che sappia
niente del loro profondo seme;
e lascia soltanto ch’io pianga
o rida lunghe giornate
camminando per la mia landa
tra l’altre cose rivelate:
come un oriente che beato
eppur mesto illumina un cielo,
tinge di se stesso il creato
d’un allegro, d’un triste velo.
(da Realtà vince il sogno)
***
Musici, giocolieri, bambini, gioia
Eccoli, dolci bruni di sole
i musicanti di cortile,
con le chitarre, con le viole
fan tutta l’aria risentire.
Questo avveniva nel tempo piano,
bianco, nel mite calor meridiano.
Gemmati, e roridi di colore
i giocolieri di cortile:
di questi salti si vive e muore
chi ci vuol bene sia gentile.
Questo avveniva alla luna calante,
piena l’estate, la spiga fragrante.
Semplici, candidi, fuggitivi,
sui prati morbidi di brine,
danzano, volano giulivi
bambini in bianche mussoline.
Questo avveniva, fiorente aprile
querule l’acque eran, l’erba sottile.
(da Realtà vince il sogno)
***
Vetri
Sei vetri della finestra
nell’angolo della stanza
sono la strada maestra
d’ogni nuvola che avanza.
Io, dal mio angolo pigro
tendo insidiosi agguati,
dai poveri tetti emigro
verso quei correnti prati.
Non sono prati, son lenti
sogni; sogni non è vero,
sono fuggitivi armenti:
e nemmen questo è più vero.
Vedi quell’azzurro. Cielo
è il cielo, bambino mio;
con la nuvola, nel cielo,
va la volontà d’Iddio.
Fumo che te ne vai solo,
spensierato, liberamente,
dal focolare del duolo
al cielo: prendimi la mente.
Sei vetri della finestra
nell’angolo della stanza
sono la strada maestra
della celeste abbondanza.
(da Realtà vince il sogno)
***
Domani
Se saran queste strade di sole
che un giorno (quando avremo ali)
ci porteran lontani;
e non più mireremo dai cari
colli le case gioviali
che c’invitano ai piani:
appena un persuasivo candore
vedremo, delle montagne,
come le vene d’erba,
e il mare, dentro nullo colore,
come un vano occhio che piagne,
come una gemma acerba.
In un aere senza il dolce azzurro
dove il sole è l’etern’onda
andremo via giulivi;
con stupend’ali senza sussurro
verso una riva gioconda,
profondamente vivi.
(da Realtà vince il sogno)
***
Carlo Betocchi
Tu hai nel petto un garbuglio di cose che ronzano come un’arnia d’api al lavoro. S’apre uno spiraglio nell’arnia; il capo del verso, come un’ape d’oro, appare, sull’orlo, fremente, sta per spiccare il volo, e sdipanare il garbuglio dello sciame. E a un tratto, in quel deserto, appare un fiore giallo, a sinistra, lontano, poi un altro, ma sembra vicino, ed è rosso, sulla destra. Sono apparizioni che sorprendono il poeta: e che fantasticamente si replicano. Altro rosso, altro giallo, e un violento azzurro punteggiano il deserto: e son parole che contengono un nesso segreto, quasi mostruoso, con quello che vuole il poeta, il suo discorso che ronza, lo sciame che vola. Quello che era intenzione della natura del discorso si eleva ad altra potenza correndo a investire questi suggerimenti di colori ritmati che moltiplicano secondo il bisogno le loro apparizioni, le loro corrispondenze. E il discorso che era tutto dentro l’arnia sta ormai sciamando a precipizio con l’ardente sua fame verso i richiami dei fiori che sbramano la sua passione di impossessarsi di una ragione sconosciuta.
Ogni fiore era una rima, ed ora capisco che ognuno di essi conteneva un potenziale che il poeta non inventava da sé, ma che rispondeva, come predisposto, alla supplica ardente di quella fame compressa. Chi ha assistito a questa vicenda di parole che s’appostano lontano a creare la danza ancora insospettabile della poesia rimata, sa benissimo che da solo non ce l’avrebbe fatta. Una grande carità è scesa verso la fame d’esprimersi che lo divorava.
(da Diario della poesia e della rima)
***
Alla dolorosa Provvidenza
Quando su noi la povertà distende
la mano scarna, e coi dolori inquieti
il quotidiano, piccolo bisogno,
se anche mi sento qual t’avessi in sogno,
o Iddio, pregato, sull’alba che splende,
entra e soccorri a’ miei mali segreti.
Quella che io amo, allora, e il mio figliuolo,
stan muti in casa, mi seguon con gli occhi;
se sembro lieto, ed essi non mi credono,
se rido e canto, il canto non ha suono;
se vo per casa, anche i vecchi balocchi
presi e lasciati, mi lasciano solo.
Ma tu che all’alba, o Padre del creato,
mi hai detto: – Figlio, avviati al lavoro –
Tu in cui confido pieno di speranza,
con passo cauto di stanza in istanza
sempre mi segui e se non altro a un duolo
sciogli, più grande, il mai che mi ha legato.
Pianger mi sento e in quel sentir più sale
l’anima al pianto mista co’ miei errori:
che se i miei mali numero, rinumero
insieme le mie colpe, e per ognuno
d’essi e sorge una, una m’assale,
tante che dolgo come tanti cuori.
