Joan Dalmases- Dones que mengen el cor de l’amant-
La poesia de Guillem de Cabestany, el Châtelain de Coucy i Reinmar von Brennenberg
Viella Libreria Editrice-ROMA
SINOSSI
La llegenda del cor menjat va gaudir d’una gran popularitat durant la Baixa Edat Mitjana, concretament a partir de les primeres dècades del segle XII. L’expansió d’aquest relat per Europa va propiciar l’aparició de múltiples versions en els territoris occità, francès, italià i alemany, que donaren lloc a reelaboracions que es nodrien de la idiosincràsia cultural de cada zona.
Tot i l’interès que aquesta llegenda ha desvetllat des de fa segles en filòlegs i historiadors, sovint no s’ha remarcat prou que alguns dels seus protagonistes fossin personatges reals, concretament poetes, entre els quals destaquen l’occità Guillem de Cabestany, el francès Châtelain de Coucy i l’alemany Reinmar von Brennenberg. ¿Què tenien en comú aquests tres autors, tan distants geogràficament i cronològica, per acabar esdevenint protagonistes de les versions més conegudes de la llegenda del cor menjat? Hi ha alguna relació entre les seves vides i el relat?
Dones que mengen el cor de l’amant proposa una anàlisi de les dades històriques i del corpus líric d’aquests tres poetes, per tal de contrastar el tractament metafòric que cada territori fa de la llegenda i reconèixer el procés segons el qual cada autor n’acaba esdevenint objecte i protagonista, fusionant-se, així, realitat i ficció.
INDICE
Introducció
1. El cor a l’Edat Mitjana
1. Cor, símbol d’amor: els antecedents
2. El cor en la medicina
3. La simbologia del cor en la mística i en la religió
4. El cor i la fin’amors
2. Guillem de Cabestany
1. Estat de la qüestió
2. Dades històriques
3. Obra lírica
4. La Vida de Guillem de Cabestany
3. Châtelain de Coucy
1. Estat de la qüestió
2. Dades històriques
3. Obra lírica
4. Le roman du Châtelain de Coucy et de la dame de Fayel
4. Reinmar von Brennenberg
1. Lírica trobadoresca amorosa alemanya: el Minnesang
2. Estat de la qüestió
3. Dades històriques
4. Obra lírica
5. De Minnesänger a màrtir: el Bremberger Ton
6. La Bremberger-Ballade
Conclusions
Apèndix
1. Guillem de Cabestany
1. Obra lírica
2. La Vida de Guillem de Cabestany
2. Châtelain de Coucy
1. Obra lírica
3. Reinmar von Brennenberg
1. Obra lírica
2. Meistersang
3. Bremberger-Ballade
Bibliografia
Índex de noms
L’AUTORE-
Joan Dalmases és Doctor en Cultures Medievals per la Universitat de Barcelona i membre de l’Institut de Recerca en Cultures Medievals (IRCVM). La seva recerca se centra en les relacions literàries entre Occitània, França i Alemanya durant l’Edat Mitjana, sobretot pel que fa a la lírica trobadoresca.
NOTE
Fotografies de la coberta: 1- Suetoni, Vida de Cèsar, 1433, Princeton University Library, MS Kane 44, f. 113r. 2 – Roman d’Alexandre, 1338-1344, Bodleian Library, Ms. 264, f. 59r. 3 – Boccaccio, Décaméron, 1414-1418, Biblioteca Apostolica Vaticana, Pal. Lat. 1989, f. 144r. 4 – Her Reinmar von Brennenberg, 1340, Universitätsbibliothek Heidelberg, Pal. germ. 848, f. 188r.
Ivančica Đerić-POESIA: I falchi volano troppo bassi-
a cura di Andrea Zambelli- (*vedi nota)
Fonte -East Journal-
Ivančica Đerić è una poetessa, vive in Canada dopo esser fuggita da Prijedor quando la guerra ha ingolfato la Bosnia Erzegovina. “I falchi volano troppo bassi” è una poesia che ha scritto l’11 ottobre 2023 sulla guerra tra Israele e Gaza, per il sito di Miljenko Jergovic, Ajfelov most.
La proponiamo in lingua originale e in una veloce traduzione (senza pretese letterarie) per i nostri lettori italofoni.
Jastrebi prenisko lete
Gledam to jato jastreba, kočopere se na stazi,
upravo se umire, u Izraelu, u Gazi,
a jastrebi se šetkaju, nijedan dalje da leti,
ovo je moja zemlja, za koju će golubi mrijeti,
jer jasno je da sam ja jastreb,
a on je svemoćna ptica,
dočim to krdo goluba, to su nebitna lica,
njima pobij golubiće, i krenuće slijepo da ginu
za tvoju konačnu korist i povijesnu veličinu,
izgubiće sve što imaju, a nisu ni imali mnogo,
prsima će na bombe, da se susretnu s bogom,
ubijaće jedni druge, to im je komplementarnost,
dok jastrebi vječno vladaju,
i ostaju premoćna stvarnost,
izruguju humanizam, podstiču fanatizam,
žrtvuju tuđe i svoje, jer bitan je pragmatizam,
ruše svačije gnijezdo, i čine to slamku po slamku,
a te što ne mrze nikog, trpaju složno u raku,
jer ne treba jastrebu takav, da širi defetizam,
jastreb je željan plijena, i prezire pacifizam,
jastreb se hrani mesom goluba koji gine,
jastreb se tome smije, ah vidi gozbe fine,
dok nad njim nisko slijeće,
dok ga u kandže lovi,
dok leš mu baca na smeće,
dok mu se mesom tovi,
dok usput stalno krešti
one šećerne fraze
da milost božja bliješti
na djecu-kamikaze,
da je potrebno klati,
pa neka i drugi pati,
i bombe unatrag slati,
jer primi, pa onda vrati,
dok tako nam jastrebi vele
i tamo nas oni nose,
naše su nevažne želje,
njihove naše kose,
za njih treba ubijati
za njih se mora mrijeti,
za jastreba koji nas prati,
i usput prenisko leti.
Gledam ih tamo jato, keze se tamo na stazi,
upravo majke plaču, u Izraelu, u Gazi,
njihova djeca su mrtva, ubijaju ih k’o muhe,
i dobrodošla su žrtva, mole na uši gluhe,
njima ne pripada ništa, čak ni njihova glava,
jer otkako svijeta i vijeka to je istina prava,
golubi samo postoje da hrane strojeve bojne,
djeca da im se uzmu, i šalju u redove vojne,
jer jastrebu tako paše, da ubija i njih i naše,
da se sveti, da prijeti,
da uvijek nisko leti,
taj jastreb je ptica zlica,
i kočoperi se na stazi,
i gorko plaču majke
u Izraelu i Gazi.
I falchi volano troppo bassi
Guardo quello stormo di falchi, si pavoneggiano sulla via,
si muore proprio ora, in Israele, a Gaza,
e i falchi passeggiano, nessuno vola più lontano,
questa è la mia terra, per la quale moriranno le colombe,
perché è chiaro che sono un falco,
ed è un uccello onnipotente,
invece quello stormo di colombe, quelle sono facce irrilevanti,
uccidete con essi i pulcini, e cominceranno a perire alla cieca
per il vostro massimo beneficio e per la vostra grandezza storica,
perderanno tutto ciò che hanno, e non avevano molto,
disarmati verso le bombe, per andare incontro a dio,
uccideranno gli uni gli altri, questa è la loro complementarità,
mentre i falchi regnano per sempre,
e rimangono una realtà potentissima,
deridono l’umanesimo, incoraggiano il fanatismo,
sacrificano i propri cari e quelli degli altri, perché ciò che conta è il pragmatismo,
distruggono il nido di tutti, e lo fanno paglia per paglia,
e poiché non odiano nessuno, restano uniti nel cancro,
perché non serve al falco per diffondere il disfattismo,
il falco è avido di preda e disprezza il pacifismo,
il falco si ciba della carne della colomba che perisce,
il falco se la ride, oh guarda che tavola imbandita,
mentre atterra basso sopra di lui,
mentre lo afferra con gli artigli,
mentre getta il suo cadavere nella spazzatura,
mentre si nutre della sua carne,
urlando costantemente lungo la strada
quelle dolci frasi
che la grazia di Dio risplende
ai bimbi-kamikaze,
che è necessario macellare,
quindi lascia che anche gli altri soffrano,
che le bombe tornino indietro,
perché ricevi e poi restituisci,
mentre ce lo dicono i falchi
e lì ci portano,
i nostri desideri non sono importanti,
i loro sono di falciare la nostra gente,
per loro devi uccidere
per loro si deve morire,
per il falco che ci segue,
volando troppo basso.
