Breve biografia di Nicole Brossard-Poetessa, narratrice e saggista del Québec, Nicole Brossard è nata a Montréal nel 1943. A partire dal 1965 ha elaborato un’opera – nei vari campi della scrittura – tra le più importanti del periodo contemporaneo, riuscendo ad immergersi in modo dirompente nel tumulto della modernità. L’autrice ha infatti rinnovato, in modo radicale, con rigore e lucidità, il campo letterario precedentemente esistente, diventando “l’emblema stesso della nuova scrittura quebecchese” (Pierre Nepveu, ndr). Non meno importante l’attività di divulgatrice e teorica della letteratura del Québec.
La voce di Nicole Brossard, definita in un primo tempo “femminista”, è quella sontuosa e mai scontata di una cittadina del pianeta che naviga al di sopra della questione dei generi, nei mari aperti della parola piena e consapevole. È colei che osa dire: “ascolto ancora / al confine delle lingue / il rumore degli incendi / le domande, l’arte”. Sa benissimo che l’inferno è qui “sul bordo rovesciato di vivere”, ma continua per la sua strada avendo davanti a sé l’infinito da esplorare, per quel desiderio inarrestabile di “spargere baci tra i continenti” e forse per l’utopia di lenire il dolore del mondo.
Va detto, in conclusione, che Nicole Brossard non si compiace nei propri sogni, va oltre, tuffandosi “nel gran vivaio dei mormorii” (non a caso nella sua poesia appaiono Joyce e Svevo) per donare una parola d’eclissi e di riflessi capace di fondare le relazioni tra le cose, tra gli esseri.
Nicole Brossard ha pubblicato una trentina di libri tra i quali Le Centre blanc, La lettre aérienne, Le désert mauve, Hier, Cahier de roses et de civilisation. I più recenti sono: Je m’en vais à Trieste (2003) e L’horizon du fragment (2004). Le è stato conferito due volte il Prix du Gouverneur Général (1974, 1984) per la poesia. Ha cofondato nel 1965 la rivista letteraria “La Barre du Jour” e, nel 1976, il giornale femminista “Les Têtes de Pioche”. Ha corealizzato il film Some American Feminists (1976). Nel 1991, ha pubblicato insieme a Lisette Girouard Anthologie de la poésie des femmes au Québec (Des origines à nos jours), e nel 2002 l’antologia Poèmes à dire la francophonie. Nel 1991, le è stato conferito il Prix Athanase-David, la più alta onorificenza letteraria del Québec, e nel 1994 è entrata a far parte della Académie des Lettres du Québec. Nel 1999, ha ricevuto per la seconda volta il Grand Prix du Festival International de la Poésie de Trois-Rivières per le raccolte poetiche Musée de l’os et de l’eau e Au présent des veines. Premio W.O. Mitchell (2003). Inoltre: Prix Molson del Conseil des Arts du Canada (2006) e il titolo di Chevalier de l’Ordre de la Pléiade e Membre de la Société Royale du Canada.
L’insieme della sua opera, tradotta in molte lingue, fa di Nicole Brossard una scrittrice di livello internazionale.
ogni sete è una conca di luce
nel dolore ancestrale
nel grande casellario dei pronomi
dimmi se la mia morte va veloce dall’uno
all’altro secolo se con gli anni dovrò dimenticare
l’orchidea, aggiornare il delirio
dimmi se questa fame che ho dell’alba
si aggirerà tra i campi
tremante come un’ossessione, un orizzonte
*
non sarà facile dire io
se tutto questo gira male, valanga
o eternità e malinconia
so che abbiamo toccato
troppi orizzonti
l’infinito nelle nostre bocche
tradotto con pazienza
*
non ho ancora parlato di scomparsa
qualche detrito a monte di tutti i pronomi
la vita prende delle decisioni
e sotto la pelle ci prepara
ruote della fortuna e rompicapi
futuro e funerali
adesso ecco i ghiacciai
qualche materiale
di alba e sofferenza
*
essere là tutta una vita nella specie flessibile
con questo riflesso che persiste a volere
rappresentare tutto dell’ebbrezza e dei gesti
i morsi, le camere con le loro nicchie
di ombra soffice, le fronti preoccupate
nostra fragilità
e certo siamo senza risposta
ad ogni bacio!
*
idee di caduta e labirinto
come se al fondo delle nostre braccia
tutto quello che esiste fosse
fatto nell’attesa di spostare l’alba
scoprire il velo sopra il regno animale
allora io resto sveglia
tra temperini e cenere
*
non ci sarà ritratto
di mia madre né un’acquaforte o un gesto
né frase memorabile
o resisterà una scena ancora in piedi
nella città e nel vento
un fruscio di sciami che l’alba
avrà rapito veloce e intenso
*
e se l’angoscia se ciò che anima
le tue notti di letture e sogni
if dust on you fingers vibrates
avvolgiti nell’ombra
in un posto con del blu e del vuoto
ci sarà certo dell’acqua nei tuoi occhi
modernità e paura nei tuoi vestiti
*
stringiti al silenzio
all’alba il verbo essere pulsa più veloce
dentro le vene, fila una cometa
come dopo l’amore o un granello di sale
sulla lingua di mattina, gusto d’immensità
che ci riporta
dentro la primigenia umidità
abbracciami
l’acqua può fare di noi due
lo stesso luogo
Biografia della poetessa e scrittrice Hirondina Juliana Francisco Joshua (Maputo, Mozambico, 31 maggio 1987), Conosciuta perlopiù conosciuta come Hirondina Joshua, è una scrittrice mozambicana. Una poetessa di spicco della nuova generazione di autori mozambicani. È membro dell’Associazione degli scrittori Mozambicani (AEMO). Ha partecipato a diverse antologie nazionali ed estere e i suoi testi sono stati pubblicati su giornali e riviste in Mozambico, Portogallo, Angola, Galizia e Brasile.
Ideatrice della colonna “Exercícios da Retina ? literatura moçambicana; Os Dedos da Palanca ?literatura angolana e Letras do Atlântico ? literatura portuguesa e brasileira na plataforma cultural Mbenga Artes & Reflexões”.
Preludio
Come si scrive uno sguardo?
E un sogno vano, lo sai?
Cosa me ne faccio di um cuore? E un’anima che cos’è?
Dimmelo, se conosci il colore del vento.
La passione con cui il mare ci afferra.
Dimmelo, e per favore non poetizzare, né tantomeno filosofare.
Assenza
Mi manca l’universo
Per immaginarne il colore,
L’arteria plurale
Del sangue
Che ridisegna il sogno.
Invenzione
All’improvviso,
il desiderio si versa
sul corpo inventato,
esiste una contemplazione invisibile.
E’ un momento di luce:
Una mano pronuncia la voce dall’interno
E un’altra sottostante vaga
Nell’aria alla ricerca del dono dell’amore.
Hirondina Juliana Francisco Joshua -Inediti (Traduzione di Matteo Pupillo)
Hirondina Juliana Francisco Joshua (Maputo, Mozambico, 31 maggio 1987), perlopiù conosciuta come Hirondina Joshua, è una scrittrice mozambicana. Una poetessa di spicco della nuova generazione di autori mozambicani. È membro dell’Associazione degli scrittori Mozambicani (AEMO). Ha partecipato a diverse antologie nazionali ed estere e i suoi testi sono stati pubblicati su giornali e riviste in Mozambico, Portogallo, Angola, Galizia e Brasile.
Ideatrice della colonna “Exercícios da Retina ? literatura moçambicana; Os Dedos da Palanca ?literatura angolana e Letras do Atlântico ? literatura portuguesa e brasileira na plataforma cultural Mbenga Artes & Reflexões”.
*
Matteo Pupillo (1994), nato e cresciuto in Italia, vive a Lisbona da quattro anni, anche se la sua spola tra i due Paesi è iniziata sette anni fa. È laureato in Lingue per la Comunicazione Interculturale e si è, poi, specializzato in Lingua e Letteratura Portoghese presso l’Universidade Nova de Lisboa.
