-Giulia Ananìa L’AMORE È UN ACCOLLO Poesie (quasi) romantiche parole cantate da
: romane come la lingua universale che fu di Pier Paolo Pasolini e di Gabriella Ferri–
-Editore -Red Star Press- ROMA-
Poesie Erotiche e ironiche, tenere e al tempo sferzanti, innamorate persino nella disillusione e dolci anche quando piangono e, nel sorridere, riflettono, commuovono e feriscono…L’AMORE È UN ACCOLLO Così sono le parole cantate da Giulia Ananìa: romane come la lingua universale che fu di Pier Paolo Pasolini e di Gabriella Ferri, stradaiole per vocazione girovaga di un’autrice dalle radici capaci di estendersi da Trastevere a Bombay; e, come uno scalpello, capaci di cesellare in un tempo via via crudele e indifferente quegli attimi di assoluto stupore a cui si dà il nome di Poesia.
-Editore -Red Star Press- ROMA-
Quella della cooperativa editoriale Red Star Press è la storia di un piccolo gruppo di lavoratrici e lavoratori che, dopo aver prestato a lungo il proprio braccio e la propria mente all’industria editoriale, prendono la decisione di fare una cosa diversa: creare loro stessi, e senza padroni, una casa editrice in grado di dare il giusto spazio ai temi relativi alla storia e alla memoria del movimento operaio. Correva l’anno 2012 e, nel mese di aprile, vedeva la luce il primo titolo con la stella in copertina.
Si trattava de “Il libretto rosso della Resistenza”, destinato a inaugurare la collana “I libretti rossi”, pensata per offrire in chiave divulgativa i testi dei giganti del pensiero politico rivoluzionario e in modo sintetico quelli che sono stati i grandi momenti di riscossa popolare. Insieme ai “Libretti rossi”, nel giro di pochi mesi arrivano in libreria e negli infoshop di movimento i volumi della collana “Unaltrastoria” e “Tutte le strade”: libri concepiti per durare nel tempo, concentrandosi, rispettivamente, sulla storia delle grandi lotte di liberazione e, in modo meno convenzionale, su generi come il reportage, la biografia, il memoir, il fumetto, la narrativa e la poesia, per tradurre con la carta e con l’inchiostro quelle che sono le aspirazioni di cambiamento provenienti da ogni tempo e da ogni paese. Con gli anni, a questa programmazione, si sono affiancati i contenuti ospitati nelle collane “Le Fionde” (saggistica politica), “Barrio Chino” (urbanistica, geografia sociale e antropologia urbana) e, dedicata ai bambini e alle bambine, la nuova collana “Red Star Kidz”: materiale che, fedeli alla nostra vocazione “stradaiola”, abbiamo avuto l’occasione di diffondere nel corso dei principali appuntamenti dedicati ai libri in giro per l’Italia. costruendo un punto di riferimento orgogliosamente antifascista, antisessista e antirazzista agli ingranaggi collettivi della memoria.
Ci sono altri temi particolarmente cari alla Red Star Press. La musica, la controcultura e lo sport popolare – un campo rispetto al quale, dalla Red Star, nasce l’etichetta Hellnation Libri – e poi l’arte contemporanea e ipercontemporanea, di cui, in modo sistematico, si occupa l’altra etichetta della cooperativa: Bizzarro Books.
Nella sede di viale di Tor Marancia 76, a Roma, in ogni caso, la Red Star Press non si occupa solo di libri. Dalla serigrafia, infatti, escono le t-shirt ispirate alle pubblicazioni e fedeli alla stessa linea editoriale: pensiamo ciò che siamo e stampiamo ciò che pensiamo; e ciò che siamo lo indossiamo! O, convinti che muri puliti possano solo significare popoli muti, lo appendiamo: come accade con le grafiche dedicate ai grandi personaggi della storia popolare.
Questa, in sintesi, è la storia della Red Star Press. E identici sono i motivi che ispirano il suo lavoro. Affinché l’editoria torni a dare spazio ai sogni. In attesa di assaltare il cielo.
Red Star Press
Viale di Tor Marancia 76
Roma, Italia
CAP 00147
«Giulia mi sembrava quella che ho spesso cercato e non ho mai trovato» (Carlo Verdone)
Erotiche e ironiche, tenere e al tempo sferzanti, innamorate persino nella disillusione e dolci anche quando piangono e, nel sorridere, riflettono, commuovono e feriscono… Così sono le parole cantate da Giulia Ananìa: romane come la lingua universale che fu di Pier Paolo Pasolini e di Gabriella Ferri, stradaiole per vocazione girovaga di un’autrice dalle radici capaci di estendersi da Trastevere a Bombay; e, come uno scalpello, capaci di cesellare in un tempo via via crudele e indifferente quegli attimi di assoluto stupore a cui si dà il nome di Poesia.
Com’è che te chiami stavolta?
Qual è il tuo nome d’arte?
Marta? Federico? Carlotta?
Vabbè è inutile che te cerchi un nome
te chiami Amore-
Introduzione di Carlo Verdone-Postfazione di Irene Ranaldi
Edizioni Red Star Press Viale di Tor Marancia 76 Roma, Italia CAP 00147
La mia spada è la poesia. Versi di lotta e d’amore nell’opera della poetessa persiana Simin Behbahani
WriteUp Edizioni-Roma
Simin Behbahāni (in persiano سیمین بهبهانی; Teheran, 20 giugno1927 – Teheran, 19 agosto2014) è stata una poetessairaniana. La presente monografia costituisce la prima indagine sistematica in italiano sulla poetessa persiana Simin Behbahāni (Tehran 1927 – Tehran 2014), due volte candidata al Nobel, e include una vasta antologia con gli originali persiani in appendice. I componimenti debitamente commentati di Simin Behbahāni sono disposti nel volume in ordine tematico, in modo da offrire un affresco significativo della sua poesia, nel contesto degli eventi salienti e spesso drammatici della storia dell’Iran contemporaneo. Nei suoi versi, caratterizzati da un forte e ostinato impegno civile, si riflettono spesso le condizioni dei disagiati ed emarginati, poiché Simin dà voce a quelli che una voce non hanno, in particolare a donne cui, senza essere una femminista dichiarata, ella offre larghissimo spazio. Simin si dedica anche al “diverso”, all’escluso: il ladruncolo, l’infanticida, la prostituta, la zingara; a quest’ultima anzi, divenuta quasi il suo alter ego, la poetessa intitola la raccolta “Zingaresche”. Ma la sua figura poliedrica, che oscilla tra classicismo e innovazione, si esprime anche attraverso squisiti versi lirici che trasudano sentimento ed erotismo, senza mai del tutto abbandonare la cornice dell’impegno civile. In effetti persino nei suoi versi amorosi, l’io lirico erompe talvolta in grida di denuncia contro le disuguaglianze, sociali e di genere, contro la violenza di ogni potere individuale o politico:
La mia spada
La mia spada alla parete appendere, no, non voglio
Al dolce sonno abbandonarmi se non nella tomba, io non voglio. La mia spada è questa stessa poesia più efficace di qualsiasi spada Con questa spada che dolcemente agisce sangue versare non voglio Tranne la verità non so dire: se dovessero tagliarmi la testa La testa porgerei in avanti evitare la morte no, non voglio. O uomo, io sono una donna, un essere umano se pervendetta sulla mia testa Non metterai una corona di spine mi basta: che tu vi sparga le rose, certo non voglio. Con sette colori di seta io tesso d’amore uno scialle
Ma sfibrare questi fili colorati io proprio non voglio Non voglio a ogni istante le fiamme alla nostra città appiccare. Ogni giorno una rivolta nel mondo io di sicuro non voglio O tu, misogino dalla sorte infausta basta guerra follia e ignoranza! Se tutto questo desideri tu vattene, io no, certo non lo voglio!
Biografia
Azamā Arghun, una delle intellettuali più dotte della sua epoca, padroneggiava perfettamente la letteratura persiana, l’arabo, il francese e l’inglese. Aveva tradotto una biografia di Napoleone in persiano e fu attraverso un suo ghazal che conobbe Abbās Khalili, il direttore del quotidiano “Eqdām”, con il quale si sposò dopo un breve fidanzamento. Il matrimonio non durò a lungo, e Simin fu il frutto di questa breve unione. Lei stessa afferma di aver ereditato il suo talento letterario dalla madre e anche dal padre, autore di saggi e libri di storia, e uno dei primi in Iran a pubblicare romanzi in stile occidentale1 Abbās Khalili fondò inoltre il giornale “Eqdām” in epoca anteriore al regime dei Pahlavi e lo curò per altri vent’anni dopo il settembre 1941.
Fakhr-e Azamā Arghun, sua madre, una donna all’avanguardia in un’epoca in cui leggere e scrivere era considerato quasi un peccato per le donne, ricevette un’alta formazione in diverse discipline, studiando letteratura, legge e diritto islamico, lingua araba, astronomia, filosofia, logica e geografia sotto la direzione di vari precettori e maestri che si occuparono anche dei suoi due fratelli. Cominciò presto a insegnare francese, e fu una delle prime a fondare, insieme ad altre donne intellettuali, l’associazione “delle donne patriottiche”. Per diversi anni Fakhr-e Azamā Arghun e le sue colleghe e amiche si spesero per fornire educazione e istruzione a tante iraniane meno fortunate di loro. Simin crebbe dunque in un ambiente stimolante e già a dodici anni cominciò a mettere insieme qualche verso; a quattordici il suo primo ghazal venne pubblicato dal giornale “Now Bahār”, curato dal celebre poeta e finissimo letterato Malek ol-Sho’arā Bahār (1885-1952). Questo suo primo ghazal, che lasciava già trasparire un chiaro interesse per i temi sociali, cominciava così: ای توده گرسنه و نالان چه می کنی؟ ای ملت فقیر و پریشان چه می کنی؟ Tu, popolo affamato e lamentoso cosa farai? Tu popolo povero e abbattuto cosa farai?
Simin lasciò gli studi a metà delle scuole medie, dopo uno scontro con il preside della scuola, che l’accusava di aver scritto in un giornale un anonimo rapporto sulle condizioni sgradevoli del collegio in cui studiava. La vicenda fu riportata anche da giornali controllati dal partito comunista “Tudeh”, cui Simin collaborò per un certo tempo fino a quando questo rapporto non si interruppe per motivi politici. Questo evento cambiò comunque il destino di Simin e l’orientamento della sua poesia, che da quel momento privilegiò il tema della battaglia contro l’ingiustizia. Due mesi dopo l’espulsione dalla scuola, in un periodo di confusione e incertezza sui propri obiettivi, Simin sposò Hassan Behbahāni a diciassette anni. Lei stessa descrive questo matrimonio come un “terreno glaciale” che aveva ridotto il suo corpo in cenere e le sue speranze in perpetue fredde illusioni.
Simin ebbe tre figli, ma non si sentì mai innamorata, e non trovò mai compatibile la sua visione della vita con quella del marito. Grazie tuttavia alla svolta del matrimonio, ella riuscì a ritrovare l’energia e la determinazione per finire le scuole superiori e, in seguito, venne ammessa alla facoltà di giurisprudenza. Il suo secondo matrimonio, con Manouchehr Koushiyār, durò quattordici anni. Simin così rievoca quegli anni: “Ho trascorso tutto quel periodo con amore e sacrificio per poter rendere felice un uomo che alla sua scomparsa mi lasciò in una solitudine eterna”. A Manouchehr Koushiyār è dedicato il libro “Quell’uomo, il mio compagno di strada”, in cui così ricorda gli anni trascorsi insieme: “Finimmo insieme gli studi di giurisprudenza. Io diventai insegnante di letteratura nelle scuole superiori e rimasi in quella professione, mentre lui intraprese l’attività di avvocato; eravamo felici in quei giorni trascorsi insieme, con l’amore che ci univa”.
