“In fil di trama”- è la nuova raccolta di poesie di Stefania Rabuffetti
Stefania Rabuffetti, in libreria per Castelvecchi Editore con una prefazione di Massimo Arcangeli-100 parole – una per poesia – concatenate una con l’altra a intessere una trama, come fa un ragno con la sua ragnatela. Non a caso, sono proprio questi i due vocaboli che aprono e chiudono l’antologia. I versi qui raccolti, esito di un’intensa indagine su di sé resa possibile da una lunga pratica poetica, abbracciano molteplici contrasti: vita/morte, nulla/tutto, prigione/libertà, pace/guerra, notte/giorno, sorriso/pianto, per citarne alcuni. Queste dicotomie sono fondanti della vita stessa e necessarie per una visione universale, che abbraccia il mondo, l’infinito e il tempo nella sua interezza, «ciò che non ha dimensione», e – spingendosi ancora più in alto – lo Spirito.
La raccolta è frutto di un richiamo irresistibile della poesia. Come spiega l’italianista Massimo Arcangeli nella prefazione: «Se la poesia ti detta dentro non puoi farci niente. La cerchi, e non sempre la trovi (e, se anche la trovi, non sempre ti ascolta), ma quando è lei a trovarti, stanandoti da infingimenti e paure, non puoi resisterle, sei costretto a riportarne le parole. Stefania Rabuffetti vive l’esperienza poetica in questa misura». L’atto di scrivere diventa quindi atto necessario, l’autrice ha bisogno in modo insaziabile della poesia per dar voce a se stessa e ritrovarsi. Nei suoi versi si incontra una fame sazia di parole, e ancora un’infinita voglia di lasciare traccia della vena creativa.
La ruota gira la mente si muove il pensiero respira germogliano parole la penna scivola sul foglio l’inchiostro scrive la poesia rivive.
La scrittura è, dunque, per la poetessa lo specchio dell’anima: riflette la sua irrequietudine e le sue debolezze, ma è anche testimone di una costante ricerca di senso e della volontà di seguire il filo che si intreccia con al vortice/labirinto della vita, in «un abbraccio mortale che – come scrive Arcangeli – in realtà, è una promessa di rinascita.»
Stefania Rabuffetti è nata a Roma, dove vive. Per dieci anni ha lavorato nella redazione di programmi televisivi della Rai. Le sue poesie hanno dato vita a diverse raccolte, pubblicate da Manni: Il perimetro dell’anima (2009, Premio Minturnae 2010), Libertà vigilata (2011), Vietati gli specchi (2016), Cartoline dall’universo (2017, finalista al 44° Premio internazionale Città di Marineo), Parole affamate di parole (2019).
In fil di trama è la nuova raccolta di poesie di Stefania Rabuffetti, in libreria per Castelvecchi Editore con una prefazione di Massimo Arcangeli (pp. 112 – euro 14,50).
Breve biografia di Yvette K. Centenoè nata a Lisbona nel 1940 in una famiglia di origine tedesco-polacca. È sposata, ha quattro figli e la musica e la letteratura abitano, da sempre, la sua casa. Si è laureata in Filologia Germanica con una tesi su L’uomo senza qualità di Musil e si è addottorata con una tesi sull’Alchimia nel Faust di Goethe. Dal 1983 è Professoressa Ordinaria all’Universidade Nova de Lisboa, dove ha fondato il Gabinete de Estudos de Simbologia, attualmente parte del Centro de Estudos do Imaginário Literário. Sin da giovane, si è interessata al teatro, ha scritto commedie e racconti e ha fondato il CITAC a Coimbra. Ha pubblicato letteratura per bambini, saggi di ricerca, poesia, teatro e narrativa, con romanzi come Três histórias de amor (1994), Os jardins de Eva (1998) e Amores secretos (2006), con parte della sua opera tradotta in Francia, Spagna e Germania. Tra gli autori che ha tradotto ci sono Shakespeare, Goethe, Stendhal, Brecht, Rilke, Celan e Fassbinder.
UM DIA, DIZ A MULHER
Um dia
também eu sairei porta fora
caminharei nas ruas
ausente de sentido
atravessando esplanadas
e jardins
bairros que não conheço
irei em frente
sem parar nas lojas elegantes
da Avenida
que pouca Liberdade tem
irei assim
perdida e sem destino
descendo
à beira-rio
quando me virem na água
darão então por mim
(in Dizer, 2021, p. 13)
*
UN GIORNO, DICE LA DONNA
Un giorno
anch’io uscirò fuori casa
camminerò per le strade
errante
attraversando piazzali
e giardini
quartieri che non conosco
andrò avanti
senza fermarmi in quei negozi di lusso
dell’Avenida
che poca Liberdade ha
andrò così
persa e senza meta
scendendo
verso la sponda del fiume
quando mi vedranno nell’acqua
si accorgeranno di me
*
AO MODO DE ALBERTO CAEIRO, O MESTRE E ALTER EGO…
Vivemos entre dois mundos.
Um a que chamamos real, objectivo, quotidiano, normal.
Mas que não é nada disso, é tão ilusório, esse mundo real,
como qualquer outro que possamos fantasiar. São palavras, essas que repetimos e que não chegam a convencer: o que é
ser real, o que é ser objectivo, o que é ser normal? Onde
está ela, essa normalidade, que não encontro em ninguém?
Nem em mim nem nos outros, nem sequer no espaço sideral?
Para cada outro há uma palavra que se diz objectiva, real,
com o ar mais natural…
A cada um seu real, e assim cai por terra a ilusão que eu
tinha de um dos mundos…
Quanto ao outro, em que também julgo viver: é mais
íntimo, mais secreto, mais fraterno, será esse afinal o nosso
mundo real? O das escapatórias, das fantasias, dos rebanhos
que são montes de pensamentos por alinhar ao assobio de
um cão? E o cão? É ele elemento real? Ladra, como se deve
ladrar? Abana a cauda a sorrir? Ou vive apenas na ideia do
poeta, uma cabeça que nem ela é inteira…
Disse: vivemos entre dois mundos. Mas serão dois? Serão
mundos? Serão poucos, serão muitos? E como me permito,
eu que tanto hesito e duvido, usar este plural?
(in Dizer, 2021, p. 61)
*
ALLA MANIERA DI ALBERTO CAEIRO , IL MAESTRO E L’ALTER EGO.
Viviamo tra due mondi.
Uno che chiamiamo reale, oggettivo, quotidiano, normale.
Ma che non è nulla di tutto ciò, è così illusorio, questo mondo reale
come qualsiasi altro su cui possiamo fantasticare. Sono parole,
queste che ripetiamo e che non riescono a convincerci: cos’è
essere reale, cos’è essere oggettivo, cos’è essere normale? Dove
si trova lei, questa normalità che non riesco a trovare in nessuno?
Né in me né in altri, nemmeno nello spazio sidereo?
Per ogni altro c’è una parola che si definisce oggettiva, reale,
con l’aria più naturale…
A ognuno il suo reale, e così cade a terra l’illusione che io
avevo di uno dei mondi…
Quanto all’altro, in cui altrettanto credo di vivere: è più
intimo, più segreto, più fraterno, sarà questo alla fine il nostro
mondo reale? Quello delle scappatoie, delle fantasie, delle greggi
che sono mucchi di pensieri da allineare con il richiamo di
di un cane? E il cane? È un elemento reale? Abbaia, come si deve
abbaiare? Scodinzola sorridendo? O vive solo nell’idea del
poeta, una testa che non è nemmeno intera…
Ho detto: viviamo tra due mondi. Ma sono due? Saranno
mondi? Saranno pochi, saranno molti? E come mi sono permessa,
proprio io che esito e dubito tanto, a usare questo plurale?
*
O AMOR O ANJO E O CÃO (para a Ana Maria Pereirinha, 2020)
Havia amor por ali,
uma entrega tão subtil
que não podia ser dita
cortava a respiração
só podia ser vivida
em segredo
e só de dia
quando o Anjo os protegia…
Ainda assim havia a noite,
a floresta e o jardim,
um cão amigo a brincar
um céu com novas estrelas
acesas para o amor
que seria amor sem fim
(in Dizer, 2021, p. 64)
*
L’AMORE, L’ANGELO E IL CANE (per Ana Maria Pereirinha, 2020)
C’era amore lì
una dedizione così sottile
che non poteva essere detta
toglieva il fiato
poteva solo essere vissuta
in segreto
e solo durante il giorno
quando l’Angelo li proteggeva…
Eppure c’era la notte
la foresta e il giardino,
un cane amichevole che giocava
un cielo con nuove stelle
illuminate per l’ amore
che era amore senza fine
*
Traduttore Matteo Pupilloha conseguito la laurea magistrale in Lingua e Letteratura Portoghese presso l’Universidade Nova de Lisboa. A settembre del 2021, ha vinto una borsa di ricerca dottorale in Letterature Comparate e, attualmente, è dottorando presso il Centro de Estudos em Letras dell’Università di Évora, nonché Cultore della Materia in Lingua e Traduzione Portoghese e Brasiliana presso l’Università per Stranieri di Siena. Precedentemente, invece, è stato professore a contratto di Lingua Portoghese. Partecipa attivamente a congressi internazionali e i suoi interessi di ricerca vertono prevalentemente su scrittrici portoghesi e brasiliane e didattica del portoghese per stranieri. È membro dell’Associazione Internazionale dei Lusitanisti (AIL) e socio sostenitore dell’Associazione Italiana di Studi Portoghesi e Brasiliani (AISPEB).
*
Yvette K. Centeno – Inediti (trad. di Matteo Pupillo)
FOTO DI PROPRIETA’ DI Alexandre Almeida.
Biblioteca DEA SABINA
-La rivista «Atelier»-
http://www.atelierpoesia.it
La rivista «Atelier» ha periodicità trimestrale (marzo, giugno, settembre, dicembre) e si occupa di letteratura contemporanea. Ha due redazioni: una che lavora per la rivista cartacea trimestrale e una che cura il sito Online e i suoi contenuti. Il nome (in origine “laboratorio dove si lavora il legno”) allude a un luogo di confronto e impegno operativo, aperto alla realtà. Si è distinta in questi anni, conquistandosi un posto preminente fra i periodici militanti, per il rigore critico e l’accurato scandaglio delle voci contemporanee. In particolare, si è resa levatrice di una generazione di poeti (si veda, per esempio, la pubblicazione dell’antologia L’Opera comune, la prima antologia dedicata ai poeti nati negli anni Settanta, cui hanno fatto seguito molte pubblicazioni analoghe). Si ricordano anche diversi numeri monografici: un Omaggio alla poesia contemporanea con i poeti italiani delle ultime generazioni (n. 10), gli atti di un convegno che ha radunato “la generazione dei nati negli anni Settanta” (La responsabilità della poesia, n. 24), un omaggio alla poesia europea con testi di poeti giovani e interventi di autori già affermati (Giovane poesia europea, n. 30), un’antologia di racconti di scrittori italiani emergenti (Racconti italiani, n. 38), un numero dedicato al tema “Poesia e conoscenza” (Che ne sanno i poeti?, n. 50).
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Welso Giovanni Mucci (Giòanin per gli amici) nacque a Napoli il 29 maggio del 1911 da Ranieri, abruzzese e maestro di musica nel Regio Esercito, e Domenica Boglione di Bra. Rimase affezionato a questa cittadina tutta la vita, passandovi nell’età matura lunghi periodi.
OTTO DOZZINE DI VERSI PER IL COMPAGNO VENUTO A TENERE LA RIUNIONEI
Il compagno è senza un soldo Senza un soldo di lontano
E’ venuto con la pioggia
Con la pioggia e per le strade Di collina e poi del piano Con la moto e con la giubba Con la giubba sua di cuoio Che è solcata dalla pioggia Come a marzo una vallata
Il compagno è qui venuto
E ha tenuto
La riunione.
II Ha tenuto la riunione
Han parlato dei bollini
Dei bollini delle tessere
Dei problemi del Comune Hanno messo insieme i soldi Per la rata che si deve
Che si deve al fornitore
Che ha fornito il ciclostile
Poi qualcuno ha detto andiamo Chè alle cinque debbo alzarmi.
III Alle cinque hanno da alzarsi Per andare a lavorare
Al padrone non puoi dire Questa notte ho fatto tardi Nel Partito Comunista
Per discuter dei problemi Dei problemi del Comune Dei bollini delle tessere Delle rate da pagare
Se poi dice il ciclostile
Cose invise
Al padrone.
IV Ma quest’anno è un mostro il tempo Se pioveva un’ora fa
Marzo adesso è freddo e nevica
Il compagno che è venuto
Pioggia e fango ha già passati
Con la giubba e con la moto
Fango e pioggia può passare
Ma se nevica è un disastro
E’ un disastro da finire
Da finire dentro un fosso
Con al neve nei due occhi.
V Con al neve nei due occhi
Nei due occhi che hanno sonno Il compagno resta qui
Resta qui ma senza un soldo
A dormire dove va
La locanda che fa credito
Ma il portone già sprangato Sulla via che è bianca, è nero
Il portone, è nero il muro
Il compagno senza un soldo Non può andare
Nell’Hotel
VI Non può andare nell’Hotel Questo è chiaro a tutti quanti
Tutti quanti son persuasi
Che il compagno che è venuto Non può andare e non può stare E continuano a parlare
Dei problemi del Paese
Della guerra e della pace
Del Congresso del Partito
Del Partito dell’Unione
Della Cina
Della vita.
VII Della Cina della vita
Nelle strade che son bianche Lungo i muri che son neri Questi qui vanno parlando Come un tempo già i poeti
I poeti che ora stanno
Chiusi e freddi e muti e stanchi Senza un soldo dentro il cuore Con la resa dentro gli occhi Con la stizza sulla pelle
Di domani
Non si sa.
VIII
Di domani non si sa
Ma lo sanno questi qui Questi qui lo sanno, ché Ogni giorno un po’ lo fanno Il domani un po’ lo fanno Anche adesso che si parla Del lavoro e della vita Mentre portano il compagno A dormire sopra un tavolo Del Partito, con la testa Appoggiata al
Ciclostile.
LETTERA AI MEMBRI DEL CC E DELLA CCC DEL PCI
ascolto i vostri dibattiti come si ascolta il gorgo dei cassoni dell’acqua durante
le notti d’insonnia
reumatica.
