pubblicate dalla Rivista «Atelier»-Nota di Pietro Barbera
Ilaria Palomba, scrittrice, poetessa, studiosa di filosofia, ha pubblicato i romanzi Fatti male (Gaffi; tradotto in tedesco per Aufbau-Verlag), Homo homini virus (Meridiano Zero; Premio Carver 2015), Una volta l’estate (Meridiano Zero), Disturbi di luminosità (Gaffi), Brama (Perrone), Vuoto (Les Flâneurs; presentato al premio Strega 2023 e vincitore del premio Oscar del Libro 2023); le sillogi Mancanza (Augh!), Deserto (premio Profumi di poesia 2018), Città metafisiche (Ensemble), Microcosmi (Ensemble; premio Semeria casinò di Sanremo 2021; premio Virginia Woolf al premio Nabokov 2022), Scisma (Les Flâneurs, settembre 2024), ; il saggio Io Sono un’opera d’arte, viaggio nel mondo della performance art (Dal Sud). Ha scritto per La Gazzetta del Mezzogiorno, Minima et Moralia, Pangea, Il Foglio, Succedeoggi. Ha fondato il blog letterario Suite italiana, collabora con le riviste La Fionda, Le città delle donne, Inverso, Versolibero.
Ilaria Palomba
«Io sono l’onorata e la disprezzata». Sulla poesia di Ilaria Palomba-Nota di Pietro Barbera
Avendo avuto l’opportunità di leggere in anteprima la nuova silloge della poetessa Ilaria Palomba, mi consento qualche osservazione, spunto critico, trasalimento, in piena libertà.
Il poemetto è abbagliante: le immagini si susseguono di giorno in giorno, di stanza in stanza, in piena terribile nudità, senza simbolismi eccessivi, né orpelli, né caricature. Non si ravvisa maniera qui. Si trafigge (e ci si trafigge) dritto per dritto, e ciò nonostante mantenendo sempre un’ammirevole compostezza formale, scevra da sbavature.
“Cos’è la dignità? Sono rimasta nel mezzo – immobile – nella vastità di nessuno”, scrive Palomba. Scisma certo parla (anche) di suicidio, ma non è, a mio parere, un diario poetico di un’esperienza personale. Questo è un punto di tema, di contenuto, che considero assai dirimente: NON è il diario poetico di un’esperienza suicidaria che si dipana secondo il classico mitologema Morte/Rinascita. Infatti la poetessa non è “rinata”, ma è stata “restituita”, quasi suo malgrado. Perché non è stata lasciata andare via? Dio, il Caso? “Devi restare, creatura infelice/nella bolgia della mente/nella frattura del mondo/del tuo mondo/nell’avversione al corpo/al nulla caduco /al nulla vacuo/all’immobilita/alla paralisi”. Palomba attraversa la suprema seduzione della Caduta che la consegnerebbe alla sottrazione radicale, alla dissoluzione dell’ego ed estinzione d’ogni conflitto (“essere cielo”), ed invece si trova restituita, ma smembrata, lacerata, nell’angusta immobilità di un letto d’ospedale, per tanti mesi, dove protagoniste sono la stanza, le infermiere, le pareti con le loro voci, i persecutori interni mai sazi. E il cielo sì riappare, ma scorto, perlopiù immaginato, dalla finestra di quella stanza. E sono tutti i cieli del mondo, condensati dalla colpa e dalla nostalgia: “cosa ho fatto al mio corpo?”