La poetica di Simin
Simin viaggiò e partecipò a diverse conferenze e programmi internazionali inerenti alla letteratura e alla questione femminile, ma non rimase mai per lungo tempo lontana dall’Iran. Più volte ha ribadito nel corso della sua vita di essere interessata a conoscere e approfondire le usanze, i costumi e i modi di vivere del suo amato paese. Il sentimento patriottico, accanto alla sensibilità per i temi sociali, è certamente una delle corde predilette del suo canto. Sia nella poesia che nelle interviste Simin rimane fedele a una dichiarazione che suona quasi come un manifesto poetico: “O mio paese, con il tuo passato, i tuoi poeti, i tuoi sovrani e le tue resistenze, e tutte le tue sofferenze, tutti i tuoi trionfi e tutti i tuoi inverni infiniti: io mi ricordo tutto di te”. E in un’altra occasione Simin afferma: “Qui c’è tutta la mia gioia, la poesia e la passione / qui c’è il mio trono, la mia bara e la mia tomba”. Simin comincia a comporre le sue poesie in forma di quartine, e poi prosegue con il ghazal, forma classica a cui apporterà alcune importanti innovazioni formali. I suoi ghazal costituiscono spesso una riflessione sulle condizioni sociali e le conseguenti ripercussioni nella sfera delle emozioni individuali. Le parole di Simin, in estrema sintesi, si potrebbero vedere come “reazione” poetica alle provocazioni del mondo esterno, della vita sociale, della storia dell’Iran contemporaneo.
Opere
Ecco di seguito un elenco delle sue opere principali (dove non diversamente specificato, il testo si compone interamente di poesie):
1951 Setar shekaste (Il Setar rotto) poesie e due racconti 1956 Jāy-e pā (L’impronta dei piedi) 1957 Chelcherāgh (Candelabro) 1963 Marmar (Marmo) 1973 Rastākhiz (Risurrezione) 1981 khatti ze sor’at va az ātash (La traiettoria della velocità e del fuoco) 1984 Dasht-e arjan (Pianura di Arzhan) 1989 Majmū’e-ye ash’ar (La raccolta delle poesie) 1991 Ān mard, marde hamraham (Quell’uomo, il mio compagno di strada, poesie e prose) 1992 Kāghazin jāme (Un abito di carta) 1995 Yek dariche Āzādi (Una finestra di libertà) 1995 Koli va nāme va eshgh (Zingara, lettera, amore) 1995 Āsheghtar az hamishe bekhan! (Canta, più innamorata di sempre!) 1995 Sha’eran-e emruz-e Faranse (I poeti contemporanei francesi) 1996 Bā ghalb-e khod che kharidam? (Cosa ho acquistato con il mio cuore?) 2000 Yad-e ba’zi nafarāt (Il ricordo di alcune persone) 2001 Kelid va khanjar: Ghesseha va ghosseha (La chiave ed il pugnale: le favole e le tristezze) 2001 Yeki masalan in ke (Uno per esempio che…) 2003 Majmū’e-ye ash’ar (Raccolta di poesie)
Traduzioni e studi in italiano
Nahid Norozi, “La mia spada è la poesia”. Versi di lotta e d’amore nella poetessa persiana Simin Behbahāni (con ampia antologia di poesie tradotte e commentate, e con gli originali in appendice), WriteUp Books (“Ferdows. Collana di Studi iranici e islamici”), Roma 2023.
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Angelo Sommaruga articolo scritto per la Rivista PAN N°2 del 1934-
Giosuè Carducci nasce il 27 luglio 1835 a Valdicastello, vicino Lucca, e fino al 1839 vive immerso nel meraviglioso paesaggio toscano della Maremma. Nella sua esperienza personale, questi anni in Toscana rivestono un ruolo fondamentale per la formazione della sua sensibilità: l’immagine di una natura incontaminata, energica e vitale accompagnerà tutta la sua produzione poetica. Dopo i primi studi, nel 1853 viene ammesso alla Scuola Normale Superiore di Pisa dove uscirà, laureato in Filologia, nel 1856.
Passando da Pisa a Firenze, negli anni successivi all’Università, partecipa agli incontri della società “Amici Pedanti” che si batteva per un immediato ritorno al classicismo della letteratura contro la modernità e le nuove idee del Romanticismo, un dibattito molto sentito in Italia all’epoca in quanto ogni intellettuale e letterato del tempo si schierava – e lottava – a favore o contro il classicismo in contrasto con le idee romantiche. Sua la frase: «Colui che potendo esprimere un concetto in dieci parole ne usa dodici, io lo ritengo capace delle peggiori azioni.» Arrivano anni duri, però, per il giovane Carducci. Suo fratello muore suicida e presto anche il padre passa a miglior vita lasciando Carducci responsabile per la madre e per l’altro fratello. Sono comunque anni di intensa attività editoriale, non si da per vinto, cura varie edizioni di classici italiani e, negli stessi anni, sposa Elvira Menicucci da cui ebbe quattro figli. Nel 1859 cade il Granducato di Toscana, evento questo che suscita in lui un grande entusiasmo in vista dei moti risorgimentali, e fino agli anni immediatamente successivi all’Unità d’Italia insegnerà prima in un liceo di Pistoia poi all’Università di Bologna, dove vive a partire dal 1860. In questo periodo sale in lui una crescente delusione verso la nuova classe dirigente dello Stato Unitario – è soprattutto insofferente verso la mancata liberazione di Roma – e comincia ad appoggiare ideali repubblicani e giacobini fino ad un aspro anticlericalismo, tutti atteggiamenti questi che lo metteranno in cattiva luce davanti al governo ufficiale che arriverà addirittura a sospenderlo dall’insegnamento. Il 1870 si apre per Giosuè Carducci con altri gravi lutti: perde la madre e uno dei figli avuti nel primo matrimonio. Si accompagna però a questo dolore un grande successo come poeta, pubblica una raccolta di poesie e comincia una nuova relazione amorosa con una donna intellettuale entrata in contatto con lui, inizialmente, attraverso scambi epistolari: Carolina Cristofori Piva. Intanto il suo atteggiamento giacobino si affievolisce gradualmente e nel 1876 viene candidato come democratico alle elezioni parlamentari. Pian piano comincia ad accettare il ruolo dei monarchici Savoia come garanti dell’Unità italiana e, dopo l’incontro con la regina Margherita a Bologna, nel novembre del 1878, fu tanto grande per lui il fascino esercitato dalla donna che scrisse un’ode Alla regina d’Italia avviandosi così, definitivamente, verso gli ideali monarchici. Non solo: Giosuè Carducci diventa il vate dell’Italia umbertina e viene nominato, nel 1890, senatore del Regno. Gli ultimi anni continuano ad essere caratterizzati da una febbrile attività editoriale e poetica consacrando la sua posizione di poeta ufficiale dell’Italia monarchica. Vince il premio Nobel per la letteratura nel 1904 e a pochissimi anni da questo meritato successo muore a Bologna, per una broncopolmonite, il 16 febbraio del 1907.
Curiosità
Giosuè Carducci così descriveva se stesso: «Sono superbo, iracondo, villano, soperchiatore, fazioso, demagogo, anarchico, amico insomma del disordine ridotto a sistema; e mi è forza fare il cittadino quieto e da bene.» Era notoriamente amante del buon cibo e del vino, organizzava mangiate con gli amici che iniziavano la mattina e terminavano la sera e pare che la sua collaborazione con la rivista “Cronaca Bizantina” venisse pagata con barili di Vernaccia!
Lo stile di Carducci
Un nuovo tipo di Classicismo da opporre al RomanticismoIn Italia, nonostante la diffusione di alcune delle idee romantiche circolanti in Europa nel corso dell’Ottocento, il classicismo non si è mai spento: l’educazione scolastica lo mantiene in vita e l’esempio di poeti come Monti, Foscolo e Leopardi garantiscono degli esempi autorevoli e dei modelli a cui rifarsi soprattutto per imitare il linguaggio aulico e latineggiante. A dispetto di questo, però, il classicismo ha assunto un aspetto stantio e chiuso: il mondo latino è divenuto solo un repertorio di figure a cui attingere e un linguaggio da imitare in modo sterile. Carducci invece ripropone un classicismo vitale ed energico che viene ad imporsi nella cultura italiana come un modello elevato di comunicazione poetica che si mescola con un grande bisogno di realismo. La poesia deve, attraverso un linguaggio e tematiche riprese dal mondo greco e latino, raccontare la realtà contemporanea senza introdurre elementi surreali o inquietanti come quelli del romanticismo.
Fonte- Studenti-Mondadori Media S.p.A. – Via Gian Battista Vico 42 –
Poesie di Konstantinos (Costantinos) Kavafis (gr. Κωνσταντῖνος Καβάϕης).
dal Blog L’Ombra delle Parole – Rivista Letteraria Internazionale
Appunto impolitico di Giorgio Linguaglossa
BIOGRAFIA di Konstantinos Kavafis nacque a Alessandria d’Egitto il 29 aprile 1863 e morì nell’ospedale greco San Saba di Alessandria d’Egitto il 29 aprile 1933. Trascorse ad Alessandria la maggior parte della sua vita, visitando la Grecia solo tre volte (nel 1901, 1903 e 1932). Il greco, la sua lingua poetica, lo dovette reimparare durante l’adolescenza.
Kavafis vivendo in una città di mare, meta di viaggiatori ed emigranti in cerca di fortuna, si trovò in un felice crogiuolo di incontro tra persone di diverse culture. In Europa, in campo poetico, dominavano i simbolisti francesi, in Egitto vi era la grandissima e mirabile tradizione della poesia araba e per ragioni familiari Kavafis era vicino anche alla poesia ellenica di Omero, Saffo, Alceo, Anacreonte. Impiegato per tutta la vita in un ufficio del ministero dei lavori pubblici d’Egitto coltivò quasi segretamente il suo amore per la poesia. In un primo tempo, compose i suoi versi in una lingua epurata ma dopo il 1903 si rivolse al parlato, arricchito di forme dialettali di Costantinopoli e di parole tratte dalla tradizione classica. Le sue liriche pubblicate postume nel 1936, si possono suddividere in due gruppi: quelle scritte prima del 1910, che risentono dell’influenza dei parnassiani e dei simbolisti, e quelle che, composte dopo il 1910, rappresentano la parte migliore della sua produzione. Formatasi al di fuori della tradizione, la sua opera segna una reazione agli ideali cantati da Palamas.
Itaca
Quando ti metterai in viaggio per Itaca
devi augurarti che la strada sia lunga,
fertile in avventure e in esperienze.
I Lestrigoni e i Ciclopi
o la furia di Nettuno non temere,
non sarà questo il genere di incontri
se il pensiero resta alto e un sentimento
fermo guida il tuo spirito e il tuo corpo.
In Ciclopi e Lestrigoni, no certo,
né nell’irato Nettuno incapperai
se non li porti dentro
se l’anima non te li mette contro.
Devi augurarti che la strada sia lunga.