Li guardo lì, uno stormo, che si divertono lì sul sentiero,
le madri stanno piangendo, in Israele, a Gaza,
i loro figli sono morti, li uccidono come mosche,
e gradite sono le vittime, pregano alle orecchie sorde,
niente gli appartiene, nemmeno la propria testa,
perché dall’inizio del mondo e dei tempi è l’unica verità,
le colombe esistono solo per nutrire le macchine del battaglione,
i loro bambini per essere portati via e mandati tra le fila dell’esercito,
perché il falco pascola così, uccidendo i loro e i nostri,
vendicandosi, e minacciando,
volando sempre basso,
quel falco è un uccello del male,
e si pavoneggia sulla via,
e amaramente piangono le madri
in Israele e a Gaza.
ivančica đerić11. 10. 2023.
Foto : 1911 Encyclopædia Britannica volume 10, pages 509–519
Chi è Andrea Zambelli?
Andrea Zambelli è uno pseudonimo collettivo usato da vari membri della redazione di East Journal.
I versi di Federico Ratti si snodano come in una «danza d’opposti», manifestano la posizione contrastante di una umanità che celebra la vita e accarezza la morte. Una scrittura poetica che fa riaffiorare il suono di certe meravigliose partiture di maestri novecenteschi. Ricorrono temi del quotidiano: la noia del presente, la memoria e il tempo; Ratti si serve di immagini asciutte come chi, dopo averle manipolate a lungo, le rende lisce come i ciottoli del mare.
Vengono proposti, di seguito, alcuni suoi componimenti inediti, in attesa della sua prima raccolta poetica.
Elena Verzì
*
Se ci rivedremo
chiedilo al tempo – ma cos’è, poi
il tempo? Sicuro
non la lancetta sul muro
intenta a ticchettare
più forte mentre scende
più debole mentre risale;
neppure una forza che sovrasta
un destino che avanza; neanche
un flusso esterno
che trascina per il colletto
verso qualche avvenimento.
Il tempo non è un appuntamento.
Difatti, sono io il tempo; tempo
di me stesso – e nessun altro.
Di questo, nessun vanto.
Ma se ci rivedremo
chiedilo a me – me soltanto.
*
Questa mancanza d’inventiva
questa sterilità d’idee
a cosa è dovuta?
Ragionare troppo – ragionare forte
sulla vita il senso il perché
può condurre all’oblio:
un foglio bianco, la morte.
*
Ciò che sento, ciò che vivo
può esser la storia di altri
lo stesso identico cammino.
Oppure mistero tutto mio:
ciò che sento, ciò che vivo
lo so soltanto io.
*
Il tuo nome è un coltello
che ripeto a bassa voce
infilato sotto la lingua
– in mezzo al torace.
Dirlo da lontano – salutarti
mentre con altri
ti baci e ti dai la mano
è l’ultimo vagito
del bambino che era in me.
Resto a bocca aperta – spalancata
come il cadavere sgomento
il pesce slamato: la postura
di chi non ha futuro
di chi vorrebbe e non può urlare.
L’amore fa bene, l’amore fa male.
*
D’un tratto si è giovani
e poi si scopre
di non esserlo più.
Come il battito d’ali
di uno stormo destato
dal rintocco della neve
è il migrare dell’età.
Ma la vita ha meno grazia
della coltre intatta
che cresce ad orlo sui tetti.
I suoi messaggi viaggiano
su sinistri ambasciatori:
l’addio alla giovinezza
sveglia nella notte
col suono schietto
di un colpo di fucile.
*
Impasto è la vita
di cielo e fango
sporco e santo
mani e occhi legati
ad alterne vicende
di male e bene
zucchero e fiele.
Danza d’opposti
su un unico palco,
pazienza e quiete
dentro ad un salto.
Leva del mondo
è la contraddizione:
azione e reazione
sul viscido crinale
fra grazia e dannazione.
Vivere è ordinare il primo
e mangiare il contorno
– matrimonio e funerale
nell’arco di un sol giorno.
*
Simile a me è la notte
che non vede mai giorno;
sempre prima dell’alba si sveglia
e gioia non trova dal sorgere del dì:
non è detto che il sole
faccia sempre compagnia
alle persone sole.
*
Ogni volta che mi vinco
e convinco ad uscire
trovo sempre un’occasione
una nuova lezione
a farmi ricredere
a non farmi cedere.
Il volto che scontro
la voce che incontro: tutto
è nuovo – imprevedibile
meraviglia inattesa.
Solo nell’uscita
ci si converte alla vita.
Breve biografia di Federico Ratti è nato alla Spezia nel 1990. Dopo il diploma Classico, si laurea in Filosofia all’Università di Pisa e in Scienze Religiose presso l’Istituto Superiore Niccolò V della Spezia. Insegna Religione negli istituti superiori e presso la Casa Circondariale Penitenziaria della sua città. Dopo un’esperienza giornalistica fra i quotidiani locali, si dedica con più assiduità alla narrativa e alla poesia. Nel 2016 viene premiato al concorso internazionale “Percorsi Letterari… dal Golfo dei Poeti Shelley e Byron, alla Val di Vara”. Si classifica secondo al Concorso Internazionale di poesia e narrativa “Le Grazie-Portovenere La Baia dell’Arte”, mentre l’anno successivo è quarto al Premio Internazionale di Narrativa “Il Prione” con un racconto sul tema dell’Alzheimer. Nel 2018 riceve il premio della critica al Premio Thesaurus di Aulla. La sua prima pubblicazione arriva nel 2021 con “L’ultima riga della dimenticanza e altri racconti” (Helicon), dodici racconti brevi che cercano di gettare luce sulla parte meno illuminata della società.
La Rivista “clanDestino” nasce come una sfida di giovani amanti della poesia a Forlì.
Nel 1988 nove ragazzi, tra cui Gianfranco Lauretano e Davide Rondoni, decidono di dar vita alla rivista, proseguendo con nuovo nome e taglio, il lungo lavoro per la poesia italiana che aveva fatto la casa editrice Forum di Forlì di G. Piccari, con la rivista “Quinta Generazione”.
Da quel momento in poi una serie di voci importanti hanno viaggiato con clanDestino; ma non solo grandi nomi, anche tanti poeti e scrittori hanno esordito e si sono incontrati con la rivista e ne hanno tratto spunti per la loro arte.
Fin dall’inizio clanDestino si è distinto per il suo essere in un certo modo, mai neutro né banale, ospitale e attento, vivace compagno di strada che cerca la vita nella vita.
Responsabile della Rivista clanDestino: Davide Rondoni via Altabella, 3 – Bologna
Da: Alibi -Longanesi, 1958- Da: Il mondo salvato dai ragazzini e altri poemi-Einaudi, 1968-
Da: Alibi -Longanesi, 1958-
ALIBI
Solo chi ama conosce. Povero chi non ama! Come a sguardi inconsacrati le ostie sante, comuni e spoglie sono per lui le mille vite. Solo a chi ama il Diverso accende i suoi splendori e gli si apre la casa dei due misteri: il mistero doloroso e il mistero gaudioso.
Io t’amo. Beato l’istante che mi sono innamorata di te.
Qual è il tuo nome? Simile al firmamento esso muta con l’ora. Sei tu Giulietta? o sei Teodora? ti chiami Artù? o Niso ti chiami? Il nome a te serve solo per giocare, come una bautta. Vorrei chiamarti: Fedele; ma non ti somiglia.
La tua grazia tramuta in un vanto lo scandalo che ti cinge. Tu sei l’ape e sei la rosa. Tu sei la sorte che fa i colori alle ali e i riccioli ai capelli. La tua riverenza è graziosa come l’arcobaleno.
Sono i tuoi giorni un prato lucente dove t’incontri con gli angeli fraterni: il santo, adulto Chirone, l’innocente Sileno, e i fanciulli dai piedi di capra, e le fanciulle-delfino dalle fredde armature. La sera, alla tua povera cameretta ritorni e miri il tuo destino tramato di figure, l’oscuro compagno dormiente dal corpo tatuato.
Tu eri il paggio favorito alla corte d’Oriente, tu eri l’astro gemello figlio di Leda, eri il più bel marinaio sulla nave fenicia, eri Alessandro il glorioso nella sua tenda regale. Tu eri l’incarcerato a cui si fan servi gli sbirri. Eri il compagno prode, la grazia del campo, su cui piange come una madre il nemico che gli chiude gli occhi. Tu eri la dogaressa che scioglie al sole i capelli purpurei, sull’alto terrazzo, fra duomi e stendardi. Eri la prima ballerina del lago dei cigni, eri Briseide, la schiava dal volto di rose. Tu eri la santa che cantava, nascosta nel coro, con una dolce voce di contralto. Eri la principessa cinese dal piede infantile: il Figlio del Cielo la vide, e s’innamorò.