. Domanda che la attanaglia senza tregua. E allora Scisma, ma anche crepa, crepaccio, ferita, frattura, lacerazione: tutti sostantivi che rimandano ad un’irredimibile separazione (dal sé di prima, “Non avrai più nome. Rinuncia al tuo nome”, dall’amato, dalla vita di prima). Ma il”volo”; non è pieno, è cavo, appartiene al regno dell’indicibile. E la Poetessa si ritrova non già corpo vivo e animato, ma Korpen, “nuda materia plasmabile”; per usare le sue parole, a guardare le “enormi fauci dell’ospedale”; che “masticano i corpi”; dei convenuti a giudizio. Ma il suicidio si rivela ancora epifenomeno: il più profondo tema sotteso a tutta la silloge é la lettera”s”. Si, proprio una singola lettera: quella s anteposta che porta Oltre sempre (sconfinare, smarginare, sbordare, sradicare, sgretolare), e l’estremo pericolo insito in questo cammino, la necessità di praticarlo con un controllo, con una funzione coscienziale liminale che permetta di “dissipare senza dissiparsi”, citando ancora l’Autrice. Tutto questo ha presentato un conto salatissimo (“Il volo cavo/il prezzo della furia”): la necessità di affrontare quotidianamente il non accettato, il corpo, i nuovi limiti imposti. Prezzo della Colpa: esito paradossale, feroce nemesi per chi avrebbe voluto sempre “slimitare”;. Palomba infatti prova struggente nostalgia per il corpo e la vita che precede lo Scisma, ma anche per l’ospedale e financo per la “pazzia”, per la libertà dell’infinito sbordare: costretta a vivere nell’ “altrimenti”; sorto dalla restituzione, indossando nuove maschere che rendano praticabile una vita in sé sempre impossibile. L’Appello si palesa a Dio e al mondo alla fine del giorno 73: “alta marea è vicina e forte è la buriana/Ancorate la nave!”. Il rischio supremo é avviluppato al proprio destino di sconfinatrice ed esploratrice di abissi (i propri in primis): ma parrebbe profilarsi anche un’altra via all’agognata dissoluzione, forse la rinuncia al mondo (che resta senza possibilità di Verità), forse l’estatica contemplazione del muto mistero che tutto sovrasta. Riuscirà Ilaria Palomba a “rinunciare al suo nome”? E, soprattutto, veramente lo vorrà? Leggere “Scisma” significa farsi attraversare dal “Pericolo” di artaudiana memoria, sondare (senza per forza abbracciare) costituenti antropologiche annidate nell’interiorità di ciascuno; parallelamente però richiede al lettore un’ineludibile disponibilità, un abbandono, un eclissarsi di difese in una temporanea epochè.
Pietro Barbera-
Pietro Barbera, quarantaseienne libero di stato, privo di precedenti letterari e di altra natura, vive a Novara e vi lavora svolgendo la professione di assistente a-sociale. Ha alle spalle studi sociologici e la frequenza del Master in “Death Studies; the End of Life” presso l’Università degli Studi di Padova, nel cui contesto la poetessa e indologa Laura Liberale, durante un seminario, l’ha sollecitato a dedicarsi con maggiore impegno alla scrittura. Burocrazie del Dolore, edito da Giuliano Ladolfi Editore 2024, ne è l’opera prima.
Poesie di Ilaria Palomba
Da “Scisma” (Les Flâneurs, 2024)
Giorno 11
Le infermiere aprono la finestra
il mattino trabocca di lacrime
violaceo azzurrato l’albore tuona –
Schubert copre la nudità dei corpi
avvizziti gremiti di piaghe.
Al mattino il Colosseo Quadrato
sporge nel tramestio di nubi.
Al mattino penso al mio corpo
alla fine del sogno
alla fine dei giochi
un corpo disabitato – l’anima
anela prega piange –
tentativo di uscirne.
Devi restare, creatura infelice,
nella bolgia della mente
nella frattura del mondo
del tuo mondo
nell’avversione al corpo
al nulla caduco
al nulla vacuo
all’immobilità
alla paralisi.