Che i mattini d’estate siano tanti
quando nei porti – finalmente e con che gioia –
toccherai terra tu per la prima volta:
negli empori fenici indugia e acquista
madreperle coralli ebano e ambre
tutta merce fina, anche profumi
penetranti d’ogni sorta;
più profumi inebrianti che puoi,
va in molte città egizie
impara una quantità di cose dai dotti
Sempre devi avere in mente Itaca –
raggiungerla sia il pensiero costante.
Soprattutto, non affrettare il viaggio;
fa che duri a lungo, per anni, e che da vecchio
metta piede sull’isola, tu, ricco
dei tesori accumulati per strada
senza aspettarti ricchezze da Itaca.
Itaca ti ha dato il bel viaggio,
senza di lei mai ti saresti messo
in viaggio: che cos’altro ti aspetti?
E se la trovi povera, non per questo Itaca ti avrà deluso.
Fatto ormai savio, con tutta la tua esperienza addosso
già tu avrai capito ciò che Itaca vuole significare.
(1911)
.
Una notte
Era volgare e squallida la stanza,
nascosta sull’equivoca taverna.
Dalla finestra si scorgeva il vicolo,
angusto e lercio. Di là sotto voci
salivano, frastuono d’operai
che giocavano a carte: erano allegri.
E là, sul vile, miserabile giaciglio,
ebbi il corpo d’amore, ebbi la bocca
voluttuosa, la rosata bocca
ditale ebbrezza, ch’io mi sento ancora,
mentre che scrivo (dopo sì gran tempo!),
nella casa solinga inebriare.
Ogni tanto lui giura
Ogni tanto lui giura
di cominciare una vita migliore.
Ma quando viene la notte a tentarlo
con le promesse e con le sue lusinghe,
ma quando viene la notte che domina
la carne, a quei piaceri consueti
del corpo che desidera, che vuole,
perdutamente ancora s’abbandona.
Sulle scale
Mentre scendevo l’ignobile scala,
tu entrasti dalla porta e per un istante
vidi il tuo volto sconosciuto e tu vedesti me.
Subito mi nascosi per non farmi vedere di nuovo e tu
passasti rapido nascondendo il volto
e ti infilasti nell’ignobile casa
dove non avresti trovato il piacere,
così come non l’avevo trovato io.
Eppure l’amore che volevi io l’avevo da darti,
l’amore che volevo – me l’hanno detto i tuoi occhi
stanchi e ambigui – tu l’avevi da darmi.
I nostri corpi si avvertirono e si cercarono,
il sangue e la pelle intuirono.
Ma noi, turbati, ci eclissammo.
Il tavolo vicino
Avrà ventidue anni appena.
Ma – altrettanti anni fa – son certo
d’averlo goduto quello stesso corpo.
Non è affatto eccitamento d’amore.
Ero entrato da poco nel Casino;
per bere molto non avevo tempo.
Lo stesso corpo io l’ho goduto.
E anche se non rammento dove – un’amnesia che conta?
Ecco, ora che siede al tavolo vicino
riconosco ogni gesto – e sotto i suoi vestiti
rivedo nude quelle membra amate.
Il sole del pomeriggio
Questa camera, come la conosco!
Questa e l’altra, contigua, sono affittate, adesso,
a uffici commerciali. Tutta la casa, uffici
di sensali e mercanti, e Società.
Oh, quanto è familiare, questa camera!
Qui, vicino alla porta,
c’era il divano: un tappeto turco davanti,
e accanto lo scaffale con due vasi gialli.
A destra… no, di fronte… un grande armadio a specchio.
In mezzo il tavolo dove scriveva;
e le tre grandi seggiole di paglia.
Di fianco alla finestra c’era il letto,
dove ci siamo tante volte amati.
Poveri oggetti, ci saranno ancora, chissà dove!
Di fianco alla finestra c’era il letto.
E lo lambiva il sole del pomeriggio fino alla metà.
…Pomeriggio, le quattro: c’eravamo separati
per una settimana… Ahimè,
la settimana è divenuta eterna.
Aspettando I Barbari
.
Che aspettiamo, raccolti nella piazza?
Oggi arrivano i barbari.
Perché mai tanta inerzia nel Senato?
E perché i senatori siedono e non fan leggi?
Oggi arrivano i barbari Che leggi devon fare i senatori? Quando verranno le faranno i barbari.
Perché l’imperatore s’è levato
così per tempo e sta, solenne, in trono,
alla porta maggiore, incoronato?
Oggi arrivano i barbari. L’imperatore aspetta di ricevere il loro capo. E anzi ha già disposto l’offerta d’una pergamena. E là gli ha scritto molti titoli ed epiteti.
Perché i nostri due consoli e i pretori
sono usciti stamani in toga rossa?
Perché i bracciali con tante ametiste,
gli anelli con gli splendidi smeraldi luccicanti?
Perché brandire le preziose mazze
coi bei caselli tutti d’oro e argento?
Oggi arrivano i barbari, e questa roba fa impressione ai barbari.
Perché i valenti oratori non vengono
a snocciolare i loro discorsi, come sempre?
Oggi arrivano i barbari: sdegnano la retorica e le arringhe.
Perché d’un tratto questo smarrimento
ansioso? (I volti come si son fatti seri)
Perché rapidamente e strade e piazze
si svuotano, e ritornano tutti a casa perplessi?
S’è fatta notte, e i barbari non sono più venuti. Taluni sono giunti dai confini, han detto che di barbari non ce ne sono più.
E adesso, senza barbari, cosa sarà di noi?
Era una soluzione, quella gente.
(1908)
(traduzione di Filippo Maria Pontani)
Dal cassetto
Volevo appenderla a un muro della stanza.
Ma l’umidità del cassetto l’ha guastata.
Non la metto in un quadro questa foto.
Dovevo conservarla con più cura.
Queste le labbra, questo il viso…
ah, per un giorno solo, per un’ora
solo tornasse quel passato.
Non la metto in un quadro questa foto.
Mi fa soffrire vederla così guasta.
Del resto, se anche non fosse guasta,
che fastidio badare a non tradirmi…
una parola, o il tono della voce…
se mai qualcuno mi chiedesse chi era.
Per quanto sta in te
E se non puoi la vita che desideri
cerca almeno questo per quanto sta in te:
non sciuparla nel troppo commercio con la gente
con troppe parole e in un viavai frenetico.
Non sciuparla portandola in giro
in balìa del quotidiano gioco balordo
degli incontri e degli inviti
fino a farne una stucchevole estranea
Candele
Stanno i giorni futuri innanzi a noi
come una fila di candele accese
dorate, calde e vivide.
Restano indietro i giorni del passato,
penosa riga di candele spente:
le più vicine danno fumo ancora,
fredde, disfatte, e storte.
Non le voglio vedere: m’accora il loro aspetto,
la memoria m’accora il loro antico lume.
E guardo avanti le candele accese.
Non mi voglio voltare, ch’io non scorga, in un brivido,
come s’allunga presto la tenebrosa riga,
come crescono presto le mie candele spente.
Aspettando i barbari
Che cosa aspettiamo così riuniti sulla piazza?
Stanno per arrivare i Barbari oggi.
Perché un tale marasma al Senato?
Perché i Senatori restano senza legiferare?
È che i barbari arrivano oggi.
Che leggi voterebbero i Senatori?
Quando verranno, i Barbari faranno la legge.
Perché il nostro Imperatore, levatosi sin dall’aurora,
siede su un baldacchino alle porte della città,
solenne e con la corona in testa?
È che i Barbari arrivano oggi.
L’Imperatore si appresta a ricevere il loro capo.
Egli ha perfino fatto preparare una pergamena
che gli concede appellazioni onorifiche e titoli.
Perché i nostri due consoli e i nostri pretori
sfoggiano la loro rossa toga ricamata?
Perché si adornano di braccialetti d’ametista
e di anelli scintillanti di brillanti?
Perché portano i loro bastoni preziosi e finemente cesellati?
È che i Barbari arrivano oggi e questi oggetti costosi abbagliano i Barbari.
Perché i nostri abili retori non perorano con la loro consueta eloquenza?
È che i Barbari arrivano oggi. Loro non apprezzano le belle frasi né i lunghi discorsi.
E perché, all’improvviso, questa inquietudine e questo sconvolgimento?
Come sono divenuti gravi i volti!
Perché le strade e le piazze si svuotano così in fretta
e perché rientrano tutti a casa con un’aria così triste?
È che è scesa la notte e i Barbari non arrivano.
E della gente è venuta dalle frontiere dicendo che non ci sono affatto Barbari…
E ora, che sarà di noi senza Barbari?
Loro erano una soluzione.
(traduzione di Filippo Maria Pontani)
Appunto impolitico di Giorgio Linguaglossa
Per Kavafis sono false le utopie delle grandi ideologie, sono falsi gli idoli della civiltà, è falsa la morale sessuale borghese; la verità non localizzata e temporalizzata nel corpo di un individuo non è verità ma menzogna. Vero è solo ciò che si può osservare da nessun luogo. Vero è il luogo del corpo. Kavafis guarda con sfiducia e sospetto alla cultura del suo tempo che si stava avviando alla più grande carneficina della storia. Per Kavafis l’uomo non è veramente umano se non è fedele ad un punto di vista che ha sede nel corpo. Allo stesso tempo, l’uomo non può disertare il suo posto, che però è sempre relativo, in tutte le epoche e in tutte le civiltà. Kavafis resta fedele all’unica certezza: alla dimensione individuale vitale, relativistica e prospettivistica; nella sua visione poetica il gesto definitivo non occupa alcun posto, c’è solo la prospettiva vitale che può dare un senso alla storia individuale e sociale. Per il poeta alessandrino la verità può essere soltanto una verità vitale e parziale, legata ai nostri sensi e ai nostri umori e alla nostra esistenza. Di conseguenza, sfiducia totale nella storia e sfiducia totale nelle ideologie della sua epoca e predilezione per una utopia rovesciata, la pittografia di una Alessandria astorica, irreale, pagana, nutrita dei fasti di un lontanissimo passato. È una Alessandria immaginaria, che non esiste, quella di Kavafis, frutto di una potente carica visionaria e fantastica. La fama di Kavafis comincia a diffondersi ad opera di Edward Morgan Forster, autore di romanzi piuttosto come Camera con Vista, Casa Howard, e Maurice, dai quali sono stati tratti film di successo. Forster lo incontrò ad Alessandria, e fece pubblicare alcune sue poesie tradotte in inglese sulle riviste londinesi. Seguirono altri ammiratori illustri, come W.H.Auden, T.S.Eliot, Marguerite Yourcenar, e diversi italiani, tra cui Ungaretti, nativo di Alessandria d’Egitto.
Trovo limitativa la definizione della lingua poetica di Kavafis come «caotico universo linguistico» di Pier Paolo Pasolini, grande ammiratore di Kavafis, soprattutto per quella parte della sua opera poetica dedicata all’eros efebico. Il poeta alessandrino disegna invece una utopia all’incontrario, una Alessandria d’Egitto che non esiste.
Nella poesia di Kavafis sorge per la prima volta nella poesia europea il mito dell’Efebo. Una sorta di Antinoo dei suburbi della città, poiché tutte le vicende delle sue poesie si svolgono in una Alessandria levantina, ricca di luci soffuse e di ombre. Il corpo oggetto d’amore è sempre quello di un giovane, del quale Kavafis quasi sempre fa scivolare nella poesia, come per caso, l’età efebica. Si avverte nettamente una nostalgia, un rimorso, un ricordo di un amore del lontano passato ormai irraggiungibile.