Lavora come docente di lingua portoghese, traduttore e ricercatore di letterature in lingua portoghese, partecipando attivamente a congressi internazionali e collaborando a progetti di promozione e diffusione della lingua portoghese e delle sue rispettive culture. A Lisbona, nel 2020 ha creato il club di conversazione portoghese presso il caffè letterario Ler Por Aí e scrive per il blog del medesimo.
Hirondina Juliana Francisco Joshua
Inediti (Traduzione di Matteo Pupillo)
due poesie di RACHEL KORN, poetessa di lingua yiddish
Breve biografia di Rachel Korn, poetessa di lingua yiddish- Rachel (Rokhl) Häring Korn (Pidlisky, Ucraina, 15 gennaio 1898 – Montreal, Canada, 9 settembre 1982), poetessa e scrittrice di lingua yiddish. Trasferitasi in Polonia all’inizio della Grande Guerra, esordì in polacco, per passare subito all’yiddish. Riparata a Mosca nel 1941 dopo l’invasione tedesca, emigrò infine in Canada nel 1948. Tristezza, sradicamento e solitudine caratterizzano molte delle sue poesie.
LE MIE MANI
*
Le mie mani
– due mondi,
con linee rette e curve
di fiumi, monti e vallate
Attraverso gole sempre più strette
scolpite nel corso di migliaia di anni,
il mio destino scorre come un’acqua sconosciuta e triste –
a volte verso di te,
a volte lontano da te,
a volte verso una meta ignota e distante.
Le dieci mezzelune di un pallido rosa
non si spengono mai
sulle onde tremanti del mio sangue
e come eterni testimoni, serbano
il dolce segreto della punta delle mie dita.
E se talora nell’abisso del tempo
i mondi separati delle nostre mani si incontrano,
allora per un momento
immobili e calmi,
confusi da una gioia troppo improvvisa,
i due soli rossi restano nella nostra carne
DALL’ALTRO LATO DELLA POESIA
Dall’altro lato della poesia c’è un giardino,
e nel giardino una casa con il tetto di paglia
e tre pini,
tre sentinelle che non parlano mai e stanno di guardia.
Dall’altro lato della poesia c’è un uccello,
giallo e marrone con il petto rosso,
e torna ogni inverno
appeso come un bocciolo sul cespuglio nudo.
Dall’altro lato della poesia c’è un sentiero
sottile come la riga tra i capelli,
e qualcuno perso nel tempo
cammina sul sentiero a piedi nudi, senza far rumore.
Dall’altro lato della poesia possono accadere cose sorprendenti,
anche in questa giornata nuvolosa,
in quest’ora ferita
che sospira di febbrile desiderio alla finestra.
Dall’altro lato della poesia potrebbe apparire mia madre
e sostare un po’ sulla soglia, persa nei suoi pensieri
per poi chiamarmi a casa, come faceva tanto tempo fa:
Hai giocato abbastanza, Rokhl. Non vedi che è notte?
(da Poesie scelte, 1985 – su Otra iglesia es imposible)
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Breve biografia di Rachel (Rokhl) Häring Korn (Pidlisky, Ucraina, 15 gennaio 1898 – Montreal, Canada, 9 settembre 1982), poetessa e scrittrice di lingua yiddish. Trasferitasi in Polonia all’inizio della Grande Guerra, esordì in polacco, per passare subito all’yiddish. Riparata a Mosca nel 1941 dopo l’invasione tedesca, emigrò infine in Canada nel 1948. Tristezza, sradicamento e solitudine caratterizzano molte delle sue poesie.
David Hevia è poeta, giornalista, professore di filosofia e letteratura e direttore della Società degli Scrittori del Chile. Le sue pubblicazioni di poesia sono “Historia de la Desnudez” (2011), “Anoche el Día” (2015) e “La canción del amor” (2018), oltre a vari saggi e l’ultima pubblicazione è “La luna y las pléyades” (2021), la sua traduzione di Saffo.
Todavía
Un beso deambula en tus hombros y es desde su autor a cierta noche que vas, inédita y pretendida, adelantándote en cada paso a lo que hicimos y lo que no. Y te abrazo para no caer antes que el despliegue del minuto pose el gris temor en la ventana, y no alcanzo a verte desde lejos, pero amo no verte desde lejos, porque quien te imaginase lejos declina este espacio que tributa el pétalo cobrizo a tus piernas.
Y es desde el dolor de este reproche, desde el peso reducido a asombros, que estás, entre uno y otro acorde, tan quimérica como rendida, digamos que al borde, aunque vestida, digamos como yo ya no. Vamos sin licores esta vez, que a mi embriaguez le basta tu boca, escuchar la canción de tu copa aunque no se entienda con la mía, cumplir el ritual antes del día y latir contra tu desnudez.
Ancora
Un bacio vaga sulle tue spalle ed è dal suo autore in una certa notte che tu vai, inedita e finta, precedendo ad ogni passo ciò che abbiamo fatto e ciò che no. E ti abbraccio per non cadere prima che lo svolgersi del minuto metta la paura grigia nella finestra, e non riesco a vederti da lontano, ma amo non vederti da lontano, perché chi ti immagina lontano rifiuta questo spazio con cui omaggia il petalo ramato le tue gambe.
Ed è dal dolore di questo rimprovero, dal peso ridotto a stupore, che sei, tra un accordo e l’altro, tanto chimerica quanto arrendevole, diciamo sull’orlo, seppur vestita, diciamo come io non più. Facciamo a meno dei liquori questa volta, che alla mia ubriachezza basta la tua bocca, ascoltare la canzone del tuo bicchiere anche se non c’è intesa con la mia, compiere il rituale prima del giorno e battere contro la tua nudità.
Cárcel de mujeres
Y tú me preguntas cómo es esto de venir a enseñar en las celdas. Yo te contesto de prisa, antes que el guardia me vea, pero sobre todo para que tú veas que lo más triste aquí no está en el egoísmo de la luz natural ni de la luz artificial. Tampoco en el disparo reumático de las regaderas, ni en los guantos de goma haciendo su redada en las vaginas, ni en el sarcasmo uniformado apuntando a las vaginas, ni en el gas pimienta entrando en las vaginas, ni en las monjas implorando para que no existan las vaginas.
Hasta la soledad estuvo antes de llegar aquí. La pobreza estuvo antes de llegar aquí. La pobreza estuvo con todos sus moretones. La pobreza estuvo con todos sus hijos, aunque aquí todo se reúne en un segundo insoportablemente lento. En un segundo los dueños del mundo arman su laboratorio, su fábrica de la pobreza, del porvenir de la pobreza, tan moderna y masificada que no necesita barrotes.
Y las compañeras no tienen acá cómo decirte, cómo avisarte, cómo explicarte que en lugar de conmiserarte con ellas entiendas que lo triste es cuánto se parece la cárcel a la escuela donde enseñas, o al enorme templo votivo donde se manipula y se manufactura el futuro: el cerco de púas crece frondoso en las grandes avenidas.
Acá ocurren otras cosas. Acá llegan los cuchillos, pero especialmente -si acaso es distinto- llegan funcionarios públicos a inaugurar bibliotecas con libros de autores que no trabajan en la cárcel, pero que en el fondo comen de la cárcel. Acá hay buenos libros; todos sin leer, igual que allá afuera, solo que ese afuera no está muy afuera y cadavez es menos grande.
Entonces enseñar acá es compartir un secreto hermoso que las compañeras hacen crecer en las vaginas para hacer estallar el mundo. Acá no hay gente mirando el techo. Los parientes toman distancia. La prensa toma fotografías. El fiscal toma pruebas. Las gendarmes toman represalias. El médico toma medidas para que las presas tomen calmantes. El perito toma muestras después de cada suicidio. La contraloría toma razón y tú todavía no tomas partido.