E forse l’albe infantili mie volgono
verso quest’alba più grande e severa
d’un’altra gioventù, non piena d’angeli,
umana, e sacra ai dolori di tanti
che come me, sulla terra, hanno sera
prima che cali il giorno, o come vogliono
i Tuoi decreti, Provvidenza vera.
(da Altre poesie)
***
Redivivo in Firenze
Mi balzò l’anima
quando vidi i tuoi tetti
diseguali
dopo che il treno una notte
lenta d’avvicinamento
mi lasciò su una piazza desolata.
Due nottambuli parlavano,
eri sola, o Firenze,
e salii nella stanza d’albergo,
dormii nelle tue braccia,
nel tempo, nell’oasi di pietra,
di calce e travature cedevoli,
sotto le stelle supreme,
vivido di battesimi:
e nel mattino
nebbioso dell’inverno
fiorentino, secco di ricordi,
destandomi,
una frattura
solitaria divampò
dalla mia mestizia.
Lasciai l’arte per l’anima,
e al crollo silenzioso
del vivere invisibile
ancora una volta
un toscano senza pianto
s’inoltrò sulla soglia dell’Ade.
(da Tetti toscani)
***
Tetti
Tetti toscani secchi
fulvi di vecchi
tegoli, in cui al tempo che oblia
scotta sempre più mia
l’arsura forte
d’estati morte;
sui colmignoli smagra
il di più, flagra
l’incanto celeste, sdoppia
il miraggio che alloppia,
e seccan vivi
i sogni estivi.
Non so che solitaria
vita per l’aria
vagoli, che par vada e ritorni
da campestri soggiorni;
mi punge il pruno
del suo profumo.
Ma i tetti non han vizi,
a’ bei solstizi
d’estate; e l’anima viaggia,
che dai tetti s’irraggia,
pei cieli asciutti,
chiari per tutti.
(da Tetti toscani)
***
Carlo Betocchi
Un dolce pomeriggio d’inverno
Un dolce pomeriggio d’inverno, dolce
perché la luce non era piú che una cosa
immutabile, non alba né tramonto,
i miei pensieri svanirono come molte
farfalle, nei giardini pieni di rose
che vivono di là, fuori del mondo.
Come povere farfalle, come quelle
semplici di primavera che sugli orti
volano innumerevoli gialle e bianche,
ecco se ne andavan via leggiere e belle,
ecco inseguivano i miei occhi assorti,
sempre piú in alto volavano mai stanche.
Tutte le forme diventavan farfalle
intanto, non c’era piú una cosa ferma
intorno a me, una tremolante luce
d’un altro mondo invadeva quella valle
dove io fuggivo, e con la sua voce eterna
cantava l’angelo che a Te mi conduce.
(da Altre poesie)
***
All’amata
I fior d’oscurità, densi, che odorano
dove tu sei, s’aggirano nell’ombra,
un’altra luce sento che m’inonda
queste pupille che l’ombra violano.
Quale tu sei, non so; forse t’adorano
le cose antiche in me, tutto circonda
te in un giardino dove i sensi all’ombra
tornano ad uno ad uno che ti sfiorano.
L’esser più soli, e l’aggirarsi dove
tu non sei più, od in remota stanza
dentro al mio petto, quando lento piove
l’amor di te che oltre di te s’avanza,
forse sarà per questo il dir d’amore
più dolce dell’amore che ci stanca.
(da Altre poesie)
***
Oggi, qualche volta congetturando come mi capita di rado, e spesso dividendo il mio cuore fra i due grandi canoni che possono servire di base alla costruzione della poesia, poesia soggettiva, poesia oggettiva, mi par di capire che la rima è stata il primo grandissimo mezzo per connaturare alla poesia il dono d’una sublime oggettività. La rima è in questo senso tutt’altro che abbandono alla musicalità: è figura dell’oggettività che riflette le grandi e superbamente ordinate costruzioni metafisiche dell’intelletto d’amore. Simula, e riecheggia, nelle sue, le corrispondenze che regolano le grandi forze dell’universo, ed inquadra in esse il discorso fluente e corrusco della vita. […]
Si capisce, e va da sé, che la mia leggerezza non vuole tuttavia dare peso, per i casi miei, a queste vicende che mi capitavano, parallele a tant’altre, come quando, da giovane, la poesia passava come un’allodola per il mio cielo, e la mia crudeltà giovanile le sparava: e mi avveniva, per caso, di non fare cilecca: ma poi era un povero, uno stento pennuto, che raccoglievo. Ebbene, voglio dire che da quei casi pullulanti di parole quasi incomprese nell’atto che le conoscevo, deboli e forti d’amore e di peccati, ho appreso a considerare appunto le parole come un universo di persone straordinariamente libere, e capaci di tutti i tiri.
(da Diario della poesia e della rima)
***
Dai tetti
È un mare fermo, rosso,
un mare cotto, in un’increspatura
di tegole. È un mare di pensieri.
Arido mare. E mi basta vederlo
tra le persiane appena schiuse: e sento
che mi parla. Da una tegola all’altra,
come da bocca a bocca, l’acre
discorso fulmina il mio cuore.
Il suo muto discorso: quel suo esistere
anonimo. Quel provocarmi verso
la molteplice essenza del dolore:
dell’unico dolore:
immerso nel sopore,
unico anch’esso, del cielo. E vi posa
ora una luce come di colomba,
quieta, che vi si spiuma: ed ora l’ira
sterminata, la vampa che rimbalza
d’embrice in embrice. E sempre la stessa
risposta, da mille bocche d’ombra.