Breve biografia di Paolo Volponi-(Urbino, 6 febbraio 1924 – Ancona, 23 agosto 1994). Scrittore, poeta e narratore. Nelle sue opere si affermare l’esigenza di una razionalità capace di affermare le più integrali possibilità dell’uomo e di mirare ad una libera espansione delle sue facoltà corporee e mentali, a uso positivo del lavoro, della scienza e della tecnica. Nel 1975 divenne presidente della Fondazione Agnelli, ma fu costretto a lasciare tale incarico per la sua adesione al partito revisionista , sgradita ai vertici della Fiat. Nel 1991 si oppose alla dissoluzione del PCI e aderì a Rifondazione Comunista, che a suo avviso “manteneva viva la speranza di un mondo più giusto e più razionale. Nel suo ultimo romanzo “Le mosche del capitale”, narra la vita di un manager la cui genialità viene schiacciata in azienda dalle cieche logiche di potere e di guadagno. Tra le opere poetiche ricordiamo: Memoriale; Poesie e poemetti; Con testo afronte; Le mosche del capitale; Nel silenzio campale.
Nella divisione del lavoro internazionale
ha un suo tratto assegnato anche la tua pena: …………..
Il paesaggio collinare di Urbino,
che innocente appare quercia per quercia
mentre colpevole muore zolla per zolla,
é politicamente uguale
al centro storico di Torino
che crolla palazzo per palazzo
o ai giardini della utopica lvrea
ricca casa per casa;
tutti nella nebbia che sale
del mare aureo del capitale.
L’unità di tutti i democratici.
Ma chi di loro e di noialtri
Può stare sempre unito con gli altri?
Seno diverse le entrate, le uscite e i nastri
di registro, di paga, di cure termali,
di premi, compensi, indennizzi in caso di disastri.
Sono divisi i beni, le aliquote, i mali
Perfino i giorni e il corso degli astri.
Non ‘e vero che siamo tutti uguali,
noi siamo una serie di impiastri
stesi fra i civili e gli animali.
da POESIE 1946-66
L’amor di sé L’alba ancora non lascia
l’ultima onda notturna;
ancora trattiene l’ambascia
di persistere sola, recisa
ogni corda l’aria stessa, la fascia
del proprio lucore indivisa
dalla tela nera che s’accascia
non dietro, ma sotto tra l’intrisa
minuta rena della sua diaccia
incerta orma, alterna, lisa
dalla sua labile irriverente traccia.
La direzione è opposta
al verso del piede che frena
e dello sguardo che accosta
trepido la prima spalla terrena
libera, non tesa una mano opposta
per indicare una scena
seppure piccola, appena opposta
alla nera matassa, alla vulva oscena
della notte, incinta, non deposta…
Ma spinta di fronte alla vista di sé
pallida stenderà la colpa
lucente alta sopra la testa
e si scioglierà in vapore dentro
l’imprendibile sabbia.
Niente l’assorbe né la desta
e solo l’onda notturna
più larga sotto la chiglia
della luna dentro la nuova urna
le toccherà un gomito e le ciglia
ancora lucide del rimpianto:
perla della conchiglia
dell’amore di sé.
D’autunno è con noi D’autunno è con noi
ogni foglia e ghianda
ed è raggiunto il cielo.
Fra le avellane svolazza
la palomba ferita,
freme il sottobosco
agli scoppi
dei ricci di castagna.
Dolcissima è l’ultima uva
celata fra i pampini rossi,
sul fianco dei monti sale
il fumo delle carbonaie.
A sera
io provo il caldo smemorato
delle castagne,
del torbido vino,
il più nudo corpo
della mia donna.
Tu sei l’uomo Tu sei l’uomo
che nelle fiere
appresti il tiroasegno
con il gallo di ferro
che colpito scoppia
sulla polvere da sparo
nel selciato.
Che scavi il pozzo,
che porti a maggio
la croce di canna
nel campo di grano.
Tu freni il puledro,
conduci la volpe prigioniera
a tutte le case;
tu fischi ai bovi
nell’abbeverata
che hanno le rane nell’orme.
Tu sei l’uomo
che porti alle ragazze
il geranio e lo sposo.
Tu arroti i coltelli e le falci.
Tu insegni il fischio ai merli
ed hai l’erba che sana
il morso della vipera.
Domani è già marzo Domani è già marzo e la strada
scopre tra i frutteti il petto della contrada.
A marzo il contadino
riordina gli attrezzi e libera i confini.
A marzo i contadini
scendono verso i paesi;
si fermano nelle piazze mercatali
davanti alle osterie, ai forni, ai falegnami
che odorano sotto i portali di pietra fiorita,
davanti ai negozi di ferramenta,
davanti a tutti gli spacci
con un sentore d’acqua muffita.
I vecchi si fermano alle porte;
i giovani salgono le vie cittadine.
Ormai li mischia aprile,
mese senza paura,
e salgono insieme i mezzadri e i garzoni,
i mietitori, i braccianti, i legnaioli,
i muratori di campagna, gli innestatori,
gli scavatori di pozzi e di vigna,
i cercatori d’acqua e i cacciatori.
Il giorno nella città non ha paura,
stretto tra le mura è sempre luminoso,
e sempre vive di qualche cosa, ora per ora;
preso alla mattina presto nei mercati,
nella profonda luce che rispecchiano
le facciate nobiliari o i porticati;
guidato per le vie al suono del selciati
sino ai vertici gentili dei rioni;
alzato a mezzogiorno in fronte alle chiese
su tutte le piazze, una sopra l’altra,
di mattone o di pietra,
non è vinto dalla foglia incerta,
non morto nella morte degli insetti;
non arato, seminato, sarchiato,
faticato ora per ora,
dalla mattina alla sera.
Il giorno gira nella città il suo dolce sole,
muove il ventaglio alto delle nubi,
e chiama dal mare l’amorosa luce serale
che si stende su tutte le terrazze,
sui giardini pensili, sull’arcate
dalle quali soffia l’Appennino.
Si congiunge alla notte per le strade,
quando vicino s’odono risate di ragazze
verso i torrioni e voci da tutti i portoni.
Porgimi, amore Porgimi, amore
il tuo ramo fiorito
la mente mattutina
nel cui cespo chiaro
ai venti incerti di ottobre
ripara l’allodola ferita,
l’azzurro ginepro degli altipiani
prossimi alla marina.
O la tua pietra
in bilico sul fiume,
la perduta foglia di salice
sull’acqua,
l’alga tenebrosa
dove un invisibile pesce respira.
Amore, amore,
porgimi del tuo albero
il frutto più alto
così la tua uva nascosta
e il piccolo orto
dal pettirosso fedele;
il tuo cavallino
dalla coda leggera,
la vipera che ti beve
il latte nel seno,
l’amoroso gallo
che ti sveglia
e la civetta compagna
alle tue notti di luna.
Porgimi, amore,
il tuo mutabile tempo
giovanile,
l’immobile sole
e il quarto di luna
della tua esatta stagione.
Mia quaglia Della chiarissima quaglia
che nasce sulla spiaggia
agli approdi dei templi,
nell’ora che la luna di marea
rotola sabbia
e pesci luminosi,
tu hai lo smarrimento
e l’attonito canto.
Conosci il canneto
dove l’insetto sorpreso
annega nelle gocce,
il campo spiumato
alle piogge meridiane del grano.
Sul tuo collo
è giugno
stagioni delle falci
dal tenero filo,
luglio sulle spalle
con steli d’avena,
agosto sulla schiena
dorme come un cacciatore.
La vergine I sassi bianchi
sono le tue spalle
gli alberi la tua statura;
è la tua gola che batte
se una rosa si muove
non vista nel giardino.
Dì pure al vento
di perdere il tuo canto
nella voce dei fossi,
al rosmarino
di chiudere i sentieri.
L’innocente starna
si leva alta sul bosco
e m’indica il tuo cammino.
DESCRIZIONE-Pablo PICASSO Nel 1935, quando ha già 54 anni e attraversa un periodo di crisi nella professione e nella vita privata, Picasso comincia a scrivere poesie, una passione alla quale si dedicherà, con alcune interruzioni, fino al 1959 facendone il territorio di una geniale sperimentazione. Guidato da un istinto innato, maneggia la lingua con la stessa libertà inventiva con cui utilizza gli altri mezzi espressivi nel suo lavoro di artista. Ama i giochi di parole, gli inventari, le accumulazioni e le combinazioni. Alterna il francese allo spagnolo; liriche composte di getto a elaborate riscritture basate sulla ripresa e variazione degli stessi elementi; poesie fiume, in cui le parole si spintonano proprio come gli oggetti si assemblano sulla tela, a labirintici componimenti a rizoma in cui la linearità è messa al bando: una scrittura personalissima, vertiginosa, inafferrabile, che sfida ogni classificazione ma a cui non sono estranee suggestioni colte, dal barocco spagnolo a Mallarmé, da Alfred Jarry al dadaismo e al surrealismo. Dietro il poeta si intravede in filigrana il pittore, con i numerosi riferimenti alla luce, alle ombre e soprattutto ai colori. Anche i temi che ricorrono sono gli stessi che popolano i dipinti: la Spagna, la corrida, le danze e i canti popolari; la guerra e la violenza della dittatura franchista; il cibo, l’amore, la morte. Arricchita dalle riproduzioni di alcune splendide pagine manoscritte, questa raccolta dei più significativi testi di uncorpus che ne comprende oltre 350 documenta un aspetto ancora poco noto dell’opera di Picasso contribuendo a far luce sul percorso creativo del più grande artista del Novecento.
Poesia da Presentimenti di azzurro – 13 Aprile 1929
Quando Antonia Pozzi nasce è martedì 13 febbraio 1912: bionda, minuta, delicatissima, tanto da rischiare di non farcela a durare sulla scena del mondo; ma la vita ha le sue rivincite
Stamattina
sono rimasta tanto alla finestra
a riguardare il cielo:
non c’era nessun velo
di nebbia, ma una decisa tela grigiolina.
Le nuvole parevan ritagliate
ed ingommate
l’une sull’altre, strette;
carnose, a sfumature nette.
E mi sembrava
che a saettar là dentro a capofitto
con un bel volo dritto
non mi sarei dovuta sperdere
per strade sinuose
in nebulosità fumose,
ma che sarei dovuta riuscire
dall’altra parte, immediatamente,
in un azzurro fresco, veemente.
E poi me ne sarei tornata
con calma strascicata
palpeggiandomi guardinga e gelosa
l’anima rugiadosa.