Come un diamante è il tuo palazzo che in ogni stanza ha un tesoro e tutte le finestre accese. La tua dimora è un’arnia fatata: narcisi lontani ti mandano i loro mieli. Per le tue feste, da lontani evi giungono luci, come al firmamento. Ma tu in esilio vai, solo e scontento. Il mio ragazzo non ha casa né paese.
Elsa Morante
La bella trama, adorata dal mio cuore, a te è una gabbia amara. E in tua salvezza non verrà mai la sposa regina del labirinto. Per il sapore strano del bene e del male la tua bocca è troppo scontrosa. Tu sei la fiaba estrema. O fiore di giacinto cento corimbi d’un unico solitario fiore!
La folla aureovestita del tuo bel gioco di specchi a te è deserto e impostura. Ma dove vai? che mai cerchi? invano, gatta-fanciulla, il passaggio d’Edipo sul tuo cammino aspetti. O favolosa domanda, al tuo delirio non v’è risposta umana. Riposa un poco vicino a chi t’ama angelo mio.
Quando mi sei vicino, non più che un fanciullo m’appari. Le mie braccia rinchiuse bastano a farti nido e per dormire un lettuccio ti basta. Ma quando sei lontano, immane per me diventi. Il tuo corpo è grande come l’Asia, il tuo respiro è grande come le maree. Sperdi i miei neri futili giorni come l’uragano la sabbia nera. Corro gridando i tuoi diversi nomi lungo il sordo golfo della morte.
Riposa un poco vicino a chi t’ama.
Lascia ch’io ti riguardi. La mia stanza percorri spavaldo come un galante che passa in una strage di cuori. Allo specchio ti miri i lunghi cigli ridi come un fantino volato al traguardo. O figlio mio diletto, rosa notturna! Povero come il gatto dei vicoli napoletani come il mendico e il povero borsaiolo, e in eleganza sorpassi duchi e sovrani risplendi come gemma di miniera cambi diadema ogni sera ti vesti d’oro come gli autunni.
Elsa Morante
Passa la cacciatrice lunare coi suoi bianchi alani…
Dormi. La notte che all’infanzia ci riporta e come belva difende i suoi diletti dalle offese del giorno, distende su noi la sua tenda istoriata. I tuoi colori, o fanciullesco mattino, tu ripiegasti. Nella funerea dimora, anche di te mi scordo.
Il tuo cuore che batte è tutto il tempo. Tu sei la notte nera.
Il tuo corpo materno è il mio riposo.
(1955)
Elsa Morante
MINNA LA SIAMESE
Ho una bestiola, una gatta: il suo nome è Minna.
Ciò ch’io le metto nel piatto, essa mangia, e ciò che lemetto nella scodella, beve.
Sulle ginocchia mi viene, mi guarda, e poi dorme, tale che mi dimentico d’averla. Ma se poi, memore, a nome la chiamo, nel sonno un orecchio le trema: ombrato dal suo nome è il suo sonno.
Se penso a quanto di secoli e cose noi due livide, spaùro. Per me spaùro: ch’essa di ciò nulla sa. Ma se la vedo con un filo scherzare, se miro l’iridi sue celesti, l’allegria mi riprende.
I giorni di festa, che gli uomini tutti fan festa, di lei pietà mi viene, che non distingue i giorni. Perché celebri anch’essa, a pranzo le do un pesciolino; né la causa essa intende: pur beata lo mangia.
Il cielo, per armarla, unghie le ha dato, e denti: ma lei, tanto è gentile, sol per gioco li adopra. Pietà mi viene al pensiero che, se pur la uccidessi, processo io non ne avrei, né inferno, né prigione.
Tanto mi bacia, a volte, che d’esserle cara io m’illudo, ma so che un’altra padrona, o me, per lei fa uguale. Mi segue, sì da illudermi che tutto io sia per lei, ma so che la mia morte non potrebbe sfiorarla…
(1941)
Elsa Morante
AMULETO
Quando tu passi, e mi chiami, assente son io. Per lunghe ore ti aspetto, e tu, distratto, voli altrove. Ma tanto, il mezzano serafico del nostro amore, il sultano dello zenit che muove sul quadrante le sfere con le dita infingarde e sante, ha già segnato l’istante del nostro convegno. Molli si volgono i miei giorni a quella imperiosa stagione. Candida e glaciale essa risplende alta salendo, come fuoco. Ah, nostra incantevole stanza! Che importa a me, infido spirito, dei tuoi diversi pensieri? Il presagio inchina già la fronte all’annuncio. Sorte e amore ti congiungono a me.
(1945)
LETTERA
Tutto quel che t’appartiene, o che da te proviene, è ricco d’una grazia favolosa: perfino i tuoi amanti, perfino le mie lagrime. L’invidia mia riveste d’incanti straordinari i miei rivali: essi vanno per vie negate ai mortali, hanno cuore sapiente, cortesia d’angeli. E le lagrime che mi fai piangere sono il mio bel diadema, se l’amara mia stagione s’adorna del tuo sorriso.
Stupisco se ripenso che avevo tanti desideri e tanti voti da non sapere quale scegliere. Ormai, se cade una stella a mezzo agosto, se nel tramonto marino balena il raggio verde, se a cena ho una primizia nella stagione nuova, o m’inchino alla santa campana dell’Elevazione, non ho che un voto solo: il tuo nome, il tuo nome, o parola che m’apri la porta del paradiso.
Nel mio cuore vanesio, da che vi regni tu, le antiche leggi del mondo son tutte rovesciate: l’orgoglio si compiace d’umiliarsi a te, la vanità si nasconde davanti alla tua gloria, la voglia si tramuta in timido pudore, la mia sconfitta esulta della tua vittoria, la ricchezza è beata di farsi, per te, povera, e peccato e perdono, ansia e riposo, sbocciano in un fiore unico, una grande rosa doppia.
Ma la frase celeste, che la mia mente ascolta, io ridirti non so, non c’è nota o parola. Ti dirò: tu sei tutto il mio bene, ad ogni ora questa grazia di amarti m’è dolce compagnia. Potesse il mio affetto consolarti come mi consola, o tu che sei la sola confidenza mia!
Elsa Morante
(1946)
CANTO PER IL GATTO ALVARO
Tra le mie braccia è il tuo nido, o pigro, o focoso genio, o lucente, o mio futile! Mezzogiorni e tenebre son tue magioni, e ti trasformi di colomba in gufo, e dalle tombe voli alle regioni dei fumi. Quando ogni luce è spenta, accendi al nero le tue pupille, o doppiero del mio dormiveglia, e s’incrina la tregua solenne, ardono effimere mille torce, tigri infantili s’inseguono nei dolci deliri. Poi riposi le fatue lampade che saranno al mattino il vanto del mio davanzale, il fior gemello occhibello. E t’ero uguale! Uguale! Ricordi, tu, arrogante mestizia? Di foglie tetro e sfolgorante, un giardino abitammo insieme, tra il popolo barbaro del Paradiso. Fu per me l’esilio, ma la camera tua là rimane, e nella mia terrestre fugace passi giocante pellegrino. Perché mi concedi il tuo favore, o selvaggio? Mentre i tuoi pari, gli animali celesti gustan le folli indolenze, le antelucane feste di guerre e cacce senza cuori, perché tu qui con me? Perenne, tu, libero, ingenuo, e io tre cose ho in sorte: prigione peccato e morte. Tra lune e soli, tra lucenti spini, erbe e chimere saltano le immortali giovani fiere, i galanti fratelli dai bei nomi: Ricciuto, Atropo, Viola, Fior di Passione, Palomba, nel fastoso uragano del primo giorno… E tu? Per amor mio?