Carcere femminile
E tu mi chiedi com’è venire a insegnare nelle celle. Ti rispondo di corsa, prima che la guardia mi veda, ma soprattutto perché tu possa vedere che la cosa più triste qui non sta nell’egoismo della luce naturale né della luce artificiale. Né nel colpo reumatico degli annaffiatoi, né nei guanti di gomma che fanno le loro retate nelle vagine, né nel sarcasmo in uniforme indicando le vagine, né nello spray al peperoncino che entra nelle vagine, né nelle suore che implorano perché le vagine non esistano.
Anche la solitudine c’era prima di arrivare qui. La povertà c’era prima di arrivare qui. La povertà c’era con tutti i suoi lividi. La povertà c’era con tutti i suoi figli, anche se qui tutto si risolve in un secondo insopportabilmente lento. In un secondo i padroni del mondo assemblano il loro laboratorio, la loro fabbrica della povertà, del futuro della povertà, così moderno e massificato che non ha bisogno di sbarre.
E le compagne non hanno qui come dirti, come avvertirti, come spiegarti che invece di commiserarle tu capisca che la cosa triste è quanto è simile il carcere alla scuola dove insegni, o al grande tempio votivo dove si maneggia e si manifattura il futuro: il recinto spinato cresce rigoglioso nei grandi viali.
Qui succedono altre cose. Qui arrivano i coltelli, ma soprattutto -semmai è diverso- arrivano funzionari pubblici per inaugurare biblioteche con libri di autori che non lavorano in carcere, ma che alla fine mangiano del carcere. Qui ci sono buoni libri; tutti non letti, proprio come là fuori, solo che quel fuori non è molto fuori ed è sempre meno grande.
Quindi insegnare qui è condividere un bellissimo segreto che le compagne fanno crescere nelle loro vagine per far esplodere il mondo. Qui non c’è gente che guarda il soffitto. I parenti prendono distanza. La stampa prende foto. Il pubblico ministero prende le prove. I gendarmi si prendono vendette. Il medico prende provvedimenti perché le prigioniere prendano calmanti. L’esperto prende campioni dopo ogni suicidio. L’ufficio di controllo ne prende atto e tu continui a non prendere posizione.
Al doble arco del alba (inédito)
Cuando no estés aquí, vive desnuda allá y mírate a destajo… de mí sabrás en ti.
Por ser terco mendigo de la impía belleza el minuto más mísero me regaló la piel.
Oigo al viento tu nombre dicho en el pétreo eco. Roca aún en el Rímac, arena en el Pacífico; Majestad de lacónicas, troyana tras el rapto.
Me quedo con tu sal, mar del amanecer. Cada pliegue el repliegue de todas mis palabras. Qué veo, me preguntas. Un semblante de luna, un susurro de vuelta, una canción en ciernes.
No hay principio del mundo ni es secreto mi beso. ¡Cuánta certeza cabe en la naturaleza! Los brazos van seguros blandiendo un sacrilegio mientras se alzan tus senos y la brisa dibuja de nuevo las mejillas ancladas al cabello.
Que la palabra, en cambio, responda y se haga cargo de tanto titubeo. Que la palabra muera si no consigue ser, a través del espejo, tu arbolada sonrisa, tu silueta en la espuma, los cristales alados pestañeando al puerto: piernas que hiciste lecho incendiando el océano.
Roja forma del mundo acicalando sábanas, planetario sostén convertido en guirnalda. Jardinea en un sueño la alianza de los labios y tú me llevas rauda al doble arco del alba para que sea carne la amada oscuridad.
Despedaza el silencio de cualquier madrugada. El reloj solo alarma. Haz ya que con tu voz una ciudadanía despierte entre nosotros, y haya piel y repliegue, y espuma y mar y beso.
Que siga la palabra tan sorda como muda. Ella quiere vestirte y yo voy por tus pétalos.
Al doppio arco dell’alba (inedito)
Quando non sei qui, vivi nuda là e guardati a cottimo… di me saprai in te.
Per essere testardo mendicante di empia bellezza il minuto più miserabile mi ha regalato la pelle.
Sento nel vento il tuo nome detto nella pietrosa eco. Roccia ancora nel Rímac, sabbia nel Pacifico; Maestà di laconiche, troiana dopo il rapimento.
Rimango con il tuo sale, mare del sorgere del sole. Ogni piega il ripiegamento di tutte le mie parole. Cosa vedo, mi chiedi. Un volto della luna, un sussurro di ritorno, una canzone in divenire.
Non c’è inizio del mondo né è il mio bacio segreto. Quanta certezza c’è nella natura! Le braccia stanno con sicurezza brandendo un sacrilegio mentre i tuoi seni si alzano e la brezza disegna di nuovo le guance ancorate ai capelli.
Che la parola, invece, risponda e si faccia carico di tanta esitazione. Che la parola muoia se non riesce ad essere, attraverso lo specchio, il tuo boscoso sorriso, la tua silhouette nella schiuma, i cristalli alati che lampeggiano al porto: gambe che hai reso letto dando fuoco all’oceano.
Rossa forma del mondo agghindando lenzuola, supporto planetario trasformato in ghirlanda. Coltiva in sogno l’alleanza delle labbra e mi porti veloce al doppio arco dell’alba perché sia carne l’amata oscurità.
Si infrange il silenzio di qualunque alba. L’orologio allarma soltanto. Fa’ già che con la voce una cittadinanza si risvegli tra di noi e ci sia pelle e ripiegamento, e schiuma e mare e bacio.
Che la parola segua tanto sorda quanto muta. Lei vuole vestirti e io vengo per i tuoi petali.
Nella foto la Petra tou Romiou, conosciuta anche come Roccia di Afrodite. È un faraglione marino a Paphos, Cipro. Secondo la mitologia greca è il luogo dove nacque la dea della bellezza. Foto di Dimitris Vetsikas da Pixabay.
Afrodite nacque donna adulta dalla spuma del mare (secondo Esiodo); crea profonda commozione in tutto ciò su cui si posano i suoi sensi, liberando così anche l’artista come un fiore in sboccio. È questa consapevolezza che si intuisce nella ricerca che accompagna la vita di David Hevia, come poeta, saggista e fotografo. La presente raccolta di poesie è un omaggio alla donna, desiderata e ammirata nella sua vastità; come vaso del mondo – contenitrice e insieme giardiniera grazie alla quale esso fiorisce. Tutto si specchia in lei, lei esprime e incarna ogni cosa. Dalla luna, al bosco, all’oceano, è come se acquisissero profondità attraverso il sorriso, la pelle di una donna. Come se, per parlare dell’universo, uno non potesse fare altro che cercare nella donna l’ampiezza per riuscire a farlo. O forse è viceversa. L’amore della canzone è antico, mitologico. Attinge a incertezze confortanti solo per il viaggiatore che riconosce la tessitrice resiliente, la conquistatrice per opposti, il gemito della sirena come l’oltraggio da risanare.
Biografia di David Hevia è poeta, giornalista, professore di filosofia e letteratura e direttore della Società degli Scrittori del Chile. Le sue pubblicazioni di poesia sono “Historia de la Desnudez” (2011), “Anoche el Día” (2015) e “La canción del amor” (2018), oltre a vari saggi e l’ultima pubblicazione è “La luna y las pléyades” (2021), la sua traduzione di Saffo.
RIVISTA clanDestino nasce come una sfida di giovani amanti della poesia a Forlì.
Nel 1988 nove ragazzi, tra cui Gianfranco Lauretano e Davide Rondoni, decidono di dar vita alla rivista, proseguendo con nuovo nome e taglio, il lungo lavoro per la poesia italiana che aveva fatto la casa editrice Forum di Forlì di G. Piccari, con la rivista “Quinta Generazione”.
Da quel momento in poi una serie di voci importanti hanno viaggiato con clanDestino; ma non solo grandi nomi, anche tanti poeti e scrittori hanno esordito e si sono incontrati con la rivista e ne hanno tratto spunti per la loro arte.
Fin dall’inizio clanDestino si è distinto per il suo essere in un certo modo, mai neutro né banale, ospitale e attento, vivace compagno di strada che cerca la vita nella vita.