– Siamo – dicono al cielo i tetti –
la tua infima progenie. Copriamo
la custodita messe ai tuoi granai.
O come divino spazio su di noi
il tuo occhio, dal senso inafferrabile.
(da L’estate di San Martino)
***
Di questo parlar mio
Di questo parlar mio, che si frantuma,
so così poco come il terrazziere
sa della tazza ritrovata in cocci
entro il suo sterro: e qualche coccio ha un suo
quieto brillare, un poco spento
dalla terra, che ricorda altri giorni,
ed altre forme, anzi l’intera forma,
la genuina e perfetta,
sotto un sole che fu per un momento
al suo apogeo, e brillò sulle labbra
giovanili che bevvero, fresche
come prugne a settembre,
de’ suoi colori, alle soavi nebbie
che li velavano: labbra,
tazza e bevanda ancora vive in questi
pochi frammenti; e il resto è sogno.
(da Diarietto invecchiando)
***
Così, da più oscure latebre
Così, da più oscure latebre, si libera
un io sconosciuto, invecchiando, cui
non badammo da giovani, o che intravisto
tememmo, e parevaci il peggio di noi,
il più abbandonato e senza speranza;
eppure era lui, nella sua essenza precaria
era l’uomo, nella triste sua carne,
e mortale destino, e ivi dentro
il suo amore, melanconico e vorace,
e fatuo, indegno di risposta: e ora che il crudo
suo vero rivelasi, tu, anima, specchio
d’eterno, che cosa farai? Così s’interroga
il vecchio, dondolando la testa, mentre
soffre e dubita.
(da Un passo, un altro passo)
***
Meno che nulla son io
Meno che nulla son io, nella mente
che invecchia e vaga incerta, e male
afferra le idee che vi divagano
fantasticanti: eppure sono ancora
creatura, e non è detto che da me
così squallido, così passivo e inerte,
non emani, come ora che scrivo,
il senso eterno di quell’eterna
povertà che ci è propria, a noi che viviamo
nel tempo, sulla cui nera lavagna
scriviamo col gesso dei giorni parole
che sempre biancheggiano, per Lui che le legge,
pupilla d’aquila, solo compagno sapiente.
(da Poesie del Sabato)
***
Fraterno tetto
Fraterno tetto; cruda città; clamore
e strazio quotidiano; o schiaffeggiante
vita, vita e tormento alla mia anziana
età: guardatemi! sono il più càduco,
tra voi; un rudere pieno di colpe sono…
ma un segno che qualcosa non tramonta
col mio tramonto: resiste la mia pazienza,
è come un orizzonte inconsumabile,
come un curvo pianeta è la mia anima.
(da Ultime)
***
Lo stravedere dei vecchi
Lo stravedere dei vecchi! Guardateli!
Ascoltatene uno, come son io, forse
il più debole! La mente che vacilla,
e l’azzurro che spera, mentre l’ombra
lenta, furtiva, risale i tetti:
alle mie spalle scompaiono ninnoli
e oggetti, caracollano via tavole
e sedie, s’involano alcove, trepide
masserizie amorose svaniscono
via leggere, la mia vita si spoglia,
tutta perduta vibra nell’azzurro.
(da Ultime)
***
Salmo
Quando invecchiamo, fatti più sordi alla rima
ed a quel mitico batter dei ritmi
che amore interno dettava, una cosa
sola, un esister confuso coi freschi
pimenti degli anni giovanili;
allora un ciuffo di pini su un monte,
una gran macchia verde ci commuovono
col silenzio, e siamo come silenzio
che non si perde nel nulla, ma entra
in noi per farsi conoscere, come
vampa di lauro profuma la macchia
nell’alido, col suo sentore amaro:
sì, la vecchiaia è una nuova stagione,
e la morte una stagione più alta, od umile,
di foglia secca per quei tabernacoli della
requie del canto che non serve più.
(da Poesie del Sabato)
***
Rotonda terra…
Rotonda terra; scena che si ripete,
in te, del saluto serale: consuetudine
mia planetaria, di tegola in tegola,
del mio vivere che se ne va col tuo
trapassare, lume diurno, lento,
sul tetto davanti casa; e mio formarsi,
intanto, un petto come di colomba;
e metter piume amorose per la notte
che viene; ravvolgermi unitario
con essa: pigolio interiore; perdita
dell’umano: divenire mio universale.
(da Poesie del Sabato)
Carlo Betocchi
Cinque poesie di Carlo Betocchi tradotte in francese da Jean-Charles Vegliante, Premio Betocchi 2018
Ode des oiseaux
Désirable vie
des oiseaux! Eux,
qui réjouissent les ombreux
recoins du bois de leurs doigts d’or!
J’en vis un, passereau
solitaire et lent
remplumé par le vent
délirer pour une aumône;
et j’entendis le chant modulé
intact, que va perdre
entre le ciel profond et l’herbe
une vertigineuse alouette.
Dans la pieuse nuit se tiennent
les rossignols;
rester avec la lune, seuls,
en ramées que le vent malmène!
Et, où les ondes font
un tranquille lac
habite le vol vague
de certains, charme et illusion.
Brûle l’oiseau phénix
de brûler, et ressurgit
l’oiseau phénix ; et nourrit
en soi le cygne un mal qui le mine.
