Tanka Non c’è il cielo, sulla testa un peso che non somiglia né alle nuvole, né alla luna o le stelle ! Agosto 2022
L’assenza di un poeta-a Patrizia Cavalli Dicono che è morta Patrizia dicono che sia uscita per comprare le sigarette e non sia più tornata. Randagia si è persa a cercare la memoria dove non ce n’è più. Forse addosso a un cartellone o al tavolino di un bar, in compagnia della notte sulla fronte e tra i capelli. Io continuo ad incontrarla proprio dietro la curva dietro le tende tirate in un bicchiere mezzo pieno, in un foglio sgualcito che ha portato via il vento. L’assenza di un poeta ldt 2022
Poesia in Lavanderia A un certo punto va lavato il fango perchè poi, si secca e pesa di più. E’ l’agorà profumata di solitudine aspettando che il prelavaggio faccia il suo corso. Intanto il corpo degli uomini abbandonati e iptonizzati dal giro del cestello, fanno a gara col silenzio delle auto in sosta. in sosta anche il cuore che si consola con l’ammorbidente. E le vecchie macchie di famiglia sono toste ad andarsene, latte materno non ce n’è più sulle maglie del mio bambino, anche le impronte di mani di olio e di vino hanno bisogno di un lungo lavaggio a togliere l’alone di una vita passata sulla vecchia tovaglia piena di briciole, che non sfamano gli uccelli sul davanzale della mia cucina. ldt 12 novembre 2019
Haiku Tranquillo caro ci sta la luna qui su, che mi raccoglie.
Tanka di papo Ha trovato lei scavando nel giardino per fare posto alle spine di rose… ora che sono grande ! Pasqua 2022
Quanto è bella sta piazza… La notte Ancora di più ! Quando non c’è mercato I negozi aperti Chiusi gli uffici E solo le luci Della strada e del cielo La fanno da padroni.
Facciamo finta che… Sembra strano ma dalla finestra si vede che c’è poca primavera che dal sole piove polvere che dal cielo cade un missile. Sembra strano che ancora la strada sia bloccata ai cani e ai bambini. E che il dubbio e la stanchezza mi porti fuori dal coro con la manifesta leggerezza. Quante piante di rosmarino servono a coprire la reppa del mio giardino ? Se mi aspetti per le tre ci prendiamo un caffè io e te. Sembra strano sottostare a un ricatto con gli occhi lucidi e sulla mascherina un sorriso sfatto. Se guardi più giù sotto la camicia buona, al posto dei merletti c’è il cuore che rintrona. Ma noi facciamo finta che tutto andrà bene di guerre e ingiuste offese le stanze sono piene. Ricorda, aspettami alle tre la gioia che qui resta è un caffè insieme a te. LDT marzo 2022
Tanka Il dolore c’è scorre in ogni dove e ferisce lì dov’è la sofferenza nascosta e bugiarda.
Oddio, Forse mi fa male il cuore O forse è il fegato Che non trova un perché Forse è questo silenzio Forse è già stato Forse se ne è andato Forse È questa pioggia Che inumidisce tutto Anche le buone intenzioni Dell’arnica e dei tamponi Che non tamponano il cuore E tutto il suo livore Forse un bicchiere di vino Oddio, il mio cuore… Fa il bambino ! 2021
26 giugno 2018 · E poi all’improvviso si fa troppo chiaro il Soratte sotto la foschia che sembra nuvole e scroscii di tempo residuo da nord che sono poco residui ma acque e pozze equatoriali su queste rose che porgono stanche le guance al vento. Fosco il cielo e bussa alla finestra l’acqua che a vento s’accompagna sbatacchiando il gelsomino incredulo col suo profumo. Fanno a gara il ciliegio e il fico a chi si piega di più senza spezzarsi senza staccarsi da questa terra. Eppure bella da questa finestra la Sabina se mi fermo a guardarla con tutta questa pioggia. LDT giugno 2018
Filastrocca di quest’anno 2020 Rimetto a posto il tappetino sempre bagnato di questo Natale un po’ sgarrupato La tazza del mattino è buona per la sera e il caffè riscaldato è la stessa cosa seria. Credevamo di essere i più fichi Credevamo di essere i più forti ma alle luci di una mattina ci siamo ritrovati tutti storti. Nella bolla di un presente fasullo a sognare un futuro più bello senza vedere quel tanto che resta da dividere insieme per farne una festa. Il consiglio è di aprire la porta anche e solo a un bicchiere di vino o a un amico vicino. Non mi trucco e non mi faccio più bella se scende la neve benvenuta pure a quella ! Ldt2021 Lo stretto necessario Non ho più calze di seta da indossare, le chiavi di casa le ho perse tanti anni fa e solo due stent lasciano scorrere il sangue. Non trovo più neanche i cassetti con le foto, nascosti troppo bene come polvere sotto al tappeto. Porterò via lo stretto necessario, la foca di pezza di Tomas da abbracciare di notte, e le scarpe, le più comode per camminare da sola. Il mio giardino saranno i sassi, tra due tazze e un coltello e una succulenta che fa sorprese quando meno te lo aspetti senza chiedere troppo… Girata la traversa, un gelsomino di Sicilia profumerà l’aria sui passi miei. Mio padre è la mia casa con la sua barca in mezzo al mare ed è mia madre la mia casa e il suo caffè che sa di eternità. La gratitudine è lì, non ho più case da signora, ma finestre con tanti spifferi che non chiudono mai. Entra l’aria e il mondo nelle vene che portano al cuore, le chiavi le dimentico sul divano ma ormai, non servono più. scritta il 3 novembre alle ore 18:40 ·ldt 2019
Ne avevo bisogno io Sono partita presto, Ho preso l’autostrada Dopo lo scalo dei paesi Dopo le colline e il Tevere, Dopo tanto che non lo vedevo Dopo tanto, il mare. E insieme le mani Grasse e grosse di mio padre. Non me ne voglia il mare Ma le mani di mio padre Sono state l’attrazione A tagliare le canne Infestanti nel giardino Dell’accanimento Sulle corde e sui fili, Sulle lame e le pinze Tira tu che tiro anch’io Quelle mani ferite, ma forti Sono state l’attrazione. Ne avevo bisogno, io Di sentirmelo dire da lei, Da mia madre l’illuminata ! Dovevo sentire dalla sua voce La rassicurazione Che andrà tutto bene… Ci sarà un moletto Con le barche da proteggere Ci sarà un approdo Che consenta di giungere a riva Ci sarà Mentre frigge le alici, Quelle buone Quelle belle Ci saranno i giorni felici, Ancora. Ne avevo un gran bisogno io Di una giornata al mare Mare nostro Che sei nei nostri sogni, Sempre. ldt giugno 2021
E poi, arriva il periodo più caldo dell’anno, le lancette son costrette a indietreggiare, se solo vuoi un caffè se ti sei addormentato tardi, se devi lavorare. E’ un incubo che occupa tutto il giorno, non c’è doccia che te lo levi di torno. L’isteria dei sandali aperti, l’ansia dei piedi che vogliono essere protetti, gli aperitivi fino a tardi la sera, tutto appiccica intorno ai 40 come colla sulle mani, non resta che una preghiera, Novembre ! ldt giugno 2021
Questa strana estate Siamo Momentaneamente assenti. Di padri non ce ne sono Di figli non si ha notizie, Anche le ” note a margine” Sono Molto a margine ! Attento A dove metti i piedi, Senza le lunette Di Anna e Stefano. Fortuna che Le orchidee fioriscono Ancora, Su al Colle.
Haiku Come pecore Sazi e distanziati, È già Natale !