AVVENTURA
per Luchino Visconti
Hai tu un cuore? La leggenda vuole che tu non l’abbia. Al vedermi, che per te mi consumo d’amore, tutti mi dicono: «Ah, pazza, mangiata dalle streghe, rosa dalle fole, soldato d’imprese disperate, marinaio senza veli né remi, dove t’avventuri? in quali deserti di sabbia, dietro Morgane, e fuochi fatui, e larve canzonatrici tu vuoi spegnere la tua sete nella solitaria morte! Ah, chi ti gettò questa rete, povero pesciolino?» Così dice la gente; ma lasciamo che dica! A chi di te mi sparla, nemica io mi giurai. Per te, mio santo capriccio, volto divino, senz’armi e senza bussola sono partita. Non v’è riposo alla speranza mai. A difficili amori io nacqui. Come una rosa in un giardino d’Africa o d’Asia assai lontano, come una bandiera alzata in cima a una nave pirata, come uno scudo d’argento appeso in un barbaro tempio, difficile splende il tuo cuore il tuo frivolo, indolente cuore, l’eroico, femmineo tuo cuore. il tuo regale, intatto cuore, il cuore dell’amore mio. Io credo nel tuo cuore! Le caverne terrestri son tutte una gioielleria. Funerea primavera per le mie feste vanesie, l’ametista viola e l’agata lunare e i diamanti simili a rose cangianti e il topazio vetrino, il topazio d’oro. Hanno i cristalli aloni e code di fuoco, mille comete e lune per la mia notte. M’offron conchiglie i golfi, e giochi oceanici, e il cielo boreale riposi e meditazioni. Dolcezze ha l’aranceto, come salive d’amore, e l’Asia graziose belve, mie tenere schiave. Le Maestà dei re conversazioni m’accordano, e al mio comando s’accendono circhi e teatri. Ma alla conquista io partii d’un frutto aspro. Il tuo cuore: altro frutto non voglio mordere. Non voglio i doni terrestri, al mio potere mi nego. Il solo mio volere è questa impresa! Alla conquista d’un frutto amaro andai. Le cose amare sono le più care. Segreta, lo so, è la stanza del prezioso cuore ch’io cerco. Lungo e incerto il viaggio fino al nido di questa civetta-fenice. Inesperta son io, compagno né guida non ho, ma giungerò alla camera felice del mio bell’idolo. Addio, dunque, parenti, amici, addio! Prima bisogna guadare il lago stagnante della paura, e i Grandi Orgogli oltrepassare, fastosa catena di rupi. Snidare bisogna l’invidia che s’imbosca e i mostri di gelosia mettere in fuga, (ah, San Michele e San Giorgio, datemi il vostro scudo!) per notti occhiute, selve purpuree, dove incontrare potrò centauri e ippogrifi, e bere il magico sangue dei narcisi. Si levan poi le triplici mura di Sodoma intorno a campo straniero dalle sette torri merlate. Incantare dovrò i guardiani, riscattare le spose comprate, e a lungo errerò per corti e fughe di scale, fra un popolo d’echi e d’inganni fino alla cara porta, che reca la scritta crudele: Indietro, o pellegrina. Non riceve. Ah, fossi alato usignolo, foss’io centaura, ah, sirena foss’io, foss’io Medoro o Niso, che forse a te più amico sarebbe il nome mio, grazioso cuore! Invece, Lisa è il mio nome, nacque nell’ora amara del meriggio, nel segno del Leone, un giorno di festa cristiana. Fui semplice ragazza, madrina a me fu una gatta, e alla conquista partii d’un dolce cuore. Or che mi presentai, siimi cortese, o amore. Di che temi, o selvatico? d’esser preso al laccio? Ah, no, dell’amara pampa la figlia io non sono. D’esser trafitto? Io non ho coltello, né pungiglione. Né son io sbirra, per gettarti in carcere, né fata, per averti compagno notte e giorno, mutato in corvo, dentro gabbietta d’oro. Ah, dall’impresa non giudicarmi eroe! Leggera è la mia mente più del fuoco, più che un riccio dei tuoi fulvi capelli. Per la mia pena, per il tuo vinto amore, con te soltanto un poco giocare io voglio come una foglia scherza con l’ombra e il sole, o una ragazza col suo gatto rosso. E poi ti dirò addio. Tu dirai: Lisa! supplicherai: Lisa! Ah, Lisa! Lisa! chiamerai. Ma io ti dirò addio.
Elsa Morante
Da: Il mondo salvato dai ragazzini e altri poemi (Einaudi, 1968)
ADDIO
Dal luogo illune del tuo silenzio mi riscuote ogni giorno l’urlo del mattino. O notte celeste senza resurrezione perdonami se torno ancora a queste voci. Io premo l’orecchio sulla terra a un’eco assurda dei battiti sepolti. Dietro la belva in fuga irraggiungibile mi butto sulla traccia del sangue. Voglio salvarti dalla strage che ti ruba e riportarti nel tuo lettuccio a dormire. Ma tu vergognoso delle tue ferite mascheri i cammini della tua tana. Io fingo e rido in un ballo disperato per distrarti dall’orrenda mestizia ma i tuoi occhi scolorati di sotto le palpebre non ammiccano più ai miei trucchi d’amore. Alla ricerca dei tuoi colori del tuo sorriso io corro le città lungo una pista confusa. Ogni ragazzo che passa è una morgana. Io credo di riconoscerti, per un momento. E mendicando rincorro lo sventolio di un ciufietto o una maglietta rossa che scantona… Ma tu rintanato nel tuo freddo nascondiglio disprezzi la mia commedia miserabile. Buffone inutile io deliro per le vie dove ogni fiato vivente ti rinnega. Poi, la sera, rovescio sulla soglia deserta un carniere di piume insanguinate. E chiedo una tenerezza al buio della stanza, almeno una decadenza della memoria, la senilità, l’equivoco del tempo volgare che medica ogni dolore… Ma la tua morte cresce ogni giorno. E in questa piena che monta io vado e mi riavvento in corsa dirotta, per un segno, un punto nella tua direzione. O nido irraggiungibile e caro, non c’è passo terrestre che mi porti a te. Forse fuori dai giorni e dai luoghi? La tua morte è una voce di sirena. Forse attraverso una perdizione? o vna grazia? o in quale veleno? in quale droga? forse nella ragione? forse nel sonno? La tua morte è una voce di sirena. Voglia di un sonno che pare una tua dolcezza ma è stata già l’impostura dove ti ho perso! La tua morte è una voce di sirena che vorebbe sviarmi da te nelle sue fosse. Forse, io devo accettare tutte le norme del campo: ogni degradazione, ogni pazienza. Non posso scavalcare questa rete spinata mentre al tuo grido innocente non c’è risposta. La tua morte è una luce accecante nella notte, è una risata oscena nel cielo del mattino. Io sono condannata al tempo e ai luoghi finché lo scandalo si consumi su di me. Io devo, qui, trescare e patteggiare con la belva per rubarle il segreto del mio tesoro. O pudore d’una infanzia uccisa, perdonami questa indecenza di sopravvivere. Tu sei partito credendo di giocare alla fuga. Era per fare il bravo, la tua smorfia d’addio. Al solito! Che poi ti bandisci nella tua stanzuccia minaccioso dietro le porte sbarrate come un gran capitano nel suo forte supremo. Guai per l’audace che si arrischi all’assedio! Ma ti conosco. Che invece se nessuno si arrischia ti strazi, e piangi nella tua rabbia infantile perché non c’è amore al mondo e ti lasciano solo. Ma stavolta, la tua porta fu sbattuta dagli uragani. Le piogge entrarono nel vano abbandonato e una fanghiglia come sangue ha imbrattato i muri. Quando eri vivo, la tua stanza era la stella del quartiere, ricercata da tutti. E adesso tutti ne rifuggono, come fosse appestata. Il mio piede incíampa nella tua camiciola che nessuno ha più raccolto da terra. Sul terrazzo devastato dagli inverni, le piante sono morte. Perfino i ladri hanno schifato questo tuo feudo estremo dove infatti c’era poco di valore, da rubare! Ritagliàti dalle riviste, i ritratti dei tuoi eroi adornano ancora le pareti: Gautarna il Sublime, il barbuto Fidel, Billie Holiday la suicida. In un angolo, c’è ancora la scodella della tua gatta. Una cravattina rossa pende nell’armadio. Alla partenza, ti caricasti dei tuoi beni principali: il canestro con la gatta e il fonografo a valigia. «Il resto dei bagagli, speditelo per via mare». Trecento volte quella nave ha ripercorso quel mare e i tuoi tesori sono dispersi, e io sono qui, vivente. Anche se vivo tremila anni, e se corro tutti i mari, non posso più raggiungerti per riportarti indietro. Lo so che tu credevi di giocare all’addio. Era una braveria, la tua smorfia… Ma contro una scommessa impaziente di ragazzo è un’altra lunga agonia la posta che qui si chiede. La ladra delle notti è una cammella cieca e folle che gira per Sahara incantati, fuori d’ogni pista. L’itinerario è lunatico, non c’è destinazione. Le sabbie disfanno le tracce dei suoi furti. Le sue pupille bianche fanno crescere miraggi dai corpi lacerati che lei semina per le sabbie. E i miraggi si spostano a distanze moltiplicate irraggiungibili nei loro campi solitari. Amputati dai corpi, si disperdono separati senza rimedio, eterne mutilazioni. Nessun miraggio può incontrare un altro miraggio. Non ci sono che solitudini, dopo il furto dei corpi.
…
Elsa Morante
A P. P. P.
In nessun posto
E così, tu – come si dice – hai tagliato la corda. In realtà, tu eri – come si dice – un disadattato e alla fine te ne sei persuaso anche se da sempre lo eri stato: Un disadattato. I vecchi ti compativano dietro le spalle pure se ti chiedevano la firma per i loro proclami e i “giovani” ti sputavano in faccia perché fascisti come i loro baffi: (già, tu glielo avevi detto, però avevi sbagliato in un punto: questi sono più fascisti dei loro baffi) ti sputavano in faccia, ma ovviamente anche loro ti chiedevano la propaganda per i loro volantini e i soldi per le loro squadrette.