(stando al piano delle lavanderie
com’io sto da quando ho memoria
si potrebbe anche tentare d’essere lucidi e assegnare più origini
a questi singulti del ferro
ma tutto
arriva qui col medesimo tuono) scusate dunque
la confusione che i vostri canali mettono nelle mie arterie infreddolite
non è un caso
che proprio il mio reuma più acuto sia accaduto insieme
con i vostri dibattiti
siamo stati aggrediti
da un medesimo vento
che le mie ossa ricevono gelido
e che molti di voi definiscono caldo vedete
che per poco che i miei versi
si prolunghino nella notte
come larve di antichi dolori
c’è rischio che anch’io entri tra voi a dibattere
sulla qualità
da dare
a quel vento
ora
ciò che manca nei vostri dibattiti (perché tutti noi si sappia che fare) è proprio
quel che una gran base
del Partito
vi addita
(se voi foste più logici)
un pizzico di
silenzio dicembre 1961
TEMPO E MAREE –da Continuum 1962-1963
Will it bloom this year?T.S.Eliot
noi viviamo in un tempo
che la Morte è sospesa
vola un piccione grigio alla lavagna
del cielo di Charing Cross
i più vecchi tra noi
hanno strani ricordi
a quest’ora
nella piana di Pimlico
la Luna alza le strade
e sul Ponte di Londra
le acque umane si gonfiano
da un limo all’altro del fiume
se la memoria indugia
è sommersa
questo è l’ultimo tonfo della chiatta
alla chiatta che attracca
c’è il sottoterra e le domeniche
per covare i ricordi
noi viviamo in un tempo
che la Morte è sospesa
e i più vecchi tra noi
non hanno il cuore facile
se qualcuno verrà dopo di noi
in questi cunicoli
dove i treni biforcano
e i nostri giorni in piena ebbero pausa
sotto il crinale
ventoso della brughiera di Hampstead
non badi alle nostre ossa
ma alla vita che avemmo
per toglier di mezzo la Morte
questo è un tempo che torce ogni nostra ora
è lontano lo sparo
del suicida alla prua della sirena
il futuro è a portata di mano
ma nessuno verrà dopo di noi
a ruspare nel limo
delle basse maree vetri di guinness
o qualche magro rame
d’Elisabetta la Seconda
se al pelo morto delle acque
approda solitario un coccio bianco
dell’umano deterrent
corriamo un Sole basso all’orizzonte
sopra spalti di neve e sulla Terra obliqua
un cielo freddo si schiaccia
fino al ventre delle nostre memorie
………………
Londra, gennaio-febbraio 1963
ZONA
Ad Anna.
Nell’officina che ha le finestre sulla campagna
e lontano si vede il muretto
del cimitero ov’è la tua tomba,
quest’oggi tuo padre ed io litigavamo;
tra i ferri e le incudini
noi si gridava e scherzava
con queste giornaliere passioni,
come quando tu eri tra noi
ancora nel giuoco della vita.
Larve inconsapevoli
e accalorate
noi parlavamo di guerre
e di padroni del mondo;
e non capivamo che il tumulto
di questa età
è il rimbombo delle nostre voci
nel cavo del vostro silenzio.
Bra, settembre 1935.
A DORA
Qualche volta un ricordo mi rosica il cuore in silenzio
Puškin
Tu mi domandi perché amor non sciolga
mai la tristezza nel mio solitario
e pigro sangue. Non sai quale ossario
di alterchi è la memoria in me. Si volga
pure ogni anno: non c’è ch’io non mi dolga
di affrettati abbandoni. Era un orario
di scontri e buie morti e di afe il vario
apparir dell’età. Vuoi tu ch’io tolga
melanconica carne ormai dal cuore
che gli anni irosi han chiuso in questa dura
maschera? È segno che scordi il dolore
che mi costò anche il tuo dono; e ho paura,
se tu scordi, che il poco e lento amore
si perda ancor nella mia vita oscura.
Roma, 14 ottobre 1946
ISPEZIONE
Ho fatto per tanti anni la vita di trincea
in camere sudice con qualche libro
e un letto disfatto da mesi,
che neanch’io so più da che parte sia il nemico.
So che se tento un’uscita,
non vedo che facce pronte e ostili
a un mio passo sbagliato.
Né mi è valso mutar stanza e città,
ché mi trovo assediato nella polvere
con un sorso di grappa.
Tuttavia ho sempre guardato con piacere
nel vetro delle finestre
questa dura cosa
che è ancora la vita d’un uomo.
E un giorno
morirò nella strada.
Roma, dicembre 1948
A DORA, DURANTE UNA SUA LONTANANZA
Quando io muoio
vorrei che tu mi chiudessi gli occhi
e mi lasciassi sulle labbra
la pressione di un bacio.
Ci siamo incontrati a vivere
in questi
dei molti anni, da che esiste l’uomo
sopra la Terra;
e abbiamo avuto gli stessi giri di Sole
e le stesse piogge e gl’inverni
e gli umori primaverili.
Con qualche leggera fatica
abbiamo anche avuto gli stessi moti,
poiché insieme imparammo a conoscere
quali sono
questi dei molti
anni da che esiste l’uomo.
Andrò nella terra senza rimpianto.
E se i posteri dei posteri
scaveranno le nostre tombe,
vorrei che trovassero
accanto alla nostra polvere
la palla di gomma con cui giocavamo
un’estate
nelle ore di bassa marea.
Questa mia volontà
anche se immagino che non sarà rispettata,
fa capo al mio più gaio ricordo:
di te che corri lontana sulla riva
e che torni ridendo con gli occhi,
in uno degli anni
che ci siamo trovati a vivere
e a muoverci insieme.
Bra, 15 settembre 1955
DISINTOSSICAZIONE
Uno di questi giorni mi vedrai sparire,
inghiottito dai ricordi.
Quando i veleni quotidiani
cominciano a venir meno,
la memoria diventa un oceano.
Per qualche istante sarò anche buffo da vedere,
mentre mi dimeno
sulla cresta d’un ricordo più alto degli atri;
poi il risucchio sarà così forte,
che colerò per sempre a picco
nelle profondità della memoria.
Novara, aprile 1959
POESIE DI MAO
……………………..
Questa poesia, che tanti voli d’anatre
ha visti ai confini dello sguardo nel sud,
e dal massiccio K’un Lun
da cui il cielo dista non più di tre pollici
ha guardato
tutti i colori e i tempi della Cina,
deve farsi ora più esile e obliqua,
come dopo la pioggia torna obliquo il sole,
per attraversare i gioghi dell’Appennino
e la grigioverde Provenza
e le coste del Levante di Spagna,
fino a posarsi sui tetti infuocati d’Alicante
dove vive il mio amico.
Io da Roma,
quale un agente dei re della droga,
travaso in cartine di sillabe
questa polverina azzurra e dorata.
La poesia di Mao, come la Rossa Armata,
non ha temuto la difficile lunga marcia,
ha passato diecimila fiumi e mille montagne
e ha disteso il volto al sorriso.
Ora però deve ricordare
che la visuale cresce secondo la misura dell’occhio,
e mettersi ancora in cammino
senza perdere un segno
per le forre e le crepe di quelle arse pianure.
MUSEO DELLE FACCE CHE DANNO SPAVENTO AGLI UOMINI
a Bertolt Brecht
…………………………..
In questo Museo
non cercate le facce
di ladri, assassini,
briganti o bari.
Ci sono al mondo, badate,
facce cattive,
facce mostruose,
facce che non promettono nulla di buono,
ma sono facce umane,
facce che si esprimono,
e di fronte alle quali
uno che per disgrazia si trovi a passare
sa subito
che deve difendersi
e magari perire in quel punto
per mano di uno
che porta scritto in viso
il nome della sua solitudine.
Ma di fronte a una faccia
di quelle che danno spavento agli uomini,
non è un solitario, né un misero,
che abbiamo davanti:
è un essere superiore,
che è sicuro di essere meglio
di te e di me,
e sa che ogni ragione
è dalla sua,
perchè sente di avere dietro di sé
una forza, la forza
dei suoi padroni, capace di far prediligere
le sue viltà più discordi,
da chiunque.
Anche se non ricorda,
nel punto che ci schiaccia,
di essere un servo, un braccio, un’unghia
di padroni,
che non vogliono mostrare la faccia
e hanno preso la sua.
E così,
se sorride,
dà spavento agli uomini.
————————-
Ma il giorno che avremo finito
di toglier di mezzo la forza
dei padroni di facce che danno spavento,
e avremo messo le altre
che ancora potrebbero crescere,
a far da custodi
nel Museo delle loro antenate,
con la mansione di tenere,
sia pure di pessimo umore,
spolverate le facce
che diedero spavento agli uomini,
quel giorno i ragazzi,
senza un’ombra,
giocheranno sui prati.
Bra, 29 settembre 1955
DELL’AMORE E DI QUALCHE ALTRA PASSIONE
Il giorno che le mie stanche ossa
e i nervi
cadranno in terra,
alle marcite gore del sangue
andranno i volti amati
e le ore
e i paesi più cari.
Anche se snervi
tutto questo la morte,
è questo il cuore
che sospinto m’avrà
sotto protervi cieli,
che tanto odiai.
Ti perderò per sempre,
amato volto del padre!
E tu
da quell’alba lontana,
che sopra un colle di ulivi
alla piana fresca del mare
il fiato ultimo hai colto,
in fondo agli occhi miei avrai fine.
Ascolto
le tue sbiadite tracce,
in questa frana
che fa il mio tempo;
e se incontro una tana
più calda al viver mio,
qui c’è più folto
un ricordo di te.
Sempre che ai vecchi portici io torni,
troverò ai miei passi
il tuo braccio affettuoso.
Anche al quartiere
dove ira ci spezzò,
son vivi i sassi.
E con noi scherzerà le estreme sere
il calabrone intorno agli arti secchi.
È raro che io t’incontri, o madre.
Vaghi
tu in età più remote;
e se a parlarti mi scopro,
è antico vizio.
Alle tue parti
spira un vento leggero e chiaro:
draghi luminosi di carta, le ansie;
e laghi docili d’acque, i giorni.
Ma se rasento il ciglio ove ti apparti;
giovane madre, e sconsolata indaghi
negli ultimi anni tuoi
cosa è che strugge
la fresca vita,
io ti vedo che ancora
pieghi il capo
a nascondere una lacrima.
Vuoi
che allegri io ricordi gli occhi,
e di acri tuoi pensieri non sappia!
Ma una ruggine
ogni costrutto tuo
presto divora.
——————–
E pur se il capo
ci confuse una tenebra,
or che stesi, e con i corpi stretti,
alle tue palpebre accosto
le mie labbra,
il sangue ha un caldo
che arde anche i più tristi arnesi
delle nostre paure;
e a me fa dolce
il tempo che verrà dopo queste ore,
e il ricordar gli amici che eran vivi
or son pochi anni,
e riguardar le cose
che lasceremo in breve.
Così andiamo alla notte
abbracciati,
o moglie mia;
e io sento ancora il tuo bel viso acceso,
che in me dileguerà l’ora ch’io muoio.
Roma, maggio 1960
QUEST’UOMO
conoscete quest’ uomo
a quale perielio
bruci la domanda
e quale fossa del tempo
sempre un attimo sfiori
conoscete quest’ uomo
quale che sia le tenebra
a cui d’un alito fugge
e da che cieli defunti
guardi ancora la fine
bianca
d’una qualsiasi notte
conoscete quest’uomo
come che sia la specie
ancora accesa e la piazza
dove il saluto o il ricordo sta inciso
nella polvere delle pietre
come un incontro all’angolo
o come una storia estinta
dietro fogli d’alluminio
che presto un vento sopra la città
farà volare pesanti
…………………………
in quale mai folgore di tempo
conoscete quest’uomo
perchè sia necessario entrare
in orbite più minute
o cercare tra rughe
d’uno spazio meno feroce
ognuno potrà a prima vista distinguere
mané i bicchieri toccati al vertice dell’allegria
né le ruote dei primi carri
sapranno da soli tirarci dal groviglio
dei giri
che ci confondono
…………………………..
conoscete quest’uomo
è una domanda che mozza
il fiato delle galassie
e qui scatta a ripetersi
come un segmento
di monotone dinastie terrestri
in cui l’insipienza dei gesti
è il solo universo
cocciuto di qualsiasi gendarme abbia ordine
e maschera
d’intersecare una traccia
……………………..
nell’insieme degli uomini
dalle caverne agli astri
sola grandezza
che le galassie lascino
a ciascuno di noi ch’è niente
tra le scorie
di qualche stagione
che si mescoleranno forse alle ore
sempre incerte da vivere
se non odia e non lotta
con l’insieme degli uomini
a dare fossa
ai secoli che ci dànno la caccia
su un grumo di terra sperduto
in fondo agli universi
per questa nostra folgore di tempo
Parigi-Basilea-Roma, gennaio-febbraio 1962-
Welso Giovanni Mucci (Giòanin per gli amici) nacque a Napoli il 29 maggio del 1911 da Ranieri, abruzzese e maestro di musica nel Regio Esercito, e Domenica Boglione di Bra. Rimase affezionato a questa cittadina tutta la vita, passandovi nell’età matura lunghi periodi.
Da ragazzo dovette seguire le peregrinazioni per tutta Italia del padre, fino a stabilirsi a Torino, dove si laureò in filosofia estetica. Durante il periodo dell’Università giocò nelle riserve della Juventus, bohémien nel cosiddetto fascismo di sinistra. Romano Bilenchi ricorda nel suo libro “Amici” l’epico pestaggio a cui fu sottoposto allora con Primo Zeglio da parte di alcuni esagitati del Guf.
Fu proprio a Torino che esordì sul “Selvaggio” di Maccari come critico musicale (si firmava ancora Welso),e conobbe gli artisti che rimasero i suoi amici per tutta la vita (Spazzapan, Menzio, Cremona, Rosso e tanti altri)
Nel 1934 si trasferì a Parigi, dove aprì con il cugino Sandrino Alberti una libreria antiquaria. Qui tennero anche mostre dei loro amici pittori fino allo scoppio della guerra che pose fine a tutto. A Parigi poterono frequentare le avanguardie artistiche e letterarie del tempo.
Pubblicò in quel periodo i suoi scritti e le poesie giovanili in brochures semiclandestine oggi introvabili.
Ma fu a Roma, nel dopoguerra, che iniziò il suo periodo creativo più felice.
Insieme a Leonardo Sinisgalli, Nicola Ciarletta e Aldo Gaetano Ferrara fondò la rivista bimestrale “Il Costume politico e letterario”, dove per cinque anni raccolse le firme migliori dell’Italia letteraria di allora.