Vivre indéfini
des oiseaux! Ils sont
chantés dans cette ode, messagers
de la vie que nous vivrons:
quand nous remonterons
par des fleuves d’azur
et célestes murmures
vers le vouloir du ciel.
(da Realtà vince il sogno)
Ruines 1947
Ce n’est pas vrai qu’ils ont détruit
les maisons, pas vrai:
seul est vrai dans ce mur en ruines
l’avancement du ciel
à pleines mains, à pleine poitrine,
où inconnus rêvèrent,
ou bien, vivant, crurent rêver,
ceux qui ont disparu…
Maintenant c’est à l’ombre brisée
de jouer comme autrefois,
sur les murs, dans l’aube au soleil,
imiter les aléas…
et dans le vide, à l’hirondelle qui passe.
(da Notizie)
Mais c’est vrai pourtant qu’aux vieux,
dépouillés de la beauté,
reste ce signe, dans l’âme,
de son rapide apparaître
et disparaître, ce sillon de chose
qui a été, qui saigne encore,
lourde, dans la conscience;
mais qui, goutte à goutte, ensuite
va lentement s’enfonçant dans une presque,
dans une presque rancoeur
de blanche innocence…
(da Disperse)
Très ronde terre; scène qui se répète,
en toi, du salut vespéral: habitude mienne
planétaire, avec toi et tes couchants:
brusque sursaut, de tuile en tuile,
de ma vie qui s’en va avec ton
effacement, lumière diurne, lente,
sur le toit devant la maison; et mon apprêt,
cependant, d’un plastron comme de colombe;
et arborer d’amoureuses plumes pour la nuit
qui vient; m’envelopper dans l’union
avec elle: pépiement intérieur; perte
de l’humain : mon devenir universel.
(da Poesie del Sabato)
Dans les champs
Nous un par un
comptons les jours
du blé d’azur
qui se tient droit:
dans l’enfantin
champ le murmure
sans un épi
craint: et s’en va
par le ciel vague
ment tintillant
pleine alouette
de son amour:
nous un par un
comptons les jours,
peines, et dur
espoir qui sait.
(da Poesie, Prime)
Sull’ore prime
Son l’ore prime, le solite, le ore
che la vita me ne ha chieste tante;
l’ora che al già Risorto, che «non è
più qui», tien dietro l’Angelo, distante
e vicino alla vita: che un motore
stacca in fondo alla via la sua fatica,
e parte: e ch’io resto, solo, all’antica
vicissitudine, cui non val arte
di sorta, altro che il principiare, e sia
come sia, con quel gettar di dadi
che è già scontato, che se stesso oblia,
che va crescendo d’effetto per gradi,
vola il colombo, si schiara la via,
o vita, come lenta persuadi.
Al fratello e alla sorella in giorni di dolore
Le foglie luccicano, l’estate
dalla forma crudele di gioia
ai seppelliti nel limbo
delle memorie d’infanzia
non reca che il lampo dei ricordi.
Ma a te dolore, eretto emblema
ch’entro gli sguardi ci precedi,
noi a te, fraterni, porgiamo il volto
lieti che tu ci trovi ancora uniti
oltre la linea delle apparenze,
con te, verso un paese eterno.
Dove non sia più luce sulle fronde
che questa, che dall’anima s’esala,
dove nell’ombra, la nostra mano unita
senta che sola forza al mondo è il cuore.
Una mattina
Ancora una mattina
che non potrei tradirmi
se non, nube su nube,
decidermi a rivivere
tutto nel cielo, al suo
fantastico passaggio
d’occidente in oriente,
da un mare senza mente
a un monte senza peso;
la verità che vive
nei cuori non si scrive
che misteriosamente.
Un passo, un altro passo (7)
Ma anche imparo,
giorno per giorno imparo,
che non c’è cosa in cui sia necessario
più il credere che l’operare; e che tra il fiore
del credere che amo, e il mio esserne degno,
che è il prezzo del mio esistere,
c’è di mezzo quello che ho fatto,
il mio consistere in opere e lavoro:
e ch’ivi è il tutto, tutto ciò che io posso
saper di vero, anche se avvolto nel mistero
della cosa fatta dall’uomo, e che dall’uomo
prega per il di più che non può fare,
e i doni per cui fece, alti, ringrazia.
In piena primavera, pel Corpus Domini (6)
Qui od altrove, a un poeta,
il suo tempo è fulmineo,
cometa che declina e scompare
lungo la chioma della sua pazienza.
E non può dire cose più alte di lui.
La gioventù gli è di lievito,
la vecchiaia di paragone,
e quando l’aria è sgombra di messaggi
incontra creature.
Il bene e il male in eguale misura
a lui non valgon rimpianti,
è come morto fin dalla nascita,
è come vivo dopo la morte.
Messa piana
Quando vado alla messa spesso non prego,
guardo. Sono come un bambino. Guardo,
e credo. E il Signore mi dice
(con povere fiammelle di candela,
mutamente entro me, nel mio guardare),
– Bravo, hai fatto bene a venire. –
E al segreto consenso la coscienza
s’indebita, riconoscente. E mormora:
– Basta, così sian tutti, tutti
oramai, con me. Anche quei pochi
cui ho fatto del bene. E solo mi lascino,
taciti, solo nel mio guardare. –
Messa solenne
Io non so se chiamarla la bellezza
quella che nasce in noi, dal più veridico
senso della nostra miseria. Parte di lì,
sprigiònasi, il capo di quel filo del bisogno
che tanto disegnò della bellezza, nel mondo.