Arianna Vartolo – Poesie dalla raccolta inedita “Derma”
-Rivista Atelier-
Breve biografia diArianna Vartolo è nata nel 1998 a Roma, dove vive. L’aiuto a non morire (Cultura e Dintorni Editore, 2019) è la sua opera prima in versi. Compare nell’antologia Abitare la parola: poeti nati negli anni Novanta per Giuliano Ladolfi Editore (2019). Di lei è stato scritto, tra gli altri, su ClanDestino, Pangea, Laboratori Poesia – della cui redazione fa inoltre parte dal 2021. Alcuni suoi inediti e lavori sono apparsi su riviste cartacee e online tra cui Atelier e Inverso (nella cui redazione fa ingresso a marzo del 2022), nonché su La bottega della Poesia del quotidiano La Repubblica – Roma. Nel 2021 è rientrata tra i finalisti del Premio di Poesia Città di Borgomanero – Achille Marazza e del XXII Concorso Nazionale di Poesia e Narrativa “Guido Gozzano”.
È il corpo stesso quando saturo di liquidi
a lasciarsi scivolare addosso
quelli nuovi ricevuti dall’esterno.
Come fosse cosparso di unguenti e invece
sono gli intenti purificatori a farsi resistenti
all’acqua che scende sull’osso dello sterno.
La pelle si rende superficie d’eccezione
per quel bisogno che parla secondo obbligo espresso:
sembra quasi equazione di tensioni e rilasci
l’andare dritto della goccia – senza mai
deviare – nell’incavo liscio tra inguine e coscia.
Il toccare lo stato ultimo di compromesso
cui ogni forma esatta è chiamata ad arrivare.
*
A volte il cibo ti sembra avere
lo stesso sapore dello sperma; il che – pensi
conferma il tuo credo del durare
del seme, del tempo al culmine delle cose.
L’alimento che passa
e bussa sulla lingua a reclamare
la propria forma di stato eterno. Intanto è giorno
e tu rimani con le gambe poggiate alla ringhiera
di quell’unico spazio esterno
che riesci al momento ad abitare.
Continui a masticare in un impasto
denso di sensi di resti di semi rimasti tra i denti
che cerchi in ogni modo di levare. Basterebbe lavarli lavare
ciò che si ancora vicino all’angolo del mento.
Ciò che resiste sulla parte della bocca
che la tua mano ancora tocca a memoria.
*
Ho sognato dei passi – già li conoscevo:
il suono mi diceva
di chi sarebbe rimasto; lo sapevo bene.
Qui a destra. Ecco
cosa stringevi in mano.
*
Continuano a sanguinarti le gengive eppure
– ti dici – eppure io uso
Parodontax come dentifricio. Riporta
la confezione aiuta la prevenzione del suddetto deflusso eppure
– ti dici – eppure ancora non si arresta.
Intanto in testa ti torna Kynodontas il film di Lanthimos che tanto hai amato nel duemilasedici:
c’era una persona a te accanto, ne registravi ogni forma gesto
postura. Era curare con l’attenzione: non timore
della perdita ma bisogno di quel che dura.
Continui a sfregare ai lati e sputi
saliva e sangue sul bianco smaltato del lavabo; lo sai [non si dovrebbe
ritrarre la mucosa boccale a lasciare
scoperti i processi alveolari dei mascellari,
la radice il nervo i vasi. Giusto il dente rimane
souvenir di occasionale nostalgia:
di un ricordo lasciato
esposto / al rosso dell’emorragia.
*
La fine di giornata: è la luce che rimane
sulla tovaglia usata.
Breve biografia diArianna Vartoloè nata nel 1998 a Roma, dove vive. L’aiuto a non morire (Cultura e Dintorni Editore, 2019) è la sua opera prima in versi. Compare nell’antologia Abitare la parola: poeti nati negli anni Novanta per Giuliano Ladolfi Editore (2019). Di lei è stato scritto, tra gli altri, su ClanDestino, Pangea, Laboratori Poesia – della cui redazione fa inoltre parte dal 2021. Alcuni suoi inediti e lavori sono apparsi su riviste cartacee e online tra cui Atelier e Inverso (nella cui redazione fa ingresso a marzo del 2022), nonché su La bottega della Poesia del quotidiano La Repubblica – Roma. Nel 2021 è rientrata tra i finalisti del Premio di Poesia Città di Borgomanero – Achille Marazza e del XXII Concorso Nazionale di Poesia e Narrativa “Guido Gozzano”.
Biblioteca DEA SABINA
-La rivista «Atelier»-
http://www.atelierpoesia.it
La rivista «Atelier» ha periodicità trimestrale (marzo, giugno, settembre, dicembre) e si occupa di letteratura contemporanea. Ha due redazioni: una che lavora per la rivista cartacea trimestrale e una che cura il sito Online e i suoi contenuti. Il nome (in origine “laboratorio dove si lavora il legno”) allude a un luogo di confronto e impegno operativo, aperto alla realtà. Si è distinta in questi anni, conquistandosi un posto preminente fra i periodici militanti, per il rigore critico e l’accurato scandaglio delle voci contemporanee. In particolare, si è resa levatrice di una generazione di poeti (si veda, per esempio, la pubblicazione dell’antologia L’Opera comune, la prima antologia dedicata ai poeti nati negli anni Settanta, cui hanno fatto seguito molte pubblicazioni analoghe). Si ricordano anche diversi numeri monografici: un Omaggio alla poesia contemporanea con i poeti italiani delle ultime generazioni (n. 10), gli atti di un convegno che ha radunato “la generazione dei nati negli anni Settanta” (La responsabilità della poesia, n. 24), un omaggio alla poesia europea con testi di poeti giovani e interventi di autori già affermati (Giovane poesia europea, n. 30), un’antologia di racconti di scrittori italiani emergenti (Racconti italiani, n. 38), un numero dedicato al tema “Poesia e conoscenza” (Che ne sanno i poeti?, n. 50).
Direttore responsabile: Giuliano Ladolfi Coordinatore delle redazioni: Luca Ariano
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FaelMarescotti, nato nel 2000, studente di filosofia e letteratura italiana a Parigi, presso Sorbonne Université. Alcuni miei testi sono stati pubblicati da “Inverso – Giornale di Poesia”, “Poeti Oggi”, “Scritture” di Marco Ercolani e dalla Repubblica di Milano.
Decelera nottetempo fiaccando la candela nel buio, giammai sono esistite le pareti ma nell’angolo vedi: no, non vedi: angoscia, splendida angoscia dall’asmatico nero, turbante, nascondiglio del nascosto! Senza stelle sei al mondo, percepisci il largo – Belzebù oscuro ti ammanta i polmoni e scomparso nell’indicibile, canti: ma è un conato il silenzio che vomiti, si srotolano le ombre, nessun agguato, è il vuoto.
Sulla landa desolante del buio la paturnia del mondo appare come un difficile velo di sopportazione e vedi i condor sfogliarsi nell’enigma la notte – Oh la sacra notte placida nello specchio che inghiotte il singhiozzo eterno, l’ugola d’oro ecco, è – e se non c’è, è di un grigio affannoso l’oceano è un conato è un deserto che non fiorirà mai le sirene sono serpenti – morti i sonagli che scuoti nel nulla zigzagano le maracas.
C’è il lago – la notte tiepida, un sogno. Si sfogliano nell’acqua delle donne. Il corpo arancio, giocano. Si passano il volano del tempo. Qualche pavone inghirlanda di gigli il poeta morto sull’erba. Quasi canta la foresta le betulle – sai che sono malate – le loro foglie viola, lontano senti spegnersi una lepre, un uomo l’accarezza, com’è confortevole ogni disgrazia. Oh la non luna, sorge! Vaporosa come volto di Madonna emana il pallore della quiete, nel mondo ruscella ambiguo il silenzio. Argentei sono gli occhi di tutti gli esseri che lo guardano, il cielo penetrante. Oh no, non piangono, non divorano le viscere dell’aere, la loro deficienza è data da altro, qualcosa benedice, è un ritmo da ubriachi il vento leggero.