Poi ideò con Dora, la sua moglie-donna-compagna, le tredici superbe cartelle del “Concilium Lithographicum”, dove alle litografie di De Chirico, Maccari, De Pisis, Fazzini e altri erano affiancati gli scritti di Ungaretti, Palazzeschi, Cardarelli, Sinisgalli.. Dora gliel’aveva presentata Maccari nel ’39 a Roma, e lo amò sempre, fino all’ultimo.
La moglie di Sinisgalli, Giorgia de Cousandier, rievocherà nel 1965 in un commosso ricordo di Mucci sulle pagine della rivista “La botte e il violino” anche la gestazione del “Concilium” e del “Costume”.
Sempre negli anni cinquanta venne la sua collaborazione con il ”Contemporaneo”, la rivista politico-letteraria di ispirazione marxista diretta da Antonello Trombadori. (Mucci aveva preso la tessera del PCI nel ’45). Diresse anche “La Voce“ di Cuneo, e pubblicò i suoi saggi nel volume “L’azione letteraria 1.”
Ma fu solo nel 1962 che una grande casa editrice, la Feltrinelli, pubblicò per la prima volta le sue poesie in “L’età della Terra”. Ne scrisse la prefazione Natalino Sapegno, e vinse il premio Chianciano ex-aequo con Andrea Zanzotto. Fu anche in Spagna a prendere contatti per il PCI con l’opposizione antifranchista, e da questo viaggio nacque uno storico numero del Contemporaneo. Sempre nel 1962 fu inviato dall’Unità al Giro d’Italia, e ne fu il cronista attento e polemico.
La sua ultima stagione iniziò a Londra, dove si era trasferito per imparare l’inglese alla perfezione. Ufficialmente era per poter leggere l’Ulisse di Joyce in lingua originale, che aveva già scoperto a Torino in francese tanti anni prima. Il suo vero sogno, però, era di andare come inviato dell’Unità a Pechino. Aveva cominciato a coltivarlo nel ’58 a Tashkent, quando aveva partecipato alla Conferenza degli scrittori afro-asiatici e conosciuto Nazim Hikmet, il grande poeta turco che aveva tradotto in italiano. In quell’occasione aveva conosciuto i compagni del Partito comunista cinese, con i quali aveva fraternizzato.
A Londra scrisse le 200 cartelle del suo romanzo, “L’uomo di Torino”. Ci mise sei mesi, dal 7 novembre del 1963 all’aprile seguente. A maggio lo colse il primo infarto. Dora disse che non smise di fumare dopo questo. Il secondo, la notte fra il 5 e il 6 settembre 1964, gli fu fatale.
Le sue opere uscirono postume, lentamente, nell’arco di quasi quindici anni. Feltrinelli pubblicò nel 1967 “L’uomo di Torino” e l’anno dopo la raccolta di tutte le sue poesie “Carte in tavola”. Nel 1973 uscirono le sue “Carte di un italiano dell’11”, e l’antologia dei suoi saggi filosofici e letterari curata da Mario Lunetta fu pubblicata nel 1977 con il titolo “L’azione letteraria”. Poi più nulla fino al 2009, quando uscì una plaquette con una scelta delle sue poesie a cura di Massimo Raffaeli.
Lo conobbe e lo apprezzò praticamente tutta la critica militante italiana del ‘900, dalla quale non ricevette quasi mai stroncature, anche se lui invece non le risparmiò. Clamorose furono quelle di Louis Aragon che lodava il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa e del Dottor Zivago di Pasternak. Nel 2008 gli fu conferito, postumo, il premio letterario Feronia.
Biografia di Velso Mucci (Napoli, 29 maggio 1911 – Londra, 5 settembre 1964)è stato uno scrittore italiano. Durante gli anni del fascismo, per le idee politiche comuniste, è costretto a peregrinare in molte città italiane dove alternò la passione per le lettere alla professione di libraio. pur nelle difficoltà del periodo, continuò a scrivere (“Scartafaccio” viene pubblicato nel ’48 ma è presumibilmente scritto nei primi anni Trenta), fondando e dirigendo nel ’45 la rivista “Il costume politico e letterario”. Negli anni Cinquanta si trasferisce a Bra dove ha modo di proseguire la sua attività letteraria ed impegnarsi politicamente. Nel 1956 viene eletto consigliere comunale, carica che manterrà fino al 1960, ed è chiamato a dirigere il settimanale politico cuneese “La Voce”. Il suo capolavoro letterario è il romanzo “L’uomo di Torino”, che offre uno spaccato della realtà cittadina ai tempi delle prime industrie conciarie negli anni Venti.
Visse in diverse parti d’Italia a seguito degli spostamenti del padre, militare e maestro di musica, fino a stabilirsi definitivamente nel 1924 a Torino, dove frequentò il Liceo classico Cavour, conoscendovi, tra gli altri, Giancarlo Pajetta. All’inizio degli anni ’30 entrò come critico musicale nella redazione de “Il Selvaggio”, dove conobbe, oltre al direttore Mino Maccari, personaggi come l’architetto Carlo Mollino e artisti come Carlo Carrà, Filippo De Pisis, Giorgio Morandi e Luigi Spazzapan, che ospitò poi nella libreria antiquaria aperta sulla Rive Gauche a Parigi, dove si era trasferito nel 1934. Il suo profilo letterario, legato nelle prime esperienze degli anni ’20 soprattutto alla personalità di Vincenzo Cardarelli, di cui più tardi curerà le edizioni delle Lettere non spedite (Roma, Astrolabio, 1946) e dei Prologhi viaggi favole (Milano, Mondadori, 1946), si arricchì a Parigi grazie alla frequentazione di intellettuali come Paul Éluard, Tristan Tzara, Nazim Hikmet, di cui tradusse più tardi le Poesie (Roma, Editori riuniti, 1960). Dopo la guerra si trasferì a Roma, dove fondò e diresse Il costume politico e letterario, bimestrale dove pubblicarono, tra gli altri, Leonardo Sinisgalli, Umberto Saba, Giorgio Bassani, Mario Tobino, Giuseppe Raimondi, Giuseppe Ungaretti. Nel 1947, dopo essersi iscritto al Partito comunista italiano, entrò in contatto con scrittori quali Niccolò Gallo, Mario Socrate, Giuseppe Dessì, e venne chiamato nel 1958 a far parte del comitato direttivo del Contemporaneo.
Opere principali
Esercizi: 1927-1933 (liriche), Torino, Il Portico, 1935
Le carte (prose e versi liberi), Roma, Il Selvaggio, 1936
Scartafaccio 1930-1946 (versi e prose), Roma, Tip. Ist. Grafico Tiberino, 1948
L’ umana compagnia, con un disegno di Giorgio De Chirico e due incisioni di Mino Rosso, Roma, Il Costume editoriale, 1953
L’ azione letteraria, Roma, Il Costume editoriale, 1958
L’ età della terra (versi), Milano, Feltrinelli, 1962 (premio Chianciano ex aequo con Andrea Zanzotto)
L’ uomo di Torino (romanzo), Milano, Feltrinelli, 1967, ripubblicato nel 2012, Milano, Scalpendi ed.
Carte in tavola (versi), prefazione di Natalino Sapegno, Milano, Feltrinelli, 1968
L’azione letteraria (raccolta di saggi filosofici e letterari, a cura di Mario Lunetta), Roma, Ed. riuniti, 1977
Bibliografia
Dizionario generale degli autori italiani contemporanei, vol. II, Firenze, Vallecchi, 1974, ad vocem
Quest’uomo: Velso Mucci: contributi sulla figura e l’opera, Cosenza, Mondo Nuovo, 1974
Alberto Asor Rosa, Dizionario della letteratura italiana del Novecento, Torino, Einaudi, 1992, ad vocem
Conoscete quest’uomo (Atti del convegno in occasione del centenario della nascita, a cura di Alberto Alberti) Milano, Scalpendi ed., 2012
Mercato delle pulci – Scritti inediti e rari 1930-1963, a cura di Alberto Alberti, prefazione di Massimo Raffaeli, Scalpendi ed., Milano maggio 2015
C’è ancora molto sulla terra – Antologia poetica di Velso Mucci, a cura di Alberto Alberti e Nicola Vacca, Collana “Agorà”, L’Argolibro ed. giugno 2021
Maya Angelou- La poetessa che ha cambiato il mondo con le sue parole –
Maya Angelou (nata Marguerite Ann Johnson)ha pubblicato, nell’arco di mezzo secolo, un’autobiografia divisa in sette parti, tre libri di saggistica e numerose raccolte di poesia, oltre a libri per bambini, drammi teatrali, sceneggiature e programmi televisivi. Ha ricevuto decine di premi e più di trenta dottorati di ricerca honoris causa. Angelou è celebre soprattutto per le sette autobiografie incentrate sulle sue esperienze adolescenziali e della prima maturità. Con la prima autobiografia, Il canto del silenzio nella quale racconta la propria vita fino all’età di diciassette anni, ha incontrato un enorme successo e apprezzamento internazionale. –
SOLI
A letto, a pensare
Ieri notte
Come trovare casa alla mia anima
Dove l’acqua non abbia sete
E il pane non sia pietra
Ho capito una cosa
Non credo di sbagliarmi
Che nessuno
Ma nessuno
Qui può cavarsela da solo.
Ci sono milionari
Con denaro che non sanno usare
Le mogli corrono a destra e a manca come furie
I loro figli fanno il piagnisteo
Si rivolgono a medici costosi
Per curare i loro cuori di pietra.
Ma nessuno
No, nessuno
Qui può cavarsela da solo.
Adesso se mi ascolti attentamente
Ti dirò quel che so
Nuvole tempestose si vanno adunando
Il vento soffierà
La razza umana soffre
E io ne sento i gemiti,
Perché nessuno
Ma proprio nessuno
Qui può cavarsela da solo.
Eppure mi rialzo
Puoi infangarmi nella storia
con le tue amare, contorte bugie.
Puoi schiacciarmi nella terra
ma, come la polvere, iomi rialzo.
La mia sfacciataggine ti disturba?
Perché sei afflitto dallo sconforto?
Perché cammino come se avessi pozzi di petrolio
che pompano nel mio salotto.
Proprio come le lune e i soli,
con la certezza delle maree,
come le speranze che volano alte, iomi rialzo.
Volevi vedermi spezzata?
Con la testa china e gli occhi bassi?
Spalle cadenti come lacrime,
indebolite dai pianti della mia anima?
La mia immodestia ti offende?
Non te la prendere così tanto
solo perché io rido come se avessi miniere d’oro
scavate nel mio giardino
Puoi ferirmi con le tue parole,
puoi trafiggermi con i tuoi sguardi,
puoi uccidermi con il tuo odio,
eppure, come la vita, io mi rialzo.
La mia sensualità ti disturba?
Ti coglie di sorpresa
Che io danzi come se avessi diamanti
alla confluenza delle mie cosce?
Dalle capanne della storia ignobile iomi rialzo.
Da un passato radicato nel dolore iomi rialzo.
Sono un oceano nero, impetuoso e vasto
che traboccante e gonfio avanza con la marea.
Lasciandomi indietro notti di terrore e paura iomi rialzo
in un nuovo giorno miracolosamente chiaro Iomi rialzo
Portando i doni lasciati dai miei antenati,
sono la speranza e il sogno dello schiavo.
E così mi rialzo, mi rialzo mi rialzo.
Ancora, mi rialzo
Puoi sminuirmi nella storia
Con le tue amare, contorte bugie;
Puoi calpestarmi nella sporcizia
Ma, ancora, come polvere, mi rialzerò
La mia presunzione ti infastidisce?
Perché sei avvolto dall’oscurità?
Perché io cammino come se avessi pozzi di petrolio
Che pompano nel mio soggiorno
Proprio come le lune e come i soli,
Con la certezza delle maree,
Proprio come le speranze che si librano alte,
Ancora, mi rialzerò
Volevi vedermi distrutta?
Testa china e occhi bassi?
Con le spalle cadenti come lacrime,
Indebolita dai miei pianti struggenti?
La mia arroganza ti offende?
Non prenderla troppo male
Perché io rido come avessi trovato miniere d’oro
Scavando nel giardino
Puoi spararmi con le parole,
Puoi trapassarmi con gli occhi,
Puoi uccidermi con l’odio,
Ma, ancora, come l’aria, mi rialzerò.
La mia sensualità ti disturba?
Ti giunge come sorpresa
Che io balli come avessi diamanti
Al congiungersi delle mie cosce?
Fuori dai tuguri della vergogna della storia
Mi rialzo
In alto, da un passato che ha radici nel dolore
Mi rialzo
Io sono un oceano nero, tempestoso e vasto,
Sgorgando e crescendo rinasco nella marea.
Lasciandomi dietro notti di terrore e paura
Mi rialzo
In un nuovo giorno che è meravigliosamente chiaro
Mi rialzo
Portando i doni dei miei antenati,
Io sono il sogno e la speranza dello schiavo.
Mi rialzo
Mi rialzo
Mi rialzo
———–
Le belle donne si domandano dove si celi il mio segreto.
Non sono appariscente, né disegnata per vestire
taglie da modella,
ma quando comincio a raccontarmi
credono stia raccontando storie.
Dico loro
Che è nello spazio del mio abbraccio,
è nell’ampiezza dei miei fianchi
è nell’andatura del mio passo,
è nella linea delle mie labbra.
Sono una donna,
intensamente.
Sono una donna fenomenale
Ecco io chi sono.
Quando entro in una stanza,
disinvolta, come piace a te
E cammino verso un uomo
tutti gli altri si alzano in piedi
O cadono sulle ginocchia,
poi si raccolgono intorno a me
Come le api intorno al miele.
Dico loro
Che è il fuoco del mio sguardo,
è lo splendore del mio sorriso
è l’ondeggiare della mia vita,
ed è la gioia nei miei piedi.
Sono una donna,
intensamente.
Una donna fenomenale
Ecco io chi sono.
Anche gli uomini si domandano
cosa vedano in me,
ci provano davvero,
ma non riescono a toccare
l’essenza del mio mistero.
Quando tento di mostrarlo
essi dicono che ancora non vedono.
Dico loro
Che è nell’arco della mia schiena,
è nella luce del mio sorriso,
è nel sentiero dei miei seni,
è nella grazia del mio stile.
Sono una donna,
intensamente.
Sono una donna fenomenale.
Ecco chi sono io.
Ora puoi comprendere
perché il mio capo non è chino.
Io non urlo o salto in giro
io non parlo con un grido.
E quando mi vedi passare provi un orgoglio glorioso.