E parve, ed era anche un miracolo: ma era
necessità all’esistere, non già per noi
ma per dire al Signore: – Se Tu esisti
anche noi esistiamo –. E per dirgli ubbidendo:
– Ho ritrovato in Te della bellezza il bandolo
originale, il seme. Ecco, fiorisce nell’umiltà
l’immortale coraggio del Tuo spirito,
la segreta e indicibile Tua gloria. –
Di quando in quando (14)
Se i morti sono veramente morti
allora noi non siamo vivi, ché
della loro già morta vita
andiamo tutti i giorni nutrendoci,
spesso inconsapevolmente, e quasi
dormendo, come bambini alle poppe
materne, a volte assopiti, e come in sogno.
Ché quanto la veglia ci nutre il sogno,
e i morti come la vita ci nutrono, in una
inestinguibile catena di tramonti.
Il vecchio: stravaganze, sventura, destino (5)
Lo stravedere dei vecchi! Guardateli!
Ascoltatene uno, come son io, forse
il più debole! La mente che vacilla,
e l’azzurro che spera, mentre l’ombra
lenta, furtiva, risale i tetti:
alle mie spalle scompaiono ninnoli
e oggetti, caracollano via tavole
e sedie, s’involano alcove, trepide
masserizie amorose svaniscono
via leggere, la mia vita si spoglia,
tutta perduta vibra nell’azzurro.
***
Questo color velenoso, di sera,
questo morir della luce sui vetri,
senza riflessi, che sarà rapido,
quest’ora tarda e mortale,
o tu che invecchi e non sai più se vedi
spettri o figure, credilo! ogni ora
è bambina, e se ne va innocente,
sparisce dal tuo cospetto la vita
ma torna per altri, sempre si rinnova,
la notte è un giardino di giovani tenebre.
***
Il mio cuore è debole, stasera,
come il sole che lento risale
i tetti, e profonde sono le mie colpe;
ahi! l’uomo, come sempre tramonta.
Come sempre, mentre lui tramonta,
resta l’orizzonte ineffabile
e sterminato il destino, a chiunque,
dell’esistere, sterminato!
Ciò che lasciamo indietro
si strascica verso il buio,
ciò che ci attende è incomprensibile
compreso il momento che passa.
Io sono: eccomi! io sono,
solo in quest’ora debole,
ciò che decide: io sono
la linea che divide
il passato dal futuro.
Momento eterno dell’essere
che ti stabilisci nell’attimo,
sei tu la mia grazia, decidi.
Carlo Betocchi nasce a Torino il 23 gennaio 1899 e muore a Bordighera il 25 maggio 1986. Si trasferisce ancora piccolo a Firenze per seguire il padre, impiegato delle Ferrovie dello Stato. Studia all’Istituto Tecnico fiorentino con l’amico Piero Bargellini. Consegue nel 1915 il diploma di perito agrimensore e prende parte, tra il 1917 e il 1918, alla Prima Guerra Mondiale. Inizia poi ad esercitare la professione di geometra nel campo edilizio, lavoro che lo porterà in Francia e in diverse località dell’Italia centro-settentrionale. Nel 1928, insieme a Bargellini, fonda la rivista «Il Frontespizio». Nel 1939 lascia Firenze e si trasferisce a Trieste. Insegna materie letterarie presso il conservatorio musicale di Venezia fino al suo ritorno definitivo a Firenze nel 1953. Numerose sono le sue raccolte poetiche, le più importanti delle quali sono Realtà vince il sogno (1932), L’estate di San Martino (1961), Un passo, un altro passo (1967), Prime e ultimissime (1974), Poesie del sabato (1980).
*
Testi selezionati da Tutte le poesie (Mondadori, 1984)
Carlo Betocchi
Carlo Betocchi: biografia
Carlo Betocchi nasce a Torino il 23 maggio 1899 da padre ferrarese e madre toscana. Il padre, impiegato nelle Ferrovie dello Stato, nel 1906 viene trasferito con la famiglia a Firenze dove muore nel 1911. Il giovane Carlo, rimasto orfano con i fratelli Giuseppe e Anita, viene educato dalla madre la quale segue con particolare cura la sua formazione spirituale.
Dopo aver studiato all’Istituto Tecnico fiorentino con l’amico Piero Bargellini, consegue nel 1915 il diploma di perito agrimensore.
Nei primi mesi del 1917 è a Parma per frequentare il corso allievi ufficiali. Inviato al fronte qualche settimana prima della ritirata di Caporetto, partecipa alla prima resistenza sul Piave; successivamente è inviato in VaI Camonica e sull’Altopiano di Asiago.
Terminata la guerra, nel dicembre del ‘18 parte volontario per la Libia come ufficiale di guarnigione. Congedato nel ’20, lavora come geometra in Toscana nei cantieri allestiti per la ricostruzione delle case demolite dal terremoto, nelle Alpi francesi per dei lavori di condotte forzate in galleria e quindi nei cantieri stradali in Toscana e nell’Italia centro-settentrionale.
Nel 1923, con Piero Bargellini, Nicola Lisi e l’incisore Pietro Parigi, collabora alla prima rivista di carattere strapaesano «Il calendario dei pensieri e delle pratiche solari», e nel 1929 con gli stessi amici fonda «Il Frontespizio», la rivista d’ispirazione cattolica più nota negli anni del fascismo.