Il mare oggi ti dà il tramonto più bello del mondo quattro sassi da raccogliere in fondo, quella duna che si vede all’orizzonte la possibilità che torni ad essere un ponte, la luce speciale se ti alzi presto, la nostalgia di giorni trascorsi la voglia di dire….ci resto ! Oggi, che è appena passato, la scia della nave, raccoglie l’ultimo corpo affogato. Il mare, che quando è lontano riesce a farmi male… ma oggi, la mia vita-bambino ha costruito un altra storia, un castello con gli alberi la speranza qui vicino. Ldt
All’angoletto Al buio, senza la luna sul tetto e fuori dal palco, addosso solo un saio È sotto che nasce la mia poesia Sotto,ci sono le parole mischiate a ferite Che cercano nei cassetti Le matite. Anche quelle Che disegnano carezze Sulle mani nude Bisognose di pezze. Ma è proprio lì Al freddo sul pavimento Che la mia poesia esce Dal buio di dentro. Ldt 2020
Dare da mangiare ai gatti Dare da mangiare ai gatti prima di preparare il lavoro prima di accendere il computer, prima. Lavare tutti i resti staccarli via e disinfettare bene, recuperare un po’ di forze con la pratica di dire grazie, prima che inizi un’altra settimana. Uscire solo per un po’ di frutta, quella vera, recuperare le mascherine le chiavi il telefonino il tappetino e uno sguardo dove si può ricominciare ora, do da mangiare ai gatti. Ldt 2021
Fai la splendida tu da lassù con quella faccia da placida dominga a illuminare tutta questa roba qui sotto! Fai la splendida tu e all’occorrenza, altezzosa ti nascondi dal grigiore terrestre così vecchio e noioso. Intanto, in questa estate afosa di spelacchiati lupi solitari, noi volgiamo lo sguardo a te quasi a cercare una carezza, come acqua di madre che ci consoli. Ci perdiamo i giochi e i sandali nel cercare la salvezza, ci perdiamo la promenade e il salvagente lasciato sgonfio sull’asfalto. Occhi umidi di pianto e tira vento sul Colle, ma lo sguardo oltre le fronde degli ulivi, ti cerca tra le nubi e sempre… fai la splendida tu, con quella faccia da placida dominga dei miei stivali ! Illumini e regali veli alla tristezza così buia, solitaria y final dove lupi spelacchiati e solitari comprano cartucce. Raccogli la nostra rabbia tu, che sei splendida falla alzare in una marea di Pace, inonda saggezza con il tuo fluido di luce a questi uomini qui sotto che non hanno ancora capito un cazzo ! luglio 2018 ldt
Tanka Amarsi un po’ è che ci vuole tempo, equilibrio… tagliare a julienne la foglia e il frutto !
Freddi i caffè ancora da preparare freddo il burro, deve ancora scongelare, di cornetti caldi è sparita ogni traccia è un tavolino nero questa splendida piazza. Ci si mette pure il sole che non vuole uscire sulle scale di San Rocco che rimane a dormire Intanto è nell’aria un disperato desiderio di vaniglia, di una faccia conosciuta come uno di famiglia. Siamo soli come due divanetti neri ma ANDRÀ TUTTO BENE è forte nei miei pensieri. LDT 2020
Sabina in corona virus Prendo esempio dalla formica che timida esce a prendere solo una pagliuzza dalla terra tutto intorno, deserta. Arriva anche un merlo a prendere ciò che resta sul prato. Prendo esempio dal silenzio che si fa preghiera nel distinguere una foglia di cicoria da quella di carciofo ! Chiusi per ora tutti i varchi del cuore e sto. Andrà tutto bene. Anche Vacuna prepara un torrente d’amore che fiducioso si versa nella Valle del Tevere qui sotto. LDT 2020
Haiku Passa la merla sul profilo del rosso lascia la neve. Gennaio
prefazione di Silvia Secco- Samuele Editore-Pordenone
Maria Milena Priviero nasce a Pordenone nel 1945 da madre istriana e padre friulano. Trascorre l’infanzia e la giovinezza a Ravenna dove compie gli studi superiori. Ritorna nella sua città natale, dove attualmente risiede, ed opera come bibliotecaria ed animatrice culturale.
Dal 1999 partecipa a premi letterari ottenendo diversi premi e riconoscimenti, tra i quali Il Leone di Muggia nel 2007 (terzo premio).
Nel 2008 riceve dalla Città di Porcia il Premio Purlilium.
E se
e se dell’amore dovessi dire
non lo direi con le parole
ad occhi chiusi forse lo direi
e le mani intrecciate
o forse non lo direi affatto
perché l’amore è una voce
che in silenzio il silenzio ascolta
Numeri primi
Nella vita avrei amato
le moltiplicazioni,
(magari un altro figlio intorno
ai quaranta’anni)
e invece hanno prevalso
le divisioni, le separazioni dai luoghi,
(quando non erano sottrazioni)
così ora sento più vicini i numeri
dispari, meglio se primi
(tanto i conti non tornano)
che un resto lasciano certo
una via ancora possibile
forse a un ricalcolo.
Trasloco
Tutto era stato caricato
sul camion del trasloco
che aspettava rombando sulla strada,
che una bimba facesse quel passo
di lasciare la sua infanzia
smarrita sugli scalini
della vecchia casa
in una scatola di cartone,
stretta nel cerchio convulso
della braccia, dove stava
coi nati, stranita anche la gatta
Signorina Poesia
è come una donna
che per le vie del centro passa
o forse è ancora una ragazza
che incede leggera, senza lasciare
traccia ma che sa andare oltre
intraprendente
sulla spalla la sua giacca
e s’apre di nuovo
il tuo sorriso inatteso
aggrappato a quel tuo
forte fragile stelo,
come l’ultima Nerina
del tuo giardino
in un filo di voce
sospeso : – Sei tu, sei tu,
quella che mi piace –
Come ramo lacerato dal vento
hai una ferita esposta
Semmai un giorno si saldasse
avresti una parte di te più dura.
Bisognerebbe tagliarlo lo sai,
perché ramifichi ancora
ma il taglio non è la cura
Ieri ho messo via il nostro
inverno in grandi scatole
di cartone nonostante il tempo
fuori fosse avverso.
L’ho posto tra maglioni, felpe
sciarpe e pantaloni
di fustagno, preoccupata
che stesse bene e al caldo.
Ma ho ancora tanto freddo
e trattengo per noi (di nuovo
bambini), guai un mal,
un plaid e dei vecchi golfini
Da Capo a Fine:
il moto circolare della memoria e della poesia
Scrive Alberto Bertoni in La poesia contemporanea (Il Mulino edizioni, 2012), che “la memoria di un poeta è tutto: la memoria che il poeta riceve, la memoria che il poeta trasmette”, ed in questo piccolo scrigno di versi, seconda raccolta poetica edita per l’autrice di Pordenone, dopo Il tempo rubato (Samuele Editore, 2013), Maria Milena Priviero affida appunto alla memoria la cifra stilistica della propria narrazione poetica la quale, per sua natura, rifiuta la linea temporale – caratteristica della prosa – per sgranarsi, velata dall’emotività e dalla lontananza del ricordo, quasi come una corona di rosario.
Se, sempre citando Bertoni, intendiamo anche etimologicamente il Verso come un “volgere”, un infinito tornare indietro, ecco che il titolo di questa raccolta si chiarifica nel suo senso musicale di reiterazione: “Da capo al fine”, appunto, che non intende condurci ad alcun luogo d’approdo in maniera lineare, ma che circolarmente, continuamente, ci propone di ricominciare. Si tratta, come dice l’autrice, di un “infinito lato del finire”: una litania di ricordi di voci, visioni, sentimenti e vissuto, che attraverso la delicata traduzione poetica rinominano un “piccolo mondo antico” senza però costringerlo a ritornare del tutto in superficie, per lasciarlo lì, in una smorzata e calma luce che non vuole per forza delinearne in maniera plastica i contorni e che quasi lo tutela, nella sfera della verosimiglianza, dalla crudeltà del reale. In questo senso il microcosmo di Da capo al fine, se pure descritto, è un giardino segreto, che un tempo è stato consistenza di nomi e cognomi, parentela, stagioni, luoghi fisici ed abitanti dei luoghi, e che ora l’autrice ci permette di sbirciare (“Li vedo i giorni alle spalle / in dissolvenza”) come da una breccia della recinzione, da un minimo spiraglio, per il quale ciò che ci è consentito di guardare ci appare nuovo, diverso: “Eppure c’è un luogo / dove vorrebbero posarsi, tornare / sulle rive di un fiume un lago, / di uno stagno se non del mare”.
Le trentanove poesie di Da capo al fine definiscono, con una limpida ed al contempo soffusa capacità descrittiva priva d’artifici retorici – dove “l’ombra era ombra, nitida / senza sfumature e il verde / era verde, secco nell’erba / e la nuvola era bianca, bianca / nell’azzurro” – un vero e proprio stato in luogo, dal quale non ci allontaniamo veramente mai. Il luogo fisico ed insieme emotivo di questa raccolta poetica è, infatti, quello circolare di un lago: il piccolo laghetto della Burida a Porcia, vicino Pordenone, luogo d’origine e di ritorno – anche biograficamente – di Maria Milena, dal quale è visibile la sua casa (“In fondo è sempre ritorno / un luogo”) e che si fa culla del ricordo, utero nativo di gestazione poetica, punto di chiusura del cerchio e nuovamente capo di ripartenza. Sulle rive di questo minuscolo tondo d’Arcadia dall’acqua quieta, quasi la vediamo camminare lentamente (“chè lei era così / sempre un po’ distratta / sempre un passo avanti a se stessa”); quasi vediamo ciò che la sua memoria vede: una donna, di spalle, a volte bambina (la bimba di “Trasloco”), a volte matura signora del presente (“Così alla fine sono qui / con le mani nella terra / a interrare i germogli”), altre volte “signorina” (la splendida ragazza della copertina e di “La sera prima”), che ricorda il proprio vissuto, e che a volte si siede, ricordando, “abbracciandosi i ginocchi”, quasi a difendere la propria visione dal pericolo del nuovo (“questa voglia di restare alla finestra / questa voglia di quiete di assenza / sommessamente mi fa chiudere la porta”). Nomino volutamente l’Arcadia, a definizione di questo luogo reale ed immaginario, in quanto contesto classico di pacificazione e terra quasi mitica d’armonia, poiché qui si colloca anche la peculiare caratteristica della poetica di Maria Milena Priviero: una parola discreta, piana e quasi sommessa, molto vicina alla sfera colloquiale. Quella stessa parola poetica senza “rumore”, dalle “rime non crepuscolari / ma verdi, elementari”, a lungo cercata da Giorgio Caproni ad esempio, poeta la cui voce sovente riecheggia all’interno di questi versi.