*
Giorno 17
Valium. Litio. Clozapina. Lyrica. Polveri mefitiche lassative. Più di dieci farmaci. La pillola per il fegato: in rianimazione avevo il fegato perforato, l’arteria epatica pronta a deflagrare. Ventotto trasfusioni. È abbastanza come anestesia? Tornati nelle stanze dormiamo tutto il giorno per vivere una vita che non sia questa, per dimenticare il dolore, per inventare un fuori. Dimentica la successione del ricordo, cancella la persona, non esiste il prima. Infettate le pareti; sporche di merda le lenzuola. Cos’è la dignità? Sono rimasta nel mezzo – immobile – nella vastità di nessuno.
*
Giorno 26
Qui è la ghiera del persecutore interno,
non hai rivali fuori da te stessa.
L’uomo illuminato dal demonio
parla la lingua delle bestie:
Qui si smarrisce la coscienza.
Qui si aprono i multipli.
Vuoi vivere o morire?
Rinuncia al tuo nome, o la vita o il tuo nome.
Guarda, guardalo. Anche lui è qui.
Sono tutti qui. Aspettano.
Siamo qui per pulire.
*
Giorno 29
Non voglio essere salva
per restare nell’ombra.
Adesso, sai, non ricordo
il volo cavo,
il prezzo della furia.
Nuda materia plasmabile.
Proteggi le ossa,
allontana la bestia.
Si schiude la ferita, sangue e buio
giacere sgraziata all’esistenza,
crebbe in te la ferita, restò nuda,
avrebbe martellato l’osso sacro,
avrei guardato tutto l’angelico
suppurare in infero, smarginare.
*
Giorno 49
La vecchia nella mia stanza ha un mieloma, è peggiorata. Siamo una moltitudine di solitudini. Li ho guardati qualche volta negli occhi. Erano i restituiti. Veniva l’uomo della stanza accanto a portarmi il cornetto. Lo chiamo F. Diceva: Come sei finita dentro il tumulto? L’ospedale aveva enormi fauci e masticava i nostri corpi. Trovare la forza di portare a termine il pensiero.
Come sei finita?
Un pensiero fecondo mentre muovo la gamba cattiva. Dovrò occuparmi di tutto ciò che ho lasciato. Nulla si può sospendere se non l’attesa. Dovrò occuparmi dell’ottusità.
*
Giorno 54
È rimasto qualcosa di umano in te?
Quanto ancora dovrai attendere?
E la tua smania, chi saprà estirparla?
Una pietà maldestra ti apre all’ascolto
ma un giudizio feroce ti ottunde il pensiero.
Non puoi più seguire i desideri,
Imparerai ogni cosa di nuovo
e sarà un po’ diversa.
Avrai un altro nome.
*
Giorno 73
Nella lontananza dell’idrogeno
il cloro si annoia. Tu con me
aderendo fino alla fine, foglia,
non ti annoi, se l’albero si
scuote e ti strappa via. Io
foglia non mi arrendo se
tu vita mi strappi via. Io,
nella lontananza di questo
reparto, dopo aver gettato
la spugna, risalgo alla vita
stessa. Che sia il barbaglio
di questo sole, sradicamento,
il suicidio non conosce
retrovie, non ho visto il
mio corpo cadere ma
ho sentito cantare un
coro soave. Dove siete,
sorelle? Io vi chiamo
dal letto diciotto, della
stanza numero quattro
dell’unità spinale. Venite,
nel giardino, dove possiamo
camminare, zoppicando.
Era l’alta marea in me
a gettare scompiglio,
era l’altra, colei che
non voglio, e non sono.
Ognuno nel fondo è
un altro. Riprendere
il timone, ancorare la
nave. Dentro un tormento
cui non sono pronta,
l’alta marea è vicina
e forte è la buriana.
Ancorate la nave!