Tra il ’29 e il ’38 si occupa di una rubrica di poesia («Lettura di poeti») e in quegli anni collabora a varie riviste: «L’Orto», «Il Selvaggio», «Circoli», «Primato», «Campo di Marte», «Letteratura». Per le edizioni del «Frontespizio» viene pubblicata la sua prima raccolta di liriche: Realtà vince il sogno (1932). Seguono nel tempo Altre poesie e Notizie di prosa e poesia, comparse rispettivamente nel 1939 e nel 1947 e, in seguito, L’estate di San Martino (1961), Prime e ultimissime (1974) e Poesie del sabato (1980).
Gli impegni di lavoro lo portano nel 1939 a lasciare Firenze per risiedere a Trieste, dove si trasferisce con la famiglia fino al ’40; poi è a Bologna e quindi a Roma.
A seguito di una malattia contratta nei cantieri, nel 1953 è costretto ad abbandonare la professione di geometra. Sin dal 1942 è chiamato alla cattedra di materie letterarie presso il Conservatorio musicale di Venezia. Nel 1955 ricopre lo stesso insegnamento presso il Conservatorio «L. Cherubini» di Firenze dove insegna fino al 1969.
Tornato definitivamente a Firenze nel 1952, gli viene affidata nel ’58 la redazione della trasmissione radiofonica L’Approdo. Collabora a varie riviste, tra cui «La Chimera», «La Fiera letteraria» e «L’Approdo letterario» di cui è redattore fino al dicembre del 1977, anno di cessazione della prestigiosa rivista.
Tra i numerosi riconoscimenti ricevuti: il Premio Feltrinelli per la poesia assegnatogli dall’Accademia dei Lincei, il Premio Viareggio (1955) e l’Elba (1968).
Nel 1981 il presidente della Repubblica Sandro Pertini gli conferisce «La Penna d’oro» per l’opera svolta (tra gli illustri premiati sono presenti Giuseppe Prezzolini e Mario Praz).
Nel 1984, in occasione della pubblicazione di Tutte le poesie (Mondadori), riceve il Premio «E. Montale» (Librex-Guggenheim) per la poesia.
Si spegne a Bordighera, all’età di ottantasette anni, il 25 maggio del 1986.
Carlo Betocchi
Il “Centro Studi e Ricerche Carlo Betocchi” svolge un’attività di promozione, conoscenza e divulgazione dell’opera del poeta. In particolare si propone i seguenti obiettivi:
– Organizzare ogni anno il “Premio Letterario Internazionale Carlo Betocchi-Città di Firenze”.
– Favorire indagini e ricerche sull’opera di Carlo Betocchi e su aspetti della poesia contemporanea a lui riferibili.
– Promuovere incontri di studio, letture e iniziative volte a diffondere e valorizzare la poesia in tutti i suoi aspetti.
– Svolgere attività editoriale finalizzata alla pubblicazione di testi di e su Carlo Betocchi.
La presidenza del Centro Studi è attualmente ricoperta da Marco Marchi.
La giuria del “Premio Letterario Internazionale Carlo Betocchi-Città di Firenze” è presieduta da Marco Marchi e composta da Sauro Albisani, Anna Dolfi, Antonia Ida Fontana, Francesco Gurrieri, Gloria Manghetti e Maria Carla Papini.
Si segnala che l’Archivio e la Biblioteca privata di Carlo Betocchi sono conservati presso l’“Archivio Contemporaneo A. Bonsanti” del “Gabinetto Scientifico-Letterario G. P. Vieusseux” di Firenze, in via Maggio n. 42.
In stanze chiuse si celebrano rituali
Di quelli che cambiano il corso dei fiumi
E uccidono linguaggi atavici
Lì uniamo le mani tiepide
Come rocce ai piedi del vulcano
Gli occhi pieni di nuvole stanche di decifrare
[destinazioni
In stanze chiuse ci abbracciamo
Alla corteccia distrutta dell’attesa
Emettiamo sospiri contro pareti profonde
Volendo bere alle finestre del domani
Niente che inciampi nella luce che si estingue
Niente che disturbi nella caduta e nel pozzo
Che cosa siamo se non un pozzo?
Dentro tutte le tempeste, tutte le lacrime
Nessuno si affaccia se non con sete
Le estati sono lunghe nella nostra canicola
Quali uccelli fanno i loro nidi in un pozzo?
Ti canterò nella mia voce più dolce
In questa stanza chiusa voglio prendere la tua mano
Portarti tra i filoni d’oro che escono dal mio ventre.
A VOLTE MI CHIAMANO DONNA
Acqua sufficiente per sommergersi
(la pista indelebile che ancora popoliamo con il nostro corpo)
Mi chiamano, se mi chiamano
(ho molti nomi,
obliqua e oscena mi chiamano,
vigilia e fitta mi chiamano)
Vengo da dove vengono tutte le cose
(più probabile di una bilancia vengo,
tra le tranquillità di un terremoto)
Sulla terra spigolosa e raccolta
(com’è dolce il sapore delle ossa!
il mio canto, il mio sostentamento)
Sono piedi che si aggrappano lì dove mi chiamano
(piedistallo sparso in divisioni atomiche,
passo da un piede all’altro per non naufragare)
Chi mi darà da bere se sono sazia?
Chi monterà padiglioni di sale tra le ferite della mia parola?