E tu non ti negavi, sempre ti davi e ti davi E loro pigliavano e poi: “lui dà” – bisbigliavano nei loro pettegolezzi – “per amore di se stesso”. Viva, viva chi ama se stesso e gli altri ama come se stesso. Loro odiano gli altri come se stessi e in tale giustizia magari si credono di fondare una rivoluzione. Loro ti rinfacciavano la tua diversità dicendo con questo: l’omosessualità. Difatti, loro usano il corpo delle femmine come gli pare. Liberi di usarlo come gli pare. Il corpo delle femmine è carne d’uso ma il corpo dei maschi esige rispetto. E come no!
Questa è la loro morale. Se una femminella di strada avesse assassinato uno dei loro non la giustificherebbero perché immatura. Ma in verità in verità in verità quello per cui tu stesso ti credevi un diverso non era la tua vera diversità. La tua vera diversità era la poesia.
È quella l’ultima ragione del loro odio perché i poeti sono il sale della terra e loro vogliono la terra insipida. In realtà, LORO sono contro-natura. E tu sei natura: Poesia cioè natura. E così, tu adesso hai tagliato la corda. Non ti curi più dei giornali– [la] preghiera del mattino – con le crisi di governo e i cali della lira, e decretoni e decretini e leggi e leggione. Io spero che un’ultima sola grazia terrena ti resti ancora – per poco – ossia ridere e sorridere. Che tu di là dove sei– ma per poco ancora – di là, dal Nessun Posto dove ti trovi ora di passaggio – che tu sorrida e rida dei loro profitti e speculazioni e rendite accumulate e fughe dei capitali e tasse evase e delle loro carriere ecc. Che tu possa riderne e sorriderne per un attimo prima di tornartene al Paradiso.
Tu eri un povero E andavi sull’Alfa come ci vanno i poveri per farne sfoggio tra i tuoi compaesani: i poveri, nei tuoi begli abitucci da provinciale ultima moda come i bambini che ostentano di essere più ricchi degli altri per bisogno d’amore degli altri. Tu in realtà questo bramavi: di essere uguale agli altri, e invece non lo eri. DIVERSO, ma perché?
Perché eri un poeta. E questo loro non ti perdonano: d’essere un poeta. Ma tu ridi[ne]. Lasciagli i loro giornali e mezzi di massa e vattene con le tue poesie solitarie al Paradiso. Offri il tuo libro di poesie al guardiano del Paradiso e vedi come s’apre davanti a te la porta d’oro Pier Paolo, amico mio.
(1976)
Breve Biografia di ELSA MORANTE
Elsa Morante
ELSA MORANTE – nata a Roma il 18 agosto del 1912 – morì a Roma il 25 novembre 1985– la maggiore di quattro figli, figlia di Francesco Lo Monaco e Irma Poggibonsi. Elsa è cresciuta credendo che il secondo marito di sua madre, Augusto Morante, fosse suo padre. Nel 1922 a famiglia si trasferì a Monteverde Nuovo dove Elsa Morante fin da giovanissima iniziò a scrivere racconti e poesie. Dopo aver completato gli studi, lasciò la famiglia, mantenendosi dando lezioni di greco e latino. I suoi primi racconti sono stati pubblicati su riviste come Il Corriere dei Piccoli, I diritti della scuola e Oggi, alcuni di essi pubblicati con lo pseudonimo di Antonio Carrera.Grazie al pittore Capogrossi, nel 1936 conosce Alberto Moravia il grande scrittore romano, autore tra gli altri de Gli indifferenti e La noia. Il matrimonio della Morante con Alberto Moravia, oppositore del governo fascista di Mussolini, la mise in contatto con i maggiori scrittori e intellettuali italiani dell’epoca, tra cui Umberto Saba e Pier Paolo Pasolini. Le sue raccolte di poesia sono Alibi (Longanesi 1958, Garzanti 1988, Einaudi 2004) e Il mondo salvato dai ragazzini e altri poemi (Einaudi, 1968, 2006, 2012). I suoi romanzi: Menzogna e sortilegio (1948), L’isola di Arturo (1957), La storia (1974), Aracoeli (1982). Numerosi i racconti e gli scritti vari, saggi e interventi. È uno dei maggiori narratori italiani. Menzogna e sortilegio viene pubblicato nel 1948 vincendo il premio Viareggio, con L’Isola di Arturo Elsa Morante divenne la prima donna a vincere il Premio Strega.
-Maria Grimaldi Gallinari- Carlo Stasi-Silvano Trevisani-
Poesie pubblicate sulla Rivista ORIGINI n°41 ottobre 2000
POETI DEL SALENTOPoeti del SalentoPoeti del SalentoPoeti del SalentoPoeti del SalentoPoeti del SalentoPoeti del SalentoRivista ORIGINI N°41 ottobre 2000
Quando il cielo si tinge di nero,
a buio,
gli affaticati che ottengono
un giusto riposo a casa
non siamo noi,
affannati a smontare
e a rimontare il vero.
*
Cresceva il non essere.
E chi l’avrebbe fermata l’onda celeste
che scendeva dal cielo a portare il vuoto
e lo diffondeva nell’aria,
e allora c’era chi reagiva
con il sollevamento pesi o con gli addominali,
chi scaraventandosi dal primo cliente
a insistere
per concludere un contratto,
chi si indebitava per comprare una macchina suv,
chi correva in chiesa a supplicare Dio
d rimediare a tutto.
*
Chi non si impegna
resta nella fossa, tale e quale
l’hanno calato.
Chi invece vuole acquisire
uno stato migliore, si dà da fare,
cerca il pertugio per arrivare
al buio più profondo,
all’assoluta quiete,
all’eterno immutabile.
*
Immagine resisti, resisti,
non mi privare della speranza
che un giorno tu possa essere vera,
scoperta dal puro sentire.
Un peso secolare grava
sull’organo del cuore.
E ora non c’è più presenza,
ma tante assenze
che si richiamano
all’insaputa di tutti.
*
E se fossimo noi luce del giorno,
e non il sole?
Acquietarci nel nostro essere vero,
finalmente trovato, essere noi
anche portatori di tenebre,
col tremolio del riposo e del sogno.
E se il tempo fosse solo pensiero?
Ma dall’universo provengono
le alterazioni del corpo
e la febbre.
*
È passata la vita,
e non ce ne siamo accorti.
NOTA di Gianluca D’Andrea-:”Tra lo gnomico e il didascalico, Osare dire, di Cesare Viviani, impone un senso di inaderenza che toglie fiato. Già a partire da Silenzio dell’universo, il tentativo “esistenziale” dell’autore toscano imprime, e proprio nella direzione mistico-contemplativa agognata, un eccessivo distacco dalle “lordure” materiche. Così la lingua, proprio per via del distacco, si semplifica fino all’appiattimento, non sorprende “criticamente” il mondo lasciandolo vibrare nella totale indistinzione. La poetica, stucchevole ormai, del distacco identitario non si rinnova e non aggredisce linguisticamente la sponda negativa del reale, ma si lascia trascorrere nello stesso flusso indistinto, rilevando – senza strumenti di setaccio convincenti – soltanto la stessa indistinzione. Ma oggi, in tempi postumi e non semplicemente post-identitari, è veramente necessario lasciarsi andare alle cosiddette “cose ultime” o mantenere quel “riserbo” spacciato per valore, il cui unico azzardo, però, è l’allontanamento dai fatti? In questo smorto paesaggio, che abbonda in autoreferenza, salviamo dei testi che, almeno sul piano concettuale, mantengono in piedi la spoglia del vero”.
