Le poesie di Arsenij TARKOVSKIJ sono un dono inaspettato e prezioso al lettore contemporaneo. Questi versi, che hanno atteso a lungo per venire alla luce , colpiscono per rare qualità, la più sorprendente delle quali è che da noi quotidianamente pronunciate si rivestono chissà come di un mistero e suscitano echi inaspettati nel cuore .
Anna Achmatova , dalla recensione a “Prima della neve” 1962- La prima edizione italiana fu del 1992 con la traduzione di Paola Pedicone- EdizioniTracce di Pescara- Testo cirillico digitato da Novojilov Dmitrij- pubblicazione con il contributo del Ministero Università e Ricerca Scientifica e Tecnologica-Università G.D’Annunzio-Chieti-Edizione curata da Tatjana Tarkovskaja-
Cinque anni di bassa marea ha conosciuto il mare del tempo,
E le ore lunghe han lasciato la sabbia scorrere invano
Da quando, preso nella relativa della tua bellezza,
Fui colto al laccio dal denudarsi della tua mano.
Pure, quando il cielo buio della notte guardo senza posa,
La ben ricordata luce dei tuoi occhi rivedo,
Né posso guardar la tinta lieve della rosa
Senza che l’anima mia alla tua guancia voli.
Nessun fiore che sboccia riesco a guardare
Senza che il mio orecchio innamorato, al bersaglio teso
Delle tue labbra o d’un immaginario suono d’amore,
La tua dolcezza in un abbaglio dei sensi cominci a divorare.
Eclissa ogni gioia il tuo ricordo, e di dolore
In ogni piacere neonato risuona un accordo.
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John Keats (1795-1821)-Poeta inglese,unanimemente considerato uno dei più significativi letterati del Romanticismo. Peculiarità della poetica di Keats è la vivace rispondenza alla bellezza della poesia e dell’arte.
Poemas de Maria do Rosário Pedreira- Poetessa e scrittrice portoghese-
Non c’è piùnessun nome
Non c’è più nessun nome. Dopo di te mi destinarono solo nomi che non amai, volti sui quali non volli posare gli occhi per paura di fissarli, mani che erano sempre l’ombra delle tue mani sotto le lenzuola. Mai neanche le vidi né toccai quelle dita che, nel buio, celebravano nella mia la tua carne – se un altro motivo le portò, per quanto vago, anche non volli udirlo, mai lo seppi. Dopo di te, dopo gli altri uomini, è ancora il tuo nome che dico. E nessun altro.
Lascia il tempo cadere sul tuo nome
Lasciai cadere il tempo sul tuo nome, come si adagia il marmo sulla terra e l’acqua si sparge sulle braci. Mi vestii di lutto come le donne che disfano le culle vuote da tanto le guardano; e vidi il sangue scendere finalmente sulla ferita, come la cera che si rapprende sul palmo della mano prima di perdersi nelle dita in polvere. Se ti dimenticai, fu perché volli qualcuno che mi chiamasse, un corpo che fosse un altro sul mio corpo, una voce offerta per la mattina. Ma niente, ma nessuno. Se il tempo non si fosse abbattuto sul tuo nome, avrei potuto almeno ora ricordarti – poiché non c’è lapide senza corpo né cenere che non abbia arso. E la casa è oggi più fredda che mai: lasciai passare il tempo sul tuo nome, e non c’è focolare, non c’è nido, non ci sono figli che si possano perdere da me, né candele per riempire di memoria questo silenzio.
So chi sei, ma mi manca il tuo nome
So chi sei, ma mi manca il tuo nome – né sempre le parole arrivano agli occhi. Ma non dare importanza: ci sono altre cose che non dimenticherò mai – le mie braccia ancorate al tuo corpo, una cecità, e il mondo improvvisamente tanto piccolo – e queste, tu non lo sai, mi mancano anche. Il tuo volto, dammelo per un secondo, La tua bocca, chiaro. Sono tanti gli anni senza te nelle pieghe della mia gonna, tanta vita custodita per un giorno così. Adesso ritorna, dunque. Lascia cadere quel sorriso delle tue labbra, – nelle mie deve distendersi come il sole, all’imbrunire, quando di nuovo sopra di loro respirerai con il profumo salato delle maree. Ma non dire niente del mio corpo stanco – è una camicia d’estate dimenticata sulla spiaggia, e l’abito è sempre il meno, tanto fa. Non vedi chi sono? Il tempo non può aver castigato solo il mio sguardo. Vieni più vicino e spia adagio: sono tanti gli anni senza le tue braccia nelle maniche del mio vestito, tanto sangue custodito nelle vene per una notte così. E tu già te ne vai?