Io dico
è nello scatto delle mie ginocchia,
è nell’onda dei miei capelli,
è nel palmo delle mie mani,
è nel bisogno delle mie attenzioni.
Perché io sono una donna,
intensamente.
Una donna fenomenale.
Ecco io chi sono.
Maya Angelou (nata Marguerite Ann Johnson) ha pubblicato, nell’arco di mezzo secolo, un’autobiografia divisa in sette parti, tre libri di saggistica e numerose raccolte di poesia, oltre a libri per bambini, drammi teatrali, sceneggiature e programmi televisivi. Ha ricevuto decine di premi e più di trenta dottorati di ricerca honoris causa. Angelou è celebre soprattutto per le sette autobiografie incentrate sulle sue esperienze adolescenziali e della prima maturità. Con la prima autobiografia, Il canto del silenzio nella quale racconta la propria vita fino all’età di diciassette anni, ha incontrato un enorme successo e apprezzamento internazionale. –
Gabriele Galloni (1995 – 2020). Ha pubblicato le raccolte poetiche Slittamenti (Augh!, 2017), In che luce cadranno (RP, 2018), Creatura breve (Ensemble, 2018) e L’estate del mondo (Marco Saya, 2019). Ha pubblicato, inoltre, la raccolta di racconti Sonno giapponese (Italic Pequod, 2019). È stato co-direttore di Inverso – Giornale di poesia e autore e ideatore, per la rivista Pangea, della rubrica Cronache dalla Fine: dodici conversazioni con altrettanti malati terminali
Gabriele Galloni. Pensiamo che il modo più opportuno per ricordarlo sia proporre ai lettori una selezione dei versi che ci ha lasciato: una breve mappa che ci permetta ancora di dire «La musica dei morti è il contrappunto/ dei passi sulla terra». Una mappa – così, crediamo, avrebbe sorriso – finalmente libera dai punti cardinali.
Slittamenti
È giù negli interstizi di
tempo tra i minimi
e i massimi che accade
l’irreparabile.
*
Sappiamo per esempio
senza dirlo che adesso Villa Sciarra
è di nuovo uno scatto
sovraesposto, un abbassare lo sguardo
per troppa luce, il conto
di questa estate e di quelle trascorse.
*
Dormiva: questo ha detto. Lo ha svegliato
un fischio: così ha scritto. Un fischio come
d’aria tra spazi vuoti – già passato.
Di tutto questo a malapena il nome.
In che luce cadranno
I morti tentano di consolarci
ma il loro tentativo è incomprensibile:
sono i lapsus, gli inciampi, l’indicibile
della conversazione. Sanno amarci
con una mano – e l’altra all’Invisibile.
*
Ho conosciuto un uomo che leggeva
la mano ai morti. Preferiva quelli
sotto i vent’anni; tutte le domeniche
nell’obitorio prediceva loro
le coordinate per un’altra vita.
*
I morti guardano alla luna come
un errore, uno sgarbo del creato;
pensano infatti che sia cosa messa
lì per illuderli (non percorribile).
L’imitazione di un antico sesso
senza ingresso né uscita né sala
d’attesa.
*
La musica dei morti è il contrappunto
dei passi sulla terra.
Creatura breve
Fabula
Volle provare la dissoluzione
della carne. Provarla con coscienza.
Rendersi terra fertile, ma senza
morire; vivo senza soluzione.
Pro Verbis #3
Rompi la roccia e ne uscirà dell’acqua.
Potrai berla, pensare un ritorno
alla materia dell’ultimo giorno.
La cosa che ti anticipa e ti chiude.
Fabula
Questa luna è una corsa di bambini
attorno a un pozzo quando il pozzo è pieno
fino all’orlo. E nessuno per chilometri.
Pro Verbis #4
E saremo l’Immagine dell’uomo.
Non la creatura breve, ma la traccia.
L’estate del mondo
Me ne vado; ma tu sei lontananza
che ritorna. L’eternità felice
del tuo viso indagato controluce –
dalla Magliana vecchia alla mia stanza.
*
Luna di luglio: dalla tua finestra
scoperta di sfuggita sopra il mare.
Per poco, ma l’abbiamo fatta nostra
pensando fosse un fondo di bicchiere.
Luna di mare; ciotole di legno
in fila tutte lungo il davanzale.
Il cielo non si asciuga – intanto
la marea sale.
III
Ma l’ultima parola sulla Luna
spettò al più piccolo di noi, che disse:
la Luna è questa duna senza attesa
di mare; è l’autostrada che da Piana
del Sole porta fuori le città
di tutto il mondo.
*
Capitava la notte che si andasse
a frugare, bambini, tra gli scogli;
cercando il Filo che riavvicinasse
le stelle l’una all’altra.
Raggiungere lo spazio dalla riva
del mare; intanto cogliere una lucciola
dal bagnasciuga e saperla sorpresi
ancora viva.
*
È la notte di san Lorenzo. Prima
che cadano le stelle scavalchiamo
il muretto del centro sportivo.
L’acqua della piscina è ancora mossa;
imita nei suoi guizzi le vicine
luci del campo da calcio; riflette
i nostri visi oltre il bordo, curiosi
del fondale laccato.
“Guarda”, mi dici alzando la tua Tennent’s
verso la Luna, “è come se a momenti
tutti i passati a noi qui ritornassero;
l’acqua si muove, si sta preparando
a ridarceli tutti”. Getti via
la bottiglia ormai vuota. Ci sediamo.
Ignoravamo che una volta nudi
saremmo nudi rimasti per sempre.
C’è qualcuno vicino a noi, ma l’ombra
lo nasconde. Sappiamo a cosa i corpi
servono gli uni agli altri, ché vent’anni
sono bastati a questo.
Abbiamo smesso di parlare; adesso
ascoltiamo soltanto.
Le presenze
non ci temono più; così continuano
i loro giochi a bassa voce, quasi
chiedessero a noi di imitarle.
Bestiario dei giorni di festa
Il cane
Un cane con due zampe è sempre un cane.
Purché sempre ricerchi con la coda
la fissità delle cose lontane.
Il pesce rosso
Il pesce rosso è aruspice celeste;
prova tu a decifrare le stelle da un vetro –
sicuramente non ci riusciresti.
Lo struzzo
Andando sempre avanti tutto il mondo
ci dimenticherà. Lo struzzo
preferisce così girare in tondo.
Fonte-Redazione «Inverso – Giornale di poesia»
a cura di Mattia Tarantino-fotografia di Arianna Vartolo
Le cicatrici di Gabriele Galloni nelle poesie che ci ha lasciato-Articolo di Gianni Montieri
“Sulla riva dei corpi e delle anime” è un’ampissima scelta di liriche in un volume molto bello, che si legge con piacere e a cui si pensa con qualche malinconia dopo la sua scomparsa: cos’altro avrebbe potuto essere? Cosa non è stato?
Articolo del 22 Giugno 2023
Diversi anni fa mi sono imbattuto nelle poesie di Gabriele Galloni, era giovanissimo e giovanissimo qualche anno dopo se ne è andato; erano versi freschi, pieni di squarci e illuminazioni e d’ingenuità, quest’ultima caratteristica non mi parve un difetto, ma qualcosa in divenire, necessaria al farsi di questo ragazzo che aveva voglia di scrivere, di farsi notare, di stare nel mondo delle lettere, di stare al mondo. Pubblicammo, su una rivista on-line (che esiste ancora Poetarum Silva) qualche poesia, tempo dopo, poco prima della sua morte – avvenuta nel settembre del 2020, a soli 25 anni – Galloni mi scrisse ringraziandomi perché eravamo stati i primi a pubblicare dei suoi testi, era un bravo ragazzo, un bravo poeta, destinato a diventare bravissimo. L’editore Crocetti pubblica in questo 2023 un’ampissima scelta delle poesie di Gabriele Galloni – una produzione vasta per un poeta così giovane, aveva fretta, aveva ragione – Sulla riva dei corpi e delle anime, ne viene fuori un volume molto bello, che si legge con piacere e a cui si pensa con qualche malinconia: cos’altro avrebbe potuto essere? Cosa non è stato?
«Così un giorno, per caso, / i morti costruirono / il primo cimitero sotto il mare. / Se ne dimenticarono / in un tuffo soltanto».
Galloni ha sempre scritto di vita e morte, del confine che le unisce più che separarle, e unendole sfuma come succede con l’orizzonte in certi pomeriggi al mare, o come accade a certi palazzi di periferia che paiono agitarsi sotto l’effetto di una Fata Morgana. Così come ha scritto del suo tempo di ragazzo senza indugiare nella cronaca, sospendendo il giudizio intanto che cercava di capire, perché questo – tra le altre cose – provi a fare quando sei molto giovane. A Galloni interessava la luce che si posava sulle cose, sulle case, su un lungomare, sui corpi per vedere come avrebbe potuto cambiarne lo stato, come in effetti lo mutava. Gli importava, di conseguenza, anche l’opposto: cosa accade quando la luce non filtra, non cala, non squarcia? Ed ecco il buio, la cupezza, l’istante nero che ci avvolge e che lo scatto della poesia risolve.
«I cavi elettrici, mi fai notare, / sembrano scie di cometa stasera».
Le cinque parti che formano il libro – introdotte da un testo di Alessandro Moscè – si tengono e si parlano come attraversate da un filo rosso molto sottile che quasi in silenzio le cuce e le lega. Le poesie di Galloni sono quasi tutte molto brevi, come se fossero attraversate da un fulmine che le proietta al suolo in poco tempo, di nuovo la fretta ma pure l’accelerazione reale del testo poetico, che arriva al punto in poche mosse. Non c’è fine alla vita, e allora i morti continuano a porsi le stesse domande dei vivi, e forse se le pongono meglio, hanno più tempo. La luna sulle case popolari è sempre sola, i morti (ancora) di notte (ma quale?) gettano via l’intonaco. Liberano i muri e lo spazio? Il mare, che può esistere, dietro una sala d’attesa. L’estate, che mi pare la stagione del respiro di ogni poesia di Galloni, come se l’inverno non fosse concepibile. Come se si potesse vivere, o scrivere, stando solo nella stagione più breve, quella della luce, quella in cui i corpi e le anime vengono sottratti alla notte, e possono essere raccontati, compresi, amati.
«Un bianco pomeriggio senza vento / Noi ce ne andiamo soli per la strada».
Le cicatrici camminano insieme alle speranze, le estati vengono prima di noi, della nostra nascita, siamo parte dei tempi che ci hanno preceduto. Questo mare che l’immaginazione di Galloni proietta nelle stanze, nel disordine dei giorni, come se volesse le sue poesie fatte di acqua e sale, in gran parte riuscendoci. Galloni sentiva la morte sempre a un passo, non la sua, quella di tutti, così si riempiva di vita, ne riempiva i versi. Non scriveva poesie politiche e nemmeno d’amore, perciò faceva entrambe le cose, inevitabilmente. Credeva nell’inutilità della poesia. In-utile, utile in sé, fedele a nessuna linea, a nessun profilo, modello. Unica regola: tracciare una linea, seguirla fino a che non scompare perché troppo visibile, perché irraggiungibile. Gabriele Galloni condivideva con me la passione per una canzone di Bruce Springsteen, Atlantic City, e allora chiudiamo questo pezzo cantando: «Well now everything dies baby that’s a fact / but maybe everything that dies someday comes back».
-Il Poeta Rocco Scotellaro nasceva il 19 aprile del 1923-
Breve biografia di Rocco Scotellaro(Tricarico, 19 aprile 1923 – Portici, 15 dicembre 1953), scrittore, poeta e politico italiano impegnato nella lotta per miglioramento delle condizioni economiche e sociali dei contadini. La sua poesia è caratterizzata da da un’ambientazione pastorale serena, da un’armonia di immagini e visioni che esaltano la vita bucolica.Nell’opera poetica del lucano Rocco Scotellaro si impone costantemente l’urgenza di una comunanza: una comunanza che è tutt’uno con l’idea stessa di poesia come valore sociale, nel quadro di quel Sud arretrato e postbellico, ansioso di rivendicazioni e allineamenti, in cui la sua presenza letteraria e umana, da impegnato sindaco-poeta socialista di Tricarico (eletto nel 1946, quando Rocco aveva solo ventitré anni), si affermò. Questa impellenza sinteticamente si articola e si lascia cogliere in un suo celebre testo dal titolo Sempre nuova è l’alba: «i vostri fiato caldi, contadini», «il nostro vento disperato»; e tra quei due possessivi un verso come «Beviamoci insieme una tazza di vino!», in cui linguisticamente la contraddizione esplode tra l’uso verbale riflessivo-popolaresco di quel «beviamoci insieme» e quella «tazza di vino» classicheggiante, da Alceo tradotto sub specie quasimodea. Altrove l’esito contrappositivo è più piano, quasi didattico nell’ancor più evidente, concentrata giustapposizione dei suoi indicatori sensibili: «Mettete il vino, beviamo stasera» («La pioggia»). E si ricordi la tarda «Cena», scritta a Portici sullo scorcio del 1952, dove di nuovo a sera – ed è già memoria – il poeta dichiara di volersi sentire come un tempo ancora in compagnia. Ricordando che a Tricarico, in provincia di Matera, il 19 aprile 1923 nasceva Rocco Scotellaro.
poesie di ROCCO SCOTELLARO
Passaggio alla città Ho perduto la schiavitù contadina, non mi farò più un bicchiere contento, ho perduto la mia libertà. Città del lungo esilio di silenzio in un punto bianco dei boati, devo contare il mio tempo con le corse dei tram, devo disfare i miei bagagli chiusi, regolare il mio pianto, il mio sorriso. Addio, come addio? Distese ginestre, spalle larghe dei boschi che rompete la faccia azzurra del cielo, querce e cerri affratellati nel vento, pecore attorno al pastore che dorme, terra gialla e rapata.
È calda così la malva È rimasto l’odore della tua carne nel mio letto. È calda così la malva che ci teniamo ad essiccare per i dolori dell’inverno.
Improvvisa la sera Improvvisa la sera ci ha toccati me, le mie carte, la pezza di luce sui mattoni della stanza.
È tanto imbrunito che mi sento addosso paura. Ha ripreso la vita dei piccoli rumori. Sono sui tetti le anime dei morti del vicinato, camminano sulle zampe dei gatti.
La luna piena La luna piena riempie i nostri letti, camminano i muli a dolci ferri e i cani rosicchiano gli ossi. Si sente l’asina nel sottoscala, i suoi brividi, il suo raschiare. In un altro sottoscala dorme mia madre da sessant’anni.