Samuele Editore nasce nel 2008 a Pordenone con un indirizzo che predilige la poesia. Fin dall’inizio riprende il marchio storico della Tipografia di Alvisopoli fondata nel 1810 da Nicolò Bettoni. La vecchia Tipografia nella sua storia pubblicò diverse opere importanti come Le Api panacridi di Alvisopoli (1811, scritta per il figlio di Napoleone Bonaparte) di Vincenzo Monti (poeta, scrittore, drammaturgo, traduttore tra i massimi esponenti del Neo Classicismo italiano). La Tipografia, che aveva per logo un’ape cerchiata da un tondo con il motto Utile Dulci, lavorò fino al 1852, anno della sua chiusura.
Samuele Editore raccoglie l’eredità di quel grande momento storico assumendo gli stessi ideali e gli stessi obiettivi di Nicolò Bettoni. Intenzione bene esemplificata dal motto Utile dulci che l’Editore colloca a manifesto del suo lavoro. Si tratta infatti di un passo oraziano tratto dall’Ars poetica (13 a.c.): Omne tulit punctum, qui miscuit utile dulci, Lectorem delectando pariterque monendo (ha avuto ogni voto colui che ha saputo unire l’utile al dolce, dilettando e nello stesso tempo ammonendo il lettore). Lo stesso passo viene ripreso nel XVIII secolo dall’Illuminismo italiano col significato di il lavoro e l’arte sono fondamento di una vita serena. Usato nel medesimo significato anche dalla tipografia di Nicolò Bettoni è adesso concetto fondante e ispiratore della ricerca poetica e delle pubblicazioni della Samuele Editore.
Già dopo pochi anni di attività Samuele Editore si è imposto all’attenzione della cultura nazionale lavorando coi maggiori esponenti della poesia, del giornalismo, della televisione italiana. Con un lavoro di promozione continuo sia con manifestazioni proposte dalla Casa Editrice (a Pordenone, Trieste, Venezia, Milano, Torino, Roma, Napoli, eccetera) sia con partecipazioni a Festival importanti (Pordenonelegge, Residenze Estive, Libri in Cantina, Salone del Libro di Torino, Book City, Ritratti di Poesia, Più Libri più Liberi) sia con newsletter e pubblicità settimanali in internet, Samuele Editore vanta una presenza nei maggiori blog e siti letterari, ma anche sulla stampa nazionale quale Il Corriere della Sera, L’Espresso, L’Avvenire, L’Unità, Il Manifesto, Il Piccolo, Il Gazzettino, Il Messaggero Veneto, Poesia, Il Segnale. Nel 2013 L’Espresso lo intervista scrivendo: la Casa Editrice produce in pochi anni un buon catalogo di giovani poeti. Canzian è anche un critico letterario on line, e ha capito, tra i primi, che è finita l’epoca delle riviste letterarie e che la critica, militante o no, è passata a discutere sul Web. Nel 2015 Giovanna Rosadini lo cita nella Lettura del Corriere della Sera come una delle realtà eroiche rappresentative della piccola editoria italiana. Nel 2021 su Ansa il suo nuovo progetto Laboratori critici viene paragonato a quello di Feltrinelli de Sotto il vulcano – idee, narrazioni, immagini.
A maggio 2013 Samuele Editore apre alla poesia internazionale pubblicando poesie inglesi tradotte in italiano. Dal 2015 Samuele Editore ha iniziato a proporre volumi in doppia lingua anche di poeti italiani affrontando la tematica della traduzione e dell’autotraduzione. In questo si inscrive la partecipazione, nel 2014, al New York Poetry Festival, la presentazione nel 2015 a Managua in Nicaragua e la partecipazione al convegno del NEMLA nel 2019 a Washington DC. In questa direzione l’attenzione a livello internazionale che viene riconosciuta alla Samuele Editore si concretizza nel 2021 con la partecipazione al Festival Mahalla a Istanbul.
Nel novembre 2015 Samuele Editore lancia il suo primo ciclo di poesia intitolato Una Scontrosa Grazia, con sede a Trieste. Un progetto che vede un incontro ogni due settimane con autori editi dall’Editore e con autori non editi ma di sicuro interesse nel panorama nazionale. Nel febbraio 2016 apre un ciclo intitolato Callisto a Venezia, presso Palazzo Grimani, conclusosi nel 2017. Nel 2017 apre un ciclo pordenonese intitolato Poesia in Incisoria, conclusosi nel 2018. Nel 2018 a Trieste apre il ciclo Poesia agli Specchi conclusosi nel 2019. A questi si sono affiancati nel tempo Animula Vagula Blandula (Maniago), I Poeti di Scilla alla Biblioteca Pagliarani (Roma), Intelligenti Pauca (Milano).
Diventato nel tempo un contenitore culturale che non si occupa esclusivamente dei propri autori ma allarga gli eventi e i cicli al dialogo tra poeti di diversa provenienza e pubblicazione, già dal 2013 Samuele Editore inizia a organizzare diversi Festival Letterari, tra questi: Poesia tra le acque di Polcenigo (Polcenigo, 2013), Il soggiorno dei poeti e degli artisti (Arta Terme, 2013), Verdarti (Porcia, 2014), I territori dell’uomo (Maniago, 2014), Premio Carducci in Carnia ne Il Comune Rustico (Arta Terme, 2015), Crambe Tataria (San Quirino, 2016), Libri in Cantina Poesia (Susegana, 2016/2017), Le notti del mito (Trieste, Udine, Pordenone, Milano, Napoli, Roma, 2018), Il Festival della Letteratura Verde (Porcia, 2018/2021), Panorami Poetici (Spilimbergo, 2019/2021), Varieazioni (Rotondi, 2021, per la parte letteraria).
Nel 2019 la Samuele Editore integra la propria proposta di eventi entrando nei Centri Commerciali con presentazioni alternative. Tra le location GranFiume di Fiume Veneto e Belforte di Monfalcone.
Nel 2016 fonda il portale di promozione della Poesia Laboratori Poesia.
Dal 2019 la Samuele Editore è distribuita in tutta Italia da Fastbook.
Dal 2020 la Samuele Editore apre una rubrica d’arte e letteratura dal titolo Pre-Dizioni sul noto portale ArteMagazine.
Nel 2020 Samuele Editore apre il canale podcast nel sito con interventi e letture dei maggiori poeti italiani e internazionali.
A luglio 2021 Marta Goldin disegna il nuovo logo di Laboratori Poesia
Dal 2021 la Samuele Editore entra in giuria e cura le edizioni del Premio Bologna in Lettere, sezione poesia inedita.
Dal 2021 assume la direzione della Collana Gialla e Gialla Oro di Pordenonelegge accanto a Gian Mario Villalta, Roberto Cescon e Augusto Pivanti, e ne cura le pubblicazioni.
A novembre 2021 fonda la rivista semestrale di Poesia e Percorsi letterari Laboratori critici, per la direzione di Matteo Bianchi.
Com’è misurato amarsi meno,
è un lavoro sartoriale,
millimetrico,
amicale;
chirurgica la mano che
tutto fa per non sfiorare,
stare
in cabina di controllo
come da tuo protocollo:
nel collo,
la vena giugulare
col suo flusso da invertire;
nel petto,
silenziare
il rumore del rumore.
Che lavoro disamare,
soffocare,
che cesello da artigiana
che ci vuole;
lambiccare che l’amore
riesca a smettere di amare.
Sempre un triste mestiere
seppellire.
*
Ogni volta che tu
aspetti lei e io
ti osservo –
muta, da dietro,
ferita –
aspettarla,
siamo finalmente
uguali.
Aspettiamo
tutt’e due
la persona sbagliata.