Fra noi c’è una ferita
Fra noi c’è una ferita che ormai non sanguina, ma non si rimargina – un amore che dura ancora ed è perso. Se rimaniamo insieme, non vediamo mai passare la lamina del tempo, ma diventiamo sempre più vecchi di quando partimmo. Dicono che ci sono bende e bavagli tra di noi, ma sono tanti i lacci, tante le fasciature, che mi domando perché si allontanano gli occhi nel toccarsi, perché solo dice il silenzio ciò che non dura. Non ci sono parole possibili – fra di noi – il vento è sempre più vento nella camicia e il dolore più dolore nelle mani quando le sciogliamo. Ma niente di questo conta, perché gli occhi che ridono tanto nelle pieghe del vestito sono i più tristi del mondo se li guardiamo. So che mento quando paragono ciò che la vita ci rubò a ciò che ci ha dato; ma, se mi tocco e ormai non sono un corpo, mi limito a indovinare un nome per ciò che non sento e mi rifiuto di credere che sia il tuo.
Ho messo un abito scollato
Ho messo un abito scollato e non so se ritorni, ma le parole sono pronte sulle labbra come segreti imperfetti o germogli di acqua custoditi per l’estate. E, se di notte le ripeto in sordina, nel silenzio della stanza, prima di addormentarmi, è come se all’improvviso gli uccelli fossero già arrivati a sud e tu ritornassi in cerca di questi antichi messaggi lavati dal tempo: Andiamo a casa? Il sole dorme sui tetti la domenica e c’è un intenso odore di lino sparso sui tetti. Possiamo rivoltare i sogni al rovescio, dormire dentro il pomeriggio e lasciare che il tempo si occupi dei gesti più piccoli. Andiamo a casa. Ho lasciato un libro aperto a metà sul pavimento della stanza, sono sole nella scatola le vecchie foto del nonno, c’erano le tue mani strette con forza, quella musica che eravamo soliti ascoltare d’inverno. E io voglio rivedere le nuvole ritagliate nelle finestre rosse del crepuscolo; e voglio andare di nuovo a casa. Come le altre volte. E così mi preparo per il sonno, notte dopo notte, dipanando la lenta matassa dei giorni per scontare l’attesa. E, quando la nidiata allontanerà alla fine le ali della chiglia al suo primo volo, di certo mi troverò ancora qui, ma potrò dire che, per lo meno qualche volta, già inviai i messaggi, già dalla mia bocca udii queste parole, che tu ritorni o non ritorni.
Non ho saputo il tuo nome
Non ho mai saputo il tuo nome. Entrasti un pomeriggio, per sbaglio, a domandare se io ero un’altra persona – un sole che improvvisamente aggiungeva calce ai muri, un incendio capace di divorare il cuore del mondo. Non ti mentii; mi alzai e ti condussi alla porta giusta come un veliero trascina i sogni in mare; ma, prima di lasciarti, ti dissi ancora che in quel pomeriggio mi sarebbe piaciuto molto chiamarmi un’altra cosa – o essere un gatto, per poter avere più di una vita.
Il cammino fino a te
È sempre stato così incerto il cammino fino a te: tanti mesi di pietre e di spine, di cattivi presagi, di rami che graffiavano la carne come tridenti, di voci che mi dicevano che non valeva la pena continuare, che il tuo sguardo era già una menzogna; e il mio cuore sempre così sordo a tutto questo, sempre a gridare qualcos’altro più alto affinché le gambe non potessero ricordare le loro ferite, perché i piedi ignorassero le pene del viaggio e avanzassero tutti i giorni di un poco, quel poco che era tutto per raggiungerti. Fu per questo che, al contrario di te, non volli dormire quella notte: i tuoi baci si trovavano ancora tutti sulla mia bocca e il disegno delle tue mani sulla mia pelle. Io sapevo che addormentarsi era smettere di sentire, e non volevo perdere i tuoi gesti sul mio corpo un secondo che fosse. Allora mi sedetti sul letto a guardarti dormire, e sorrisi come mai avevo sorriso prima di quella notte, sorrisi tanto. Ma tu parlasti improvvisamente nel sonno, allungasti il braccio verso me e chiamasti sottovoce. Chiamasti due volte. O tre. E sempre così sottovoce. Ma nessuna fu per dire il mio nome.