Biografia di ANTONIA POZZI (Milano 1912-1938)-Quando Antonia Pozzi nasce è martedì 13 febbraio 1912: bionda, minuta, delicatissima, tanto da rischiare di non farcela a durare sulla scena del mondo; ma la vita ha le sue rivincite e … … Antonia cresce: è una bella bambina, come la ritraggono molte fotografie, dalle quali sembra trasudare tutto l’amore e la gioia dei genitori, l’avvocato Roberto Pozzi, originario di Laveno, e la contessa Lina, figlia del conte Antonio Cavagna Sangiuliani di Gualdana e di Maria Gramignola, proprietari di una vasta tenuta terriera, detta La Zelata, a, Bereguardo. Il 3 marzo la piccola viene battezzata in San Babila ed eredita il nome del nonno, primo di una serie di nomi parentali (Rosa, Elisa, Maria,Giovanna, Emma), che indicherà per sempre la sua identità. Antonia cresce, dunque, in un ambiente colto e raffinato: il padre avvocato, già noto a Milano; la madre, educata nel Collegio Bianconi di Monza, conosce bene il francese e l’inglese e legge molto, soprattutto autori stranieri, suona il pianoforte e ama la musica classica, frequenta la Scala, dove poi la seguirà anche Antonia; ha mani particolarmente abili al disegno e al ricamo. Il nonno Antonio è persona coltissima, storico noto e apprezzato del Pavese, amante dell’arte, versato nel disegno e nell’acquerello. La nonna, Maria, vivacissima e sensibilissima, figlia di Elisa Grossi, a sua volta figlia del più famoso Tommaso, che Antonia chiamerà “Nena” e con la quale avrà fin da bambina un rapporto di tenerissimo affetto e di profonda intesa. Bisogna, poi, aggiungere la zia Ida, sorella del padre, maestra, che sarà la compagna di Antonia in molti suoi viaggi; le tre zie materne, presso le quali Antonia trascorrerà brevi periodi di vacanza tra l’infanzia e la prima adolescenza; la nonna paterna, Rosa, anch’essa maestra, che muore però quando Antonia è ancora bambina. Nel 1917 inizia per Antonia l’esperienza scolastica: l’assenza, tra i documenti, della pagella della prima elementare, fa supporre che la bimba frequenti come uditrice, non avendo ancora compiuto i sei anni, la scuola delle Suore Marcelline, di Piazzale Tommaseo, o venga preparata privatamente per essere poi ammessa alla seconda classe nella stessa scuola, come attesta la pagella; dalla terza elementare, invece, fino alla quinta frequenta una scuola statale di Via Ruffini. Si trova, così, nel 1922, non ancora undicenne, ad affrontare il ginnasio, presso il Liceo-ginnasio “Manzoni”, da dove, nel 1930, esce diplomata per avventurarsi negli studi universitari, alla Statale di Milano. Gli anni del liceo segnano per sempre la vita di Antonia: in questi anni stringe intense e profonde relazioni amicali con Lucia Bozzied Elvira Gandini, le sorelle elettive, già in terza liceo quando lei si affaccia alla prima; incomincia a dedicarsi con assiduità alla poesia, ma, soprattutto, fa l’esperienza esaltante e al tempo stesso dolorosa dell’amore. È il 1927: Antonia frequenta la prima liceo ed è subito affascinata dal professore di greco e latino, Antonio Maria Cervi; non dal suo aspetto fisico, ché nulla ha di appariscente, ma dalla cultura eccezionale, dalla passione con cui insegna, dalla moralità che traspare dalle sue parole e dai suoi atti, dalla dedizione con cui segue i suoi allievi, per i quali non risparmia tempo ed ai quali elargisce libri perché possano ampliare e approfondire la loro cultura. La giovanissima allieva non fatica a scoprire dietro l’ardore e la serietà, nonché la severità del docente, molte affinità: l’amore per il sapere, per l’arte, per la cultura, per la poesia, per il bello, per il bene, è il suo stesso ideale; inoltre il professore, ha qualcosa negli occhi che parla di dolore profondo, anche se cerca di nasconderlo, e Antonia ha un animo troppo sensibile per non coglierlo: il fascino diventa ben presto amore e sarà un amore tanto intenso quanto tragico, perché ostacolato con tutti i mezzi dal padre e che vedrà la rinuncia alla “vita sognata” nel 1933, “non secondo il cuore, ma secondo il bene”, scriverà Antonia, riferendosi ad essa. In realtà questo amore resterà incancellabile dalla sua anima anche quando, forse per colmare il terribile vuoto, si illuderà di altri amori, di altri progetti , nella sua breve e tormentata vita. Nel 1930 Antonia entra all’Università nella facoltà di lettere e filosofia; vi trova maestri illustri e nuove grandi amicizie: Vittorio Sereni, Remo Cantoni, Dino Formaggio, per citarne alcune; frequentando il Corso di Estetica, tenuto da Antonio Banfi, decide di laurearsi con lui e prepara la tesi sulla formazione letteraria di Flaubert, laureandosi con lode il 19 novembre 1935. In tutti questi anni di liceo e di università Antonia sembra condurre una vita normalissima, almeno per una giovane come lei, di rango alto-borghese, colta, piena di curiosità intelligente, desta ad ogni emozione che il bello o il tragico o l’umile suscitano nel suo spirito: l’amore per la montagna, coltivato fin dal 1918, quando ha incominciato a trascorrere le vacanze a Pasturo, paesino ai piedi della Grigna, la conduce spesso sulle rocce alpine, dove si avventura in molte passeggiate e anche in qualche scalata, vivendo esperienze intensissime, che si traducono in poesia o in pagine di prosa che mettono i brividi, per lo splendore della narrazione e delle immagini; nel 1931 è in Inghilterra, ufficialmente per apprendere bene l’inglese, mentre, vi è stata quasi costretta dal padre, che intendeva così allontanarla da Cervi; nel 1934 compie una crociera, visitando la Sicilia, la Grecia, l’Africa mediterranea e scoprendo, così, da vicino, quel mondo di civiltà tanto amato e studiato dal suo professore e il mondo ancora non condizionato dalla civiltà europea, dove la primitività fa rima, per lei, con umanità; fra il 1935 e il 1937 è in Austria e in Germania, per approfondire la conoscenza della lingua e della letteratura tedesca, che ha imparato ad amare all’Università, seguendo le lezioni di Vincenzo Errante, lingua che tanto l’affascina e che la porta a tradurre in italiano alcuni capitoli di “Lampioon”, di M. Hausmann. Intanto è divenuta “maestra” in fotografia: non tanto per un desiderio di apprenderne la tecnica, aridamente, quanto perché le cose, le persone, la natura hanno un loro sentimento nascosto che l’obiettivo deve cercare di cogliere, per dar loro quell’eternità che la realtà effimera del tempo non lascia neppure intravedere. Si vanno così componendo i suoi album, vere pagine di poesia in immagini. Questa normalità, si diceva, è, però, solamente parvenza. In realtà Antonia Pozzi vive dentro di sé un incessante dramma esistenziale, che nessuna attività riesce a placare: né l’insegnamento presso l’Istituto Tecnico Schiaparelli, iniziato nel ‘37 e ripreso nel ’38; né l’impegno sociale a favore dei poveri, in compagnia dell’amica Lucia; né il progetto di un romanzo sulla storia della Lombardia a partire dalla seconda metà dell’Ottocento; né la poesia, che rimane, con la fotografia, il luogo più vero della sua vocazione artistica. La mancanza di una fede, rispetto alla quale Antonia, pur avendo uno spirito profondamente religioso, rimase sempre sulla soglia, contribuisce all’epilogo: è il 3 dicembre del 1938.
Lo sguardo di Antonia Pozzi, che si era allargato quasi all’infinito, per cogliere l’essenza del mondo e della vita, si spegne per sempre mentre cala la notte con le sue ombre viola.
Onorina Dino
Biografia tratta da Antonia Pozzi. Nelle immagini l’anima: antologia fotografica, a cura di Ludovica Pellegatta e Onorina Dino, Ancora, Milano 2007
-“Poesia in forma di rosa” di Pier Paolo Pasolini-
–“La Guinea”–“Poesia in forma di rosa” di Pier Paolo Pasolini-Copia Anastatica da NUOVI ARGOMENTI N° doppio 59/60 -Luglio-Dicembre 1978-Pier Paolo Pasolini -Carlo Maria Ossola: Scrittore, poeta, autore e regista cinematografico e teatrale italiano (Bologna 1922 – Ostia, Roma, 1975). Dopo aver seguito nell’infanzia gli spostamenti del padre, ufficiale di carriera, compì gli studî a Bologna, dove si laureò nel 1945 con una tesi su Pascoli. Nel 1943 si trasferì nel paese materno di Casarsa della Delizia, in Friuli, con la madre e il fratello minore Guido, morto poi nella lotta di resistenza (il padre, fatto prigioniero in Africa, sarebbe tornato alla fine del 1945), e vi rimase fino al genn. 1950, quando, per sfuggire allo scandalo provocato dalla pubblica denuncia della sua omosessualità, si stabilì con la madre a Roma. Da questo momento la sua vicenda biografica coincide appieno con la tumultuosa attività dello scrittore, del regista e dell’intellettuale impegnato a testimoniare e a difendere, spesso anche in sede giudiziaria, la propria radicale diversità, fino alla morte per assassinio, avvenuta la notte tra il 1° e il 2 nov. 1975 all’idroscalo di Ostia.
Biblioteca DEA SABINA –“La Guinea”, in “Poesia in forma di rosa” di Pier Paolo Pasolini-
Alle volte è dentro di noi qualcosa (che tu sai bene, perché è la poesia) qualcosa di buio in cui si fa luminosa
la vita: un pianto interno, una nostalgia gonfia di asciutte, pure lacrime. Camminando per questa poverissima via
di Casarola, destinata al buio, agli acri crepuscoli dei cristiani inverni, ecco farsi, in quel pianto, sacri
i più comuni, i più inutili, i più inermi aspetti della vita: quattro case di pietra di montagna, con gli interni
neri di sterile miseria – una frase sola sospesa nella triste aria, secco odore di stalla, sulla base
del gelo mai estinto – e, onoraria, timida, l’estate: l’estate, con i corpi sublimi dei castagni, qui fitti, là rari,
disposti sulle chine – come storpi o giganti – dalla sola Bellezza. Ah bosco, deterso dentro, sotto i forti
profili del fogliame, che si spezzano, riprendono il motivo d’una pittura rustica ma raffinata – il Garutti? il Collezza?
Non Correggio, forse: ma di certo il gusto del dolce e grande manierismo che tocca col suo capriccio dolcemente robusto
le radici della vita vivente: ed è realismo… Sotto i caldi castagni, poi, nel vuoto che vi si scava in mezzo, come un crisma,
odora una pioggia cotta al sole, poco: un ricordo della disorientata infanzia. E, lì in fondo, il muricciolo remoto
del cimitero. So che per te speranza è non volerne, speranza: avere solo questa cuccia per le mille sere che avanzano
allontanando quella sera, che a loro, per fortuna, così dolcemente somiglia. Una cuccia nel tuo Appennino d’oro.
La Guinea… polvere pugliese o poltiglia padana, riconoscibile a una fantasia così attaccata alla terra, alla famiglia,
com’è la tua, e com’è anche la mia: li ho visti, nel Kenia, quei colori senza mezza tinta, senza ironia,
viola, verdi, verdazzurri, azzurri, ori, ma non profusi, anzi, scarsi, avari, accesi qua e là, tra vuoti e odori
inesplicabili, sopra polveri d’alveari roventi… Il viola è una piccola sottana, il verde è una striscia sui dorsali
neri d’una vecchia, il verdazzurro una strana forma di frutto, sopra una cassetta, l’azzurro, qualche foglia di savana
intrecciata, l’oro una maglietta di un ragazzo nero dal grembo potente. Altro colpo di pollice ha la Bellezza:
modella altri zigomi, si risente in altre fronti, disegna altre nuche. Ma la Bellezza è Bellezza, e non mente:
qui è rinata tra anime ricciute e camuse, tra pelli dolci come seta, e membra stupendamente cresciute.