*
Ogni volta che suonano alla porta,
sei tu
che non suoni;
le lettere:
tu che non le hai scritte
e datate,
sei tu la firma,
la forma di un altro nome;
sei tu
che non aspetti al palo,
non qui sotto,
non alla fine della strada,
non all’angolo,
non dietro di me,
non al bar:
sei lo sguardo,
la ricerca,
il vuoto;
sei tu
tutti i fattorini,
sei il mazzo di rose non mio;
sei tu che non regali fiori;
è tuo:
il nero dei maglioni;
tuoi:
il ristorante dietro la stazione,
la stazione,
i treni, quelli che arrivano,
ma anche (e soprattutto)
quelli che
se ne vanno,
quelli che
non tornano,
quelli che
non mi dici;
il dodici sul calendario,
le piante,
il mio pianto.
Sono tuoi:
Piero della Francesca,
Alberto Burri,
i carciofini e il vino
e molto altro fra le labbra;
questa poesia,
i secchi bianchi con i bordi blu;
la ruggine è tua.
camminare per strada in centro è tuo,
che sia felice io
è tuo;
la mia infelicità non è tua,
è tuo: il lato sinistro
delle auto bianche,
del letto,
della guancia,
del petto.
* * *
Beatrice Zerbini-La foto di copertina è di Dino Ignani
Beatrice Zerbini (Bologna, 1983), si dedica già dal 1987 allo studio del ritmo e della parola, grazie al celebre coro diretto da Mariele Ventre, di cui ha fatto parte. A otto anni, complice un’infanzia travagliata, inizia a scrivere i primi versi. Nel 2006, apre la pagina online di racconti tragicomici e di poesie “In comode rate”, che darà il nome, nel 2019, alla sua prima silloge, In comode rate. Poesie d’amore (ed. Interno Poesia), giunta in soli due anni alla settima ristampa. Nel 2020, inizia a dedicarsi a un progetto a sostegno delle famiglie dei malati e delle malate di Alzheimer, diventato poi anche uno spettacolo portato in diverse piazze emiliano-romagnole. Nel 2021 pubblica Mezze Stagioni (ed. AnimaMundi), una breve raccolta di suggestioni poetiche. D’Amore è la sua seconda opera poetica, in cui trovano sempre più spazio i temi introspettivi, dell’amore, del lutto e della cura tramite la psicoterapia.
Ci attira sopra ogni cosa
la cosa che più reprimiamo
E, così, l’uomo
divora la donna,
E, così, il popolo
adora il tiranno.
Così vai cercando
l’accento straniero
di quel bel ragazzo
che ti terrorizza,
Ti forzi a far odio
del tuo desiderio;
Ti sembra che io
dica il giusto o il vero?
La tigre e il cervo
La tigre procede a testa alta
nel tropico che la vede padrona
di ogni foglia, di ogni sfumatura.
Non perdona, ma non compie passo falso
di abuso, di violenza verso gli altri,
Nessuna; si compiace, anzi
di essere la sola a poter aiutare.
Non prova amore:
Non ha vera forza
All’infuori del sentirsi superiore.
–
Oltre al confine del tropico
la tigre cercava una preda,
Presa dalla solitudine
di una vittoria ormai invisibile.
Lei desiderava amare,
davvero,
Una creatura migliore,
Senza mai aver imparato ad amare
sé stessa, ciò
che la rendeva uguale.
Ma nella foresta
di forme diverse,
Di diverse leggi,
diverse realtà,
Volere solo vincere
significava reggere
Un metro diverso
dal braccio di ferro.
Chi si misura solo con la forza
non sa mai cosa l’aspetta.
Chi non ha forza
se non nel confronto
Nasconde la più grande debolezza.
Disarmata, ascoltavo morire
anche il grido
Di una grinta spenta in eterno:
Erano le lacrime di una tigre
di fronte alla grazia del cervo.
Non sapro’ mai più
Non ho mai chiesto più
da certi sogni
che mi lasciassero stare.
Quando la guardia è bassa
e non so interpretarli,
le sale buie e accumuli
di oggetti più che inutili.
Non ho mai chiesto più
dalla mia mente
di non caderci ancora.
Se è più facile perdersi,
ben più che ritrovarsi,
Io non saprò mai più dove mi trovo.
Termini
Definisci i Termini
delle mie notti instabili
E di giornate sature,
svuotate in un flacone.
Non c’è altra direzione che
sappia dare ai miei passi,
Tu, strada, Termini nella stazione.
Ragazze, amici, occupazioni e amore
languono sul filo della spada
Che rende ognuno dei miei sogni inerme,
atrofizzato tra le vie di Termini.
Non amare la tigre
nessuno vuole stare
Con qualcuno di così eccezionale
ed egocentrico.
C’è stato un tempo
in cui morivo ogni giorno
di devozione;
Ora un silenzio
in cui ascoltare
cadere la cenere.
Non amare la tigre
la cui rabbia non ama,
Che non ammira e non ha mire
se non quella di
arrivare prima.
Sotto al suo morso muore
la sfida di ogni creatura;
Non amare la tigre
che o ti ama
o ti divora.
A colori
Però l’uomo ha sempre visto a colori,
e uguale è il grido di ognuno che muore.
A cosa, a chi sentirsi superiori?
A ere passate e culture presenti?
Cose superate, o semplicemente
Rotte sconosciute dei venti.
Invece di far luce
sappiamo nascondere
e, invece di conoscere,
soltanto giudicare.
Invece di esplorare
ogni strada in quanto nuova
sappiamo solo chiuderci
a ogni alternativa.
Nei campi urbani
Le porte automatiche dell’Inverno
fuori dalla stazione; ciò che prima
ha condito la mia vita, vita mia
Non ne hai lasciato nulla.
Sarà più Primavera?
Nei campi urbani della Tiburtina
la gente loda il respiro dell’aria
“Finalmente verde”, e i palazzi
sghignazzano a braccetto, in lontananza.
La vittoria del freddo
incalza, noncurante,
E io che vago, senza più una meta,
Scrivo;
Il blu del buio
mi si addensa addosso.
Sfrigolano le logoranti
frustrazioni altrui
ingoiate dalla città, Roma mia,
che ne ridi.
La poesia non cambia nulla / è il nulla che la cambia. La fa possibile.
Storie di pianura Restano i nomi, pronunciati per abitudine
distrattamente, obliqui serbano gli echi dei luoghi,
i riverberi – tre cantoni, feniletto di sotto,
il mulino del conte, la vecchia filanda, la seriola –
o neppure restano per i cascinali rossi
diroccati, nell’alternarsi di muschio e gramigna.
Qualche racconto tramandano i vecchi
sottovoce; se verità o mito
più nessuno sa dirlo:
Zaira verde bendata, passo di riccio,
la più abile a domare le mosche con le mani
o Pietro, pelle tabacco arsa dal sole,
smorfie di sorriso come carezze di vanga
o Diletta immobile nella sua sedia di giunco
o Demetra la bigotta, Nando il pazzo, Vittorio
e lei – per chi sa – nata quella notte, vissuta
nello spazio fra i primi vagiti e il silenzio,
battesimo consumato su occhi di madre, soltanto.
Sono le ferite della terra, appena più profonde
nel reticolo fessurale, nel duro delle zolle.
Le diresti durare, per un’ora più lunga di sole,
le leviga poi un breve scroscio di pioggia.
Sono le storie catturate nei cerchi dei tigli
che le annodano ai tronchi, in riva ai fossi
per preservarle forse…
e mentre sfiorata dal plettro del tempo
più alta ne avvampa la voce
non ho che labbra di sabbia
mani di paglia.
Mazinga e l’Uomo Ragno Passare la domenica allo specchio,
estrarre la sequenza delle rughe
per farne perno, fingersi più vecchio,
rimpiangere il passato fra le fughe
delle piastrelle sorde ad ogni passo.
Così si sfoglia l’album di famiglia
convinti che ci possa dar la sveglia
con rapidi rintocchi di memoria,
rivedi poi la maschera di Zorro,
lo scudo di Mazinga, l’uomo ragno
gettare la sua tela in bianco e nero
sul volto imbalsamato di chi resta
e in controluce sai, si fa straniero.
È vita trattenuta sulle labbra,
riavvolta sulla spola il lunedì
nella promessa nuova del mattino,
resistere alle code in tangenziale,
fuggire il cannocchiale del vicino,
indovinare il titolo al giornale
espedienti tutti, e ali di fortuna,
sopravvivenza spiccia, da manuale.
Il cellulare piatto sotto petto,
la giacca abbottonata, la cravatta
fanno scordare l’azzurro del costume,
la chiazza di colore, dozzinale.