A cosa mi è servito correre
A cosa mi è servito correre per tutto il mondo, trascinare, di città in città, un amore che pesava più di mille valigie; mostrare a mille uomini il tuo nome scritto in mille alfabeti e un’immagine del tuo volto che io giudicavo felice? A cosa mi è servito respingere questi mille uomini, e gli altri mille che fecero di tutto perché mi fermassi, mille volte pettinando le pieghe del mio vestito stanco di viaggi, o dicendo il tuo nome così bello in mille lingue che io mai avrei compreso? Perché era solo dietro te che correvo il mondo, era con la tua voce nelle mie orecchie che io trascinavo il fardello dell’amore di città in città, il tuo nome sulle mie labbra di città in città, il tuo volto nei miei occhi durante tutto il viaggio.
Si ricordava di lui
Si ricordava di lui e, per amore, anche se pensava a un serpente, avrebbe detto solo un arabesco; e avrebbe nascosto nella gonna il morso caldo, la ferita, l’impronta di tutti gli inganni, avrebbe fatto quasi tutto per amore: avrebbe dato il sonno e il sangue, la casa e la felicità, e avrebbe custodito silenziosi i fantasmi della paura, che sono i padroni delle piú grandi verità. Già un’altra volta aveva mentito e per amore si sarebbe seduta alla tavola di lui e avrebbe negato che lo amava, perché amarlo era un inganno ancora piú grande che mentirgli. E, per amore, si mise a disegnare il tempo come una linea stordita, sempre al cadere di una pagina, a prolungare il mancato incontro. E faceva stelle, anche se pensava alle croci; arabeschi, anche se ricordava solo serpenti.
Non dire per cosa vieni.
Non dire per cosa vieni. Lasciami indovinare dalla polvere dei tuoi capelli che vento ti ha mandato. È lontana la … tua casa? Ti do la mia: leggo nei tuoi occhi la stanchezza del giorno che ti ha vinto; e, sul tuo volto, le ombre mi raccontano il resto del viaggio. Dai, vieni a dar riposo ai tormenti del cammino nelle curve del mio corpo – è una meta senza dolore e senza memoria. Hai sete? Avanza dal pomeriggio solo una fetta d’arancia – mordila nella mia bocca senza chiedere. No, non dirmi chi sei né per che cosa vieni. Decido io.
Paura dell’amore
Non aver paura dell’amore. Posa la tua mano lentamente sul petto della terra e senti respirare i nomi delle cose che lì stanno crescendo: il lino e la genziana, la verzura odorosa e le campanule blu; la menta profumata per le bevande dell’estate e l’ordito delle radici di una pianticella d’alloro che si organizza come un reticolo di vene nella confusione di un corpo. Mai la vita è stata solo inverno.
Questa mattina
Questa mattina il sole è passato improvvisamente dall’altra parte della via – sono così in ombra le case quando di loro si perde il nome di qualcuno, così scuri i cuori di quelli che restano là dentro per abitare il dolore.
Maria do Rosário Pedreira (Lisbona , 21 settembre 1959) è un’editrice, scrittrice, poetessa e paroliera portoghese.Laureata in Lingue e letterature moderne, con specializzazione in studi francesi e inglesi, ha insegnato per cinque anni negli anni ’80.
Nel 1987 diventa editrice grazie all’impegno del prof. Antonio Manuel Baptista, iniziando questa attività nel campo dei libri di divulgazione scientifica.
Dal 1989 al 1998 è stata autrice della raccolta giovanile “Clube das Chaves”, con Maria Teresa Maia Gonzalez, pubblicandone 21 titoli. In seguito, nel 2000, ha pubblicato la raccolta giovanile “Detective Maravilhas”, con 17 volumi.
Cura attualmente autori come Nuno Camarneiro, Ana Cristina Silva, Vasco Luís Curado, Gabriela Ruivo Trindade, Norberto Morais, Nuno Amado, Cristina Drios, Carlos Campaniço, João Rebocho Pais e Paulo Moreiras.