Tu sola sei vera Colei che non mi vuol più bene è morta. È venuta anche lei a macchiarmi di pause dentro. Chi non mi vuol più bene è morta. Mamma, tu sola sei vera. E non muori perché sei sicura.
Giovani come te Quanti ne fissi negli occhi superbi della strada, erranti giovani come te. Non hanno in ogni tasca che mozziconi neri di sigarette raccattate. Non sanno che sperdersi davanti alle lucide vetrine alle chiacchiere dei bar ai tram in rapida corsa alla pubblicità padrona delle piazze. Tanto perché il tempo si ammazzi cantano una qualsiasi canzone, in cui si chiamano fuorviati, si dicono amanti del bassifondo e si ripagano di comprensione. Una canzone è per covare insano amore contro le ragazze cioccolato che sono un po’ le stelle sempre vive che sono la speranza d’una vita sorpresa in un sorriso.
E quanti, ma quanti vorrebbero la luna nel pozzo una loro strada sicura che non si rompa tuttora nei bivii. Quando compiono un gesto il solo gesto son lì coi mietitori addormentati ai monumenti che aspettano la mano sulla spalla del datore di lavoro. Sono coi facchini di porto contenti della faccia sporca e le braccia penzoloni dopo che il peso è rovesciato. Son sprofondati talvolta in salotti a far orgia di fumo e d’esistenzialismo giovani malati come te di niente.
Spiriti pronti a tutte le chiamate angeli maledetti coscritti e vagabondi, compagni dei cani randagi, la nostra è la più sporca bandiera la nostra giovinezza è il più crudo dei tormenti. Or quando la terra accaldata ci mette addosso la smania del fuoco nei lunghi meriggi d’estate, è tempo di crucciarsi di dir di sì all’Uomo che saremo e che ci aspetta alla Cantonata con falce e libro in mano!
Noi non ci bagneremo Noi non ci bagneremo sulle spiagge a mietere andremo noi e il sole ci cuocerà come la crosta del pane. Abbiamo il collo duro, la faccia di terra abbiamo e le braccia di legna secca colore di mattoni. Abbiamo i tozzi da mangiare insaccati nelle maniche delle giubbe ad armacollo. Dormiamo sulle aie attaccati alle cavezze dei muli. Non sente la nostra carne il moscerino che solletica e succhia il nostro sangue. Ognuno ha le ossa torte non sogna di salire sulle donne che dormono fresche nelle vesti corte.
Ho capito fin troppo Ho capito fin troppo gli anni e i giorni e le ore gl’intrecci degli uomini, chi ride e chi urla giura che Cristo poteva morire a vent’anni le gru sono passate, le rondini ritorneranno. Sole d’oro, luna piena, le nevi dell’inverno le mattine degli uccelli a primavera le maledizioni e le preghiere.
I versi e la tagliola Con la neve si para la tagliola e si aspettano i gridi dei fringuelli. La maestra ai bimbi della scuola legge un verso d’amore per gli uccelli. Mi piacevano i versi e la taglìola.
Padre mio che sei nel fuoco Padre mio che sei nel fuoco, che brulica al focolare, come eri una sera di Dicembre a predire le avventure dei figli dai capricci che facevamo. Tu pure non farai bene dicevi vedendomi in bocca una mossa che forse era stata anche tua che l’avevi da quand’eri ragazzo.
HO CAPITO FIN TROPPO
Ho capito fin troppo gli anni e i giorni e le ore
gl’intrecci degli uomini, chi ride e chi urla
giura che Cristo poteva morire a vent’anni
le gru sono passate, le rondini ritorneranno.
Sole d’oro, luna piena, le nevi dell’inverno
le mattine degli uccelli a primavera
le maledizioni e le preghiere.
(da Margherite e rosolacci, Mondadori, 1978)
. Io senta la neve ancora
io senta il suo cadere placido
dal mio mondo sparuto.
Le mie piccole cose qui,
la mezza matita che non mi abbandona.
I miei volti nelle fiamme tanti
che hanno lo stesso colore.
E gli anni passano così
nel cuore della notte di neve.
Il giorno, Isabella, maturerà.
Sentirai le raganelle suonare;
il tempo nascosto tra le viole.
E se farai ch’io non sia solo
quando l’aria s’intinge di burrasca
e i gheppi son cacciati nella mischia
e cantano la morte del Signore
solo gli angioli deturpati, allora
con tutta l’ansia che non ti so dire
potremo insieme vivere e morire.
Breve biografia di Rocco Scotellaro(Tricarico, 19 aprile 1923 – Portici, 15 dicembre 1953), scrittore, poeta e politico italiano impegnato nella lotta per miglioramento delle condizioni economiche e sociali dei contadini. La sua poesia è caratterizzata da da un’ambientazione pastorale serena, da un’armonia di immagini e visioni che esaltano la vita bucolica.Nell’opera poetica del lucano Rocco Scotellaro si impone costantemente l’urgenza di una comunanza: una comunanza che è tutt’uno con l’idea stessa di poesia come valore sociale, nel quadro di quel Sud arretrato e postbellico, ansioso di rivendicazioni e allineamenti, in cui la sua presenza letteraria e umana, da impegnato sindaco-poeta socialista di Tricarico (eletto nel 1946, quando Rocco aveva solo ventitré anni), si affermò. Questa impellenza sinteticamente si articola e si lascia cogliere in un suo celebre testo dal titolo Sempre nuova è l’alba: «i vostri fiato caldi, contadini», «il nostro vento disperato»; e tra quei due possessivi un verso come «Beviamoci insieme una tazza di vino!», in cui linguisticamente la contraddizione esplode tra l’uso verbale riflessivo-popolaresco di quel «beviamoci insieme» e quella «tazza di vino» classicheggiante, da Alceo tradotto sub specie quasimodea. Altrove l’esito contrappositivo è più piano, quasi didattico nell’ancor più evidente, concentrata giustapposizione dei suoi indicatori sensibili: «Mettete il vino, beviamo stasera» («La pioggia»). E si ricordi la tarda «Cena», scritta a Portici sullo scorcio del 1952, dove di nuovo a sera – ed è già memoria – il poeta dichiara di volersi sentire come un tempo ancora in compagnia. Ricordando che a Tricarico, in provincia di Matera, il 19 aprile 1923 nasceva Rocco Scotellaro.
Sotto il ferro della luna (trad. di S. Thabet, Crocetti, 2015)
Sulla terra e all’inferno, (trad. di S. Apostolo e S. Thabet, Crocetti, 2020)
Biografia di Thomas Bernhard nasce nel 1931 ad Heerlen, in Olanda, dove la madre, una ragazza nubile austriaca, si era recata per evitare lo scandalo che la nascita di un figlio illegittimo avrebbe provocato nella provinciale Austria. Cresce presso i nonni materni a Vienna e a Salisburgo: è un ragazzino difficile, ma nutre un grande affetto per il nonno, che lo spinge a studiare musica e a prendere lezioni di violino. A diciotto anni Thomas contrae la pleurite e viene ricoverato in sanatorio, dove comincia a scrivere poesie. Nel 1957 esce Sulla terra e all’inferno, la sua prima raccolta poetica. A quella seguiranno: In hora mortis, Sotto il ferro della luna e Ave Virgilio. Nel 1963 pubblica il primo romanzo, Gelo, che vince il Premio Brema. Ne seguiranno molti altri, tra i più noti: Amras, Perturbamento, Camminare, Il soccombente, Correzione, Il nipote di Wittgenstein, Un’amicizia, Correzione, L’imitatore di voci e Goethe muore. A partire dagli anni Settanta scrive numerosi testi teatrali, tutti di grande successo. Nel 1970 gli viene conferito il Premio Büchner. Muore a Gmunden nel 1989.
LE TUE PAROLE
Le parole – bambine piccole, molestano, fanno male,
se le accarezzi ridono, poi subito si ostinano,
han fretta di dir tutto, s’imbrogliano, sanno amare,
diventan grido, tacciono, nascostamente svelano.
Le parole – bambine piccole, a volte si ribellano,
sanno dire le lacrime, il riso sanno scrivere.
Agnelle si sacrificano, belve nella passione,
ansiose di dipingere l’intero mondo azzurro.
Le parole – bambine piccole. Flessuosi corpicini
che agguerriti si levano, mettono le ali, volano.
Sognano, si spaventano, si alleano, si separano,
animelle cui è stato dato di avere sempre sete.
Le parole – bambine piccole. Bianco per loro il tempo,
pagine su cui scrivere, vele che il vento gonfia
per fare viaggi nella gioia, far viaggi nel dolore.
L’amore sa trasformare in sacro la tempesta.
Pandelìs Bukalas. Dal Mito alla Storia
a cura di Massimo Cazzulo e Nicola Crocetti
Poesia n. 181
Scarna povertà, fradicia povertà,
coi calzoni laceri al cavallo e al ginocchio.
Si scalda le mani su cocenti infamie,
chiama il destino Lui e Loro
e si delizia con cose dai nomi duri:
stracci e piedi, cibo e mani –
non t’ingozzare, che non ce n’è più!
Fradicia povertà, oscena povertà,
ronza con spietata fedeltà
come legno marcio con accenno di orifizio,
umido giornale ficcato nei vuoti dell’artifizio,
e ci disgusta fino alla feroce lealtà.
Non è mai colpa di quelli che ami:
la povertà discende dai cieli.
Lascia che balli su sedie, che sfondi la porta,
sorge da tutto quello che è venuto prima,
e ogni outsider è il nemico –
il bastone di Cristo rovesciò tutto questo
cavalieri e filosofi rimisero tutto a posto.
Oscena povertà, scarna povertà,
croste tra le gambe e piaghe tra i capelli
una finestra fatta d’aria è pulita,
non l’argento sporco di una manica.
Bada se ciò faccia bene alla scuola
e debba andare e desideri andare:
qualcuno, un giorno, dovrà pagare.
Raditi con il sapone, corri alla carne,
stupisci la nazione, governa l’esercito,
aspetti ancora il giorno in cui sarai rispedito
dove libri o giocattoli sono rifiuti sul pavimento
e nessuno ha il permesso di venire a giocare
perché la tua casa si chiama baracca
e l’acqua calda sfrigola nel piatto sporco di latta.
Traduzione di Roberto Cogo e Graziella Isgrò Poesia n. 181 Marzo 2004
Les Murray. Poesie del vuoto falciato
A cura di Paolo Ruffilli
Poesia n. 323
Ed è chiaro che, alla fine, lei è caduta giù
dalla luna, non come una
snella Cinzia a Delfi, dopotutto
non è diciassettenne, ma con la grazia
sensuale e l’implacabilità personale
di una dea dei nostri tempi; così lui dice a
se stesso di notte vedendo il bagliore
del sonno di lei nella metà (due-terzi a rigore)
del loro letto, il claire de lune della spalla
e della fronte dietro le nuvole scure
dei capelli. Lui beve il suo vino
e ingoia più pillole. Gli uccelli
cantano la loro prima mattinata, piccoli cinguettii e
frinire di insetti, e fuori la prima luce
vela la finestra. Il giorno sarà orribile,
nervoso, cupo e pieno di tensione. L’ultima
sigaretta, il sorso finale di chardonnay,
e si stringe contro il caldo bagliore di lei,
pensando a quando dodicenne
nuotava nel caldo laghetto oltre
gli olmi e gli alberi di noce al limite
del prato. Si rigirava come una carpa assonnata
tra le ninfee, sotto le libellule
e le nuvole roventi dei vecchi giorni d’estate. Traduzione di Fiorenza Mormile
Poesia n. 323 Febbraio 2017
Hayden Carruth. Il primato dell’etica
a cura di Fiorenza Mormile
1-
Le nove, la sera, e un poco il nero che ti sporca le mani
è tutta la terra passata di qui
a che ora le api vanno a dormire, pensi, ti chiedi,
premi il cavo del palmo sull’orlo del ginocchio
nel dirti senti come sono nuove le foglie
da quale maniera di essere solo sono volate
adesso guardi le cose come sono venute
come si sono fissate, quando nella tua persona
e appena pieghi la testa nel vuoto,
nella domanda a che ora le api vanno a dormire
quando sono passati il sapore di terra e le nuvole
davanti ai miei anni, insieme.
noi portiamo la brocca e sferziamo la schiena della vacca,
falciamo e non sappiamo nulla dell’inverno,
beviamo mosto e non sappiamo nulla,
presto saremo dimenticati
e i versi svaniranno come neve davanti alla casa.
Quest’anno è come l’anno di mille anni fa,
guardiamo nel bosco come nella stalla del mondo,
mentiamo e intrecciamo cesti per mele e pere,
dormiamo mentre le intemperie consumano
davanti alla porta le nostre scarpe infangate.
Quest’anno è come l’anno di mille anni fa,
non sappiamo nulla,
non sappiamo nulla del declino,
delle città sprofondate, del vortice in cui sono affogati
cavalli e uomini.
***
Dietro il bosco nero
brucio questo fuoco della mia anima
in cui tremula il fiato delle città
e il merlo della paura.
A mani nude abbatto queste fiamme
che all’aria montano sino al cervello
e che tremano nel mio nome.
Come una nuvola il mio cuore migra
sui tetti
vicino ai fiumi
finché io, una tarda pioggia, ritorno
profondo nell’autunno.
***
Dimenticami nelle stanze,
spegnimi sulla porta,
lascia che la neve da bianche cime
si spinga nel mio invecchiare,
oh dimenticami,
senza foga la mia morte
sfiorerà le città del Sud
con il vento le torri dei bei giorni,
oh dimenticami,
in marzo sarò già cosa di ieri
e con il detto dell’albero
che ogni giorno muore
dietro i monti
sepolto dalla neve,
dimenticami,
domani rimane di ieri
solo il fumo
che viene da mille bocche
di tetti neri,
morte,
dimenticami.
Oh dimenticami
come inverno, nelle valli,
rivolta a tetri cuori
e a sogni
come il notturno battito d’ali
del gabbiano.
***
In inverno è tutto più semplice
perché non ti serve alcun mondo,
e neanche il mare,
e nessuno sta per ucciderti.
Ti è di conforto respirare l’ira degli animali
con il profumo dei boschi
che cingono il tuo riposo.
A mezzanotte cresce la neve e il ghiaccio
e, sotto pesanti membra,
dormono i tuoi morti.
Tu parli con loro
come al tempo del grano
che essi tagliano nella tenebra e nella menzogna
finché la primavera non li berrà
sotto il sole
che ruba il loro aculeo a rose malate.