È tempo d’oggi, d’attizzare il lume
del quotidiano giogo al carnevale.
da IL SENSO DELLA NEVE
Il senso della neve L’inverno è l’indugiare del pensiero
il perdersi nel vuoto delle stanze
fuggendo l’aria succube nel gelo
raccogliere le gocce della brina
stillarne fiato a pelo delle labbra
e reggere al tranello del già detto
all’esile lusinga del cantabile:
donzelletta passero assiolo, questa
bella d’erbe famiglia e d’animali
nonna Speranza e ogni caro poetico
vecchiume di lune e favole belle
il pio bove, i cipressi del Carducci.
Altro il timbro degno del nostro tempo
col pollice alle nocche un Vanni Fucci
che uncina, che flagella, che dà strazio
Pluto, Minòs ch’avvinghia alla sua coda
Flegiàs, Semiramìs lussurïosa
e serve una parola rattrappita
potata come un pesco di febbraio
quando sferza le guance tramontana.
Serve un torsolo minimo di voce
senza ravvedimenti, mediazione
stanar l’arpeggio nello sciabordio
delle stoviglie, frugare le pieghe
remote della polvere, scoprire
la chiave del durare in ciò che è breve
lo spazio dove resta illeso il bianco
allo svanire certo della neve.
Elettroforesi M’imponi, necessità inalienabile
reverenziale rispetto del verso
come fosse un sacro crisma, un cristallo
da imballare con la dizione fragile,
t’aspetti assoluzione consolante
di rima ritmo luna amore stelle,
per lo meno l’aderenza al canone
in questa incontinenza dell’esistere.
Nella congerie osmotica del secolo
che vede l’uomo al bivio del suo nulla
non serve un trabocchetto, la fasulla
moneta dell’incanto ad ogni costo,
bisogna distillare il sentimento
disporlo in una curva intellegibile
e farne il diagramma degli stimoli
dargli la giusta coppia, potenziale
impulso e carica, elettroforesi.
Il verso va pressato all’essenziale
sforbiciato, sfrondato con tronchesi,
la nostra persistenza ormai è endemica
s’appoggia a pochi esatti gesti certi:
il cambio gomme, la curva glicemica
il piano di raccolta dei rifiuti
l’adeguamento ISTAT, la giusta diùresi
l’IMU e l’alvo regolari, l’afèresi
del poco che vale, dal tutto vile.
A rovescio Talvolta accade che un labbro ti sfiori
dal gelo siderale dell’infanzia
e capriola di respiro solletichi
quell’angolo più in ombra del tuo lobo,
ruzzoli sullo scivolo di vertebre
a dirotto nello scavo del cuore
e senti nostalgia del minuscolo
del farsi più piccino, quasi fumo
svanito al suo destino, a quel tempuscolo
minuta evanescente sulla pagina
e strizzi gli occhi come nel risveglio
dall’incantesimo di un nascondino
dove chi vince è chi
sa più disperdersi, rendersi minimo
rimpicciolire al gioco degli specchi
smagrire anni, retrogradare il passo
affusolarsi come in dissolvenza,
a fuoco sul rovescio d’un binocolo.
da ZERO AL QUOTO
Di certa pruderie che non sospetti La vita non si dice, non significa.
Ci s’avvicina come ad un asintoto
dimostra per assurdo la sua ipotesi.
È soluzione che condensa, satura
soggetta a sedimentazione rapida
per gravità vi bascula, precipita.
La vita non si còmpita, non indica.
Si recita ad accentazione sdrucciola
svicola se si sillaba, vi latita.
Ha persistenza solo per istanti
quel poco che vanifica l’antidoto
– consisterne finché si può, si deve –
e radica negli interstizi atipici
quegli attimi che addensa il temporale
per l’attrazione – nota – delle punte.
Frazione di millesimo che sgretola
residue parte e arte, come una zìqqurat
di sovrapposte, d’avventizie carte.
Fosse poesia Fosse poesia potrei indugiare
su qualche vezzo cromatico, un radere
di luce tra capelli e volto, indulgere
a un virtuosismo lirico, un pacato
trasgredire metrico, i trucchi buoni
che lusingano in una lana di fiato
stemperano la voce che s’aggruma.
Ma questa scena è minima, assoluta
non si concede appello, assoluzione.
Lui siede agli scalini, tra i piccioni
le gambe lacerate dalle piaghe
intruso tra quei cenci, qui recluso
in un rettangolo di cicche, di sputi
lo sguardo arrovesciato su detriti
di storie, ciò che ne resta tra le unghie
sudice, un bicchiere, stente monete.
Chiede nuda evidenza del suo esserci.
E non serve una poesia, un altro alibi.
*
E ripetevi non ancora, non
adesso – e intendevi una desinenza
nuova, tu che temevi i congiuntivi
quel loro vivere solo d’ipotesi,
e il futuro, buono come esercizio
scolastico, a rinviare sempre a un dopo.
I verbi e quel loro vizio: alterare
le radici, sovvertire grammatiche
quel poco che trattiene a terra certa.
Preferivi gli avverbi – non ancora
non adesso – Schietti. Immodificabili.
Ti sentirai a casa
dove il tempo non ha coniugazione.
da ENIAC
*
Si richiede zelo d’amanuense
nella perforazione delle schede
arbitrio fra materia e nulla. Fori
come suture, istmo fra due linguaggi:
l’uomo, la macchina.
Alfabeto di sottrazione.
Arte del togliere.
Parlo un idioma ruvido
dialetto dell’origine.
La punzonatrice scheda ed ordina
plasma la cera
d’una sapienza antica. Cuneiforme.
*
Elettroni come api operaie, abili
a permutare cifre
incasellare numeri.
Trarre ordine dal caos, assertivo
calcolo da precarie
equazioni d’onda, nubi stocastiche.
Noi intenti a celare
l’alone di sudore sul colletto
bianco, ma occhio vigile sullo schermo
mani tese a cogliere il dato esatto.
Iloti. Obbedienti cani di Pàvlov
a fiutare la scia d’uno sparo.
*
Calcoli balistici, traiettorie
missilistiche, l’ordigno ad idrogeno.
Ma anche previsioni meteorologiche
ricerca scientifica, censimenti.
Alibi d’impiego a scopo civile.
Non m’assolvono. Ammettono
il concorso di colpa.
(La stampante campiva tabulati
col suo ciglio di grandine…)
da NOTIZIE DA PATMOS
Geografia di confine Avevi la passione dei confini
tracciare fronti di demarcazione,
la loro geografia compiuta. Solida.
Per questo t’affidavi alle cartine
quella certezza di valichi e passi,
ciò che serve a dare ordine alle vite,
fosse anche un limbo nel deserto, un muro
una zona demilitarizzata.
A noi non è servito confinarci
ciascuno in un cordone sanitario
perché c’è sempre una metà che manca,
l’amore che rimane impronunciato.
C’è bastato credere
franca una terra di nessuno, noi
intatti territori d’oltremare,
colonie di un’uguale solitudine.
Istruzioni alchemiche per il compostaggio Raccogliere e impilare sfalci d’erba,
gusci di noci, fondi di caffè
filtri del tè, ossa, altre immondizie buone.
Rivoltare due o tre volte l’anno, piano
per riattivare il ciclo del silenzio.
Di quando in quando innaffiare, aggiungere
qualche altra scoria, emersa da uno specchio
dimenticato. Pressare a dovere
come a reprimere un singhiozzo buio,
un ricordo di frodo.
Poi maturare a fondo, concedere
varco al tempo, alla sua lama gentile.
Talvolta – dopo un terremoto d’anni –
vi affiora una poesia.
Comuni divergenze A unirci certi strani tarli, il debole
comune del piccolo artigianato,
altre stregonerie minime.
Tu amavi fabbricarti le cartucce
con antica perizia di speziale.
La polvere da sparo, il cartoncino
borre di feltro, pallini di piombo
il dischetto di sughero, orlare
infine il bossolo. Tutto dosato
negli accenti debiti, rudimenti
di metrica tascabile. Ricetta
per il bersaglio esatto.
Io invece preferisco la poesia,
la scienza bellicosa del disarmo.
Quel suo sparare a salve
per non fallire un colpo.
INGLESE
*
I wish it was snow this gap
a stainless white
and flowers skimming the evening.
I carry light suitcases, you said
I close the door slowly, I save
an unexpected glimmer out of it,
those soles of wind.
I speak the rifting blue, I watch over
the ring where the hands pray
the bleeding voice.
I stay here, hanging in this chrism
of silence. Steps that get lost
in a breath, the footprint that blakens the nails.
*
You remember them by disjointed
associations, heart drifts.
Like a flower bandana while
you set the table, or a snake
ring while you water
the garden or while dozing.
Or again, you remember a pedalo ride
you do not know when, and the sharp light. False.