Come scrittrice ha pubblicato diverse opere di narrativa, poesia, cronaca e letteratura giovanile, ricercando in quest’ultimo genere la trasmissione di valori umani e culturali. Per l’autrice, già premiata con alcuni premi letterari, la casa può essere considerata come un mondo dove tutto ciò che dura è contenuto, anche se sotto forma di memoria, con nostalgia.
È autrice di diversi testi musicali di fado, cantati da Carlos do Carmo, António Zambujo, Aldina Duarte, Ana Moura e, più recentemente, da Salvador Sobral.
Maria do Rosário Pedreira-Nació en Lisboa, Portugal, en 1959. Esta reconocida poeta, escritora y editora estudió Lenguas y Literaturas Modernas en la Universidad Clásica de Lisboa.En 1996 publicó su primer libro de poesía, A Casa e o Cheiro dos Livros, y desde entonces ha sido autora tanto de poesía como de novelas, literatura juvenil, ensayos, crónicas y letras para fado. Como editora, estuvo detrás del surgimiento de varios de los autores contemporáneos más destacados de Portugal, como José Luís Peixoto y Valter Hugo Mãe, y también publicó las colecciones de literatura juvenil O Clube das Chaves y Detective Maravilhas, las cuales han tenido una excelente acogida en Portugal. Entre sus libros publicados está su antología Poesía reunida, que en 2012 ganó el premio de literatura de la Fundación Inês de Castro.
Poemas de Maria do Rosário Pedreira
Arte poética
Num romance, uma chávena é apenas uma chávena — que pode derramar café sobre um poema, se o poeta, bem entendido, for a personagem.
Num poema, mesmo manchado de café, a chávena é certamente a concha de uma mão — por onde eu bebo o mundo em maravilha, se tu, bem entendido, fores o poeta.
No nosso romance, não sou sempre eu quem leva as chávenas para a mesa a que nos sentamos à noite, de mãos dadas, a dizer que a lata do café chegou ao fim, mas a pensar que a vida é que já vai bastante adiantada para os livros todos que ainda pensamos ler.
No meu poema, não precisamos de café para nos mantermos acordados: a minha boca está sempre na concha da tua mão, todos os dias há páginas nos teus olhos, escreve-se a vida sem nunca envelhecermos.
Arte poética
En una historia, una taza es tan sólo una taza, que puede derramar café sobre un poema, si el poeta, entiéndase bien, es el personaje.
En un poema, así esté manchado de café, la taza es con seguridad el cuenco de una mano; por donde yo bebo el mundo en éxtasis si tú, entiéndase bien, eres el poeta.
En nuestra historia, yo no soy siempre quien lleva las tazas a la mesa donde nos sentamos cada noche, enlazando las manos, para comentar que la lata del café se terminó, pero pensando que es la vida la que ya ha avanzado mucho para los libros que todavía quisiéramos leer.
En mi poema no necesitamos café para mantenernos despiertos: mi boca está siempre en el cuenco de tu mano, todos los días hay páginas en tus ojos, la vida se escribe y nunca envejecemos.
***
O meu mundo tem estado à tua espera; mas não há flores nas jarras, nem velas sobre a mesa, nem retratos escondidos no fundo das gavetas. Sei
que um poema se escreveria entre nós dois; mas não comprei o vinho, não mudei os lençóis, não perfumei o decote do vestido.
Se ouço falar de ti, comove-me o teu nome (mas nem pensar em suspirá-lo ao teu ouvido); se me dizem que vens, o corpo é uma fogueira — estalam-me brasas no peito, desvairadas, e respiro com a violência de um incêndio; mas parto antes de saber como seria. Não me perguntes
porque se mata o sol na lâmina dos dias e o meu mundo continua à tua espera: houve sempre coisas de esguelha nas paisagens e amores imperfeitos — Deus tem as mãos grandes.
***
Mi mundo ha estado esperándote; pero no hay flores en los jarrones, ni velas sobre la mesa, ni retratos escondidos al fondo de los cajones. Sé
que un poema se escribiría entre nosotros dos; pero no compré el vino, no cambié las sábanas, no perfumé el escote del vestido.