Dovrò baciare le labbra del nemico
nello stesso letto abitato e intenerito del mondo,
lì fuori,
dove ci nascondiamo al risveglio
Nell’anatomia delle età
la cellula prima fiorisce tra le mie mani
Da: Almanacco dei poeti e della poesia contemporanea n. 6, a cura di W. Raffaelli e G. Lauretano, Raffaelli 2018.
KRIS VALLEJO Nata a Tegucigalpa, Honduras, nel 1974, si è prima diplomata presso la Scuola Nazionale di Belle Arti dell’Honduras, poi laureata in Pubblicità presso l’Universidad Latina di Panamá. Artista, consulente di design e immagine grafica, da 22 anni si distingue, sperimentando materiali diversi e supporti grafici e plastici, per opere ove spesso la figura femminile funge da pretesto per un discorso su temi sociali ed estetici che riguardano anche la sua scrittura in versi.
Nuno Júdice -Poeta portoghese Ha un curriculum da Nobel. Laureato in Filologia Romanza presso la Facoltà di Lettere di Lisbona, e addottorato in Letterature Romanze Comparate presso la Facoltà di Scienze Sociali e Umane dell’Universidade Nova di Lisbona, dove è stato Professore dal 1976 al 2015.
UNA RIFLESSIONE SUL BELLO ETERNO,INTERROTTA DALLA VISIONE DELL’EFFIMERO
L’armonia che, per i classici, esprimeva il rapporto delle parti con il tutto, ha attraversato i millenni senza alterare l’equilibrio dell’uomo nel centro della sua sfera. Codesto uomo, con la sua rappresentazione simmetrica, si definisce a partire da un universo che ha un limite nella comprensione divina della materia e dello spirito. E potrei continuare così, se non udissi rompersi un bicchiere in fondo alla casa – qualcuno che si è distratto, e che ha rotto, di colpo, il mio ragionamento. Al tempo stesso, però, ho scoperto che nulla di ciò che io pensavo era originale; e soltanto prendendo dal pavimento i vetri rotti, un luccichio breve nel loro contatto con la luce mi ha fatto pensare che, in fin dei conti, anche l’armonia nasce dalla distruzione, e il centro della sfera si sposta nel frammento che mantengo con le dita, prima di gettarlo nella spazzatura.
I PROBLEMI MATERIALI NON COLPISCONO LA COMPOSIZIONE DELL’OPERA
C’è un passaggio del 1° concerto brandeburghese di johann sebastian bach in cui il ritmo diventa malinconico, come se il compositore volesse fare una pausa in ciò che, apparentemente, descriveva la gioia e la festa di una corte. Ma in codesto adagio, è come se bach obbligasse chi lo udiva a fare una sosta; e, tutt’a un tratto, una desolazione entra nella musica, senza distruggere la sua perfezione, così come anche l’autunno può recare un’altra bellezza alle campagne, quando il cielo si copre di nuvole e le foglie acquistano una tonalità rossastra, annunciando l’inverno. Però, questo cambiamento non dura a lungo; e subito il paesaggio riprende la sua vita, attraverso l’allegro in cui risuona uno splendore di grandi saloni illuminati. La musica si limita a riflettere i sentimenti dell’uomo; e se il compositore indugia nella tristezza, è perché essa è necessaria per vincere il disanimo dell’anima. Ma non tutti lo compresero; e ciò che è certo è che il principe di brandeburgo non gli pagò la commissione.
SUL SEDILE DI UN TRENO
Sul sedile anteriore della carrozza del treno che mi portava alla spiaggia, di tra le scintille della macchina e il vento, lei manteneva la tesa del cappello e guardava la campagna, lasciandomi senza sapere cosa pensare. Ma era proprio ciò che lei voleva: che io non sapessi di stare senza sapere cosa pensare, quando lasciava il cappello e il vento lo lanciava verso il sedile posteriore, dove dovevo andare a recuperarlo. Allora, la sua mano manteneva i capelli; e io lasciavo che il tempo passasse, fra il recuperare il cappello e il restituirlo, affinché la sua mano lottasse contro il vento che le scioglieva i capelli. Ma quando il cappello tornava al suo posto, e lei mi guardava, era come se i suoi occhi fossero pieni del luccichio delle scintille che saltavano dalla macchina a vapore, e incendiavano la mattina in cui io stavo andando al mare, in codesta carrozza di legno dove lei mi lasciò senza sapere cosa pensare, fino a oggi, quando un vento improvviso le ha strappato il cappello dalla mia memoria di lei, e i suoi capelli hanno danzato nell’aria senza che nessuna mano li mantenesse.
L’EFFETTO DEL CINEMA NELLA TESTA DI CHI NON VA AL CINEMA
jean seberg vendeva lo herald tribune nei film di godard, e io cercavo gli spiccioli nel portafoglio per comprare da lei il giornale. Lei mi diceva che non c’era bisogno di dar spiccioli, e io le davo una banconota affinché lei mi desse il giornale, ed era come se l’avessi già letto nei suoi occhi. jean seberg si era tagliata i capelli per comparire nei film di godard come un efebo, e quando io compravo da lei il giornale era come se lei mi dicesse che stavo comprando un’ambiguità di sessi, che non c’era sulla prima pagina del giornale, ma che io potevo leggere sulle sue labbra quando lei mi pregava di non darle spiccioli, e io mi limitavo a darle una banconota per non dover andare ulteriormente alla ricerca di monete, il che mi impediva di guardare i suoi occhi dove potevo leggere la previsione meteorologica per il prossimo millennio, come se jean seberg fosse il cielo senza stagioni e nel suo volto si fissasse l’eternità di una bellezza senza principio né fine. Ma tutto ciò era quando jean seberg compariva nei film di godard, e quando smise di comparire il tempo tornò al suo ritmo normale, lo herald tribune smise di interessarmi, e non avevo più bisogno di cercare spiccioli per comprare giornali che non avrei mai letto, perché ciò che io volevo leggere stava negli occhi di jean seberg, ed essi si erano spenti.