Il mare è fermo e colorato come creta: con case bianche, e palme: «tinte forti da tavolozza cubista», come dice un poeta
africano. E la notte! Sensi distorti da ogni nostro dolce costume, occorrono, per cogliere i folli decorsi
che accadono, come pestilenze, a queste lune. Perduti dietro metropoli di capanne in uno spiazzo tra palme nere come piume,
alberi di garofano, di cannella – e canne uguali alle nostrane, quelle sparse intorno a ogni umano abitato – come tre zanne,
tre strumenti suonati quasi dal fuoco di un forno inestinguibile, da gote nere sotto le falde dei cappelli flosci presenti a ogni sbornia –
urlavano sempre le stesse note di leopardi feriti, una melodia che non so dire: araba? o americana? o arcaici e bastardi
resti di una musica, il cui lento morire è il veloce morire dell’Africa? Questo terzetto era al centro, scurrile
e religioso: neri-fetenti come capri i tre suonatori, schiena contro schiena, stretti, perché, intorno, in due sacri
cerchi di pochi metri, rigirava una piena di migliaia di corpi. Nel cerchio interno erano donne, a girare, addossate, appena
sussultanti nella loro danza. All’esterno i maschi, tutti giovani, coi calzoni di tela leggera, che, intorno a quel perno
di trombe, stranamente calmi, buoni, giravano scuotendo appena spalle e anche: ma ogni tanto, con fame di leoni,
le gambe larghe, il grembo in avanti, si agitavano come in un atto di coito con gli occhi al cielo. Al fianco
le donne, vesti celesti sopra i neri cuoi delle pelli sudate, gli occhi bassi, giravano covando millenaria gioia…
Ah, non potrò più resistere ai ricatti dell’operazione che non ha uguale, credo, a fare dei miei pensieri, dei miei atti,
altro da ciò che sono: a trasformare alle radici la mia povera persona: è, caro Attilio, il patto industriale.
Nulla gli può resistere: non vedi come suona debole la difesa degli amici laici o comunisti contro la più vile cronaca?
L’intelligenza non avrà mai peso, mai, nel giudizio di questa pubblica opinione. Neppure sul sangue dei lager, tu otterrai
da una dei milioni d’anime della nostra nazione, un giudizio netto, interamente indignato: irreale è ogni idea, irreale ogni passione,
di questo popolo ormai dissociato da secoli, la cui soave saggezza gli serve a vivere, non l’ha mai liberato.
Mostrare la mia faccia, la mia magrezza – alzare la mia sola, puerile voce – non ha più senso: la viltà avvezza
a vedere morire nel modo più atroce gli altri, con la più strana indifferenza. Io muoio, ed anche questo mi nuoce.
Nulla è insignificante alla potenza industriale! La debolezza dell’agnello viene calcolata ormai più senza
fatica nei suoi pretesti da un cervello che distrugge ciò che deve distruggere: nulla da fare, mio incerto fratello…
Mi si richiede un coraggio che sfugge del tutto al reale, appartiene ad altra storia; mi si vuole spelacchiato leone che rugge
contro i servi o contro le astrazioni della potenza sfruttatrice: ah, ma non sono sport le mie passioni,
la mia ingenua rabbia non è competitrice. Non c’è proporzione tra una nuova massa predestinata e un vecchio io che dice
le sue ragioni a rischio della sua carcassa. Non è il dovere che mi trattiene a cercare un mondo che fu nostro nella classica
forza dell’elegia! nell’allusione a un fatale essere uomini in proporzioni umane! La Grecia, Roma, i piccoli centri immortali…
annette Dei di milioni di guadi, percepisce l’odore dell’umidità dei quaranta gradi sopra zero immobili nelle coste, Mogadiscio
e le buganvillee di Nairobi, gli odori bradi delle bestiacce scomposte in un selvatico galoppo, per gli sventrati, i radi
orizzonti pervasi d’un funebre stallatico; la quantità, l’immensità che pesa inutilmente nel mondo, i cui prati bruciati
o marci d’acqua, sono una distesa priva di possibile poesia, rozza cosa restata lì, ai primordi, senza attesa,
sotto un sole meccanico che, annosa e appena nata, essa subisce come infinità. Ne nasce un bestiale colore rosa
dove il sesso paesano che ognuno ha disegnato in calzoni di allegro cotone, in gonne comprate negli stores indiani,
con soli occhiuti e cerchi di pavone, come un’isola galleggia in un oceano ronzante ancora per un’esplosione
recente e sprofondata dentro le maree… Fiori tutti d’un colore, di cotone, occhiuti e cerchiati popolano le Guinee
galleggiando nel tanfo d’un’uccisione, nella carne delle estati sempre feroce a divorare cibi cui la notte impone
le tinte equatoriali della morte precoce, il blu e il viola e la polvere orrenda, la libertà, che partorisce il popolo con voce
famigliare, e, in realtà, tremenda, il nero dei villaggi, il nero dei porti coloniali, il nero degli hotels, il nero delle tende…
E… alba pratalia, alba pratalia, alba pratalia… I prati bianchi! Così mi risveglio, il mattino, in Italia,
con questa idea dei millenni stanchi bollata nel cervello: i bianchi prati del Comune… della Diocesi… dei Banchi
toscani o cisalpini… quelli rievocati nel latino del duro, dolce Salimbene… Il mondo che sta in un testo, gli Stati
racchiusi in un muro di cinta – le vene dei fiumi che sono poco più che rogge, specchianti tra gaggìe supreme
– i ruderi, consumati da rustiche piogge e liturgici soli, alla cui luce l’Europa è così piccola, non poggia
che sulla ragione dell’uomo, e conduce una vita fatta per sé, per l’abitudine, per le sue classicità sparute.
Non si sfugge, lo so. La Negritudine è in questi prati bianchi, tra i covoni dei mezzadri, nella solitudine
delle piazzette, nel patrimonio dei grandi stili – della nostra storia. La Negritudine, dico, che sarà ragione.
Ma qui a Casarola splende un sole che morendo ritira la sua luce, certa allusione ad un finito amore.
Pier Paolo Pasolini
da “Poesia in forma di rosa (1961-64)”, Milano, Garzanti, 1964
Fonte -Enciclopedia TRECCANI-Pier Paolo Pasolini -Carlo Maria Ossola: Scrittore, poeta, autore e regista cinematografico e teatrale italiano (Bologna 1922 – Ostia, Roma, 1975). Dopo aver seguito nell’infanzia gli spostamenti del padre, ufficiale di carriera, compì gli studî a Bologna, dove si laureò nel 1945 con una tesi su Pascoli. Nel 1943 si trasferì nel paese materno di Casarsa della Delizia, in Friuli, con la madre e il fratello minore Guido, morto poi nella lotta di resistenza (il padre, fatto prigioniero in Africa, sarebbe tornato alla fine del 1945), e vi rimase fino al genn. 1950, quando, per sfuggire allo scandalo provocato dalla pubblica denuncia della sua omosessualità, si stabilì con la madre a Roma. Da questo momento la sua vicenda biografica coincide appieno con la tumultuosa attività dello scrittore, del regista e dell’intellettuale impegnato a testimoniare e a difendere, spesso anche in sede giudiziaria, la propria radicale diversità, fino alla morte per assassinio, avvenuta la notte tra il 1° e il 2 nov. 1975 all’idroscalo di Ostia.
Fin dagli esordî in friulano, che comprendono Poesie a Casarsa (1942) e La meglio gioventù (1954; poi ripreso con intenti diversi e notevole incremento di testi: La nuova gioventù, 1975), ben oltre la nozione ermetica di poesia pura, il giovane P. puntava alla scoperta di una lingua intatta, che fosse quasi un equivalente letterario del suo religioso desiderio di purezza (fonderà così nel 1945 l’Academiuta di lenga furlana). Il suo interesse per la poesia dialettale trovò espressione in due importanti antologie: Poesia dialettaledelNovecento (in collab. con M. Dell’Arco, 1952) e Canzoniere italiano. Antologia della poesia popolare (1955; poi, in versione ridotta: La poesia popolare italiana, 1960); mentre il suo talento di critico letterario, affascinato più dai modelli della critica stilistica (Auerbach, Spitzer, Contini) che dal sociologismo marxista d’ispirazione gramsciana, si esplicò in una serie di interventi sulla letteratura contemporanea, e soprattutto sulla poesia, che sarebbero confluiti in Passione e ideologia (1960). Gli anni Cinquanta furono gli anni della sua completa affermazione letteraria. La sua prima notevole raccolta di poesie in lingua, Le ceneri di Gramsci (1957), sembra chiudere definitivamente una stagione della poesia italiana. L’ansia profetica dell’Usignolo della chiesa cattolica (pubbl. nel 1958, ma composto prima del trasferimento a Roma) si sarebbe riproposta, dopo la parentesi decisiva delle Ceneri, nei termini mutati di un’ininterrotta controversia (La religione del mio tempo, 1961; Poesia in forma di rosa, 1964; Trasumanar e organizzar, 1971). P. fondava, intanto, insieme a F. Leonetti e R. Roversi, Officina, la rivista della polemica antinovecentesca; era anche diventato condirettore di Nuovi argomenti, rivista fondata nel 1953 da A. Moravia e A. Carocci. E aveva dovuto affrontare difficoltà molto più gravi dopo la pubblicazione dei suoi due romanzi d’ambientazione romana: Ragazzi di vita (1955), per il quale dovette subire un processo per oscenità, e Una vita violenta (1959), che era stato accolto freddamente tanto dalla critica marxista quanto dai giovani critici della neoavanguardia. Ma la vocazione di P., già insofferente dei limiti di un genere letterario, si era orientata verso altri mezzi d’espressione: il cinema (v. oltre), del quale si sarebbe poi occupato anche in veste di teorico, il teatro (Orgia, 1968; Affabulazione, 1969; Calderón, 1973) e il giornalismo (soprattutto, dal 1973, le collaborazioni al Corriere della sera, poi raccolte con altre in Scritti corsari, 1975). In ritardo rispetto alla data di composizione, erano intanto apparsi il romanzo Il sogno di una cosa (1962) e le prose narrative di Alì dagli occhi azzurri (1965), oltre a vari scritti minori. Postume, in ordine sparso, sono uscite raccolte di scritti giornalistici (Lettere luterane, 1976; Le belle bandiere, 1977; Il caos, 1979), di critica letteraria (Descrizioni di descrizioni, 1979; Il portico della morte, 1988), opere narrative (La divina mimesis, 1975; Amado mio, 1982; Petrolio, 1992, romanzo incompiuto che riassume e porta a livello di quasi insostenibile incandescenza tutti i temi dello scrittore), nonché le raccolte complete dei suoi testi teatrali (Teatro, 1988) e poetici (Bestemmia. Tutte le poesie, 1993). Diversi scritti appartenenti alla fervida stagione friulana del poeta sono stati raccolti dal cugino N. Naldini in Un paese di temporali e di primule (1993) e in Romàns (1994); per sua cura sono anche apparse le Lettere 1940-1954 (1986) e le Lettere 1955-1975 (1988). Tutte le opere di P. sono state raccolte nell’edizione diretta da W. Siti (10 tomi, 1998-2003).