Si oigo hablar de ti, me conmueve tu nombre (pero ni pensar en suspirarlo a tu oído); si me dicen que vienes, el cuerpo es una hoguera: me crepitan brasas en el pecho, trastornadas, y respiro con la violencia de un incendio; pero parto antes de saber cómo sería. No me preguntes
por qué el sol se mata en el filo de los días y mi mundo continúa esperándote: siempre hubo cosas de soslayo en los paisajes y amores imperfectos; Dios tiene las manos grandes.
Fado
Dizem os ventos que as marés não dormem esta noite. Estou assustada à espera que regresses: as ondas já engoliram a praia mais pequena e entornaram algas nos vasos da varanda. E, na cidade, conta-se que as praças acoitaram à tarde dezenas de gaivotas que perseguiram os pombos e os morderam.
A lareira crepita lentamente. O pão ainda está morno à tua mesa. Mas a água já ferveu três vezes para o caldo. E em casa a luz fraqueja, não tarda que se apague. E tu não tardes, que eu fiz um bolo de ervas com canela; e há compota de ameixas e suspiros e um cobertor de lã na cama e eu
estou assustada. A lua está apenas por metade, a terra treme. E eu tremo, com medo que não voltes.
Fado
Dicen los vientos que las mareas no duermen esta noche. Estoy asustada esperando que regreses: las olas ya se tragaron la playa más pequeña y derramaron algas en las macetas del balcón. Y, en la ciudad, se cuenta que la plazas acogieron por la tarde a decenas de gaviotas que persiguieron a las palomas y las mordieron.
La chimenea crepita lentamente. El pan todavía está tibio en tu mesa. Pero el agua ha hervido ya tres veces para el caldo. Y en casa la luz se debilita, no tardará en apagarse. Y tú no tardes, que hice una tarta de hierbas con canela; y hay mermelada de ciruelas y merengues y una manta de lana en la cama y yo
estoy asustada. Sólo está la mitad de la luna, la tierra tiembla. Y yo tiemblo, temiendo que no vuelvas.
***
Mãe, oxalá eu nunca tivesse largado a tua mão: com o menino ao colo, fez-se a estrada maior do que o meu desespero, amarrotou-se de velho meu coração tão claro. Eu tinha catorze anos antes
do estrondo, catorze anos e meio antes do teu grito, quinze anos cumpridos quando afastei o véu dos teus cabelos: se me dizias sempre que não fosse para longe, porque pediam o contrário os teus olhos parados? Ainda por cima, mãe, chegar
ao campo foi como bater a uma porta cansada – mil tendas que eram velas remendadas, barcos para ficar de novo pelo caminho. Trouxeram-nos mantas cheias de perguntas; tentaram-me com doces para me pôr no lugar; mudaram ao meu irmão a fralda com as mãos frias. Mãe, eu disse-lhes que
o menino era meu; e agora, quando ele procura os teus seios no meu corpo sem formas, cubro com o teu véu os meus cabelos e canto-lhe baixinho canções de açúcar. Não sei que idade tenho, mãe, mas oxalá eu nunca tivesse largado a tua mão.
***
Madre, ojalá yo nunca hubiera soltado tu mano: con el niño en brazos, se hizo el camino más largo que mi desesperación, se arrugó de viejo mí corazón tan claro. Yo tenía catorce años antes
del estruendo, catorce años y medio antes de tu grito, quince años cumplidos cuando alejé el velo de tus cabellos: si me decías siempre que no me alejara, ¿por qué pedían lo contrario tus ojos parados? Además, madre, llegar
al campo fue como llamar a una puerta cansada; mil tiendas que eran velas remendadas, barcos para quedarse de nuevo por el camino. Nos trajeron cobijas llenas de preguntas; me tentaron con dulces para ponerme en mi lugar; con las manos frías le cambiaron el pañal a mi hermano. Madre, yo les dije que
el niño era mío; y ahora, cuando él busca tus senos en mi cuerpo sin formas, cubro con tu velo mis cabellos y le canto bajito canciones de azúcar. No sé qué edad tengo, madre, pero ojalá yo nunca hubiera soltado tu mano.