Someone waving from the shore.
Deprived symbols, atoms
of dull stuff. Nothing noble
– perhaps we live on our losses –
nothing useful or just understandable.
However writing of it.
The art of forgetting. (Translated by Elena Cattaneo)
TEDESCO
*
Die Häuser nehmen uns nicht auf. Sie verleugnen
die Schritte, die sie verloren, die Hände,
die die Mauern gravierten, nach und nach
mit dem unbeherrschten Wachsen der Kinder
und den von einem minimalen leuchtenden Alphabet
gezähmten Gesichter an den Fenstern.
Sie behalten von uns den Abzug,
den zweideutige Stempel unserer Diaspora.
Sie behalten die Nacktheit der Nadel,
geschwärzten Siluetten von Bildern und Möbeln
Wracks von Spielzeugen. So
vergessen die Körper
Ihre Missachtung.
*
Du hast Recht, Piero, wir sind Bäume,
wir stechen das Frucht hervor, von Wurzeln
die uns nicht gehören oder, noch weniger,
aus saprophytischen Pflanzen, die wie Rindenspreißeln
in einem grünen Nadelöhr innen leben
und, wie du sagst, Dichtung ist dieses
Handgeben, dieses Vertrauen an das nächste Wachwechsel
und weiter rennen, der Staffel vorbei gehen
und schon wissen, dass das Ziel unerreichbar und
dass das Wort zerbrechlich sind, weil das einzige Ewige,
das immer bleibt, das Unmögliche ist.
Perfektes Sich-nicht-jemandem-hingeben.
Es bleiben abgekratzte Hände, zerbrochener Atem,
Rände der Dunkelheit, die unseres Gesicht
gepflügt hat.
(Übersetzungen von Enrica Santoni Rothfuß)
Biografia di Fabrizio Bregoliè nato a Leno (Brescia) nel 1972, vive in Brianza e lavora nel settore delle telecomunicazioni. Ha pubblicato i libri di poesia: la plaquette Grandi poeti (Pulcinoelefante, 2012), le sillogi Baedeker. Libro di viaggi (Montedit, 2014), Cronache Provvisorie (VJ Edizioni, 2015), Il senso della neve (puntoacapo, 2016), Zero al quoto (puntoacapo, 2018), il poemetto ENIAC incluso in iPoet 2017 – Lunario in versi (Lietocolle, 2018), Onora il padre (Serégn de la memoria, 2019), Notizie da Patmos (La Vita Felice, 2019). È incluso in numerose antologie e presente con i suoi testi sui principali blog di poesia.
GABRIELE D’ANNUNZIO nasceva Il 12 marzo 1863, esattamente 160 anni fa
Articolo di DANIELA MUSINI
Dichiarava di essere nato <<a bordo del Brigantino Irene>> e non era vero perché il difficile parto di sua madre Luisa de Benedictis avvenne in un palazzotto signorile di Corso Manthoné a Pescara, alle 8 del mattino del 12 marzo 1863, non <<sotto l’Ariete durocozzante>> come lui millantava, ma sotto il fascinoso e fantasioso segno dei Pesci.
Suo padre era Francesco Paolo, possidente e poi sindaco della città adriatica e avrà con l’illustre figlio rapporti sovente turbolenti.
Abruzzese quindi, Gabriele, e l’amata sua terra natia rivivrà in molte sue pagine poetiche, narrative e drammaturgiche.
«Porto la terra d’Abruzzi, porto il limo della mia foce alle suole delle mie scarpe, al tacco de’ miei stivali», scrisse con orgoglio nel “Libro segreto”: non rinnegò mai le sue origini, neppure quando a 19 anni si trasferirà nella Capitale, diventando nel contempo brillante giornalista, acuto osservatore della fastosa Roma del tempo e raffinato arbiter elegantiarum.
Ma questo Abruzzese sempre agghindato (possedeva un guardaroba sterminato che comprendeva, tra l’altro, 50 soprabiti, 200 paia di scarpe e 500 cravatte) conquisterà il mondo: provocherà la follia nelle donne e l’esaltazione nei soldati, sarà idolatrato e detestato, vivrà tra ozii lussuosi e debiti clamorosi, in un’esistenza lussureggiante e inimitabile.
Controverso, contraddittorio a volte, persino discutibile come personaggio, ma indiscutibile fu la sua grandezza di scrittore-intellettuale che seppe traghettare la letteratura italiana verso una dimensione europea e moderna, così come inoppugnabili saranno l’onnivoro suo ingegno, il vitalissimo bisogno sperimentalistico e quella sorta di “ulissismo” culturale che lo fece aderire a tutte correnti e stili artistici della sua epoca.
Sì, è vero, fu un cleptomane letterario: rubò idee e versi a Poeti e intellettuali, ma seppe restituirli con incomparabile maestrìa. Joyce, Musil, von Hoffmansthal, Proust lo ammirarono incondizionatamente, Montale gli fu debitore.
Il suo genio creatore produsse opere immortali: romanzi (Il Piacere, L’innocente, Il trionfo della morte, Il fuoco), novelle (Terra vergine, Le novelle della Pescara), tragedie teatrali (La città morta, La figlia di Iorio, La fiaccola sotto il moggio, queste ultime ambientate nel suo amato Abruzzo), fino ad arrivare al Notturno con quel suo linguaggio innovativo, sorprendente e modernissimo.
E che dire della sua sterminata produzione poetica? Dalla sua prima raccolta, Primo Vere, scritta da adolescente, fino alle Laudi, scrigno di gemme preziose in cui rifulge Alcyone, che raccoglie liriche di incomparabile bellezza e di assoluta perfezione (Sera fiesolana, L’onda, La pioggia nel pineto).
Il suo fu uno stile particolarissimo: pennellate lampeggianti, opulento cromatismo, manipolazione incantata di luci e ombre, un’armonizzazione musicale sublime. La maestria verbale, la suggestione sensuale, l’inarrivabile uso della parola da lui utilizzata sia per la capacità evocativa che per la pertinenza semantica, costituiscono una magia e una malìa da cui è difficile sottrarsi.
Riuscì ad infiammare gli animi e a conquistare migliaia di donne grazie ad un fascino magnetico ed irresistibile (nonostante la poca avvenenza).
Ebbe una sola moglie, Maria Hardouin di Gallese che gli diede tre figli: Mario, Gabriellino e Veniero. Un’altra figlia, Renata, l’ebbe da Maria Gravina Cruyllas Ramacca Anguissola di San Damiano, principessa siciliana che per lui lasciò la famiglia e alla quale dedicò il suo romanzo capolavoro “L’innocente”.
Non fu né un buon marito, né un buon padre: troppo tumultuosa la sua esistenza, in cui preminenti l’attività artistica e la passione per le donne. Già, le donne.
Migliaia, si disse, ma poche quelle veramente amate e tutte trasfigurate in Muse, tutte eternate nei suoi capolavori. «Il mio cervello è alimentato dal fuoco degli inguini», soleva ripetere, ribadendo quanto il trasporto sentimentale ed erotico fosse propellente necessario alla sua creatività.
Ed ecco allora Giselda Zucconi, l’amore della sua «adolescenza anelante e furiante», eternata col nome di “Lalla” nella sua seconda raccolta poetica “Canto Novo”, ecco “Barbara” (al secolo Elvira Natalia Fraternali, maritata, assai infelicemente, Leoni), con cui visse una ribollente passione a San Vito Chietino in una casetta annegata nel verde, che oggi è conosciuta come Eremo Dannunziano, e immortalata nella figura di Ippolita Sanzio del suo romanzo “Il trionfo della morte”.
Destinataria di torride lettere e bugie impietose, dopo l’abbandono del Poeta, condurrà una triste esistenza in un pensionato gestito da suore.
La vera, “imaginifica” Musa della sua Vita fu però la più grande attrice di tutti i tempi: Eleonora Duse. Di cinque anni più vecchia di lui, tisica, appassionata e di inarrivabile talento, lo proiettò sull’empireo della drammaturgia europea: fu lei l’ispiratrice e la sovvenzionatrice di tutti i suoi capolavori teatrali. Lui l’amò senz’altro, ma la tradì persino con la sua rivale Sarah Bernhardt; è vero che la eternò nell’eterea Ermione de “La pioggia nel pineto” (che all’inizio si chiamò Heleonora), ma poi la tratteggiò impietosamente ne “Il fuoco” e la lascerà comunicandole, spietato: «Sento nelle fibre più profonde il bisogno imperioso del piacere, della vita carnale, del pericolo fisico, dell’allegrezza».