*
Inediti
Se io non fossi l’acerbo sventrato
ma il verbo dell’oltre,
se non avessi macchiate le vesti
di sangue,
se io non portassi in grembo i segni
del mare,
se fossi limpida come il mare
che bagna i tormenti,
se fossi limpida come il mare
che bagna i suoi campi,
se conoscessi il preludio e il perdono,
se una pietà abitasse il corpo,
se una pietà venisse a strapparmi dal
gesto,
se avessi occhi di madre e non sguardo
furioso di figlia,
se io fossi foglia e non magnolia,
se io potessi scombuiare e svanire,
se io potessi smarrire il senno e svenire,
se solo potessi annientarmi e obliare,
se non vedessi gli occhi e gli sguardi,
se non fossero forbici le mani
e gli occhi pugnali,
se non scimitarre le bocche
o gherigli,
e se potessi non rispondere
all’ingiuria col pianto,
ma con l’incanto di chi conosce la fine,
ma con la voce che risale il perdono,
ma con la voce del perdono accolto,
ma con l’avvento di una pietà smarrita,
ma con la memoria di una vita arresa,
non patirei le mani, gli occhi, gl’inganni.
La mente vacilla, il suono del ricordo
annerisce i palmi, oscura le mani.
Io mi rivolsi al cielo e lui mi vinse,
mi rivolsi al mare e l’abisso mi tagliò
in porzioni sottili più e più volte.
alla città fantasma
*
Se tu tornassi io ti accoglierei
nelle mie braccia, ti accoglierei
viva e morta, ti accoglierei,
tu nemesi, tu cieco, tu traudito,
sei il seme dell’uomo e della donna,
il sangue e il giogo e la caduta,
il cervello raccolto dalle membra,
sei la via verso il vuoto,
l’aspersione del fianco,
anima mundi e anima immundi,
sei sangue del mio sangue,
sei cuore del mio cuore,
sei ventre sventrato,
sei la parola smembrata nel vizio,
sei il santo cui votai il crollo,
l’unico biancore del precipizio,
sei tenebra e luce,
accecato e ritornante,
sei l’immondo amante,
sei catena di ruggine rappresa,
sei la mia intera discesa
tra i palazzi crepati della terra,
qui batte il sole e ragliano i cani,
qui siamo all’ora dell’orizzonte vermiglio,
e le case bucate hanno finestre di occhi,
e io fui tua moglie e tu mio figlio,
e fosti il padre e la madre e la conchiglia,
fioritura nera di crisalide estinta,
io sono la tua nemesi spuria,
impara il tempo del mio tempo,
l’arte feroce dello smembramento,
– io sono l’onorata e la disprezzata
io sono la prostituta e la santa
io sono la sposa e la vergine
io sono la prima e l’ultima –
Iside cieca sul fondo
della tua stirpe brunita,
sono la menade e il sacrificio,
e tutte le guerre furono arrese
alla grazia della tua immensa sparizione.
a Iside
*
La notte prima della crocifissione
guardammo le frane e la terra,
guardammo l’algore dell’uomo,
nessuno seppe chiedere perdono.
Perché sono tornata a te adesso?
Per sconquassare la ruggine
nelle mani o per non sapere,
non ho coscienza delle piaghe,
nell’altissimo cercare l’uomo,
la via baluginante nella gioia,
alla ferita succede l’abbandono.
a Gesù Cristo
La rivista «Atelier»
La rivista «Atelier» ha periodicità trimestrale (marzo, giugno, settembre, dicembre) e si occupa di letteratura contemporanea. Ha due redazioni: una che lavora per la rivista cartacea trimestrale e una che cura il sito Online e i suoi contenuti. Il nome (in origine “laboratorio dove si lavora il legno”) allude a un luogo di confronto e impegno operativo, aperto alla realtà. Si è distinta in questi anni, conquistandosi un posto preminente fra i periodici militanti, per il rigore critico e l’accurato scandaglio delle voci contemporanee. In particolare, si è resa levatrice di una generazione di poeti (si veda, per esempio, la pubblicazione dell’antologia L’Opera comune, la prima antologia dedicata ai poeti nati negli anni Settanta, cui hanno fatto seguito molte pubblicazioni analoghe). Si ricordano anche diversi numeri monografici: un Omaggio alla poesia contemporanea con i poeti italiani delle ultime generazioni (n. 10), gli atti di un convegno che ha radunato “la generazione dei nati negli anni Settanta” (La responsabilità della poesia, n. 24), un omaggio alla poesia europea con testi di poeti giovani e interventi di autori già affermati (Giovane poesia europea, n. 30), un’antologia di racconti di scrittori italiani emergenti (Racconti italiani, n. 38), un numero dedicato al tema “Poesia e conoscenza” (Che ne sanno i poeti?, n. 50).