L’AUTORE
FaelMarescotti, nato nel 2000, studente di filosofia e letteratura italiana a Parigi, presso Sorbonne Université. Alcuni miei testi sono stati pubblicati da “Inverso – Giornale di Poesia”, “Poeti Oggi”, “Scritture” di Marco Ercolani e dalla Repubblica di Milano.
L’Altrove è un Blog di poesia contemporanea italiana e straniera
Chi siamo
“La poesia non cerca seguaci, cerca amanti”. (Federico García Lorca)
Con questo presupposto, L’Altrove intende ripercorrere insieme a voi la storia della poesia fino ai giorni nostri.
Si propone, inoltre, di restituire alla poesia quel ruolo di supremazia che ultimamente ha perso e, allo stesso tempo, di farla conoscere ad un pubblico sempre più vasto.
Troverete, infatti, qui tutto quello che riguarda la poesia: eventi, poesie scelte, appuntamenti di reading, interviste ai poeti, concorsi di poesia, uno spazio dedicato ai giovani autori e tanto altro.
Noi de L’Altrove crediamo che la poesia possa ancora portare chi legge a sperimentare nuove emozioni. Per questo ci auguriamo che possiate riscoprirvi amanti e non semplici seguaci di una così grande arte.
Biografia di Attila JózsefPoeta ungherese, nato a Budapest l’11 aprile1905, morto a Szárszó nel 1937. Il padre, operaio, emigrò in America nel 1907 e la Lega per l’infanzia lo affidò a genitori adottivi finché (1912) la madre lo riprese con sé. Dopo aver fatto i più diversi mestieri, divenne contabile in una banca. Si iscrisse alla facoltà di filosofia dell’univ. di Szeged, indi a Vienna, poi, sovvenzionato da alcuni amici, alla Sorbona (1926). Rientrò a Budapest senza aver terminato gli studî. Per un certo tempo diresse la rivista letteraria Szép Szó, quindi si impiegò presso l’Istituto del Commercio Estero ma dovette lasciare il posto per una grave forma di neurastenia che lo condusse al suicidio. A Vienna aveva aderito al partito comunista clandestino, ma ne era stato espulso come deviazionista (1932).
Nel contenuto della poesia józsefiana prevalgono motivi sociali; tutta la sua poesia è permeata di tragicità, sia che inciti i proletari alla lotta di classe o che si ripieghi in se stesso e gravi su di lui l’ombra dello sconforto. Impressionanti sono la sua continua tensione emotiva, il vigore e l’immediatezza del suo realismo cui si affiancano, in una compenetrazione tipicamente ungherese, metafore e similitudini di grande efficacia.
Tra le molte edizioni delle sue poesie: J.A. összes versei (“Tutte le poesie di A. J. “, Budapest 1955), Külvárosi Éj, válogatott versek (“Notte di sobborgo”, poesie scelte, ivi 1958).
Fonte- Enciclopedia Italiana Treccani online-
All’uomo toccano
All’uomo toccano due fiori,
uno lo mette sul cappello
e l’altro invece lo dà via,
li fa appassire tutt’e due.
Perciò si attrista e vagabonda
sul ponte; l’acqua, ecco, lo chiama:
scendere, no, che non ti lascio –
perde qualcosa, se ne scorda.
E ride e batte i denti – è sera:
la schiuma piaga l’acque, l’uomo
si appoggia al braccio, si addormenta,
ma sempre più diventa buio.
Saluto a Thomas Mann
Come un bambino che giurò vendetta
e diede fuoco alla casa paterna
e ora è invaso dall’estraneità
come da nebbia, e solo sul petto
di lui, bersaglio della sua rivolta
potrebbe sfogarsi in lacrime, mostrare
sul volto buio un sorriso libero,
così mi sforzo senza speranza
di ritrovare le mie lacrime virtuose.
Ho incenerito il mondo nel cuore
e non vi è parola buona che mi redima,
rannicchiato non aspetto che il miracolo,
che venga qualcuno a perdonarmi
e mi sappia dire bene cosa
mi si deve perdonare
in questa tana di lupi.
Il dolore
Il dolore è un postino grigio, muto, col viso scarno, gli occhi azzurro-chiari; gli pende giù dalle fragili spalle la borsa, scuro e logoro ha il vestito.
Dentro al suo petto batte un orologio da pochi soldi; timido egli sguscia di strada in strada, si stringe alle mura delle case, sparisce in un portone.
Poi bussa. Ed ha una lettera per te.
(Traduzione di Umberto Albini)
da “Attila József, Poesie”, Lerici editore, Milano, 1957
Solo legga…
Legga i miei versi solo
chi mi conosce e mi ama,
chi naviga nel nulla
e sa come un profeta l’avvenire.
Perché nei sogni gli è apparso
in forma d’uomo il silenzio,
e nel suo cuore talvolta dimorano
la tigre e il mite cerbiatto.
Con cuore puro
Non ho padre né madre,
non ho patria né Dio,
non ho culla o sepolcro,
non ho baci né amante.
Da tre giorni non mangio,
non tocco cibo alcuno:
vent’anni la mia forza,
i vent’anni li vendo.
Se nessuno li vuole,
se li prenda il demonio.
Rubo serenamente,
se occorre, ucciderò.
Che mi impicchino e coprano
di terra benedetta:
nascerà, dal superbo
mio cuore, erba di morte.
Cultura
Di profumare il fiore si è stancato
era pieno di noia:
perché diavolo metterlo in salotto?
Così cercava di gettare un’ombra
più grande che in giardino;
nessuno lo guardava e si è stancato.
Io me ne sono accorto.
da POESIE, traduzione di Umberto Albini,
introduzione di Miklos Szabolcsi, Lerici, Milano, 1962
UN CUORE PURO
Non ho padre né madre
né Dio né patria
né culla né sepolcro
né amante né baci.
È da tre giorni che non mangio
né troppo né poco,
sono potere i miei vent’anni.
Se nessuno li vuole
se li compri il diavolo,
con cuore puro scardino
servisse, uccido anche l’uomo.
Mi catturino e m’impicchino
con terra benedetta mi coprano
erba mortale cresca
sul mio bellissimo cuore.
Traduzione italiana di Edith Bruck, da “Attila József, Poesie, 1922 – 1937” (Oscar Mondadori, 2002). Trovata su Poetria – Movimento clandestino di resistenza– inviata da Bernart Bartleby
Vola
Un triste uccello si congela sul parabrezza del vicino.
Il corpo riempito di neve
il becco capace di raccogliere grandine
e artigli come falce
frantumano il vetro di sicurezza
in rifiuti non riciclabili.
Il vicino impreca
afferra la carcassa dalle ali di ghiaccio
la spacca in due
raccoglie i pezzi
e li lancia nell’aria invernale.
Vola! – urla
Vola! – inveisce con sangue freddo
alla scena dello schema
senza vedere
le due metà d’uccello animarsi
salire per cadere
con un’ala sola
incunearsi
nei suoi occhi arrossati.
Una meravigliosa fiammata
Bisognerebbe alzare un fuoco grandissimo,
perché la gente si riscaldi.
Buttarvi ogni cosa,antica e vecchia,
rotta e scheggiata,ed anche nuova e intatta…..
Ne canterebbe sino al cielo una fiamma ardente
e prenderebbe per la mano tutte le genti.
Bisognerebbe alzare un fuoco grandissimo……
Strapare le porte di fredde cantine
e caricare la fiamma perché dia molto calore.
Ahi,bisognerebbe preparare quel fuoco
perché si sciolgano tutti dal freddo!
Persisti
Calmati e attraversa senza badare al traffico
questa strada isolata dove dietro l’angolo
agenti designati stanno nell’ombra e nella nebbia
giudicando incongrui i tuoi movimenti
nella loro noia interiore
tu ignori gli zelanti impiegati statali
imbrogliandoli volando sopra le vie
con ali che allungano le nuvole
congedando le loro preoccupazioni
attraversi
atterrando nel centro di questo
vicinato di proprietà privata
facendo visita a nessuno in particolare.