Ilse Aicbhinger Poesie “Consiglio gratuito” traduzione di Giusi Drago
I Dein erstes Schachbuch, Ibsens Briefe, nimms hin, wenn du kannst, da, nimm schon oder willst du lieber die Blattkehrer von deiner Wiese treiben und Ibsens Ziegen darauf, gleich weiß, gleich glänzend? Es gibt Ziegen und es gibt Ibsens Ziegen, es gibt den Himmel und es gibt eine spanische Eröffnung. Hör gut hin, Kleiner, es gibt Weißblech, sagen sie, es gibt die Welt, prüfe, ob sie nicht lügen.
I
Il tuo primo libro di scacchi,
le lettere di Ibsen,
accettalo
se puoi,
forza, prendilo
oppure preferisci
cacciar via dal tuo prato
gli spazzafogli
e insieme a loro
le capre di Ibsen,
altrettanto bianche, altrettanto splendide?
Ci sono le capre e ci sono le capre di Ibsen,
c’è il cielo e c’è un’apertura
spagnola.
Ascolta bene, piccolo,
ci sono gamelle bianche, dicono,
c’è il mondo,
verifica che non mentano.
II Und frag sie, was der fremde Thorax im Garten soll, schon versteinert, der erste in diesem Frühling zwischen den Brombeerhecken, Mäusen und der Mauer, an die das Wasser für uns schlägt, was er dem Garten nützt. Ob er ihn nötig hätte, unseren Garten, oder der Garten ihn.
II
E chiedilo a loro
che ci fa in giardino
quel torace estraneo
già pietrificato,
il primo in questa primavera,
fra le siepi di more
i topi
e il muro,
dove l’acqua
batte per noi,
chiedi se è utile al giardino.
Se è lui ad averne bisogno
del nostro giardino,
o il giardino di lui.
III Und daß uns etwas zugetragen wurde von Laufzeiten. Ob die mit Lauf, mit Läufen zu tun hätten, mit Läuften, mit den Zeiten oder mit nichts davon.
III
E
che ci venne riferito qualcosa
dei tempi di decorso.
Se abbiano a che fare con il correre, con le corse,
con i ricorsi, con i tempi
o con niente di tutto ciò.
Il libro Consiglio gratuito(qui si presenta la poesia che dà il titolo alla raccolta) è ritenuto fin dal suo apparire nel 1978 un punto culminante della poesia del dopoguerra in lingua tedesca. I consigli che l’autrice dispensa “gratuitamente” nei suoi versi sono moniti di natura etica e conoscitiva, atti di ribellione dettati da un’esigenza indomabile di superare la menzogna e insieme ad essa l’addormentamento delle coscienze. La sua lingua sembra a tratti quotidiana, concreta, composta di parole comuni (carbone legna neve monti erbe), a tratti estraniante, ispida, reticente, oscura, specie quando la Aichinger si confronta con l’esperienza della barbarie nazista o riflette – con sguardo quasi filosofico – sulla natura violenta e menzognera del linguaggio. Consiglio gratuito è l’unica raccolta poetica di Ilse Aichinger.
*
Consiglio gratuito, tradotto da Giusi Drago, è uscito nel mese di maggio con Ibis edizioni, FinisTerrae – nella collana Le Meteore diretta da Domenico Brancale e Anna Ruchat.
Breve Biografia
Ilse Aichinger, nata a Vienna nel 1921, è una delle grandi scrittrici austriache, i cui testi
sono ormai considerati classici della letteratura in lingua tedesca. La madre, ebrea, è
medico, il padre insegnante. Il romanzo d’esordio La speranza più grande (Die grössere Hoffnung 1948) – alla cui stesura si dedica interrompendo gli studi di medicina – inaugura
la letteratura austriaca del dopoguerra. Nel 1952 ottiene il premio del Gruppo 47 per il suo
racconto Storia allo specchio (Spiegelgeschichte) e conosce lo scrittore e poeta Günter
Eich (1907-1972), che sposa l’anno successivo. Da lui avrà due figli, uno dei quali scrittore
a propria volta. Aichinger si spegne a Vienna nel 2016.
Ilse Aichinger ha scritto racconti, aforismi in forma di diario, riflessioni sulla scrittura e
radiodrammi. In italiano sono stati pubblicati solo La speranza più grande (Garzanti 1963,
Tartaruga edizioni 1999) e Kleist, il muschio, i fagiani (Tartaruga edizioni 1996). La poesia
di Ilse Aichinger era finora inedita in italiano.