Il giorno dei volti
Domani è il giorno dei volti. Si ergeranno
come polvere
e scoppieranno a ridere.
Domani è il giorno dei volti, che
sono caduti nella terra delle patate. Non
posso negarlo, sono colpevole
di questa morte dei germogli.
Sono colpevole!
Domani è il giorno dei volti, che recano la mia pena
sulla fronte,
che posseggono il mio compito quotidiano.
Domani è il giorno dei volti, che come carne
danzano sul muro del sagrato
e che mi mostrano l’inferno.
Perché devo vedere l’inferno? Non c’è un’altra via che porti
a Dio?
Una voce: Non c’è altra via! E questa via
conduce oltre il giorno dei volti,
essa conduce attraverso l’inferno.
La sera è mia sorella
I
La sera è mia sorella, perché ho visto
come l’albero si girava verso di me,
perché ho sentito
come le brocche dei contadini scoppiavano
e il vino spruzzava sui loro volti
che accusavano Gesù sulla croce.
II
Io andrò avanti e laverò i loro piedi
e verserò il vino in nuove brocche!
Mi metterò sulla piazza del mercato e aspetterò
finché mi strapperanno il vestito
e mi colpiranno nella carne con le mie scarpe,
con cui li ho preceduti di cent’anni.
Cornacchie
Tra poco viene l’inverno e salva gli uccelli,
in stanze oscure fratello e sorella raccolgono
i grani per il pasto invernale.
Nel paese nero il maiale è incatenato.
Nel campo crepano le cornacchie del dolore.
Noi beviamo la birra della disperazione
e giungiamo le mani davanti al disprezzo del Padre.
La terra sa dei lacci della carne.
Fumo sale sopra i casali
e si lascia alle spalle il timore dei contadini ubriachi.
La coscia della fontana gracchia davanti alla finestra marcia…
Io però non ho paura.
***
Spirando il vento parlò a questi campi:
i morti vennero da osterie abbandonate,
fecero mucchi di carne davanti a neri, profondi boschi,
bevvero la fatica dei loro ultimi giorni
in valli estive, briciate e deserte,
perché i giorni dei morti seguono il lutto.
Chi non amava, veniva presto dimenticato,
eppure si preoccupava della sua corona
e consumava migliaia di brocche di terracotta
nelle feste della sua stanchezza.
Benché protetti dalla notte,
le orme dei suoi piedi al mattino erano
segnate nell’argilla della città dei morti,
fuori i meli fiorivano tardi,
qualche stelo danzava e il vento da est
non parlava affatto di un altro mondo.
Questi giorni non ritornano,
non da questi paesi, da queste città.
Molte isole portano il loro nome.
Ma di sera si vede il loro lutto
rincasare sotto il gioco delle nuvole.
***
Io so che nei cespugli ci sono le anime,
le anime dei miei padri,
nel grano
c’è il dolore di mio padre
e nella grande foresta nera.
Io so che le loro vite, che si sono estinte
davanti ai nostri occhi,
trovano rifugio nelle spighe,
nella fronte blu del cielo di giugno.
Io so che i morti
sono gli alberi e i venti,
il muschio e la notte
che stende le sue ombre
sul mio tumulo.
Lettera alla madre
Tu vieni di notte, quando la balia scopre il suo seno
e il melo è vuoto
e le pietre distruggono il mio nome,
Tu vieni quando il ruscello non scorre più a lutto e le sue parole
gelano nella mia finestra
e le pecore sfuggono al mio riso nell’angolo della stalla,
Tu vieni quando il centro del mondo
sputa un fiume di sangue con un sospiro,
Tu vieni quando il campo è calvo e verdi brillano
gli occhi dei pesci,
Tu vieni quando non viene nessuno, quando la balia che mi ha pòrto
il seno si nasconde dalla mia fama
e quando fa scintillare la sua chioma, come migliaia di millenni, nella luce lunare,
Tu vieni quando mi picchiano senza conoscere la mia preghiera,
che pronuncerò io, e inizia così: «Io sono
sospinto dall’oscurità…».
Tu vieni sempre quando io sono stanco. Ti ripago
della mia vita con la paura,
che crolla sulla tomba tua assurda
sopra la grande bugia dell’autunno.
Biografia di Thomas Bernhard nasce nel 1931 ad Heerlen, in Olanda, dove la madre, una ragazza nubile austriaca, si era recata per evitare lo scandalo che la nascita di un figlio illegittimo avrebbe provocato nella provinciale Austria. Cresce presso i nonni materni a Vienna e a Salisburgo: è un ragazzino difficile, ma nutre un grande affetto per il nonno, che lo spinge a studiare musica e a prendere lezioni di violino. A diciotto anni Thomas contrae la pleurite e viene ricoverato in sanatorio, dove comincia a scrivere poesie. Nel 1957 esce Sulla terra e all’inferno, la sua prima raccolta poetica. A quella seguiranno: In hora mortis, Sotto il ferro della luna e Ave Virgilio. Nel 1963 pubblica il primo romanzo, Gelo, che vince il Premio Brema. Ne seguiranno molti altri, tra i più noti: Amras, Perturbamento, Camminare, Il soccombente, Correzione, Il nipote di Wittgenstein, Un’amicizia, Correzione, L’imitatore di voci e Goethe muore. A partire dagli anni Settanta scrive numerosi testi teatrali, tutti di grande successo. Nel 1970 gli viene conferito il Premio Büchner. Muore a Gmunden nel 1989.
Biografia di Eugénio de Andrade è nato nel 1923 a Póvoa da Atalaia, piccolo borgo della Beira Baixa, all’interno del Portogallo, ed è scomparso di recente, a ottantadue anni, nella sua casa di Oporto, il 13 giugno 2005. Ha avuto un’infanzia povera nella quale, di abbondante, c’era soltanto il vento, la luce, gli alberi, l’azzurro del cielo, l’immanenza delle cose concrete e essenziali. È un mondo in cui il bianco abbagliante dei muri si interseca con le forme ardite dei tronchi d’ulivo, elementi di una geografia spiccatamente mediterranea che entra con prepotenza nell’architettura dei suoi versi, versi spogli e severi come il paesaggio della sua terra, ma illuminati da intuizioni folgoranti che sembrano sgorgare direttamente dall’inconscio. Poeta dell’amore, è stato definito più volte. Ed effettivamente l’Eros occupa una parte importante nella sua opera, un Eros spontaneo e solare. Il rilievo che il corpo assume in questa poesia rivela il desiderio profondo di ridare dignità a ciò che nell’uomo è stato disprezzato e vituperato da sempre: la gioia dei corpi, la sensualità, la passione concreta per le cose terrene, il miracolo dell’incontro profondo e misterioso fra due esseri. Nella sua poesia il corpo, limpido ed apollineo, diventa quasi un’anima carnale: si cancella il dualismo caratteristico della nostra cultura cattolico-occidentale e l’uomo risorge integro, nella sua dimensione assoluta. Poesia intensamente terrena (oserei dire disperatamente terrena, se ciò non fosse fuori luogo in questa poetica di equilibrio), quasi da diventare metafisica del fisico, parola che si fa corpo e corpo che si smaterializza in parola. Per Eugénio de Andrade l’atto poetico è “l’impegno totale dell’essere per la sua rivelazione”. L’ansia di riscatto dell’uomo totale, pertanto, la fedeltà assoluta alla vita, il desiderio di esprimere una coscienza – coscienza infelice – del mondo, è ciò che più contraddistingue questo grande lirico.
Il volto originale della sua poesia sta probabilmente anche nel sincretismo delle sue radici, nelle fonti molteplici alle quali ha attinto, dai classici greci – sopratutto Esiodo, Omero,
– alla tradizione lirica medioevale gallego-portoghese, passando attraverso la componente ispanica (la nonna materna era spagnola), in particolare García Lorca, Antonio Machado, Vicente Aleixandre, Luis Cernuda, fino ai più importanti lirici portoghesi quali Luís de Camões, Camilo Pessanha, António Nobre, Casais Monteiro, Fernando Pessoa.
Dalla pubblicazione del libro As mãos e os frutos, nel 1948, assistiamo ad un crescendo di rigore e depurazione linguistica che lo portano, in certi momenti, quasi alle soglie del silenzio, ai versi ridotti all’osso. Ma la parola è sempre limpida e immediata, quelle stesse parole nude e dirette – afferma il poeta – del cerimoniale arcaico della comunicazione delle prime necessità del corpo e dell’anima. E tuttavia è una poesia estremamente raffinata e di grande ricchezza verbale e musicale, segnata da una polifonia ritmica pari solo, in lingua portoghese, a quella di Camilo Pessanha. Fra l’altro, Eugénio de Andrade ha coltivato, con uguale sobrietà e maestria, anche il poème en prose.
La sua bibliografia comprende più di venti libri di poesia, due di prosa, un libro per l’infanzia, diverse opere di traduzione. È uno dei poeti portoghesi contemporanei di maggiore notorietà e ciò si deve anche all’immediatezza del suo mezzo espressivo. È stato tradotto in inglese, tedesco, italiano, spagnolo, francese, olandese, ceco, rumeno.
Poesie di Eugénio de Andrade, poeta portoghese
VEDERE CHIARO
Tutta la poesia è luminosa, persino
la più oscura.
È il lettore che ha talvolta,
al posto del sole, nebbia dentro di se.
E la nebbia non permette mai di vedere chiaro.
Se ritornerà
un’altra volta e un’altra volta
e un’altra volta
a queste sillabe infiammate
rimarrà cieco da tanto chiarore.
Sia felice se arriverà.
***
QUASI NIENTE
L’amore
è un uccello tremante
nelle mani di un bambino.
Si serve di parole
perché ignora
che le mattine più limpide
non hanno voce.
***
TO A GREEN GOD
Portava con sé la grazia
delle fonti quando fa notte.
Era il corpo come un fiume
in serena sfida
con i margini quando cala.
Camminava come chi passa
senza aver tempo di fermarsi.
Erbe crescevano dai passi,
crescevano tronchi dalle braccia
quando le alzava in aria.
Sorrideva come chi danza.
E sfogliava al danzare
il corpo, che gli tremava
in un ritmo che lui sapeva
che gli dei devono usare.
E seguiva il suo cammino,
perché era un dio che passava.
Estraneo a tutto ciò che vedeva,
avvinto nella melodia
di un flauto che suonava.
***
IMPETUOSO IL TUO CORPO È COME UN FIUME
Impetuoso, il tuo corpo è come un fiume
in cui il mio si perde.
Se ascolto, sento solo il tuo rumore.
Di me, neanche il segno più breve.
Immagine dei gesti che tracciai,
irrompe puro e completo.
Per questo, fiume fu il nome che gli diedi.
E in esso il cielo diventa più vicino.
***
GLI AMANTI SENZA DENARO
Avevano il viso aperto a chi passava.
Avevano leggende e miti
e freddo nel cuore.
Avevano giardini dove la luna passeggiava
mano nella mano con l’acqua
e un angelo di pietra come fratello.
Avevano come tutta la gente
il miracolo di ogni giorno
sgocciolando dai tetti;
e occhi di oro
in cui ardevano
i sogni più dispersi.
Avevano fame e sete come le bestie,
e silenzio
intorno ai loro passi.
Ma ad ogni gesto che facevano
un passero nasceva dalle dita
e abbagliato penetrava negli spazi.
***
ADDIO
Come se ci fosse una tempesta
a scurire i tuoi capelli,
o se preferisci, la mia bocca nei tuoi occhi,
carica di fiore e delle tue dita;
come se ci fosse un bambino cieco
a inciampare dentro di te,
ho parlato di neve, e tu trattenevi
la voce in cui con te mi persi.
Come se la notte venisse e ti portasse,
era fame l’unica cosa che sentivo;
ti dico addio, come se non tornassi
al paese in cui il tuo corpo inizia.
Come se ci fossero nuvole su nuvole,
e sulle nuvole mare perfetto,
o se preferisci, la tua bocca pura
ad avanzare largamente nel mio petto.
URGENTEMENTE
È urgente l’amore.
È urgente una barca in mare.
È urgente distruggere certe parole,
odio, solitudine e crudeltà,
alcuni lamenti,
molte spade.
È urgente inventare allegria,
moltiplicare i baci, i raccolti,
è urgente scoprire rose e fiumi
e mattine limpide.
Cade il silenzio sulle spalle e la luce
impura, fino a dolere.
È urgente l’amore, è urgente
Restare.
***
LE PAROLE
Sono come un cristallo,
le parole.
Alcune, un pugnale,
un incendio.
Altre,
rugiada appena.
Segrete vengono, piene di memoria.
Insicure navigano:
barche o baci,
agitano le acque.
Abbandonate, innocenti,
leggere.
Tessute sono di luce
e sono la notte.
E persino pallide
ricordano ancora verdi paradisi.
Chi le ascolta? Chi
le raccoglie, così,
crudeli, disfatte,
nei loro gusci puri?
***
I FRUTTI
Così io vorrei la poesia:
fremente di luce, aspra di terra,
rumoreggiante di acque e di vento.
***
METAMORFOSI DELLA CASA
Si innalza aerea pietra dopo pietra
la casa che solo possiede nella poesia.
La casa dorme, sogna nel vento
la delizia improvvisa di essere albero.
Come sussulta un busto delicato,
così una casa, così una barca.
Un gabbiano passa e un altro e un altro,
la casa non resiste: anch’essa vola.
Ah, un giorno la casa sarò bosco,
alla sua ombra incontrerò la fonte
dove un rumore d’acqua è solo silenzio.
***
NELLE PAROLE
Respiro la terra nelle parole,
nel dorso delle parole
respiro
la pietra fresca della calce;
respiro una vena d’acqua
che si perde
tra le spalle
o le natiche;
respiro un sole recente
e raso
nelle parole,
con lentezza d’animale.
***
SCRIVO
Scrivo già con la notte
in casa. Scrivo
sulla mattina in cui ascoltavo
il rumore della calce o del fuoco,
e eri tu soltanto
a dire il mio nome.
Scrivo per portare alla bocca
il sapore della prima
bocca che baciai tremante.
Scrivo per arrivare
alle origini.
E tornare a nascere.
Le poesie più belle di Mahmoud Darwish-poeta palestinese-
POETA STRANIERO IN TERRA PROPRIA – Mahmoud Darwish, scrittore palestinese considerato tra i maggiori poeti del mondo arabo, ha raccontato l’orrore della guerra, dell’oppressione, dell’esilio (al-Birwa, suo villaggio natale, è stato distrutto dalle truppe israeliane durante la Nakba e ora non esiste più, né fisicamente né sulle cartine geografiche). Fuggito in Libano con la famiglia, per scampare alle persecuzioni sioniste, tornò in patria (divenuta terra dello Stato d’Israele) da clandestino, non potendo fare altrimenti. La sua condizione di “alieno” e di “ospite illegale” nel suo stesso paese rappresenterà uno dei capisaldi della sua produzione artistica.