Ninna Nanna
Chiude gli occhi il cielo,
Chiude gli occhi la casa,
sotto trapunta dorme il prato,
dormi piccolo Biagio.
Si abbassa la testa sulle zampe,
dorme l’insetto e l’ape,
con loro dorme il ronzio
dormi piccolo Biagio.
Dorme pure il tram
e mentre sonnecchia il rombo,
suona il campanello nel sogno,
dormi piccolo Biagio.
Sulla sedia dorme il cappotto,
si riposa anche lo strappo,
non si lacera più per oggi,
dormi piccolo Biagio.
Dormono la palla e il fischietto,
la gita e il bosco,
dorme pure il buon zucchero,
dormi piccolo Biagio.
Sarai gigante, e lo spazio,
come una biglia, in mano avrai;
basta chiudere l’occhio,
dormi piccolo Biagio.
Sarai pompiere o soldato,
pastore di bestie selvagge,
vedi si addormenta la mamma,
dormi piccolo Biagio.
Quello che nascondi nel cuore
Quello che nascondi nel cuore,
aprilo agli occhi,
quello che ti pare di vedere,
aspettalo nel tuo cuore.
Di amore si muore,
chi è vivo – dicono
ma la felicità ci vuole,
ci manca come un pezzo di pane.
Chi è vivo, rimane sempre un bambino,
e vuole tornare nel grembo materno
o si ama o si uccide,
campo di battaglia o letto nuziale.
Sarai tu l’ottantenne, che
ucciso dalla nuova generazione,
mentre muori
generi milioni col tuo sangue.
Tu la spina nel piede
non ce l’hai più,
e dal tuo cuore
scappa anche la morte.
Quello che ti pare di vedere,
con la mano devi prendere,
quello che nascondi nel cuore,
uccidilo o bacialo forte.
Ti lascerò come la bufera nel bosco
Devi gemere e stormire. Bada: è un combattimento.
Non spezzarti, perché le mie lacrime amare
non sgorghino sul tuo tronco mutilato.
Il desiderio prosciuga, come la calura il ruscello.
L’amore scaturisce sempre più dal profondo.
Non vorrei calare, perché le tue amare lacrime
non formino nel tuo grembo sfrenato un mare.
Mia madre
Una domenica verso sera
ha preso con due mani la tazza,
sorrise e stava là, seduta
nel crepuscolo, tranquilla.
Dai signori portava a casa
in un pentolino la nostra cena;
siamo andati a letto, e pensai
che loro mangiano assai.
Era mia madre, piccola, morì presto,
perchè le lavandaie muoiono presto,
i loro piedi tremano dalla fatica,
e la stiratura fa male alla testa.
Per montagna e nuvole
c’è il bucato e il vapore,
e per cambiare aria
puoi salire in soffitta!
Si ferma mentre stira,
la sua esile figura
venne infranta dal Capitale,
pensateci proletari!
Si è incurvata dal lavare,
non sapevo che fosse giovane;
nei sogni portava grembiule pulito
e la salutò il postino.
Talpa antica porta peste
Talpa antica porta peste
il pensiero non pensato,
ficca il muso nel mangiare
e da un uomo a un altro corre.
Per sua colpa non sa l’ubriaco,
mentre in vino strozza il tedio,
di sorbire la minestra
vuota, ai poveri atterriti.
E perché dalle nazioni
giusta linfa non spreme lo spirito,
una nuova infamia accampa
gli uni contro gli altri i popoli.
Gracchia a stormi l’oppressione, cala
come su carogne, ai cuori;
e sul globo la miseria
cola come a ebete bava.
Fitte all’ago del bisogno
le ali delle estati pendono.
Come insetti su chi dorme,
sulle anime le macchine
brulicano. In profondo,
gratitudine, fiducia
si nascondono, le lacrime
bruciano, lottano voglia
di vendetta e coscienza.
Come lo sciacallo vomita
alle stelle le sue urla,
al nostro cielo, dove gli strazi ardono,
guaísce inutile il poeta…
Oh voi, stelle! Rugginose, rozze
lame, quante volte
siete scese dentro l’anima!
(Si sa, qui, solo morire).
Eppure ho fede. Piangendo ti prego,
bel futuro, non esser cosí arido!
Ho fede, non ci impalano piú, oggi,
come i nostri avi, una volta.
Verrà la calma della libertà,
la sofferenza si affína…
E finalmente saremo dimenticati anche noi
nell’ombra quieta delle pergole.
Un cuore puro
Non ho padre né madre
né Dio né patria
né culla né sepolcro
né amante né baci.
E’ da tre giorni che non mangio
né troppo né poco,
sono potere i miei vent’anni.
Se nessuno li vuole
se li compri il diavolo,
con cuore puro scardino
servisse, uccido anche l’uomo.
Mi catturino e m’impicchino
con terra benedetta mi coprano
erba mortale cresca
sul mio bellissimo cuore.
Forse sparirò all’improvviso…
Forse sparirò d’improvviso,
come le impronte nel bosco.
Ho sperperato tutto ciò
di cui dovrei rendere conto.
Già il mio corpo da bimbo
fu arso dal fumo corrosivo.
Tristezza mi sbrana la mente
se penso al mio destino.
Il desiderio vagante in terre lontane
mi ha azzannato ben presto.
Ora mi invadono rimpianti vibranti:
dovevo attendere ancora dieci anni.
Per sfida non ascoltavo
il consiglio materno.
Poi rimasi solo, orfano,
e derisi il mio maestro.
La giungla verde della mia giovinezza
credevo libera ed eterna,
ed ora con lacrime negli occhi ascolto
tra i rami secchi il rumore del vento.
Come nel campo
Come nel campo il bambino
raggiunto dal temporale,
e non c’è casa o madre
dove potesse andare,
il cielo pesante e furioso romba,
sul campo svolazza la paglia,
e lui come animale mugola,
piangerebbe, ma ha paura,
sospirerebbe, ma d’improvviso
arriva un soffio gelido dal cielo,
e solo quando un brivido leggero
corre sul suo magro corpo e viso,
come un lampo improvviso
e la pioggia nera diluvia tutto
come se fosse suo pianto gigantesco,
che si accumula nei campi,
inonda l’erba, colma le fosse,
ne scava altre, ondeggia nel prato,
nel ruscello, anzi nel cielo,
e il bambino si avvia nel campo;
così mi sorprese il desiderio
selvaggio e improvviso
e cominciai a piangere,
sebbene fossi già uomo.
E su questa terra
bagnata di pianto
dove è difficile
alzare i piedi,
quando c’è fretta,
mi fermo ora.
Il suo desiderio
ignorerei se mi amasse.
MAMMA
Da una settimana penso solo alla mamma,
sempre di nuovo mi fermo a ricordarla.
Lei che saliva in soffitta,
con un cesto pesante in mano, lesta.
Io ero ancora un uomo sincero,
urlavo e scalpitavo
che lasciasse il bucato ad un altro,
che portasse me lassù, in alto.
Ma lei andava e stendeva
Non mi sgridava, non mi guardava,
E i panni lucidi, fruscianti
Spiccavano il volo in alto.
Non piangerei più adesso, ma è tardi,
Vedo solo ora quanto è grande,
I suoi capelli grigi si muovono nell’alto,
scioglie il turchinetto nell’acqua del cielo.
Biografia di Attila JózsefPoeta ungherese, nato a Budapest l’11 aprile1905, morto a Szárszó nel 1937. Il padre, operaio, emigrò in America nel 1907 e la Lega per l’infanzia lo affidò a genitori adottivi finché (1912) la madre lo riprese con sé. Dopo aver fatto i più diversi mestieri, divenne contabile in una banca. Si iscrisse alla facoltà di filosofia dell’univ. di Szeged, indi a Vienna, poi, sovvenzionato da alcuni amici, alla Sorbona (1926). Rientrò a Budapest senza aver terminato gli studî. Per un certo tempo diresse la rivista letteraria Szép Szó, quindi si impiegò presso l’Istituto del Commercio Estero ma dovette lasciare il posto per una grave forma di neurastenia che lo condusse al suicidio. A Vienna aveva aderito al partito comunista clandestino, ma ne era stato espulso come deviazionista (1932).