Sulla poetica di Cesare Viviani – Nota di Davide Morelli
Rivista ATELIER
La poesia può essere espressione d’amore, pensiero della morte, tentativo di rendere eterno un istante, espressione del proprio disagio e/o della propria solitudine, denuncia sociale, intenzione rivoluzionaria, desiderio di cambiare il mondo, descrizione della bellezza, ricerca di spiritualità, creazione di miti. Può essere una sola di queste cose, essere quindi monotematica, o tutte queste cose insieme. La poesia di Viviani forse non è tutto questo, ma è molto di questo. Viviani è un poeta versatile e completo, che ha attraversato la crisi e i travagli della sua generazione. In molti si sono sempre ritrovati nei suoi libri e di questo non c’è da sorprendersi. C’era chi aspettava un suo libro quasi come per orientarsi, perché gli venisse indicata la strada maestra. A ragion veduta per la comunità poetica è un maestro. È sempre stata una presenza discreta e misurata, mai invadente negli ambienti letterari. Viviani avrà pure superato molte crisi della sua epoca, ma la sua poesia non ne è rimasta segnata in modo traumatico. Personalmente l’ho conosciuto come autore leggendo due antologie di successo degli anni Settanta in cui era stato inserito: “La parola innamorata” e “Il pubblico della poesia”. Successivamente, mi sono ritrovato a considerare che la poesia non aveva più un pubblico largo e diversificato perché la parola poetica era diventata troppo innamorata di sé stessa,… ma era solo un gioco di parole. Poi ho scacciato questa idea e mi sono detto che in realtà le cose erano più complesse. Le poesie di Viviani mi avevano molto incuriosito. Comprai così alcune sue raccolte. Volevo vedere se le poesie antologizzate erano le migliori oppure se aveva resistenza, talento e scorza per non annoiarmi e deludermi dopo aver letto le sue sillogi. A volte certi poeti non reggono la distanza. Sono come dei centometristi. Possono andare bene cinque liriche, ma talvolta sono come quei cantanti che hanno tre ottimi brani e poi compri l’album con nove pezzi di cui gli altri sei noiosi… Io i poeti veri li vedo non da cinque poesie, ma valutando gli esiti di intere raccolte. Devo capire se sono maratoneti, se hanno il fiato. E in verità Viviani non deluse affatto le aspettative, si rivelò un poeta autentico, vero. Tanto è vero che ha esordito con la Feltrinelli, e oggi è un autore Einaudi. Ha vinto molti premi importanti. Porta scrisse dell’esordiente Viviani: “è il più eversivo, forse l’unico che sappia oggi proseguire il discorso dada – assolutamente attuale – con estremo rigore”. Enrico Testa ha scritto che agli inizi Viviani, per la sua sperimentazione linguistica, era vicino alla neoavanguardia, mentre nella maturità la sua produzione è divenuta più comprensibile, senza più alcun assemblaggio degli oggetti, come direbbero i critici. Successivamente diviene intimamente ragionativo e si dimostra pluridisciplinare. Oggi molti, in poesia, sono autobiografici pur non essendo lirici. Viviani invece si risolve in pieno poeticamente depurando la sua esperienza di vita. Peraltro ha anche corroborato l’attività poetica con quella giornalistica e saggistica. Comunque, pur rinnovandosi sempre, non è mai antiletterario. Non nega il proprio retaggio letterario, pur non scrivendo nel solco della tradizione. È a ogni modo antinovecentista, e non guarda il cosmo dalla siepe leopardiana. Ritengo che in molti casi espressione e idea coesistano felicemente. Se a qualcuno la sua poesia può sembrare di mestiere e di maniera che valuti obiettivamente, piuttosto, le sue intuizioni folgoranti. Le illuminazioni sono istantanee. Ogni cosa può essere degna di attenzione in Viviani. Molti sono i nuclei ispiratori. La concisione in questo caso è una qualità. Ciò che colpisce è la profondità del pensiero espressa con leggerezza. La brevità di alcuni componimenti non sorprenda o deluda. Perché essere prolissi quando si ha la sua capacità di sintesi? Bisogna sempre considerare l’unità macrotestuale. La singola poesia non è a sé stante, ma richiama le altre della raccolta per stile e coerenza interna. Ogni poesia deve essere letta e considerata insieme alle altre. Viviani non vuole stupire con mirabolanti invenzioni linguistiche, ma mette a fuoco sempre un tema. Lo sviscera, lo rielabora, lo fa suo, lo padroneggia, lo metabolizza, quindi rende partecipi i lettori. Viviani di professione è uno psicanalista, ma non cerca di analizzare sé stesso nelle ultime raccolte, anche se aveva esordito con testi psicanalitici e connotati dalla cosiddetta “destrutturazione del linguaggio”. La completezza di Viviani si può constatare dal fatto che passa nel giro di pochi anni da un poemetto teologico come “Il silenzio dell’universo” a un romanzo polifonico in versi come “La forma della vita” per poi approdare a delle poesie epigrammatiche e religiose come “Credere all’invisibile”. Mentre tanti aspiranti poeti finiscono per autocommiserarsi o diventano preda della cosiddetta “shit life syndrome”, Viviani si eleva sempre spiritualmente e poeticamente. Ogni raccolta è il superamento di una soglia di coscienza, di una maturazione costituita dal raggiungimento di vari conquiste/approdi interiori. Eppure non rinnega mai sé stesso né i pensieri di ieri. Se Luzi invocava la parola perché giungesse allo zenith della significazione, Viviani la invita a sciogliere nuovi nodi esistenziali, filosofici, metafisici: due modi diversi di esprimere la propria cristianità. Il linguaggio del poeta è piano, privo di neologismi, arcaismi, dialettismi, grecismi, latinismi. In Viviani ho la vaga impressione che la mistica porti al raccoglimento interiore e viceversa. Ogni raccolta è omogenea e compatta, connotata dall’amore per la vita, nonostante un certo smarrimento esistenziale. Viviani è cosciente che la cosiddetta diffrazione dell’io è tale perché il mondo oggi è troppo vasto ed eterogeneo. Nemmeno si incaglia nel rapporto tra virtuale e reale, di cui tutti sanno, visto che è il nostro pane quotidiano o quasi. Sanguineti apocalittico aveva dichiarato che dopo il gruppo ‘63 ci sarebbe stato il diluvio. La poesia di Viviani invece è la quiete dopo la tempesta. Il poeta ha iniziato ad addentrarsi nel labirinto dell’inconscio per poi raggiungere nella maturità la metafisica. Ma il poeta è anche uomo di mondo, non è mai fuori dal mondo. Si può estraniare per un periodo ascoltando sé stesso per poi immergersi di nuovo nella realtà esterna. “Credere nell’invisibile”, per esempio, è il frutto di un periodo di solitudine, di esilio. È però una fatica interiore che ha portato a dei risultati letterari. Lo psicanalista ha ceduto il passo ormai all’uomo di fede. Il poeta così vola più alto e con lui vola più in alto la sua parola nelle raccolte più recenti. La sua diviene una poesia rarefatta, una poesia dell’essere, dopo che carne e spirito, identità e alterità hanno lottato incessantemente. Se agli esordi per esplorare l’inconscio si avvaleva dell’accumulazione, spesso invece per parlare di spirito e di Dio fa economia di parole, ne usa poche, ma sempre giuste. Come sosteneva Einstein, quando la soluzione è semplice è Dio che sta rispondendo. Viviani sa benissimo che la caratura intellettuale non deriva dagli intellettualismi a cui si può rimanere aggrovigliati. Un poeta deve saper filtrare tutto. Deve anche semplificare e sintetizzare il suo pensiero e la sua poetica. Lo stesso Leopardi, quando scriveva versi, non si perdeva nelle medesime elucubrazioni che caratterizzano lo Zibaldone. Ciò Viviani lo sa bene. La materia nel poeta ha ceduto il passo, via via, allo spirito. Alcuni libri si leggono in poco tempo. Ma il problema non è leggerli. La questione di fondo è capirli, comprenderli in tutta la loro umanità, farne tesoro e poi ritornare a rileggerli perché qualche interrogativo in sospeso resta sempre. Personalmente il discorso, il dialogo con la poesia di Viviani è spesso un flusso ininterrotto, talvolta ripreso a ogni lettura. A volte, riprendo il filo, vado a rileggermi i versi sottolineati. Viviani di volta in volta può incarnare la figura di padre putativo, fratello maggiore, amico di vecchia data, insegnante, mentore, compagno di viaggio, grazie alla sua saggezza. È come se con i suoi versi ti dicesse non come devi vivere la vita, bensì come devi prendere la vita, ovvero con profondità e leggerezza al contempo. Non sono un filologo e non mi interrogo sulla continuità, sull’evoluzione stilistica, sulle metamorfosi varie dei suoi libri. Non mi interessa nemmeno. Però ritorno spesso a sfogliare i suoi libri per riappropriarmi delle sue sentenze, delle sue verità gnomiche. La sua poesia è sapienziale, colta, basata sul giusto distanziamento dalle cose, dalle passioni, dal mondo. È apparentemente semplice, ma non sfugge a un lettore attento il metodo, lo sforzo, il talento che stanno dietro tutto questo. E però c’è anche l’insight lirico, quel salto logico inconscio compiuto dal poeta con estrema naturalezza che lo porta a creare dei componimenti che hanno segnato un’epoca e lo hanno reso senza ombra di dubbio uno dei maggiori protagonisti della scena poetica, almeno qui in Italia.
Roberto CESCON-La poesia dov’è- Cinque poesie inedite-
Rivista «Nuovi Argomenti»
LA POESIA DOV’È
D’improvviso mi ha chiamato per sentire
la mia voce farsi avanti nello schermo
che ogni volta non so cosa mi aspetta
in questo spiccare bianco sempre prossimo a venire.