Lawrence Ferlinghetti- poesia “Pietà per la nazione”
“Pietà per la nazione”
Pieta’ per la nazione i cui uomini sono pecore
e i cui pastori sono guide cattive
Pieta’ per la nazione i cui leader sono bugiardi
i cui saggi sono messi a tacere
Pieta’ per la nazione che non alza la propria voce
tranne che per lodare i conquistatori
e acclamare i prepotenti come eroi
e che aspira a comandare il mondo
con la forza e la tortura
Pieta’ per la nazione che non conosce
nessun’altra lingua se non la propria
nessun’ altra cultura se non la propria
Pieta’ per la nazione il cui fiato e’ danaro
e che dorme il sonno di quelli
con la pancia troppo piena
Pieta’ per la nazione – oh, pieta’ per gli uomini
che permettono che i propri diritti vengano erosi
e le proprie libertà spazzate via
Patria mia, lacrime di te
dolce terra di liberta’!.
La poesia “Pietà per la nazione” fu scritta da Lawrence Ferlinghetti, in occasione del cinquantenario della pubblicazione di On the Road di Jack Kerouac, manifesto della Beat Generation, ispirandosi ai versi del poeta libanese Kahlil Gibran.
Brevissima biografia di Lawrence Ferlinghettiè nato a Yonkers (nella contea del Westchester nello stato di New York) nel 1919, da madre francese (Lyons Albertine Mendes-Monsanto) e padre italiano, originario di Brescia (Carlo Ferlinghetti). Rimasto orfano di padre pochi mesi prima della nascita, Ferlinghetti perse la madre ancora bambino, e fu allevato dalla nonna. Come raccontato da Niccolò Lucarelli, Ferlinghetti, subito dopo la laurea in giornalismo, “nel 1941 si arruolò nella Marina Militare e prese parte anche all’operazione Overlord, con cui nel ’44 le truppe americane sbarcarono in Normandia. Furono quei giorni di terribili combattimenti e la desolazione di Nagasaki dopo l’atomica, visitata l’anno successivo, a formare la sua coscienza di convinto pacifista, convinto che l’umanità non avrebbe più potuto sopportare simili orrori. Dopo il congedo torna all’università e consegue un Master of Art alla Columbia, ma nel 1947 decide di trasferirsi a Parigi, che allora viveva gli ultimi bagliori di capitale mondiale della cultura, con gli esistenzialisti del Café de Flore e la piccola comunità intellettuale americana. In quest’atmosfera comprende come la sua strada sia la poesia, e consegue un dottorato in poesia moderna alla Sorbona”.
PERIFERIAdà inizio a una serie di testi di ambientazione cittadina, anzi periferica, a parte la parentesi poetica dedicata al soggiorno a Portofino e Santa Margherita. Ci sono due poesie intitolate Periferia, di analoga ispirazione. Siamo in un periodo consacrato alla ripresa intellettuale e sentimentale: l’amicizia con Vittorio Sereni, l’amore per Dino Formaggio, con cui Antonia Pozzi condivide una nuova sensibilità sociale fatta anche di desiderio di riscatto e lotta politica, di una nuova necessità di pensiero e di lavoro, che anticipano idealmente la Resistenza. Milano viene riscoperta nelle sue periferie industriali, attraversata in bicicletta, fotografata nei suoi cambiamenti urbanistici fino ai quartieri popolari dove persistono miseria ed emarginazione.
In PERIFERIA IN APRILE il riferimento è ai ricordi infantili di Dino Formaggio sul calcio, le piazzole del gioco tra ragazzi. Nato e cresciuto in periferia da una famiglia operaia, era ammirato dalla Pozzi anche in virtù del suo impegno morale. L’ambiente cittadino, le immagini del gioco del pallone tra ragazzi, ricordano analoghe scene sportive delle poesie di Vittorio Sereni.
Nelle foto: Antonia e Dino. Grazie a Laureto Rodoni.
Serena Martinelli – Piero Martinelli Tra le pieghe del tempo
Sono lievi i versi di questa raccolta di poesie che Serena ci regala, ognuna illustrata dal padre Piero. Sono la sua storia: da essa attinge linfa vitale per assecondare lo scorrere del tempo, a volte dolce, altre impetuoso e travolgente (dalla presentazione di Anna Ciarapica).