In realtà aveva perso la testa per la giovane e avvenente Alessandra Starabba di Rudinì, bella e statuaria (che ribattezzerà “Nike”, come la Nike di Samotracia), la quale, quando sarà da lui abbandonata, fuggirà in Francia, si farà suora, ma conserverà sempre, tra le biografie dei Santi e i libri di preghiera, le audacissime lettere del suo mai dimenticato amante.
E poi via via fino ad uno dei più brucianti amori della sua Vita, quella contessa fiorentina, che di nome faceva Giuseppina Giorgi Mancini, ma che lui appellerà “Giusini” nello splendido “Solus ad Solam”, una sorta di struggente diario scritto da Gabriele quando la sua appassionata amante finirà nel gorgo della follia, per arrivare a quella che fu la sua ultima Ninfa Egeria: l’attrice del muto Elena Sangro, nome d’arte della vastese Maria Antonietta Bartoli Avveduti che divenne la protagonista del torrido e senile poemetto “Carmen Votivum”.
Ma anche nella girandola di passioni e avventure, la sua linfa creativa continuò sempre ad essere vitalissima, non solo nella scrittura, ma anche nella pubblicità: fu lui a conferire il nome “La Rinascente”, a cambiare genere all’automobile che da maschile diventerà femminile («L’ Automobile è femminile. Questa ha la grazia, la snellezza, la vivacità d’ una seduttrice; ha, inoltre, una virtù ignota alle donne: la perfetta obbedienza», scrisse a Giovanni Agnelli, fondatore della FIAT), ma fu anche lui ad inventare la parola tramezzino, scudetto, a indicare rispettivamente in “Aurum” e in “Parrozzo” i nomi da dare al liquore e al dolce più amati dagli Abruzzesi.
E diede un apporto importante anche nel Cinema: al Kolossal “Cabiria” del 1913 lavorò direttamente, suggerendone il titolo, il nome del protagonista (Maciste) e scrivendone le didascalie per le quali percepì una somma favolosa.
“Poeta, Eroe e mascalzone”, lo definì lo scrittore inglese E.M.Forster: d’Annunzio fu tutte e tre le cose e molto di più.
Eroe, certamente: dalla Beffa di Buccari al Volo su Vienna durante la Grande Guerra, fino alla straordinaria conquista di Fiume, il 12 Settembre 1919 alla testa di 2000 fervorosi combattenti.
Fu fervente nazionalista, mai fascista e con Mussolini ebbe rapporti conflittuali: <<d’Annunzio è come un dente guasto: o lo si estirpa o lo si ricopre d’oro>> diceva di lui il Duce. Scelse la seconda via e lo confinò in una prigione dorata.
A Villa Cargnacco sul Lago di Garda, dimora lacustre che, trasformata e trasfigurata, diventerà il celebre e celebrato Vittoriale degli Italiani, monumento al suo genio e alla sua indomita personalità, visse dal 1921 con l’ultima compagna della sua Vita, la talentuosa pianista Luisa Baccara.
E lì fu risucchiato in un gorgo erotico senza fine, vittima ormai di un predace e patetico delirio sessuale. E nella ubriacatura orgiastica degli ultimi anni una giovane donna spicca su tutte: la Contessa Scapinelli Morasso, “Titti”, l’«ultima Clematide», fresca e splendente creatura, che gli destò un ultimo singulto d’amore. E a Titti, lui, vecchio, ripugnante, ma ancora disperatamente vorace, scriverà la sua ultima, straziata lettera d’amore, datata 2 febbraio 1938. Non ci sarà risposta.
Gabriele d’Annunzio, il sitibondo vampiro di corpi e di anime, l’artifex smagliante di capolavori e di vite inimitabili, morirà di lì a poco, per ictus cerebrale, alle 20,05 del 1° marzo 1938 (ultimo giorno di Carnevale), mentre è intento a «capolavorare» alla sua scrivania.
E la leggenda continua…
Articolo di Daniela Musini
Ps: Per fugare dubbi sul suo cognome: Rapagnetta era il cognome di suo padre Francesco Paolo che, essendo stato adottato da piccolo dallo zio acquisito Antonio D’Annunzio, espunse il suo cognome originario, sicché Gabriele nacque da Francesco Paolo D’Annunzio (sarà il Poeta a volere la “d” minuscola nobilitante) e da Luisa de Benedictis.
Il cognome di Gabriele pertanto NON È RAPAGNETTA ma D’Annunzio o d’Annunzio, come si firmava.
L’inizio di questa canzone appartiene alla memoria collettiva di questo paese.
Il brano fu scritto e composto nel 1962 da Fabrizio De André, con l’arrangiamento musicale di Gian Piero Reverberi. La storia di Marinella fu pubblicata la prima volta all’interno del disco Valzer per un amore / La canzone di Marinella nel 1964.
L’inizio della canzone ha sempre interessato le persone che si avvicinavano alla musica di Fabrizio, poiché l’inserimento delle parole «è la storia vera» lascia aperta la possibilità che i fatti scritti e cantati possano essere realmente accaduti.
«La Canzone di Marinella non è nata per caso, semplicemente perché volevo raccontare una favola d’amore. E’ tutto il contrario», le parole di Fabrizio si riferiscono ad un’intervista rilasciata a Luciano Lanza nel marzo del 1993.
Lo stesso De André ritornò sulla canzone di Marinella in un’altra intervista, rilasciata a Vincenzo Mollica nel 1997: «Il brano è nato da una specie di romanzo familiare applicato ad una ragazza che a 16 anni si era trovata a fare la prostituta ed era stata scaraventata nel Tanaro o nella Bormida da un delinquente. Un fatto di cronaca nera che avevo letto a quindici anni su un giornale di provincia. La storia di quella ragazza mi aveva talmente emozionato che ho cercato di reinventarle una vita e di addolcirle la morte.»
Il mistero fu svelato dallo stesso cantautore.
La canzone si basava su fatti realmente accaduti.
Gli interrogativi si dissolsero completamente?
In tutti tranne nella testa di una persona, uno psicologo di Asti, che nel 2012 diede alle stampe un libro all’interno del quale svelava la vera storia di Marinella.
Il medico si chiama Roberto Argenta e il libro “La storia di Marinella, quella vera”.
Argenta conversando con una paziente, ricordando un’intervista televisiva in cui De André raccontava dell’essersi ispirato ad un episodio di cronaca locale mentre si trovava ad Asti, si pose nuovamente l’interrogativo su chi fosse quella Marinella che « era stata scaraventata nel Tanaro o nella Bormida da un delinquente.» La prima domanda che mi sono posto è questa: perché Fabrizio si trovava ad Asti? De André nacque nel quartiere genovese di Pegli il 18 febbraio del 1940, da genitori piemontesi che si erano trasferiti in Liguria dopo la nascita del primogenito Mauro. Il padre, pur provenendo da una famiglia modesta, riuscì a far fortuna sino a diventare vicesindaco di Genova, presidente della società Eridania e promotore della Fiera del Mare di Genova. La famiglia d’origine della madre era benestante, con affari nel campo della viticoltura.
Fabrizio visse da sfollato nella campagna astigiana, esattamente a Revignano d’Asti, dove il padre aveva acquistato la Cascina dell’orto dopo i bombardamenti del 1941 che colpirono Genova. Il padre visse a Genova ancora qualche anno, sino al 1944, per poi raggiungere la famiglia nella campagna piemontese poiché era ricercato per aver coperto i suoi alunni ebrei.
Nell’immediato dopoguerra la famiglia De André fece ritorno a Genova, dove il giovane Fabrizio svolse tutto il percorso di studi.
La terra astigiana diede rifugio alla famiglia del futuro cantautore nel periodo della seconda guerra mondiale.
L’evento, sui Fabrizio s’ispirò per comporre la canzone, sarebbe apparso sul quotidiano la Nuova Stampa del 30 gennaio 1953 e si riferiva ad una donna di nome Maria, uccisa e ritrovata nel fiume Olona tra Rho e Milano. Il corpo fu rinvenuto crivellato di colpi d’arma da fuoco.
La donna si chiamava Maria Boccuzzi, ballerina e prostituta. I l caso, che non fu mai risolto, appassionò gli italiani e i giornalisti, apparendo per diverse settimane nelle pagine di cronaca nera di molti quotidiani dell’epoca.
Maria nacque a Radicena, attualmente Taurianova, in Calabria il giorno 8 d’ottobre del 1920.