Ero proteso tutto in quel silenzio
finché la monetina di un messaggio
mi ha ricordato Pietro, la terapia di oggi,
e la ruspa dalla strada e le voci di operai
sono entrate nel silenzio della mia.
Allora sono uscito dalla stanza
per la lavatrice e prima un sorso d’acqua.
Mentre stendevo, è venuto il verbo
per il primo verso, che ho scritto di ritorno.
Poi lo sguardo si è posato sulla libreria,
un altro libro mi ha chiamato, di un amico, le poesie,
un brindisi a un comune altrove
con gli amici che non ci sono più.
L’ho sfogliato lasciando ancora entrare
la sua voce che conosco e ho pensato di cambiare
un connettivo, giusto per il limite di undici,
chissà perché poi la paura di varcare
quelle colonne d’Ercole, cosa mai potrà succedere?
Ho pensato ai miei amici lontani
e all’ultima volta, tutti insieme a cena
con le vite distanti e lo stare bene
nel ricordo della prossima.
Ho cancellato due versi, nessuno li vedrà
e tra poco anch’io li scorderò
o forse torneranno a ruminare
finché non troverò il modo di trovarli.
Per quanto sono state mie quelle parole?
E in quale gesto torneranno?
Adesso dovrei mettermi un maglione,
fa più freddo ma il mio corpo
è come non volesse rassegnarsi
al finire dell’estate. Resisto
davanti allo schermo, un altro verso,
una frase girata, la sposto giù
e dal forno mi arriva il profumo del plumcake
e l’avviso di una mail. Resisto ancora
anche se all’inizio, giuro, volevo fare altro,
è da ieri che devo far la spesa,
ma la mente ora chiede un corpo,
si protende con le dita al tuo silenzio
e ti chiama mentre accadono cose,
ma davvero accadono fuori?
*
Libertà, ma davvero
provi a immaginarla
nelle moltitudini che chiedono
incompiute e originali, anche tu
un tempo l’hai creduto, ma quanto te ne serve
per uscire dall’eterno
della scena che rincorri nella mente?
Magari la confondi con il desiderio
ma l’altro, le parole che pronuncia
sono per un altro, che non è qui
e forse neanche esiste, e voi, a tratti
lo intuite, siete ignoti l’una all’altro.
Tu sei questo corpo che spicca dalla terra
quando senti il profumo
di un dolce dal forno per l’indomani
magari sotto un porticato, d’estate…
ma dove vuoi andare
che qualcuno ti tira sempre giù…
Potresti dire che tutto accade
nel tempo in cui viviamo, ma è lo spazio
delle tue parole che fa diventare tempo
lo spazio tuo e degli altri.
Vorresti l’altra luce
che intuisci dal contorno dei palazzi
ma fissi i panni stesi, un oleandro
sotto il cornicione e questo muoversi
di tutti e di ciascuno
nel continuo disfarsi degli eventi.
*
Mentre parlo risuona la mia voce
nel dubbio di sentirla non più mia.
Prova a spostarti, mi dici, sono i muri
ma inciampo ancora
tra quanto dico e quanto sento…
Dicevi che a questo taglio d’esistenza
vuoi solo il meglio da una relazione
senza scorie della vita a due,
eppure ci sei stata e ti piaceva.
Ti basta quella che hai
e poi perché fallire ancora?
A me fa male invece ammettere
di entrare in una vita predelusa…
Arrivati qui (mentre torna
l’altra voce sfasata, sono io
che parlo? E tu cosa senti?), un allarme
dal buio, come inizio
qualcosa che non può iniziare?
*
Da quale parte il canto di due uccelli
lassù, chissà se due, indistinguibili
per me che non so distinguerli
tra i rami radi prima della primavera
e quei suoni nei miei passi
che seguono un futuro che proviene
da altri passi, in un tempo
come ora che mi tocca e non si muove
e l’improvviso frusciare delle foglie
per una biscia o altro che non indovino
come quest’odore nella voce
affiorano i pensieri
non così diversi da quei rami
o dai cinghiali nel bosco
invisibili e presenti
così è scritto all’imbocco del sentiero
e la mia lingua viene da lì
e lì finisce, mai del tutto
in un flusso antichissimo che dai muscoli
proviene e ci fa stare
in questi corpi, nei possibili futuri.
*
Sono i piedi nell’acqua e l’onda nuova
arriva negli occhi e non finisce
quante parti di te
nella sabbia e nel mare antichissimo
che in un tempo vasto che non vedi
avresti visto spaccato da rocce
e poi rocce spagliate dai fiumi
sfarinare in questa sabbia
e segni a non finire
nell’aria di opere e intenzioni
si parlano da un prima che verrà
adesso, altrove
mentre il sole sposta l’ombra
attorno a te esseri antichissimi
partoriti da millenni, millenni di volte,
come tutte le altre volte sono qui
quante parti di te e di loro sono state il mare
adesso, nella luce
dove trovarti
fuori dagli occhi.
Breve biografia di Roberto Cescon
Roberto CESCON
Roberto Cescon è nato nel 1978 a Pordenone, dove vive e insegna.Ha pubblicato Vicinolontano (Campanotto 2000) e il saggio Il polittico della memoria (Pieraldo 2005). Suoi racconti sono apparsi nell’antologia Scontrini (Baldini&Castoldi 2004) e sulle riviste «Tina» e «ombelicale» – di cui è stato redattore. Il suo ultimo lavoro è La gravità della soglia (Samuele editore 2010). Sue poesie sono state pubblicate su diverse riviste tra cui «Nuovi argomenti», «Atelier» ecc. È tra i curatori della«Festa di poesia» di Pordenone e collabora all’organizzazione dei festival letterari «Pordenonelegge» e «notturnidiversi». È tra gli organizzatori del Premio Teglio Poesia e del Premio Castello di Villalta. Cura il blog «ipoetisonovivi.com».
Non vorrei mandare via i fantasmi da queste stanze – vorrei solo non facessero più male i lettini rossi ancora intatti la crema per le mani della mamma e la mia voce che anticipa il ritornello della fiaba. È un dolore che mi incastra sulla soglia di ogni stanza, e sa di vita che è stata in questa casa vuota e piena mentre mi muovo scoordinata pensando da che parte cominciare ad aprirla.
Chi resta
Nel toccare le camicie e i pantaloni, di vigogna e le scarpe con i lacci è rapita da ogni gesto che una volta scivolava senza quel nitore strano. Dopo un anno la stupisce la memoria delle dita – l’abitudine è un cassetto che si chiude inosservato.
La mia casa
Sulla soglia del silenzio resta tutta la memoria delle voci che avevamo. Io le avverto rare, vere e le faccio balenare tra il passo e il cuore.
Nel giardino milanese due note di lettura
Guido Oldani:”Nella Milano in cui alberga ancora la zavorra del tardo serenismo, da un lato continua un certo tratteggio del mitomodernismo, dall’altro dò vita al realismo terminale quale possibile poetica non legata alle singole culture. È Augusto Pivanti che mi indica il presente lavoro di Fabia Tolomei. Siamo al tempo del progressivo impoverimento del linguaggio e proprio qui sta la ragione della leggibilità di questi versi. La giovane Tolomei, infatti, dispone di un suo respiro verbale adeguato e consistente. Nel giardino che sembra quasi essere quello del privato, colloquia con il proprio tempo che le fa da specchio e gli interlocutori sono sempre modicamente presenti, così da non ramificare troppo la scrittura in risaputi generi poetici”.
Augusto Pivanti:”Fabia Tolomei è “una di famiglia”: della sua – di quella dalla quale proviene, alla quale geneticamente appartiene – e, in lettura più vasta, di una famiglia che – se anche non fosse, ma è, altroché se è – sarebbe stata “inventata” dall’autrice, debitrice come ella appare, in questa opera prima, ad un senso di adesione alla circolarità degli affetti, ad un desiderio incontenibile e incomprimibile di essere parte (de)scrivente in una forma di “partecipazione che tutto vede”, a cui nulla sfugge e dalla quale nulla fugge per manifesto bene-essere nel collocarsi entro il proprio fotogramma.”
Le cose che importano Fabia Tolomei
Pagine 70
Prezzo 13 euro
ISBN 978-88-94944-66-2
M’infiamma il desiderio.
E brillano i miei occhi.
Sistemo la morale nel primo cassetto che trovo,
mi muto in demonio,
e bendo gli occhi dei miei angeli
per un bacio.
-Dormi profondamente-
Dormi profondamente
e non ti preoccupare
per la mia insonnia,
lasciami sognare un po’
di strade alberate
e di vaste dune,
dove possa galoppare
sui miei cavalli bramosi,
io,
la donna che dovrà essere
buona
e ragionevole
domattina.
Ho osservato il mio specchio
Ho osservato il mio specchio
e vi ho visto
una donna
pienamente soddisfatta
con gli occhi brillanti
d’una squisita malizia.