ARRESTI ED ESILIO – Arrestato svariate volte per la sua condizione di illegalità e per aver recitato poesie in pubblico, Mahmoud – che esercitò anche la professione di giornalista – vagò a lungo, non avendo il permesso di vivere nella propria patria: Unione Sovietica, Egitto, Libano, Giordania, Cipro, Francia furono le principali nazioni dove il poeta, esule dalla sua terra, visse e lavorò.
Eletto membro del parlamento dell’Autorità Nazionale Palestinese, poté visitare i suoi parenti solo nel 1996, anno in cui – dopo 26 anni di esilio – ottenne un permesso da Israele. Il poeta si spense a Houston (Texas) il 9 agosto 2008 in seguito a complicazioni post-operatorie. Mahmoud aveva infatti subito diversi interventi al cuore, l’ultimo dei quali gli fu fatale.
Le poesie più belle di Mahmoud Darwish-poeta palestinese-
Potete legarmi mani e piedi
Togliermi il quaderno e le sigarette
Riempirmi la bocca di terra
La poesia è sangue del mio cuore vivo
sale del mio pane luce nei miei occhi.
Sarà scritta con le unghie
lo sguardo e il ferro
la canterò nella cella della mia prigione
al bagno
nella stalla
sotto la sferza
tra I ceppi
nello spasimo delle catene.
Ho dentro di me un milione d’usignoli
Per cantare la mia canzone di lotta
PENSA AGLI ALTRI
Mentre prepari la tua colazione, pensa agli altri,
non dimenticare il cibo delle colombe.
Mentre fai le tue guerre, pensa agli altri,
non dimenticare coloro che chiedono la pace.
Mentre paghi la bolletta dell’acqua, pensa agli altri,
coloro che mungono le nuvole.
Mentre stai per tornare a casa, casa tua, pensa agli altri,
non dimenticare i popoli delle tende.
Mentre dormi contando i pianeti , pensa agli altri,
coloro che non trovano un posto dove dormire.
Mentre liberi te stesso con le metafore, pensa agli altri,
coloro che hanno perso il diritto di esprimersi.
Mentre pensi agli altri, quelli lontani, pensa a te stesso,
e dì: magari fossi una candela in mezzo al buio.
CARTA D’IDENTITA’
Ricordate!
Sono un arabo
E la mia carta d’identità è la numero cinquantamila
Ho otto bambini
E il nono arriverà dopo l’estate.
V’irriterete?
Ricordate!
Sono un arabo,
impiegato con gli operai nella cava
Ho otto bambini
Dalle rocce
Ricavo il pane,
I vestiti e I libri.
Non chiedo la carità alle vostre porte
Né mi umilio ai gradini della vostra camera
Perciò, sarete irritati?
Ricordate!
Sono un arabo,
Ho un nome senza titoli
E resto paziente nella terra
La cui gente è irritata.
Le mie radici
furono usurpate prima della nascita del tempo
prima dell’apertura delle ere
prima dei pini, e degli alberi d’olivo
E prima che crescesse l’erba.
Mio padre… viene dalla stirpe dell’aratro,
Non da un ceto privilegiato
e mio nonno, era un contadino
né ben cresciuto, né ben nato!
Mi ha insegnato l’orgoglio del sole
Prima di insegnarmi a leggere,
e la mia casa è come la guardiola di un sorvegliante
fatta di vimini e paglia:
siete soddisfatti del mio stato?
Ho un nome senza titolo!
Ricordate!
Sono un arabo.
E voi avete rubato gli orti dei miei antenati
E la terra che coltivavo
Insieme ai miei figli,
Senza lasciarci nulla
se non queste rocce,
E lo Stato prenderà anche queste,
Come si mormora.
Perciò!
Segnatelo in cima alla vostra prima pagina:
Non odio la gente
Né ho mai abusato di alcuno
ma se divento affamato
La carne dell’usurpatore diverrà il mio cibo.
Prestate attenzione!
Prestate attenzione!
Alla mia collera
Ed alla mia fame!
PROFUGO
Hanno incatenato la sua bocca
e legato le sue mani alla pietra dei morti.
Hanno detto: “Assassino!”,
gli hanno tolto il cibo, le vesti, le bandiere
e lo hanno gettato nella cella dei morti.
Hanno detto: “Ladro!”,
lo hanno rifiutato in tutti i porti,
hanno portato via il suo piccolo amore,
poi hanno detto: “Profugo!”.
Tu che hai piedi e mani insanguinati,
la notte è effimera,
né gli anelli delle catene sono indistruttibili,
perché i chicchi della mia spiga che va seccando
riempiranno la valle di grano.
UNA LEZIONE DI KAMASUTRA
Con la coppa incastonata d’azzurro
aspettala
vicino alla fontana della sera e ai fiori di caprifoglio,
aspettala
con la pazienza del cavallo sellato,
aspettala
con il buon gusto del principe raffinato e bello
aspettala
con sette cuscini pieni di nuvole leggere,
aspettala
con il foco dell’incenso femminile dappertutto
aspettala
con il profumo maschile di sandalo sui dorsi dei cavalli,
aspettala.
E non spazientirti. Se arriva in ritardo
aspettala,
se arriva in anticipo
aspettala
e non spaventare gli uccelli sulle sue trecce,
e aspettala
chè si sieda rilassata come un giardino in fiore,
e aspettala
chè respiri un’aria estranea al suo cuore,
e aspettala
fino a che non sollevi il suo vestito scoprendo le gambe
nuvola dopo nuvola,
e aspettala
e portala su un balcone per vedere una luna annegata nel latte,
e aspettala
e offrile l’acqua prima del vino e non
guardare il paio di pernici che le dormono sul petto,
e aspettala
e accarezza lentamente la sua mano
quando poggia la coppa sul marmo
come se sollevassi la rugiada per lei,
e aspettala
e parlale come il flauto
alla coda spaventata del violino,
come due testimoni di ciò che il domani vi prepara,
e aspettala
e leviga la sua notte anello dopo anello,
e aspettala
fino a che la notte non ti dica:
Al mondo siete rimasti soltanto voi due.
Allora portala dolcemente alla tua morte desiderata
I suoi libri sono stati tradotti in più di venti lingue e diffusi in tutto il mondo. Solo una minima parte della sua produzione letteraria è stata tradotta in italiano.[2]
Biografia
Mahmoud Darwish (Maḥmūd Darwīsh) nacque nel 1941 nel villaggio di al-Birwa, situato in Alta Galilea a est della città di Akko (Acri). Il suo villaggio natale fu distrutto nel corso del conflitto arabo-israeliano del 1948, e dichiarato unilateralmente zona militare inaccessibile nel 1951.[3] Nel 1948 – durante il primo conflitto arabo-israeliano – i genitori di Mahmoud per sfuggire ai rischi della guerra cercarono rifugio in Libano con il resto della popolazione, ma furono tra i pochissimi che riuscirono a rientrare nel loro paese, illegalmente, dopo appena un anno. Nel frattempo però la loro terra d’origine era diventata parte dello stato di Israele e i loro beni erano stati confiscati. In questa condizione fin da bambino Darwish si trovò nello status legale di “alieno”, cittadino che risiede come “ospite illegale”.
Da giovane fu arrestato e condannato più volte a pene detentive, per la sua presenza in Israele senza permesso e per aver recitato poesie sovversive in pubblico. Studiò peraltro la lingua ebraica israeliana. Cominciò l’attività pubblicistica a diciannove anni, iscritto all’università non ebbe la possibilità di laurearsi a causa delle interruzioni degli studi nei periodi trascorsi in prigione, anche se in Unione Sovietica, a Mosca, si costruì nel 1971 una solida preparazione linguistico-letteraria. Pubblicò la sua prima raccolta di poesie, Uccelli senza Ali, a diciannove anni nel 1960. L’opera che lo rese famoso, “Foglie D’Ulivo“, fu pubblicata nel 1964. È un’opera che trasfigura in quadri di forte impatto l’identità nazionale palestinese. Divennero famose alcune poesie che raccontano la condizione dolorosa e folle dell’esilio. La carriera poetica di Mahmoud Darwish, dall’epoca della prima pubblicazione, mantiene legami ideali con la lotta armata del popolo palestinese per il ritorno alla sua terra (l’attività dei gruppi armati cominciò anch’essa nel 1964). La poesia di Darwish assumeva un ruolo di riferimento collettivo per la causa palestinese.
Fu direttore del quotidiano locale “Ittiḥād” (Unità) fino al 1970. In quell’anno abbandonò definitivamente la Palestina/Israele per un periodo di studio in Unione Sovietica. Da allora trascorse la sua vita risiedendo per periodi diversi nelle principali città del mondo arabo: Il Cairo, Beirut, Tunisi, Amman. A Beirut diresse un mensile palestinese (Shuʿūn Filasṭīniyya, “Affari Palestinesi”), quindi divenne direttore della rivista letteraria palestinese “al-Karmel”, pubblicata da un dicastero dell’OLP. Visse per un lungo periodo a Beirut fino al 1982, quando la città fu assediata dall’esercito israeliano. Darwish dovette abbandonare il Libano insieme allo Stato Maggiore e al Comitato Esecutivo dell’OLP (l’organo di governo dell’OLP). Dopo un periodo di esilio a Cipro, visse tra Beirut e Parigi. Lavorò anche al Cairo presso il quotidiano nazionale “al-Ahrām”.
La seconda metà degli anni ottanta furono l’epoca del suo maggiore impegno politico. Nel 1987 fu eletto nel Comitato Esecutivo dell’OLP. Sempre nel 1987 Darwish partecipò a Firenze alla rassegna “Poeti del Mediterraneo per la Pace”, con lo spagnolo Goytisolo, l’italo-jugoslavo Damiani, l’israeliana Ravilovich, il greco Apostolatos, rassegna organizzata dagli enti locali e dalla rivista culturale Collettivo R.
I suoi spostamenti dell’epoca e particolari della sua vita sono in parte segreti (per ragioni di sicurezza ciò valeva per tutti gli esponenti di organizzazioni palestinesi). Darwish era stato una figura politica fin dalla metà degli anni sessanta, quando entrò nel Partito Comunista di Israele. La sua carriera politica si svolse però nell’OLP, di cui divenne uno dei quadri. Al momento della sua elezione nell’organismo decisionale era considerato un rappresentante dell'”ala dura”, la corrente che difendeva maggiormente il principio del diritto al ritorno dei profughi e la “distruzione” dello Stato di Israele. Si dimise dal Comitato Esecutivo sei anni dopo, nel 1993, perché contrario agli accordi di Oslo (accusò Yasser Arafat di eccessiva arrendevolezza nei negoziati).
Solo nel 1996, dopo 26 anni di esilio, ottenne un permesso per visitare la sua famiglia nello stato di Israele. Divenne nuovamente direttore di “al-Karmel” (rifondata nel frattempo) e venne eletto nel Consiglio legislativo palestinese nei Territori occupati.
Mahmoud Darwish è morto all’età di 67 anni a Houston (Texas) il 9 agosto 2008, per le complicanze di un delicato intervento al cuore (già ne aveva subiti nel 1984 e nel 1998)
Mahmoud Darwish è la prima e unica personalità palestinese dopo Arafat alla quale sono stati concessi i funerali di stato.
Per commemorarne la figura, il 5 ottobre 2008 è stata organizzata a Berlino una lettura contemporanea mondiale delle sue poesie.[4]
Opere pubblicate in italiano
Versi di fuoco e di sangue: dei poeti arabi della Resistenza, versione italiana di Issa Naouri (Editrice EAST, 1969), poesie di Mahmoud Darwish e altri poeti palestinesi.
Meno rose, trad. Gianroberto Scarcia e Francesca Rambaldi (Ca’ Foscari, 1997)
Inni universali di pace della Palestina. Elogio dell’ombra alta, trad. Saleh Zaghloul (Jouvence, 2020), con testo arabo a fronte.
La saggezza del condannato a morte e altre poesie, trad. di Tareq Aljabr e Sana Darghmouni, riadattamento dei testi poetici in italiano Emiliano Cribari (Emuse, 2022).
Con la lingua dell’altro, trad. di Francesca Gorgoni (Portatori d’acqua, 2023).
Pensa agli altri, illustrazioni di Sahar Abdallah, introduzione di Simone Sibilio, trad. di Alessandra Amorello (Lorusso, 2023).
Non scusarti per quel che hai fatto, a cura di Sana Darghmouni e Pina Piccolo, premessa di Monica Ruocco (Crocetti, 2024), con testo arabo a fronte.
Se l’Italia cestina i suoi poeti: il caso Piero Bigongiari
Proprio così. In questo Paese i poeti, come Piero Bigongiari, all’improvviso, affogano nelle sabbie mobili. Senza mobilitazioni popolari, i poeti scompaiono dall’orizzonte editoriale, e chi se li ricorda più. Uno dopo l’altro, assistiamo a una lenta, inesorabile, macelleria dei nostri ‘grandi’. Questa volta a soffocare in soffitta è finito Piero Bigongiari. Morto a Firenze il 7 ottobre del 1997, nessun giornale ‘nazionale’ ha rammentato i vent’anni dalla scomparsa di “uno dei più grandi poeti del Novecento” (così la didascalia di uno dei suoi libri, afferrato a casaccio). Insomma, hanno scavato la fossa a Bigongiari e non lo tirano fuori nemmeno per far finta di onorare la ricorrenza. Peccato. Peccato perché Bigongiari è stato un grande poeta, certo, ma soprattutto un poeta anomalo, inquieto, proteiforme. Nato a Navacchio, in provincia di Pisa, Bigongiari fa l’Università a Firenze, dove fa amicizia con i grandi di allora, Eugenio Montale, Carlo Emilio Gadda, Elio Vittorini, Tommaso Landolfi. Esordio poetico nel 1942, con La figlia di Babilonia, subito eletto, insieme a Mario Luzi, il più talentuoso e risolto tra gli ‘ermetici’, Bigongiari ha scritto tanto, ha tradotto tanto, è stato un raffinato prof e un acuto studioso di cose d’arte. La sua arguta generosità ha sedotto una generazione: Roberto Carifi, Paolo Roberto Iacuzzi e Alessandro Ceni sono, diversamente, suoi allievi. Già, ma dove lo leggiamo, oggi, Bigongiari, poeta sempre in cerca di sé, audacemente filosofo, impenitente narratore? Non possiamo leggerlo, semplice. La raccolta Dove finiscono le tracce (1958-1996) edita da Le Lettere si trova in biblioteca, idem per le poesie ultime, raccolte come Il silenzio del poema (Marietti, 2003). Il resto, è disperso in piccoli editori, per piccole, amorevoli, iniziative. Di fatto, di Bigongiari, uno dei grandi poeti del secolo, oggi, vent’anni dopo, in libreria, c’è nulla. Figuriamoci allestire un ‘Meridiano’ Mondadori – l’han fatto a Eugenio Scalfari e ad Andrea ‘Montalbano’ Camilleri – a chi importa della parola poetica, l’unica importante? Per capire la grana lirica di questo poeta immenso cercate qualcosa in rete. Una poesia tra le più belle si chiama Daffodils, è tra le ultime, scritte nel gennaio del 1997. Per Bigongiari la poesia è un diario perpetuo, è dissezionare il mondo con il bisturi della propria anima.