Direttore generale e responsabile: Giuliano Ladolfi Coordinatore delle redazioni: Luca Ariano
Redazione Online
Direttore editoriale: Giovanni Ibello Caporedattrice: Valentina Furlotti Redazione: Giovanna Rosadini, Gisella Blanco, Lucrezia Lombardo, Sarah Talita Silvestri, Massimo D’Arcangelo, Piero Toto, Emanuele Canzaniello, Giovanni Di Benedetto. Collaboratori ed ex collaboratori: Michele Bordoni, Gerardo Masuccio, Antonio Fiori, Matteo Pupillo, Giulio Maffii, Daniele Costantini, Francesca Coppola, Mario Famularo, Paola Mancinelli
Redazione Cartaceo
Direttore: Giovanna Rosadini Redazione: Mario Famularo, Giulio Greco, Alessio Zanichelli, Mattia Tarantino, Giuseppe Carracchia, Carlo Ragliani, Eleonora Rimolo.
Da ragazza visse per un breve periodo nella casa della deceduta Edna St. Vincente Millay, dove aiutò la sorella di costei, Norma, nel riordino e nella conservazione delle carte di famiglia. Negli anni cinquanta ha frequentato sia l’Ohio State University che il Vassar College, ma senza conseguirvi diplomi. Ha abitato a Provincetown, Massachusetts, per più di quarant’anni. La sua partner, Molly Malone Cook, le ha fatto da agente letterario per tutta la vita.
Opera
Intensa e gioiosa osservatrice del mondo naturale, Mary Oliver viene spesso paragonata a Walt Whitman e Henry David Thoreau. Le sue poesie sono ricche di immagini quotidiane provenienti dalle paludi vicino a casa sua a Provincetown: pivieri, serpenti d’acqua, le fasi della luna e le megattere, sono gli elementi maggiormente rappresentati. Maxine Kumin chiama la Oliver “una pattugliatrice delle paludi” allo stesso modo in cui Thoreau era un esploratore delle “bufere di neve” e “una infaticabile guida al mondo naturale”.[1] La sua opera, infatti, rappresenta uno dei punti più elevati della poesia consacrata alla natura. Coi suoi lavori ha aperto molte strade per la presa di coscienza della crisi ambientale. Oliver usa uno stilelinguistico semplice e chiaro per far condividere ai lettori il suo amore per gli altri esseri viventi. La sua casa è la “Grande Madre” terra che onora nelle sue poesie.
No Voyage, and Other Poems (1963, prima edizione; 1965, (edizione ampliata)
The River Styx, Ohio, and Other Poems (1972)
The Night Traveler (1978)
Twelve Moons (1978)
Sleeping in the Forest (1979)
American Primitive (1983)
Dream Work (1986)
Provincetown (1987, edizione limitata con incisioni in legno di Barnard Taylor)
House of Light (1990)
New and Selected Poems (1992)
A Poetry Handbook (1994)
White Pine: Poems and Prose Poems (1994)
Blue Pastures (1995)
West Wind: Poems and Prose Poems (1997)
Rules for the Dance: A Handbook for Writing and Reading Metrical Verse (1998)
Winter Hours: Prose, Prose Poems, and Poems (1999)
The Leaf and the Cloud (2000, poema in prosa)
What Do We Know (2002)
Owls and Other Fantasies: poems and essays (2003)
Why I Wake Early: New Poems (2004)
Blue Iris: Poems and Essays (2004)
Long Life: Essays and Other Writings (2004)
New and Selected Poems, volume two (2005)
At Blackwater Pond: Mary Oliver Reads Mary Oliver (2006, audio cd)
Thirst: Poems (2006)
Our World (2007) con fotografie realizzate da Molly Malone Cook
Mary Oliver – Poetessa statunitense LE OCHE SELVATICHE
*
Non devi essere buono.