Nel contenuto della poesia józsefiana prevalgono motivi sociali; tutta la sua poesia è permeata di tragicità, sia che inciti i proletari alla lotta di classe o che si ripieghi in se stesso e gravi su di lui l’ombra dello sconforto. Impressionanti sono la sua continua tensione emotiva, il vigore e l’immediatezza del suo realismo cui si affiancano, in una compenetrazione tipicamente ungherese, metafore e similitudini di grande efficacia.
Tra le molte edizioni delle sue poesie: J.A. összes versei (“Tutte le poesie di A. J. “, Budapest 1955), Külvárosi Éj, válogatott versek (“Notte di sobborgo”, poesie scelte, ivi 1958).
Biografia di Mario Rivosecchi e Poesie in copia anastatica del suo libro edito a Roma nel 1954 da Bardi Editore.Mario Rivosecchi. nasce a Grottammare nel 1894 e qui trascorre i primi 10 anni di vita. Mario Rivosecchi è Conosciuto soprattutto per le sue raccolte di poesie, in cui spesso evoca i paesaggi e i luoghi della sua terra natìa, Il Rivosecchi visse poco a Grottammare, dove sicuramente non avrebbe potuto compiere gli studi formativi che ai suoi tempi si realizzavano soprattutto negli Atenei delle grandi città. Ebbe la fortuna di vivere a Roma , Firenze e Bologna, respirando l’aria dei ferventi moti artistici e letterari dell’epoca. In queste città d’arte, la cui atmosfera è ricca di storia e cultura, si appassiona e si avvicina allo studio dell’arte. Le sue origini sono modeste: il padre, ferroviere, nel 1904 si trasferisce a Bologna e successivamente a Roma e Firenze, dove Mario finisce il Liceo e inizia a frequentare il caffè “Giubbe Rosse”, ritrovo di molti poeti, scrittori e pittori del movimento “Futurista”. Nel 1915 entra nell’esercito e parte per il fronte. Reduce di guerra, nel 1918 si sposa e si laurea in giurisprudenza per poi iscriversi alla facoltà di Filosofia e, una volta laureato, ottiene l’incarico in materie letterarie presso “L’Istituto Tecnico” di Tolentino dove si trasferisce con la famiglia. Uomo dai mille interessi culturali studioso di letteratura e Storia dell’Arte, dimostra una volontà e una passione incrollabile nell’arricchire con nuove esperienze culturali e artistiche la propria cultura. Nel 1925, pubblica la sua prima raccolta di liriche: “MENTASTRO”. Conseguita l’abilitazione all’insegnamento di Storia dell’Arte, si trasferisce a Roma insegnando al Liceo “Visconti” e al Liceo Artistico di via Ripetta; malgrado vivesse da anni a Roma non dimenticò tuttavia il suo paesino d’origine dove, d’estate, ritornava spesso per ritrovare gli amici dell’infanzia, in particolare Vittorio Fazzini, ebanista e scultore, padre di Pericle. Fu proprio Mario a convincere Vittorio ad assecondare il talento artistico del figlio convincendolo a farlo studiare a Roma, aiutandolo ad entrare all’Accademia di Belle Arti e successivamente a vincere una borsa di studio che gli permise di mantenersi a Roma per continuare gli studi. Allievi di Mario Rivosecchi al Liceo “Visconti” furono molti giovani antifascisti: Antonello Trombadori, Bufalini, Giorgio Amendola. Nel 1938, Rivosecchi assume la direzione del Liceo Artistico e dell’Accademia di Belle Arti di Roma, mentre il primogenito, Ivo, viene arrestato per attività antifascista. Al termine della guerra trascorre un periodo difficile, sia per motivi di salute, sia per le ingiuste accuse mosse da alcuni colleghi che lo additarono come “colui che aveva tratto profitto dal fascismo”, solo perché nel 1932 fu costretto a prendere la tessera del partito a pena di esclusione dall’insegnamento. Nel 1954 esce la 1ª edizione di “Pietra e Colore”, una raccolta di liriche arricchita di disegni di Fazzini e Guttuso; quasi tutte le poesie scritte da Rivosecchi nascono durante i soggiorni estivi a Grottammare, dove il luogo preferito per ispirarsi è la “Vedetta Picena”. Nel 1974, vince il premio “SYBARIS” per la poesia. Tra le raccolte di poesie ricordiamo: “Mentastro”, “Fiore di Vento”, “Alberi amici”, “Pietra e colore”, “Ascesi”. Nelle poesie di Rivosecchi vi è un’identità di musica, pittura e poesia con connotati descrittivi ed evocazioni atmosferiche tali da rendere ogni poesia un piccolo “quadretto” contemplativo. Fonte –Sito web del Comune di GROTTAMMARE (Ascoli Piceno)
Biografia di Mario Rivosecchi,conosciuto soprattutto per le sue raccolte di poesie, in cui spesso evoca i paesaggi e i luoghi della sua terra natìa, nasce a Grottammare nel 1894 e qui trascorre i primi 10 anni di vita. Il Rivosecchi visse poco a Grottammare, dove sicuramente non avrebbe potuto compiere gli studi formativi che ai suoi tempi si realizzavano soprattutto negli Atenei delle grandi città. Ebbe la fortuna di vivere a Roma , Firenze e Bologna, respirando l’aria dei ferventi moti artistici e letterari dell’epoca. In queste città d’arte, la cui atmosfera è ricca di storia e cultura, si appassiona e si avvicina allo studio dell’arte. Le sue origini sono modeste: il padre, ferroviere, nel 1904 si trasferisce a Bologna e successivamente a Roma e Firenze, dove Mario finisce il Liceo e inizia a frequentare il caffè “Giubbe Rosse”, ritrovo di molti poeti, scrittori e pittori del movimento “Futurista”. Nel 1915 entra nell’esercito e parte per il fronte. Reduce di guerra, nel 1918 si sposa e si laurea in giurisprudenza per poi iscriversi alla facoltà di Filosofia e, una volta laureato, ottiene l’incarico in materie letterarie presso “L’Istituto Tecnico” di Tolentino dove si trasferisce con la famiglia. Uomo dai mille interessi culturali studioso di letteratura e Storia dell’Arte, dimostra una volontà e una passione incrollabile nell’arricchire con nuove esperienze culturali e artistiche la propria cultura. Nel 1925, pubblica la sua prima raccolta di liriche: “MENTASTRO”. Conseguita l’abilitazione all’insegnamento di Storia dell’Arte, si trasferisce a Roma insegnando al Liceo “Visconti” e al Liceo Artistico di via Ripetta; malgrado vivesse da anni a Roma non dimenticò tuttavia il suo paesino d’origine dove, d’estate, ritornava spesso per ritrovare gli amici dell’infanzia, in particolare Vittorio Fazzini, ebanista e scultore, padre di Pericle. Fu proprio Mario a convincere Vittorio ad assecondare il talento artistico del figlio convincendolo a farlo studiare a Roma, aiutandolo ad entrare all’Accademia di Belle Arti e successivamente a vincere una borsa di studio che gli permise di mantenersi a Roma per continuare gli studi. Allievi di Mario Rivosecchi al Liceo “Visconti” furono molti giovani antifascisti: Antonello Trombadori, Bufalini, Giorgio Amendola. Nel 1938, Rivosecchi assume la direzione del Liceo Artistico e dell’Accademia di Belle Arti di Roma, mentre il primogenito, Ivo, viene arrestato per attività antifascista. Al termine della guerra trascorre un periodo difficile, sia per motivi di salute, sia per le ingiuste accuse mosse da alcuni colleghi che lo additarono come “colui che aveva tratto profitto dal fascismo”, solo perché nel 1932 fu costretto a prendere la tessera del partito a pena di esclusione dall’insegnamento. Nel 1954 esce la 1ª edizione di “Pietra e Colore”, una raccolta di liriche arricchita di disegni di Fazzini e Guttuso; quasi tutte le poesie scritte da Rivosecchi nascono durante i soggiorni estivi a Grottammare, dove il luogo preferito per ispirarsi è la “Vedetta Picena”. Nel 1974, vince il premio “SYBARIS” per la poesia. Tra le raccolte di poesie ricordiamo: “Mentastro”, “Fiore di Vento”, “Alberi amici”, “Pietra e colore”, “Ascesi”. Nelle poesie di Rivosecchi vi è un’identità di musica, pittura e poesia con connotati descrittivi ed evocazioni atmosferiche tali da rendere ogni poesia un piccolo “quadretto” contemplativo. Fonte –Sito web del Comune di GROTTAMMARE (Ascoli Piceno)
Francesca Saladino – POESIE inedite pubblicate dalla Rivista Atelier
Breve biografia di Francesca Saladinonasce e vive a Caserta dal 1994, laureanda in psicologia clinica presso l’Università degli studi della Campania Luigi Vanvitelli della stessa città, porta avanti un progetto di poesia estemporanea componendo “ritratti poetici” ispirati da un breve colloquio col committente. È stata co-fondatrice del collettivo campano CASPAR per la diffusione e la valorizzazione della poesia orale e performativa sul territorio. In collaborazione con Officina Teatro ha ideato ed organizzato “Pop Poetry”, rassegna teatrale di spettacoli in versi e spoken poetry. Attualmente sta lavorando alla sua prima raccolta poetica, che comprenderà i componimenti nati negli ultimi due anni.