L’ho invidiata
Abbiamo volti
che portiamo sulle spalle
sulle carte d’identità
nelle foto ricordo
Abbiamo volti
Abbiamo volti
che strappiamo conserviamo
nascondiamo riveliamo
ai quali ci abituiamo che rinneghiamo
che amiamo
e odiamo
Abbiamo volti
che conosciamo…
diciamo: li conosciamo?
-Che follia-
Che follia!
Il mio cuore ogni volta che sente bussare
apre la porta.
-Uno straniero mi guarda-
Uno straniero mi guarda,
uno straniero mi parla,
sorrido ad uno straniero,
parlo ad uno straniero,
m’ascolta uno straniero,
davanti
alle sue pene
pulite e bianche
piango,
sulla solitudine che unisce
gli stranieri.
-La donna che guarda dalla finestra-
La donna che guarda dalla finestra
vorrebbe avere delle lunghe braccia
per prendere il mondo
il suo Nord e il suo Sud
il suo Est e il suo Ovest
nel suo grembo
come una tenera madre
vorrebbe avere grandi mani
per carezzare i suoi capelli
scrivere delle poesie
per alleviare la sua pena.
-Desideravo-
Desideravo
che le tue labbra sfiorassero
il mio collo,
per chiudere gli occhi
e assaporare
la magia di quel
momento
proibito.
-Io e la mia felicità-
Io e la mia felicità
aspettiamo
le vibrazioni dei tuoi passi.
-Sei molto diverso dagli altri-
Sei molto diverso dagli altri.
Il tuo segno distintivo:
il mio bacio
sulla
tua bocca.
-Sono la ladra dei dolci-
Sono la ladra dei dolci
esposti nel tuo negozio
le mie dita sono appiccicaticce
e non sono riuscita
a metterne uno solo
in bocca.
-Questa sera-
Questa sera
un uomo uscirà
in cerca
di una preda
per soddisfare il segreto dei suoi desideri.
Questa sera
una donna uscirà
in cerca
di un uomo che la renderà
la padrona del suo giaciglio.
Questa sera
la preda e il predatore si incontreranno
e si compenetreranno
e forse…
forse
si scambieranno i ruoli.
-Sul letto-
Sul letto
una macchia rossa
inumidita dalle lacrime del vergine desiderio.
Ama per la prima volta
e si immerge nell´acqua eterna della vita
quel sudore
caldo
e i suoi strani effluvi
che emanano da due corpi
che festeggiano la morte del desiderio.
-Specchio-
Mi sono guardata allo specchio
e ho visto
una donna
pienamente soddisfatta,
dallo sguardo radioso
e squisita malizia.
-Tristezza-
Sola
non le permetto
di farmi visita.
Volteggia intorno a me
la caccio via.
Eccola
simile a una mosca nera
simile a una orribile mosca nera
vola qui, ronza di là
per atterrare sul profondo del mio cuore.
Tristezza
una mucca impazzita
rumina
l´erba e il fieno
della mia estasi.
-Verso di lui-
Si è diretta verso di lui
per offrirgli
i suoi pori
e le sue unghie
decorate da ciliegie
che ha divorato
avidamente.
Se ne è andata
con il cestino del suo cuore
svuotato.
-Filo di luce-
Lo guardai
attraverso un filo di luce
che filtrava
dalla finestra della mia misericordia.
Il corpo affaticato
disteso accanto a me
affamato come me.
Gli ho fatto cenno
di avvicinarsi
ma ha rifiutato.
Glielo ho ordinato
ma ha disobbedito.
L’ho obbligato
si è avvicinato tremante dalla paura
di toccare
un altro corpo.
-L’Amore-
Lo voglio,
caldo
e profondo
che mi dia vertigine;
altrimenti, non ti avvicinare.
Che parta
dal mignolo della mia mano,
per finire alla punta dei miei piedi,
passando
per i miei monti,
le mie valli e le mie gole
e catturi
la mia anima.
– Aspetto,e cosa aspetto ?-
Aspetto,
e cosa aspetto ?
Un uomo carico di fiori
e di parole dolci.
Un uomo
che mi guardi e mi veda.
Che mi parli e m’ascolti.
un uomo che pianga
per me.
Provo pietà per lui
e l’amo.
-Impediscimi-
Impediscimi, mio saggio marito,
Impediscimi, mio saggio marito,
di issarmi sui tacchi della mia femminilità,
perché all’angolo
mi aspetta un giovane
-Lei mi apre-
Lei mi apre
le sue ampie porte.
Mi chiama
e mi spinge a lanciarmi
nel suo spazio
e come un uccello
davanti alla porta aperta della gabbia
non oso.
-Delitto-
Che
meraviglioso delitto
ho commesso?
Ho goduto
di un corpo
che mi ha donato
un fiume inebriante
e una ribellione di vita.
-Anime scalze-
Le ho viste.
Loro,
i loro volti dai lividi celati.
Loro,
gli ematomi nascosti tra le cosce,
Loro,
i loro sogni rapiti, le loro parole azzittite
Loro,
i loro sorrisi affaticati.
Le ho viste
tutte
passare nella strada
anime scalze,
che si guardano dietro,
temendo di essere seguite
dai piedi della tempesta,
ladre di luna
attraversano,
camuffate da donne normali.
Nessuno le può riconoscere
tranne quelle
che sono come loro.
-Vieni, vieni-
Vieni, vieni
ho preparato la tavola del mio ventre
il giardino delle mie cosce dai frutti maturi
le mie cosce calde e felici
succose di nettare di desiderio.
Ma
prepara la tua bocca affinché io possa mangiare.
Vieni, vieni
ben temperato è il mio vino sacro
che ti darà il godimento
di una donna
matura d’amore.
– Mi ha detto che sarebbe venuta-
Mi ha detto che sarebbe venuta
quando?
non lo so
tuttavia lei verrà, è sicuro
ma prima
bisognerà che mi tolga
lo sfavillio degli occhi
la freschezza della pelle
la pienezza dei seni
l’umido dei passi
la lucentezza dei capelli.
Dovrà privarmi
della voglia di correre
di danzare
di scoprire le braccia
di guardarmi nello specchio.
Le servirà far morire il mio desiderio
il desiderio di baciare
di fare l’amore.
– È venuta tutta intera-
È venuta tutta intera,
con l’odore del suo letto
e della sua cucina,
con i baci di suo marito
nascosti sotto la camicetta,
con il suo sperma
ancora caldo
nel ventre.
È venuta,
con la sua storia e i suoi sogni,
le sue rughe,
e il suo sorriso screpolato,
con la peluria che si tesse
sul bordo delle sue guance,
con i resti delle loro colazioni
appiccicati ai denti.
È venuta con tutti i miei dolori,
la donna che vive con il mio uomo.
-Che dispiacere-
Che dispiacere
per ogni parola d’amore
che voleva dichiararsi
e che fu seppellita viva.
Che dolore
in gola.
-Aspetto dietro la tua porta-
Aspetto
dietro la tua porta,
non aizzarmi contro i tuoi cani rabbiosi
perchè mi caccino.
I tuoi cani
che ho visto nascere,
che ho nutrito,
che ho carezzato,
che si sono dimenticati
che li abbracciavo
e che nascondevano la loro testa
nel mio grembo.
Ah,gli ingrati!
Ogni volta
che apro la mia valigia,
ne esce polvere.
– Madame Chevrot-
Età : 75 anni Professione : ex stiratrice
È da molto
che non vedo Madame Chevrot,
la donna che di solito
incontravo nella strada principale.
Mi sorrideva
e il suo sorriso mi costringeva a fermarmi,
anche se avevo fretta,
per parlare del tempo,
della sua bellezza di un tempo
e degli uomini che l’hanno amata.
Madame Chevrot è piccola,
un naso grosso come una melanzana
e pochi denti
rotti e neri,
Lei giura con fierezza, che sono veri.
Elegante, per quanto l’età lo permetta.
Truccata, tanto che le cascano le palpebre …
Al nostro ultimo incontro
mi ha raccontato
di aver conosciuto un uomo
nella sala da ballo
dove stava imparando la salsa.
Lui avrebbe tanto voluto vivere con lei …
Ma lei?
Lei esitava,
divisa tra rinunciare alla sua libertà
e rinunciare al suo russare,
perché, mi diceva,
è tutto quello che lui può offrirle
la notte.
– Grazie a tutti quelli che.-
Grazie a tutti quelli
che mi hanno amato
e a tutti quelli che mi hanno detestato
a quelli che mi hanno abbandonato
e a quelli che ho abbandonato
Ogni volta mi hanno ridato fuoco
e riacceso in me il desiderio
Ci sono quelli che ho dimenticato
e quelli che non dimenticherò mai
Non mi hanno impedito
d’avventurarmi
ogni volta
ad amare di nuovo.
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