Non devi trascinarti ginocchioni,
pentito, per cento miglia attraverso il deserto.
Devi soltanto permettere a quel mite animale, al tuo corpo, di amare ciò che ama.
Parlami della tua disperazione, io ti racconterò la mia.
Intanto, il mondo va avanti.
Intanto, il sole e gli splendenti sassolini della pioggia
attraversano i paesaggi,
passano sopra le praterie e gli alberi dalle profonde radici,
sopra le montagne e i fiumi.
Intanto, le oche selvatiche, alte nel limpido azzurro,
fanno nuovamente ritorno a casa.
Chiunque tu sia, per quanto tu possa essere solo,
il mondo si offre alla tua immaginazione,
ti manda il suo richiamo come le oche selvatiche, aspro ed eccitante:
annuncia incessantemente la tua appartenenza
alla famiglia delle cose.
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Mary Oliver – Tre inediti dalla Rivista ATELIER-(Traduzione di Giuseppe d’Abramo)
Mary Oliver
Il sole
Hai mai visto
niente
nella tua vita
di più prodigioso
del modo in cui il sole,
ogni sera,
ampio e disteso,
fluttua verso l’orizzonte
dentro nuvole e colline,
o nel mare spiegazzato,
per perdersi –
e come sbuchi ancora
fuori dall’oscurità,
ogni mattina,
dall’altra parte del mondo,
come un fiore rosso
galleggiando verso l’alto sui suoi oli celesti,
diciamo, un mattino di inizio estate,
alla sua perfetta suprema distanza –
e hai mai sentito per qualcosa
un tale amore selvaggio –
pensi che esista in qualche posto, in una qualsiasi lingua,
una parola che si gonfi abbastanza
per il piacere
che ti riempie,
mentre il sole
si allunga,
ti riscalda
quando sei lì in piedi
a mani vuote –
o anche tu ti sei allontanato
da questo mondo –
oppure
sei impazzito
per il potere,
per il possesso?
Mary Oliver
Alcune domande che potresti fare
L’anima è solida come il ferro?
O è tenera e fragile come le ali
di una falena nel becco di un gufo?
Chi ce l’ha, e chi no?
Continuo a guardarmi intorno.
La faccia dell’alce è triste
come la faccia di Gesù.
Il cigno apre lentamente le sue ali bianche.
In autunno, l’orso bruno trasporta le foglie nell’oscurità.
Una domanda segue l’altra.
Possiede una forma? Come un iceberg?
Come l’occhio di un colibrì?
Ha un polmone, come il serpente o il pettine di mare?
Perché dovrei averla io e non il formichiere
che ama i suoi cuccioli?
Perché io e non il cammello?
Pensaci bene, che dire degli alberi d’acero?
Cosa dell’iride blu?
Cosa dire di tutti i sassolini seduti soli al chiaro di luna?
Cosa dire delle rose, e dei limoni, e delle loro foglie lucenti?
Che dire dell’erba?
LONG BEACH, CA – OCTOBER 26: Poet Mary Oliver speaks during California first lady Maria Shriver’s annual Women’s Conference 2010 on October 26, 2010 at the Long Beach Convention Center in Long Beach, California. Attendees to the conference include Gov. Arnold Schwarzenegger and candidates for California Governor Republican Meg Whitman and Democrat Jerry Brown. (Photo by Kevork Djansezian/Getty Images)
Dormendo nella foresta
Pensavo che la terra si ricordasse di me, che
mi riportasse indietro così teneramente, sistemandosi
la gonna scura, le tasche piene di semi
e di licheni. Dormivo come mai prima d’ora,
una pietra sul letto del fiume, nulla
tra me e il fuoco bianco delle stelle,
soltanto i miei pensieri che si libravano
agili come falene tra i rami
degli alberi perfetti. Per tutta la notte
sentivo attorno a me i piccoli regni
respirare, gli insetti e gli uccelli che svolgono
il loro lavoro nell’oscurità. Per tutta la notte
caddi e mi rialzai, come in acqua, lottando
con un destino luminoso. Al mattino
ero svanita almeno una dozzina di volte
in qualcosa di migliore.