Ho due diavoli sulle spalle
che mi spezzano il collo a colpi
sul bordo del tavolo a cui siedo con lei.
Mi girano le orecchie e i piedi,
mi spostano i nei ridendo
e di noi vedo soltanto
futuri senza sonoro
in cui non puoi riconoscermi. Loro
hanno il profumo del primo vitello
che ho mangiato piangendo,
profumo di alloro. Si leccano i calli,
masticano poco vecchio tabacco
e fanghiglia mista a feci.
Me lo sputano in bocca
imitando i piccioni coi loro piccoli.
Io lo ingoio tutto, avida e putrida,
nuda in un angolo come i polli,
come una vacca il giorno del macello,
a contarmi i capelli, a tirarmi i denti.
*
2.
La quinta figlia femmina
legata nella stalla
di fianco alle mucche
ha dovuto imparare
a infilare il dito nell’ano
della gallina – per sentirne l’uovo.
Sfilare nuda
con gli scarafaggi in testa.
Scuoiare conigli
e farsi piacere le cavallette.
Ecco,
la nostra condizione per essere amati.
L’ora del bagno,
qualcosa di cui non si deve parlare.
Come il desiderio d’essere morta
per non attirare più l’attenzione.
Chi ha il cuore tenero
non sa proteggersi.
Qualcuno forse
sì, servendo allo scopo maggiore.
Non si vive di assoluti
quando si ha bisogno
disperato d’amore.
*
3.
Carezza la pelle dell’albero
senza arrossire, pronuncia
scoprendone il corpo
le cicatrici:
“corteccia”, “radici”.
Tieniti stretto
al frutto, al tempo
come i serpenti.
Scandita tra i denti
la resina tronca
di netto l’abbraccio,
pendono, legati a un laccio
i rami, i morti, i canti.
*
4.
Ho nascosto la fonte
sotto l’occhio celeste
del primo assente,
una torre di corpi
putrefatti, mentre
attorno a me scorre
sperma pesante e corre
aborrito nella pozza
del dover fare, dover essere,
sboccia dal suolo di sborra
la meraviglia:
piccola dea figlia, bocca infernale
aperta come aiuole da calpestare
e nel profumo autunnale
d’orrore che piove
anche i diavoli sono in fiore
La rivista «Atelier» ha periodicità trimestrale (marzo, giugno, settembre, dicembre) e si occupa di letteratura contemporanea. Ha due redazioni: una che lavora per la rivista cartacea trimestrale e una che cura il sito Online e i suoi contenuti. Il nome (in origine “laboratorio dove si lavora il legno”) allude a un luogo di confronto e impegno operativo, aperto alla realtà. Si è distinta in questi anni, conquistandosi un posto preminente fra i periodici militanti, per il rigore critico e l’accurato scandaglio delle voci contemporanee. In particolare, si è resa levatrice di una generazione di poeti (si veda, per esempio, la pubblicazione dell’antologia L’Opera comune, la prima antologia dedicata ai poeti nati negli anni Settanta, cui hanno fatto seguito molte pubblicazioni analoghe). Si ricordano anche diversi numeri monografici: un Omaggio alla poesia contemporanea con i poeti italiani delle ultime generazioni (n. 10), gli atti di un convegno che ha radunato “la generazione dei nati negli anni Settanta” (La responsabilità della poesia, n. 24), un omaggio alla poesia europea con testi di poeti giovani e interventi di autori già affermati (Giovane poesia europea, n. 30), un’antologia di racconti di scrittori italiani emergenti (Racconti italiani, n. 38), un numero dedicato al tema “Poesia e conoscenza” (Che ne sanno i poeti?, n. 50).
http://www.atelierpoesia.it
La rivista «Atelier» ha periodicità trimestrale e si occupa di letteratura contemporanea.
direzioneatelierpoesiaonline@gmail.com
Per tutte le comunicazioni e proposte per Atelier Online, sia di pubblicazione di inediti che di recensioni vi preghiamo di scrivere al seguente indirizzo mail di direzione: eleonorarimolo@gmail.com
Annamaria Ferramoscaè pugliese e vive a Roma, dove ha lavorato come biologa docente e ricercatrice, ricoprendo al contempo l’incarico di cultrice di Letteratura Italiana per alcuni anni presso l’Università RomaTre. Ha all’attivo collaborazioni e contributi creativi e critici con varie riviste nazionali e internazionali e in rete con noti siti italiani di poesia. È stata ideatrice e per molti anni curatrice della rubrica Poesia Condivisa nel portale poesia2punto0. È ambasciatrice di Sound Poetry Library (mappa mondiale delle voci poetiche) per Italia e Puglia. Ha pubblicato in poesia: Andare per salti, Arcipelago Itaca (Premio Arcipelago Itaca, nella rosa del Premio Elio Pagliarani, Premio Una vita in poesia al “Lorenzo Montano”, finalista al Premio Guido Gozzano e al Premio Europa in Versi); Other Signs, Other Circles – Selected Poems 1990-2008, volume antologico di percorso edito da Chelsea Editions di New York per la collana Poeti Italiani Contemporanei Tradotti, a cura di Anamaría Crowe Serrano e Riccardo Duranti (Premio Città di Cattolica); Curve di livello, Marsilio (Premio Astrolabio, finalista ai Premi: Camaiore, LericiPea, Giovanni Pascoli, Lorenzo Montano); Trittici – Il segno e la parola, DotcomPress; Ciclica, La Vita Felice; Paso Doble, coautrice la poetessa irlandese Anamaria Crowe Serrano, Empiria; La Poesia Anima Mundi, monografia a cura di Gianmario Lucini, con la silloge Canti della prossimità, puntoacapo; Porte/Doors, Edizioni del Leone 91(Premio Internazionale Forum-Den Haag); Il versante vero, Fermenti (Premio Opera Prima Aldo Contini Bonacossi). Ha curato la versione poetica italiana del libro antologico del poeta rumeno Gheorghe Vidican 3D- Poesie 2003-2013, CFR (Premio Accademia di Romania per la traduzione). Sue poesie appaiono in numerose antologie e volumi collettanei e sono state tradotte, oltre che in inglese, in rumeno, greco, francese, tedesco, spagnolo, albanese, arabo. Un’ampia rassegna bibliografica con recensioni critiche, testi e materiale video-audio è nel sito personale www.annamariaferramosca.it Per contattare l’autrice: ferrannam@gmail.com
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