I cammini del senso sono strani
deviano spesso misericordiosi
in altri, e vani, i suoi significati,
daffodils chiamammo per il resto
del viaggio il mistero oculare
di una felicità che non ha nome
se non nella più ampia identità
sfuggente a ogni sguardo. Tu ricordi
come si chiama ciò che non si sa?
E il tuo sorriso rispondeva: Daffo-
dils, mi pare daffodils. Forse
fu quella la definizione più
precisa, che incisa su un sorriso,
pietrificò l’enigma e lo smentì
in uno scoppio improvviso di risa.
Questa è una stanza di Daffodils. I daffodils sono una variante del narciso, che il poeta scopre a South Kensington. Il riferimento letterario dotto (“seppi che ne aveva parlato anche Wordsworth”) aumenta, chissà, il sentore di enigma. Il fiore, ad ogni modo, diventa figura di ciò che è inesprimibile. E la poesia è di una bellezza che dobbiamo solo tatuarcela nel cuore.
Quest’anno, poi, inoltre, scocca un altro anniversario che riguarda Bigongiari. Settant’anni fa, nel 1947, Bigongiari ospita nella sua casa fiorentina Dylan Thomas, il poeta gallese che è già leggenda – e che per fortuna nostra viene ancora pubblicato e letto. In Dylan Thomas (biografia tradotta in italiano nel 2008 per Mattioli) Paul Ferris ricostruisce il viaggio italiano del poeta – naturalmente, per eccesso di anglocentrismo, dimenticando di citare Bigongiari. “I Thomas si recarono in Italia in aprile”: prima attraccano a San Michele di Pagana, nei pressi di Rapallo, meta prediletta di Ezra Pound e di William B. Yeats, poi arrivano a Firenze, patria dell’intelligenza italiana. Bigongiari porta Thomas, che ha già pubblicato le poesie più belle, alle Giubbe Rosse, mitico bar fiorentino. Da lì il gallese verga una delle sue lettera strappalacrime indirizzate alla moglie (giocavano, entrambi, a fare i fedifraghi): “Caitlin mia cara, cara, cara: ti scrivo questa inutile lettera a un tavolino delle Giubbe Rosse dove, dopo averti vista salire su un tram, mi sono recato, più triste di chiunque al mondo, a sedermi ad aspettare. Posso solo dire che ti amo come non mai; questo significa che ti amo per sempre, con tutto il cuore e tutta l’anima, ma questa volta come un uomo che ti ha perso”. Thomas rimpiangeva la nebbia di Londra, le praterie gallesi, i bar d’Albione. “Qualche volta andava in centro a Firenze a passare una serata nei caffè. Attorno si radunavano gli intellettuali. Thomas fissava il vuoto e si addormentava. Una fonte attendibile racconta che una volta si nascose nel guardaroba per evitare di incontrare uno scrittore italiano venuto a fargli visita”. Solo Bigongiari era ammesso nell’arco rapido dell’amicizia di Dylan Thomas. Bigongiari andò in brodo per Thomas, che influì sulla sua ricerca poetica, fatta di divagazioni liriche, di esplosioni linguistiche. Lo tradusse, pure. Una delle poesie più celebrate di Thomas, And death shall have no dominion, diventa, “E morte non regnerà/ E morte non regnerà./ I morti nudi saranno una cosa sola/ Con l’uomo nel vento e la luna occidentale”. Magnifico. Il dialogo tra i vivi e i morti è continuo, una fioriera di sorprese. Invece, in Italia, ci ostiniamo a dimenticare i nostri grandi, una volta ficcati nella bara. Sia lode, ora, a Bigongiari.
È considerato uno degli autori che furono alla base dell'”avanguardia non codificata”, come lui stesso definiva l’ermetismo.[1] Con i poeti Luzi e Parronchi costituì quella che Carlo Bo definì la “triade dei poeti ermetici toscani”.[2] Come esponente austero e rigoroso dell’ermetismo purista, ne accentuò la tendenza metafisica con una trattazione predominante del tema dell’assenza, accompagnata da un forte anelito religioso.[3] In un secondo tempo, indicativamente dai primi anni settanta, la sua poesia raggiunse maggiore consapevolezza ed equilibrio tra il richiamo della realtà e la sua trasfigurazione simbolica.[1]
La giovinezza
Piero Bigongiari nacque il 15 ottobre 1914 a Navacchio, in provincia di Pisa, dove la sua famiglia si era trasferita nel 1911 da Livorno. Era il quarto dei cinque figli di Alfredo Bigongiari, ferroviere, e di Elvira Noccioli.[4]
A Pistoia conobbe Roberto Carifi: vivevano a pochi metri di distanza ed ebbero importanti momenti di scambio intellettuale.
Nel 1936 si laureò con il professor Attilio Momigliano, discutendo una tesi su Leopardi, “L’elaborazione della lirica leopardiana”, pubblicata pochi mesi dopo dall’editore Le Monnier.
Nel 1941 Bigongiari sposò Donatella Carena, figlia del pittore Felice Carena, e si trasferì a Firenze, in Piazza dei Cavalleggeri 2, zona Santa Croce, dove vivrà fino alla morte. Ebbero un figlio, Lorenzo, ma il matrimonio naufragò quasi subito e si arrivò addirittura alla dichiarazione di nullità.[4]
Nel 1942 pubblicò il suo primo volume di poesie, “La figlia di Babilonia”. Nello stesso anno ebbe inizio la sua amicizia con Giuseppe Ungaretti, solitamente considerato l’ispiratore e il primo vero poeta dell’ermetismo.
Nel 1948 conobbe Elena Ajazzi Mancini, la donna che diventerà la sua seconda moglie e dalla quale avrà un secondo figlio, Luca, nato nel 1952. Con Elena il poeta condivise, fino agli ultimi giorni, l’esistenza, le amicizie e le passioni, soprattutto quelle per l’arte (in particolare per il “Seicento fiorentino”, di cui furono grandi collezionisti e di cui Bigongiari fu anche esperto critico) e per la cultura francese.[4]
Negli anni cinquanta iniziò la collaborazione ai programmi radiofonici della RAI“L’Approdo” e “L’Approdo letterario” e, su invito dell’amico Romano Bilenchi, iniziò a fornire il suo contributo ai quotidiani Il Nuovo Corriere e, in un secondo momento, La Nazione. Nel 1951 iniziò la traduzione e la cura dell’opera completa di Joseph Conrad (che completerà nel 1966, in ventiquattro volumi) e diventò redattore della rivista Paragone, appena fondata dallo storico dell’arte Roberto Longhi (incarico che manterrà per circa dieci anni e che abbandonerà nel 1960 in polemica con Giorgio Bassani[4]).
Benché si definisse «un sedentario che si sposta»[10], Bigongiari, soprattutto nei primi anni cinquanta, compì una serie di viaggi in Francia e in Medio Oriente, e lunghi soggiorni in Grecia e in Egitto con l’amico Giovanni Battista Angioletti, e con il giornalista Sergio Zavoli, traendone suggestivi reportage, poi pubblicati con i titoli “Testimone in Grecia” (1954) e “Testimone in Egitto” (1958).[10] Nel 1952 uscì il suo secondo libro di versi “Rogo”, seguito tre anni dopo da “Il corvo bianco” (1955) e, dopo altri tre anni, da “Le mura di Pistoia” (1958). Sulla rivista La Palatina comparve il suo primo importante saggio d’arte contemporanea, su Jackson Pollock.
La maturità e l’ultimo periodo
Nel 1965 vinse il concorso per la cattedra universitaria in Letteratura italiana moderna e contemporanea e cominciò a insegnare alla Facoltà di Magistero dell’Università di Firenze, incarico che mantenne fino al 1989. Nel 1977 dette vita alla rivista di “studi e testi” Paradigma, pubblicata internamente alla Facoltà di Magistero, chiamando a collaborarvi i suoi assistenti e allievi dell’Istituto di Letteratura italiana moderna e contemporanea.[4]
Dal punto di vista dell’attività letteraria, il periodo che va dai primi anni sessanta fino alla sua morte, vide Bigongiari impegnato in un’incessante ed eterogenea produzione, che mette in luce la molteplicità dei suoi interessi e la sua versatilità.
Tra le principali opere poetiche di questo periodo si segnalano le raccolte “La torre di Arnolfo” (1964), “Antimateria” (1972), “Moses” (1979), “Col dito in terra” (1986), “Diario americano” (1987), “Nel delta del poema” (1989), “La legge e la leggenda” (1992). Nel 1985 pubblicò anche la selezione antologica “Autoritratto poetico”.[7] Nel 1994, a cura di Paolo Fabrizio Iacuzzi fu pubblicato il primo volume (poesie del 1933–1963) della raccolta antologica‘Tutte le poesie’ , ed insieme la raccolta inedita degli anni 1933-1942, con il titolo “L’arca”. Come ultime opere poetiche di Bigongiari sono da considerare le due raccolte “Dove finiscono le tracce” e “Nel giardino di Armida” (entrambe uscite nel 1996).
fu sempre affiancata da quella di traduttore, che riguardò testi di Rainer Maria Rilke, dei francesi René Char e Francis Ponge (“Poesia francese del Novecento”, 1968), oltre ai già citati Joseph Conrad e Dylan Thomas. Fu anche autore di importanti studi critici, tra i quali “Poesia italiana del Novecento” (1960), “Leopardi” (1962), in cui riunì tutti i suoi saggi scritti fino a quel momento sul poeta di Recanati, “La poesia come funzione simbolica del linguaggio” (1972), “Visibile invisibile” (1985) e “L’evento immobile” (1987).[4]
Collezionista e studioso di pittura, nel 1975 pubblicò il testo d’arte “Il Seicento fiorentino”. I suoi numerosi saggi brevi su temi artistici furono riuniti nel 1980 in “Dal Barocco all’Informale”, che è la testimonianza del suo costante interesse per la pittura contemporanea (da Paul Klee a Giorgio Morandi, da Max Ernst a Ennio Morlotti, da Jackson Pollock a Balthus).[4]
La vedova Elena Ajazzi Mancini donò, con lascito testamentario alla sua morte, la biblioteca (oltre 6.000 volumi) alla Biblioteca San Giorgio di Pistoia, dove la maggior parte dei volumi sono conservati in una saletta intitolata al poeta.[12][13]
Sempre a Pistoia, presso i Musei dell’Antico Palazzo dei Vescovi,[14] è conservata la collezione dei quadri del Seicento Fiorentino, messa insieme negli anni dai coniugi Bigongiari e acquisita dalla Cassa di Risparmio di Pistoia e della Lucchesia alla morte della signora Ajazzi Mancini.
«Con la sua parola calma, discreta, impastata in quel silenzio da dove provengono le parole vere, Bigongiari raccontava la sua poesia. Poche esperienze poetiche e di pensiero di questo secolo sembrano al pari di quella di Bigongiari, la parola donata nella comune memoria del Bene. Un cammino in cui la poesia, nota che accomuna maestro e discepolo, è un luogo dove nessuno sarà mai a tal punto straniero da non potervi trovare l’accoglienza.»
Archivio
Il fondo Piero Bigongiari[16] è stato donato nel 2007 alla Biblioteca San Giorgio di Pistoia in base alle disposizioni testamentarie di Elena Ajazzi Mancini, vedova di Piero Bigongiari. Il versamento è stato curato da Paolo Fabrizio Iacuzzi, curatore delle opere di Bigongiari, che si è occupato anche dell’ordinamento del fondo e ha redatto un Inventario topografico. L’archivio contiene materiale relativo a Bigongiari poeta, traduttore e narratore, traduttore e scrittore: autografi, dattiloscritti, minute, materiali preparatori, bozze manoscritte e dattiloscritte, fogli volanti, pubblicazioni in riviste ed opuscoli, suddivisi a seconda dei libri pubblicati e in cartolari cronologici di inediti dal 1972 al 1997.
Opere
Poesie
La figlia di Babilonia, Parenti, Firenze, 1942
Rogo, Ed. della Meridiana, Milano, 1952
Il corvo bianco, Ed. della Meridiana, Milano, 1955
Le mura di Pistoia (1955-1958), Mondadori, Milano, 1958
Il caso e il caos, Ediz. Salentina, Lecce, 1960
Antimateria, Mondadori, Milano, 1972
Moses, Mondadori, Milano, 1979
Autoritratto poetico, Sansoni, Firenze, 1985
Col dito in terra, Mondadori, Milano, 1986
Diario americano, Amadeus, Montebelluna, 1987
Nel delta del poema, Mondadori, Milano, 1989
La legge e la leggenda, Mondadori, Milano, 1992
L’arca, Le Lettere, Firenze, 1994
Dove finiscono le tracce (1984-1996), Le Lettere, Firenze, 1996
Nel giardino di Armida, Le Lettere, Firenze, 1996
Tra splendore e incandescenza, Pezzini Editore, Viareggio 1996
Saggi
L’elaborazione della lirica leopardiana, Le Monnier, Firenze, 1937
Il senso della lirica italiana e altri studi, Sansoni, Firenze, 1952
Poesia italiana del Novecento, Vallecchi, Firenze, 1960
Leopardi, Vallecchi, Firenze, 1962
Torre di Arnolfo, Mondadori, Milano, 1964
Capitoli di una storia della poesia italiana, Ediz. Felice Le Monnier, Firenze, 1968
La poesia come funzione simbolica del linguaggio, Rizzoli, Milano, 1972
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