Nel cinema P. operò a partire dal 1954, come sceneggiatore (con M. Soldati, La donna del fiume; con F. Fellini, Le notti di Cabiria; con M. Bolognini, Marisa la civetta, Giovani mariti, La notte brava, Il bell’Antonio, La giornata balorda; e, fra i tanti, con B. Bertolucci, La commare secca, autore anche del soggetto). P. dapprima trasferì i frutti della sua ricerca narrativa (Accattone, 1961; Mamma Roma, 1962; La ricotta, episodio del film collettivo Ro.Go.Pa.G., 1963, condannato per vilipendio alla religione di stato), reinventando un linguaggio cinematografico autonomo di alta qualità figurativa (P. era stato allievo di R. Longhi a Bologna). Il linguaggio di P. approdò a risultati più compiuti ne Il Vangelo secondo Matteo (1964), in cui l’armonica fusione del cinema con la letteratura, la pittura e la musica diede l’avvio a quel “cinema di poesia” di cui P. doveva essere in Italia uno dei più convincenti teorici (Il cinema di poesia, 1965; Osservazioni sul piano sequenza, 1967; Empirismo eretico, 1972). Su questa linea, i film che seguirono, soprattutto Edipo re (1967), Teorema (1968) e Medea (1969), accesi da un realismo visionario che, nonostante scarti e manifeste libertà, sorregge poi anche gl’impegni drammatici e linguistici dei film della “trilogia della vita” (o, come altri l’hanno definita, “dell’Eros”), partiti alla riscoperta del sesso attraverso una rilettura delle fonti della grande favolistica mondiale: Decameron (1971), I racconti di Canterbury (1972), Il fiore delle Mille e una Notte (1974). L’ultimo film, uscito postumo, Salò o le 120 giornate di Sodoma (1976), luttuosa metafora del potere e interpretazione in chiave provocatoria del libro omonimo di Sade. Non vanno dimenticati Che cosa sono le nuvole? (dal film collettivo Capriccio all’italiana, 1968) e Porcile (1969). Rimane un grande esempio del cinema d’inchiesta Comizi d’amore (1965), indagine sulla sessualità nell’Italia dei primi anni Sessanta, condotta da P. insieme a Moravia e Musatti. Esemplare parabola della storia d’Italia, dalla predicazione francescana ai funerali di Togliatti, è Uccellacci e uccellini (1966), ultima “legenda aurea” della civiltà italiana.
Pasolini e il Novecento. – L’edizione delle Opere di Pasolini colloca la sua opera tra i classici del secondo Novecento. E a ragione, poiché solo Pasolini (come D’Annunzio e più di Pirandello) ha sperimentato tutti i generi della creazione del 20° secolo: romanzo e novella, teatro e cinema, critica letteraria e saggistica politica, e non meno la poesia. Già questa semplice ragione di “generi” crea un singolare accostamento: D’Annunzio, Pirandello, Pasolini, un essere nel proprio tempo, nel quale la retorica – strumento dell’argomentare, del persuadere, dell’insegnare, leva essenziale di ogni “passione e ideologia” – è esibita, non velata, non nascosta, non lenita da strumenti di “sordina”. Sì che non pare ardito oggi dire che Pasolini è stato per l’ultimo Novecento il rovesciamento speculare di quello che fu D’Annunzio all’ouverture del 20° secolo: là fu la parola chiamata a colmare le lacune del tempo, parola di gloria (e di lusso vitale dell’io), qui la parola della negazione, dell’abiezione, dei margini prossimi al niente: “i segni del desiderio di morire, / le occhiaie del vile, / il mento del debole, / … / le scarpe dello statale, / il culo del soldato semplice, / la calvizie del disadattato, / la schiena del condannato a morte” (Il dolore dei poeti, da Poesie marxiste, 1964-65). L’Italia repubblicana trova così oggi due emblemi nobili della propria identità: da una parte Calvino, la ragione e l’utopia, la trasparenza e la levità, l’Italia dell’Ariosto e di Galileo; dall’altra Pasolini, l’Italia di Jacopone e di Belli, di Gioacchino da Fiore e di Gadda: stracci e apocalissi. Una civiltà magmatica – il dialetto friulano e Dante, i tragici greci e gli Evangeli, il sottoproletariato e la Nuova Guinea – ma non più e soltanto latina: Pasolini sa partire da Alba pratalia, alba pratalia delle nostre origini e arrivare alla lugubre Nuova Preistoria che viviamo, alla profezia degli ultimi: “La Negritudine, dico, che sarà ragione”. In certo modo – come lucidamente hanno osservato Calvino e Barthes per l’utopia di Fourier – il profetismo pasoliniano si sbilancia oltre la rasserenata compiutezza delle ideologie: supera ogni finalismo della storia prevedendo la fine della storia, e intanto della propria. Nessun altro poeta come Pasolini ha messo in scena, costantemente provandola e riprovandola in parole come sarà nei fatti, la propria morte: “Stesura in ‘cursus’ di linguaggio ‘gergale’ corrente, dell’antefatto: Fiumicino, il vecchio castello e una prima idea vera della morte: […] – sono come un gatto bruciato vivo, / Pestato dal copertone di un autotreno” (Una disperata vitalità). Un Pasolini che incarna in sé, come scriverà, il destino di Cassandra: “Basti pensare a una figura come quella di Cassandra, che prevede, anzi vede fisicamente la propria morte” (Nota per l’ambientazione dell’Orestiade in Africa). Una lettura della storia dell’Italia unita, tutta incentrata sulle identità popolari: il cristianesimo e il marxismo; il pensiero laico-liberale, stendardo della borghesia, non fu mai una vera alternativa, ma parve a Pasolini la continuazione del Potere, non la plenitudine della Verità: “Quelli di voi che possiedono un cuore / votato alla maledetta lucidità, / vadano nei laboratori, nelle scuole, / a ricordare che nulla in questi anni ha / mutato la qualità del conoscere, eterno pretesto, / forma utile e dolce del Potere, NON MAI VERITÀ. // […] Vadano, tanto per cominciare, dai Crespi, dagli Agnelli, / dai Valletta, dai potenti delle Società / che hanno portato l’Europa sulle rive del Po: // è giunta per ognuno di loro l’ora che non ha / proporzione con quanto ebbe e quanto odiò” (Vittoria). Erano gli anni di Barbiana e tra poco di Lettera a una professoressa, l’utopia di un’eguaglianza fatta non per accumulo (produzione e consumo: la vagheggiata affluent society), ma per condivisione dell’essenziale: l’Italia di Pasolini e don Milani, Danilo Dolci e padre Turoldo, e anche – sia non indebito il paragone – dei papi veneti del Concilio, papi degli umili. Quella via, via di parola e di pane, di poveri e giustizia, fu l’orizzonte scomodo di Pier Paolo Pasolini: “Ma nei rifiuti del mondo, nasce / un nuovo mondo […] / la loro speranza nel non avere speranza” (La religione del mio tempo, 4). Quella vita che non ha nient’altro, per sostenerla, che il suo consumarla, sacro deserto della fame, della manna, ove si attraversa – come Mosè, come Edipo – il miraggio, “sospinti dalla violenza del suo assillo”. Così Pasolini ci ha rinnovato la biblica coscienza del sacro: quella coscienza – di Frazer e Cumont, di Caillois e di Deonna, ma anche di Bresson e di Tarkovskij – che “ciò che è sacro si conserva accanto alla sua nuova forma sconsacrata” (Medea).
Kappler-faccia tagliata venne per testimone a raccontarci il massacro. Si disse fanatico e sacro nella sua grande fatica d’abbattere ostaggi, un portone di buio aperto dai fari la cava di Roma antica.
Su quel trofeo di vendetta – sempre più deboli i forti ciechi nel giallo alone del tufo in polvere – in vetta lui solo a sparare per tutti i carnefici arresi all’orrore, lui solo totale furore di mazza sugli innocenti. E tacquero i venti, il silenzio non era del mondo ma di quel sangue assetato.
Kappler-faccia tagliata parlava in tedesco, il pubblico zitto l’interprete muto. Nessuno guardava più in giro, tutti fissi in un punto, quel punto: Kesselring, il viso compunto nell’ordine, il fatto compiuto. E nulla andò perduto di quelle parole, io non le riesco a staccare da me – e non da me, ma dal fitto del petto con cui le respiro. Blut diceva il sangue e tu-fo il tufo come noi, mostrando fra le sue dita la gialla arenaria che frana su quella morte impaurita, sulla giustizia vana che lascia parole.
All’Appia antica se il sole rallegra la via e s’odono i passi perduti dei morti cristiani, ricorda gli eterni minuti di questo supplizio. Domani i giusti saranno con noi nel tempo che i morti non hanno. Or la pietà dell’inganno vi chiude le tombe già aperte perché la morte vi opprima col peso di tutte le offerte, col senno di poi. Per altri innocenti, per altro furore s’accenda la prima la stessa parola d’amore che ci fu tolta: domani.
(da La storia delle vittime, 1966)
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“Ad ascoltarlo [Kappler] erano tutti fissi dai propri banchi: egli descriveva la scena delle esecuzioni, esaltandosi alle sue stesse parole, stancandosi della fatica del massacro come allora, ma senza rompere l’equilibrio necessario… Erano queste stesse precisazioni che spiegavano l’episodio del massacro nel suo svolgimento e lo rendevano terribilmente vero”:Alfonso Gatto (1909-1976) seguì come giornalista del Mattino del popolo di Venezia il processo ad Albert Kesselring e Herbert Kappler, responsabili dell’eccidio delle Fosse Ardeatine, compiuto come rappresaglia dai tedeschi il 24 marzo 1944, all’indomani dell’attentato di Via Rasella nel quale i partigiani uccisero 33 soldati nazisti. Fu una vera e propria strage a sangue freddo: i tedeschi, dopo averli portati nelle cave di pozzolana sull’Ardeatina, uccisero dieci italiani per ogni loro soldato, sbagliando anche i calcoli poiché le vittime furono 335, rastrellate nelle carceri di Via Tasso e di Regina Coeli – in particolare partigiani, monarchici, massoni ed ebrei – e tra i detenuti in attesa di giudizio anche per reati non politici. Poi fecero saltare la cava con le mine per sigillarla. Fu una delle crudeltà più impressionanti e gratuite dell’intera guerra, che lasciò un segno profondo nella coscienza della nuova Italia.
Mausoleo delle Fosse Ardeatine Il 23 marzo 1944, in un’azione di guerra in via Rasella a Roma, un gruppo di partigiani uccideva 33 soldati nazisti e ne feriva 38. Pronta la risposta tedesca: per ogni soldato ucciso sarebbero stati eliminati dieci italiani. Il giorno dopo, 24 marzo, 335 uomini, scelti a caso dalle truppe di occupazione tedesca tra prigionieri politici, tradotti dal carcere di via Tasso, ebrei e civili furono giustiziati. Le vittime vennero poi gettate nelle antiche cave di pozzolana situate a ridosso di via Ardeatina che vennero poi fatte brillare su ordine di Kappler per occultare la carneficina.
I movimenti di automezzi nei pressi del luogo dell’eccidio e le successive esplosioni furono però uditi da alcuni religiosi che si trovavano nelle vicinanze in qualità di guide alle catacombe. Durante la notte, i frati entrarono nelle cave e scoprirono i corpi ammassati uno sull’altro.
Per commemorare il tragico evento, e offrire degna sepoltura ai martiri della resistenza, il governo post-liberazione decise di “erigere sul luogo della vendetta tedesca un monumento a perenne ricordo dei Martiri e di tutti i caduti della guerra di Liberazione”. A questo scopo, nel settembre 1944, il Comune di Roma indisse un concorso – il primo dell’Italia democratica – per l’edificazione di un mausoleo da consacrare simbolo della Resistenza alle violenze del Reich.
I vincitori del concorso, gli architetti Giuseppe Perugini, Nello Aprile e Mario Fiorentini, progettarono un semplice parallelepipedo cavo in cemento a protezione dei sacelli dei martiri posti fuori terra ma in stretto collegamento con il luogo dell’eccidio.