L’estrazione sociale di Maria era molto diversa da quella di Fabrizio, poiché nacque in una famiglia molto povera che si dedicava all’agricoltura. Intorno ai 9 anni emigrò, con tutta la famiglia, a Milano in cerca di fortuna. Nel 1934 iniziò a lavorare – perché un tempo a 14 anni si lavorava se non si nasceva in una famiglia benestante – e sul posto di lavoro conobbe un ragazzo, Mario, di cui s’innamorò follemente. Il rapporto tra i due ragazzi non era visto di buon occhio dai genitori di lei, motivo scatenante della fuga dai giovani. La mancanza di denaro e l’impossibilità di chiedere aiuto alle famiglie influì negativamente sul rapporto, tanto che un anno dopo la fuga d’amore i due ragazzi divisero le proprie strade. La ragazza decise di iniziare una nuova attività, quella della ballerina, assumendo il nome d’arte di Mary Pirimpò. La ragazza divenne l’amante di un uomo, tale Luigi Citi, ed in seguito di un protettore, Carlo Soresi conosciuto con il soprannome di Carlone, che l’avviò alla prostituzione.
Iniziò l’attività a San Salvario, quartiere centrale di Torino, per poi spostarsi a Firenze ed infine a Milano.
La notte del 28 gennaio 1953, data in cui Fabrizio aveva 13 anni, fu uccisa a colpi di pistola e spinta nel fiume ancora agonizzante. La trovarono, verso l’ora di pranzo, tra le acque del fiume Olona, un gruppo di ragazzini che passavano il tempo giocando a pallone sul prato che correva sul fianco del fiume. Giunsero le forze dell’ordine, piccole domande, qualche perlustrazione, il corpo adagiato sull’automobile in direzione dell’obitorio. Il corpo rimase senza nome sino a quando una collega effettuò il riconoscimento.
Siamo di fronte ad una piccola incongruenza, poiché Fabrizio parlava del fiume Bormida o del Tanaro mentre Roberto Argenta, nella sua mirabile opera d’investigazione, colloca il ritrovamento del cadavere nel fiume Olona presso Milano. De André all’epoca dei fatti aveva 13 anni e scrisse la canzone quasi 10 anni dopo, motivo che potrebbe farci pensare ad una piccola dimenticanza in riferimento ad una notizia apparsa in un trafiletto della cronaca nera di un quotidiano del tempo. Ritengo molto interessanti le parole di Argenta, rilasciate al quotidiano La Stampa di Torino, apparse in un articolo datato 31 dicembre 2012: «la ricerca della vera storia di Marinella è stata di per sé un’esperienza bella e avvincente. E anche se le vicende che ho ricostruito non hanno avuto come ambientazione l’Astigiano, a me rimane il piacere di pensare che in fondo la vera storia di Marinella e la carriera di De André abbiano avuto inizio sulle sponde del Tanaro». Non potremo mai avere certezza che lo psicologo di Asti abbia ragione. Non esiste la controprova. Quello di Argenta rimane un bellissimo esempio di ricerca da parte di un non professionista del settore. La canzone di Marinella ha lasciato un profondo segno nell’immaginario collettivo italiano, che possiamo comprendere leggendo le parole di Don Luigi Ciotti: «una storia senza tempo, che parlava di persone senza storia. Marinella era una prostituta, il cui corpo era stato trovato massacrato sul greto di un torrente. Sembra storia di oggi, ma è purtroppo storia di sempre. Una tragedia anonima, capace di rubare dieci righe a un giornale di provincia, letta alla luce della cronaca. Vista in controluce, invece, diventa un dramma intenso, oltre la storia, a tracciare il percorso della radicata vicinanza tra amore e morte. Di un amore che non conosce scale gerarchiche, di una morte che sublima in dignità estrema del povero.»
Fabio Casalini
BIBLIOGRAFIA
Carlo Francesco Conti – Ecco come ho scovato la vera storia della Marinella di Fabrizio De André – La Stampa, 31 dicembre 2012
Roberto Argenta – Storia di Marinella, quella vera – collana Le nostre storie, Torino, Neos, 2012
Olga Merli – Un guanto di donna tra l’erba. Il mistero della morte di Mary Pirimpò – cronaca-nera.it, 7 giugno 2012
In moltissimi libri scolastici del ‘900 apparvero in forma anonima sue poesie e filastrocche. Queste divennero un vero e proprio patrimonio comune tanto che spesso, ancora oggi, sono considerati testi della tradizione popolare.
Quanti di voi conoscono la tradizionale “Stella Stellina”?
Stella stellina
La notte s’avvicina
La fiamma traballa
La mucca è nella stalla
La mucca e il vitello
La pecora e l’agnello
La chioccia e il pulcino
Ognuno ha il suo bambino
Ognuno ha la sua mamma
E tutti fan la nanna
In cima a un albero
c’è un uccellino
di nuovo genere…
che sia un bambino?
Felice e libero
saluta il sole
canta, s’arrampica,
fa quel che vuole.
Ma inesorabile
il tempo vola:
le foglie cadono…
si torna a scuola!
La bambola dimenticata
La bimba dorme nel suo lettino,
dorme tranquilla, sogna beata…
E la sua bambola, fuori in giardino,
sta sola sola dimenticata.
Piove a dirotto tutta la notte…
Povera bambola, che infreddatura!
Star lì inzuppata, con l’ossa rotte,
liquefacendosi per la paura.
Ma quella bimba, poi, domattina,
quanti rimproveri farsi dovrà,
quando la cara sua bambolina,
in quello stato ritroverà!
C’è una bimba che spazza davanti alla sua porta:
La bimba è piccola, e la granata è corta:
la neve è tanta tanta che copre la città,
a spazzarla via tutta chi mai ci arriverà?
Ci arriveremo tutti, se ognuno spazza un po’…
la bimba è piccolina, ma fa quello che può.
Quanti giocattoli
Quanti giocattoli
nelle vetrine!
Tutti si fermano
bimbi e bambine.
Ma si divertono
solo a vedere,
san già che tutto
non si può avere!
Povero babbo! Stanco, scalmanato,
tutte le sere torna dal lavoro,
ma per cantar la nanna al suo tesoro
ha sempre un po’ di forza e un po’ di fiato.
Lina Schwarz nacque a Verona il 20 marzo 1876.Fu maestra e poetessa, autrice di molti libri di rime e filastrocche per bambini.Fu una poliedrica donna, colta ed inserita nell’humus culturale dell’Europa del Novecento.Nel 1938, a causa delle leggi razziali, si trasferì da Milano (dove abitava con la famiglia) prima ad Arcisate e poi a Brissago in Svizzera.Fu traduttrice dell’opera dei Rudolf Steiner, portando così il suo pensiero in Italia.
Con questo volume di poesie scelte, Corrado Calabrò consegna al lettore un’opera antologica importante e nuova, organizzata in sezioni che gettano luce sui temi fondamentali della sua sessantennale attività di scrittura: un autoritratto poetico da cui emerge la forte consapevolezza raggiunta con la piena maturità espressiva, capace di stabilire rapporti profondi fra testi nati in momenti diversi della vita. Il mare, l’astrofisica e l’amore risultano gli elementi cardine intorno ai quali ruota il pensiero emozionale del poeta, tenuti insieme dall’energia che dà forma alla salda pronuncia del dettato, tra classico e sperimentazione, nella variabilità di forme che spaziano dal poemetto all’epigramma. «La vera originalità del Calabrò» ha scritto Carlo Bo nel 1992, individuando uno dei motivi centrali dell’intera sua opera «sta nell’essersi staccato dai modelli comuni per inseguire una diversa sperimentazione poetica… Ha cantato non il suo mare, ma piuttosto l’idea di un mare eterno e insondabile.» Accompagnano le poesie due significative riflessioni d’autore. La densa postfazione, intitolata C’è ancora spazio, c’è ancora senso per la poesia, oggi?, costituisce un bilancio dei multiformi interessi e della passione profusa da Calabrò nel fare poesia; l’altra nota è invece dedicata al poemetto Roaming – apparso per la prima volta nel volume La stella promessa del 2009 e ora posto in apertura di questo libro – che rappresenta forse l’opera più suggestiva di Calabrò. Dopo duemila anni dal De rerum natura di Lucrezio, infatti, l’astrofisica è tornata ad essere, in forma onirica, materia di poesia.
Breve biografia di Corrado Calabrò è nato a Reggio Calabria. Al primo volume di poesie, scritto tra i diciotto e i vent’anni, Prima attesa (1960), sono seguite molte altre raccolte, tra cui Agavi in fiore (1976), Presente anteriore (1981), Rosso d’Alicudi (1992), Una vita per il suo verso (2002), La stella promessa (2009), T’amo di due amori (2010). Numerose sono le edizioni straniere delle sue poesie in una ventina di lingue e le trasposizioni teatrali e musicali dei suoi versi. Col romanzo Ricorda di dimenticarla (1999) è stato finalista al premio Strega e ha ispirato il film Il mercante di pietre di Renzo Martinelli. Per la sua opera poetica ha ricevuto numerosi riconoscimenti in Italia e all’estero, tra cui due lauree honoris causa.
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