Sulla neve bianca bianca c’è una macchia color vermiglio; è il sangue, il sangue di mio figlio, morto per la libertà. Quando il sole la neve scioglie un fiore rosso vedi spuntare: o tu che passi, non lo strappare, è il fiore della libertà. Quando scesero i partigiani a liberare le nostre case, sui monti azzurri mio figlio rimase a far la guardia alla libertà. Gianni Rodari 🌹
Cenni biografici di Gianni Rodari-Nato il 23 ottobre 1920 a Omegna, sul lago d’Orta, lo scrittore piemontese è stato anche pedagogista, giornalista, poeta e partigiano italiano, specializzato in letteratura per l’infanzia e tradotto in molte lingue. Con le sue storie, ha fatto viaggiare con l’immaginazione diverse generazioni di bambini. Dopo aver conseguito il diploma magistrale, per alcuni anni ha fatto l’insegnante. Al termine della Seconda guerra mondiale ha intrapreso la carriera giornalistica, che lo ha portato a collaborare con numerosi periodici, tra cui «L’Unità», il «Pioniere», «Paese Sera». A partire dagli anni Cinquanta ha iniziato a pubblicare anche le sue opere per l’infanzia, che hanno ottenuto fin da subito un enorme successo di pubblico e di critica. I suoi libri hanno avuto innumerevoli traduzioni e hanno meritato diversi riconoscimenti, fra cui, nel 1970, il prestigioso premio «Hans Christian Andersen», considerato il «Nobel» della letteratura per l’infanzia. Negli anni Sessanta e Settanta ha partecipato a conferenze e incontri nelle scuole con insegnanti, bibliotecari, genitori, alunni. E proprio dagli appunti raccolti in una serie di questi incontri ha visto la luce, nel 1973, Grammatica della fantasia, che è diventata fin da subito un punto di riferimento per quanti si occupano di educazione alla lettura e di letteratura per l’infanzia. Gianni Rodari è morto a Roma nel 1980. Tra le sue opere più significative: Le avventure di Cipollino, Gelsomino nel paese dei bugiardi, Filastrocche in cielo e in terra, Favole al telefono, Il libro degli errori, C’era due volte il barone Lamberto.
Biografia di Giorgia Meriggi è nata nel 1966 a Milano, dove si è laureata in filosofia con una tesi dal titolo Corpo, ragione, passioni nei romanzi libertini di D.A.F. de Sade. Con Stampa Alternativa ha pubblicato nel 2012 Comizi d’amore. Manuale di diseducazione sessuale, insieme a Paolo Pedote. Nel 2017 ha pubblicato per Marco Saya editore, nella collana Sottotraccia, il suo primo libro di versi, Riparare il viola. Una traduzione di alcune sue poesie in spagnolo è apparsa nel volume Di poesia e di psicoanalisi. L’indicibile sottratto al nulla, a cura di Eva Gerace, Città del Sole Edizioni, 2018.
Fotografia di proprietà dell’autrice.
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Le Poesie sono pubblicate dalla Rivista di Poesia «Avamposto»è uno spazio di ricerca, articolato in rubriche di approfondimento, che si propone di realizzare un dialogo vivo rivolto allo studio della poesia attraverso un approccio multidisciplinare, nella consapevolezza che una pluralità di prospettive sia maggiormente capace di restituirne la valenza, senza mai sfociare in atteggiamenti statici e gerarchizzanti. Ma «Avamposto» è anche un luogo di riflessione sulla crisi del linguaggio. L’obiettivo è interrogarne le ragioni, opponendo alla tirannia dell’immediatezza – e alla sciatteria con la quale viene spesso liquidata l’esperienza del verso – un’etica dello scavo e dello sforzo (nella parola, per la parola). Tramite l’esaltazione della lentezza e del diritto alla diversità, la rivista intende suggerire un’alternativa al ritmo fagocitante e all’omologazione culturale (e linguistica) del presente, promuovendo la scoperta di autori dimenticati o ritenuti, forse a torto, marginali, provando a rileggere poeti noti (talvolta prigionieri di luoghi comuni) e a vedere cosa si muove al di là della frontiera del già detto, per accogliere voci nuove con la curiosità e l’amore che questo tempo non riesce più a esprimere.
Contatti
Via Lupardini 4, 89121 Reggio Calabria (c/o Sergio Bertolino)
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