EPISODIO DI CAFFE’
Mentre stavo aspettando il cameriere, allo châtelet, sentendo scorrere l’acqua della senna nella mia testa (stavo cioè sentendo l’acqua picchiare contro gli archi del ponte dello châtelet, mentre i battelli carichi passavano con le luci tutte accese, nel pomeriggio ombroso dell’inverno) si sedette davanti a me una ragazza vestita di nero che, ricordandomi l’immagine della morte, mi fece alzare e uscire dal caffè, senza aspettare che il cameriere venisse a domandarmi cosa volevo. Già per strada, mentre l’aria gelida dell’inverno mi obbligava a correre per arrivare rapidamente a un qualsiasi posto dove potessi avere un poco di calore, sentii dietro di me i passi della ragazza in nero, in corsa, come se la morte mi volesse acciuffare. Mi fermai, affinché lei mi sfiorasse, superandomi; ma quando lei si fermò davanti a me, per parlarmi, rimasi in attesa di ciò che la morte avesse da dirmi. «Si è dimenticato dei libri», mi disse. E mi diede la borsa di cui io mi ero dimenticato, uscendo dal caffè, dopo averla confusa con la morte. «Perché è vestita di nero?» Ma lei già non mi sentiva più; e quando attraversò la strada, e cominciò a passare il ponte dello châtelet, fui io a correrle dietro, per accertarmi che fosse la morte, o se si fosse soltanto vestita di nero per obbligarmi a dimenticarmi dei libri, e poter dire, oggi, che la morte mi corse dietro per liberarmi della sua immagine.
(traduzioni dal portoghese di Marco Bruno)
Nuno Júdice, poeta portoghese
Nuno Júdice è nato nel 1949 a Mexilhoeira Grande (nella regione portoghese dell’Algarve), dove ha una bella casa colonica e ospita d’estate i suoi figli e nipoti. Ha un curriculum da Nobel. Laureato in Filologia Romanza presso la Facoltà di Lettere di Lisbona, e addottorato in Letterature Romanze Comparate presso la Facoltà di Scienze Sociali e Umane dell’Universidade Nova di Lisbona, dove è stato Professore dal 1976 al 2015. Ha pubblicato circa 33 libri di poesia, 13 di narrativa, 10 di saggistica e 5 di teatro, il primo dei quali è stato “A noção de poema” [La nozione di poesia], nel 1972. La sua poesia è stata integralmente raccolta due volte, nel 1991 dalla casa editrice Quetzal e nel 2001 dalla Dom Quixote. È stato tradotto in molte lingue, in particolare in spagnolo, francese e italiano. Svolge, altresì, con regolarità, un lavoro di traduttore di poesia, in cui risalta un’antologia di 100 anni di Poesia Colombiana, antologie di Álvaro Mutis, Pablo Neruda, Emily Dickinson, oltre a varie opere di teatro: Júdice ha tradotto, direttamente per la rappresentazione nel Teatro Nacional de D. Maria, a Lisbona, e nel Teatro di S. João a Porto, pièces di Corneille, Molière, Shakespeare e il “Cyrano de Bergerac”, fra le altre. È stato il coordinatore, per alcuni anni, dei Seminari di Traduzione Collettiva della Fondazione Casa de Mateus. Ha svolto diversi incarichi nella divulgazione della cultura e letteratura portoghesi, fra i quali spiccano il coordinamento per l’area della Lingua del Padiglione Portoghese dell’Esposizione Internazionale di Siviglia, nel 1992, l’incarico di Commissario della Letteratura quando il Portogallo è stato “paese invitato” alla Fiera del Libro di Francoforte, nel 1997, e, infine, le funzioni di Consigliere Culturale dell’Ambasciata di Portogallo in Francia, negli anni 1997-2004, e di direttore del Centro do Instituto Camões a Parigi, nello stesso periodo. Anche in Portogallo ha coordinato alcune azioni di divulgazione della poesia, fra cui risalta il primo Incontro Europeo di Poesia, all’epoca in cui Lisbona è stata Capitale Culturale Europea, nel 1994. È stato invitato a molteplici festival e incontri di poesia, risalta la partecipazione al Festival de Medellín, nel 2005, e al Festival di Poesia di Hong Kong, nel 2017, oltre agli Incontri di Poeti del Mondo Latino e Di/Verso, in Messico. La sua opera poetica è stata ampiamente premiata in Portogallo e all’estero: spicca il XXII Premio Reina Sofia de Poesia Iberoamericana, nel 2013, per l’insieme della sua opera. In Messico ha ricevuto nel 2014 il Premio Poetas do Mundo Latino e nel 2017 il Premio Juan Crisóstomo Doria às Humanidades, attribuito dall’Università Autonoma di Hidalgo. Nel 2016 gli viene attribuito in Italia il Premio Internazionale di Poesia Europa in Versi / Premio Carriera e nel 2017 il premio Camaiore.
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