La costruzione del sacrario iniziò il 22 novembre 1947. Nel 1949, il Mausoleo fu inaugurato solennemente in occasione del quinto anniversario della strage. Da allora, ogni 24 marzo, l’evento viene commemorato al cospetto di autorità, associazioni partigiane e di deportati, studenti e comuni cittadini, mentre i nomi delle 335 vittime vengono scanditi ad alta voce.
La suggestiva cancellata da cui si accede al mausoleo è opera dello scultore e pittore Mirko Basaldella. Il senso che assume è altamente simbolico di una scena di feroce massacro tratteggiato dalle figure disperatamente contorte che vi sono rappresentate.
L’imponente gruppo scultoreo in travertino posto sul piazzale è opera dello scultore di Francesco Coccia, e rappresenta tre personaggi a simbolo delle tre età. I corpi ritratti sono orientati rispettivamente verso le cave, verso il luogo delle sepolture e verso il piazzale, come a indicare il percorso al visitatore.
Il film Roma città aperta, struggente capolavoro diretto da Roberto Rossellini nel 1945, con Anna Magnani e Aldo Fabrizi ricorda quei tragici avvenimenti. Aldo Fabrizi è don Pietro, figura che ricorda i due religiosi, Don Giuseppe Morosini, fucilato a Forte Bravetta, e Don Pietro Pappagallo, ucciso nelle Fosse Ardeatine. Anna Magnani, invece, è Pina, la moglie incinta di Fabrizio, uno dei prigionieri condotti alle Fosse Ardeatine. Per cercare di salvarlo, insegue il camion sul quale è stato caricato, ma viene falciata da una raffica di mitra.
Breve biografia di Marino Moretti è nato nel 1885 a Cesenatico, dove è scomparso nel 1979, con lunghi soggiorni a Firenze. Le sue raccolte di poesia: Fraternità (1905), Sentimento (1907), Poesie scritte col lapis (1910), Poesie di tutti i giorni (1911), Il giardino dei frutti (1916), Poesie (1919), L’ultima estate (1969), Tre anni e un giorno (1971), Le poverazze (1973), Diario a due voci (1973), Diario senza le date (1974). È autore di racconti e di romanzi: Il sole del sabato (1917), La voce di Dio (1920), I puri di cuore (1923), Il segno della Croce (1925), Andreana (1935), La vedova Fioravanti (1941), I coniugi Allori (1946), La camera degli sposi (1958). Nel 1922 cominciò la sua collaborazione trentennale con la pagina letteraria del Corriere della Sera. Nel 1925 firmò il manifesto antifascista di Croce e per questo si vide rifiutare da Mussolini, nel 1932, il Premio dell’Accademia d’Italia.
MORETTI E CESENATICO -articolo di Giuseppina Giacomazzi.
Negli scrittori crepuscolari i luoghi, fisici o idealizzati, dimore reali o letterarie, costituiscono spesso l’essenza della loro espressione artistica. Il legame con la provincia è una caratteristica comune: nel caso di Marino Moretti, Cesenatico e la Romagna. Nella scelta dei paesaggi, che sono sempre dell’anima, forte è l’influenza dei simbolisti francesi, le cui opere sono pervenute a questi scrittori italiani attraverso riviste quali la “Revue des deux mondes” e “Mercure de France”. Per i simbolisti francesi, come Francis Jammes e Georges Rodenbach, il paesaggio idealizzato è quello della provincia, con i ricordi struggenti e gli oggetti ad essa legati e aventi profonda risonanza interiore: conventi, chiostri, ospedali (luoghi appartati e solitari, in contrapposizione con quelli dei futuristi) e giardini, orti, cimiteri, organetti di Barberia, proiettati in una stagione autunnale e grigia, i vecchi angoli di una città, i mobili di una casa, le fotografie ingiallite, le stampe. Gli oggetti, entrando in colloquio con il poeta, diventano un motivo di sensazioni raffinate e di evasioni, nella trasfigurazione della banalità quotidiana. I personaggi sono spesso malati, beghine, suore o maestre, ma anche signorine di provincia; la terminologia e i toni usati sono perfettamente conformi e coerenti con questa particolare ambientazione. Gli spazi, sia dei luoghi e ambienti natali, sia di quelli lontani, come le Fiandre per Moretti, sono comunque spazi dell’altrove. Egli rifiutò il termine crepuscolare per la sua poesia, non accettò i limiti di tale appartenenza e molto si è dibattuto sulla presenza di elementi crepuscolari nella sua tarda poesia e nella prosa, dove sembrano dominare piuttosto aspetti veristici e naturalistici, ma solo apparentemente, per un continuo coinvolgimento dell’autore, operato attraverso il confronto fra realtà esterna e verità interiore. Non c’è luogo per me che sia lontano, asserisce Moretti (in Andar lontano. Le Poverazze, Milano, Mondadori, 1973) perché ogni luogo, anche il più distante, può essere avvertito come luogo dell’anima. Il paesaggio che fa da sfondo alla sua produzione letteraria non è solo Cesenatico o la Romagna, ma anche Firenze, dove abitò, e le Fiandre, in particolare Bruges, patria di uno dei più significativi suoi modelli di riferimento, Georges Rodenbach. Marabini afferma: separa Moretti dai suoi luoghi una natura contestatrice acutamente critica e sostanzialmente inappagata. […] Si può amare e non amare nello stesso tempo, essere dentro e fuori, essere e non essere borghese, realizzare oggettivamente un mondo ma cercare la verità più gelosa in un altro luogo. Moretti mantiene infatti con l’ambiente che lo circonda indipendenza e capacità polemica, che si esprimono attraverso l’ironia. A differenza di Guido Gozzano guarda più al presente o ad un passato più vicino, anche se i paesaggi e gli oggetti sono idealizzati e trasfigurati in atmosfere che sottolineano uno stato di malinconia, di noia esistenziale e di nostalgia del non vissuto, di malessere, suscitando interrogativi senza risposte. Moretti è consapevole dell’esaurimento di uno stile poetico che nella nuova realtà ha perso ogni funzione di messaggio. La poesia è poesia della non poesia, della sua impossibilità. Cesenatico e la sua casa sul porto canale sono presenti soprattutto nelle prime raccolte poetiche. Luogo privilegiato dell’interiorità è il giardino della sua casa, spazio in cui forte è il richiamo della morte, hortus conclususche chiude lo scorrere del tempo e consente apparizioni, ma anche giardino dell’Eden, frutteto antidannunziano, metafora di poesia. Il giardino dei frutti (Napoli, Ricciardi, 1916) dà il titolo ad una raccolta poetica, e fiori e frutti non sono che i prodotti della sua creatività, del suo impegno letterario. “Ecco: dicon queste cose, / ma non so se vero sia: / che un bel fiore è poesia / e che il frutto è solo prosa”. Il giardino Hortus incultus, hortus animulae, il giardino di casa sua, in Poesie scritte col lapis (Bari, Palomar, 1992) è anche il giardino della memoria familiare e del ricordo. “Angolo d’hortulus / E’ dolce ricordare! Ogni fil d’erba / dell’orto mio potrebbe ricordare, / ché molto sa […]. Ne Il giardino dei morti, in Poesie scritte col lapis, il cimitero in cui riposa il fratellino, scomparso ad un mese d’età, che Marino non conobbe: “Il piccol camposanto / è un precluso giardino. / Precluso”, perché in esso è il mistero che si schiuderà con la morte. Il giardino della stazione di piccoli luoghi della provincia romagnola, che si scorge dal finestrino del treno, è un luogo dove non ci si ferma quasi mai, perché: “poveri illusi, si va / in cerca di felicità, / verso città sempre nuove, / verso l’ignoto e la sera!” (Il giardino della stazione, in Il giardino dei frutti) e il petalo che cade nella fontana richiama la vita che passa inesorabilmente. Posto privilegiato fra gli spazi familiari occupa la cucina, alla quale viene dedicata una sezione intera della raccolta Il giardino dei frutti; la cucina in cui il poeta desidera sempre vedere sua madre in un ruolo casalingo e rassicurante. Nella poesia La madre risponde, la madre comunica al figlio di amare gli utensili presenti in essa: “[…] e vorrò bene a quella / casseruola di rame, al testo ed al tegame, / al vaglio e alla gretella …” e il sentirli nominare “… / in quell’ora / omai crepuscolare” (Mia madre risponde, in Il giardino dei frutti) tranquillizza Marino, legato ad un ruolo tradizionale della donna all’interno della società e della famiglia. Nelle ultime raccolte, oltre a quelli della sua casa, gli spazi rievocati sono Cesenatico e la Romagna, rivissuta dall’interno. Si tratta sempre di un paese ripercorso e guardato dalle mura domestiche, in una dimensione familiare e locale che lo salva dalla vita assente e dal deserto dell’anima. Moretti volge lo sguardo ai luoghi della quotidianità: la locanda denominata L’albergo della tazza d’oro (in Poesie scritte col lapis), un salone di parrucchiere di provincia, dove i bei conversari ironizzati da Gozzano, diventano pettegolezzi, conversari popolari, rivissuti dal poeta con l’ambiguità dell’odio e del sorriso bonario che nasce dalla comprensione. “Il tedio pio di tutta questa gente / che forse è ancor dei sogni e dei segreti!” (Salone, in Poesie scritte col lapis). Il suo paese è un paese marino, nel quale “il mare è da per tutto”, ma “In cimitero s’ode / Così come alla riva / Lì ci verranno a stare godendo il lido in pace”(Cesenatico vecchia, in Diario senza le date, Milano, Mondadori, 1974). Il paesaggio marino che si presuppone ridente e assolato, spesso si adombra di immagini crepuscolari. Il ponte sul porto canale ricostruito secondo criteri moderni suscita un sentimento di nostalgia, al ricordo di quello antico che il poeta attraversava tornando da scuola. (I due ponti, in Diario senza le date). La spiaggia del suo paese balneare ritorna ad appartenergli allorquando, deserta, mostra “gusci e alcunché d’informe, / tracce del mare infido (Paese balneare, in L’ultima estate, Milano, Mondadori, 1969) quando possono scorgersi rifiuti e meduse morenti sulla battigia. (Battigia, in L’ultima estate). Nella raccolta Le Poverazze, che prende il nome da un onesto mollusco, cibo dei poveri, si ripropongono gli stessi temi della casa protettiva e degli oggetti quotidiani: la cucina-tinello, il giardino, la libreria, gli animali domestici. Anche i versicoli del poeta sono le ultime poverazze, metafora, nella loro umiltà, della scrittura: “Le poverazze: cronache dell’io. / Le poverazze: cronache di pena. / Le poverazze: scelte per la cena. / Le poverazze: scelte per l’addio. Le immagini e il tono, dimessi nella loro semplicità, sono pervasi da malinconia. La poesia crepuscolare è percorsa da una concezione del tempo, quale tempo dell’anima disgiunto da quello storico, spesso inteso come vuoto, noia esistenziale che scandisce la monotonia della vita di provincia, ripetitività e non senso che conducono alla morte. Uno dei temi ricorrenti della poesia di Marino Moretti è quello della Domenica, spazio tempo del grigiore e della noia, nei quali è immersa la provincia. A tale tema è dedicata un’intera sezione delle Poesie scritte col lapis. Fra queste, un posto particolare occupa La Domenica di Bruggia, nella quale Moretti introduce un nuovo luogo dell’anima, quello delle Fiandre che acquisteranno centralità nel romanzo La casa del Santo Sangue.
Articolo di Giuseppina Giacomazzi da -Repubblica Letteraria Italiana
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