Mary Oliver-
Mary Oliver (1935-2019)-Poetessa statunitense, vincitrice del National Book Awards 1992 e del Premio Pulitzer 1984, è autrice di 32 raccolte poetiche e di quattro saggi sulla poesia. Il New York Times l’ha definita “Di gran lunga, la poetessa di questo paese che ha venduto di più”.
Giuseppe D’Abramo (1988), laureato in Lettere Moderne, vive a Milano. Ha pubblicato poesie e racconti sulle riviste Atelier, Gradiva, Inchiostro, Sagarana, Grado Zero, A4, Il Raccoglitore e su la Repubblica di Roma e Milano per Bottega di poesia.
Salvatore Quasimodo (Modica, 20 agosto 1901 – Napoli, 14 giugno 1968)- è stato un poeta e traduttore italiano, esponente di rilievo dell’ermetismo. Ha contribuito alla traduzione di vari componimenti dell’età classica, soprattutto liriche greche, ma anche di opere teatrali di Molière e William Shakespeare.
ffermare che Salvatore Quasimodo (1901 – 1968) è da considerarsi fra i “sommi” della poesia contemporanea potrebbe sembrare superfluo, tenuto conto dei prestigiosi riconoscimenti da lui ottenuti nel corso della sua carriera e dell’importanza che l’artista occupa tuttora nel panorama letterario europeo. Eppure, talvolta, nel confronto sempre aperto fra i protagonisti italiani del Novecento, egli sembra leggermente offuscato da nomi di eminenti colleghi, come, ad esempio, Montale e Ungaretti. Ciò, in verità, capita per diversi motivi, così riassumibili:
-la tendenza a considerare il poeta modicano come un allievo, un epigone dell’Ermetismo.
È opinione di molti, infatti, che l’accostamento di Quasimodo ad Ungaretti e Montale sarebbe arbitrario, frutto cioè di un’esemplificazione, di uno schematismo scolastico, sia per il divario anagrafico esistente tra loro, sia per la tardiva adesione dell’artista siciliano alla nuova poesia.
-l’accentuarsi della divaricazione fra letterati e pubblico, prodottasi a partire dagli anni Trenta/Quaranta.
È pur vero che, col palesarsi della poesia ermetica, il linguaggio si impreziosisce, assume significati indecifrabili, allontanandosi ulteriormente dalla massa e isolando ancor più gli autori in un mondo sui generis, aristocratico ed elitario. In effetti, Quasimodo si trova ad operare nella fase più acuta di tale divaricazione e ne diviene, incolpevolmente, uno dei maggiori “imputati”.
-l’abitudine a tenere ancora separate e indipendenti le produzioni quasimodiane, quella anteriore e posteriore alla guerra.
Secondo alcuni (e questo è l’equivoco maggiore da chiarire) la produzione giovanile di Quasimodo mostrerebbe i “limiti” di un evidente ancoraggio alla poetica decadentista e ai suoi stilemi estetizzanti, mentre soltanto l’altra, quella più recente, per la sua forma esplicita e un aperto impegno civile, meriterebbe il riconoscimento che ha.
Effettivamente, in Acque e terre la prima raccolta di Quasimodo, che risale al 1930, non è difficile cogliere delle assonanze con la lirica pascoliana e dannunziana. I versi, sorretti da un’evidente impronta classica e da un “apparato” implicito e sottilmente allusivo (proprio della tendenza poetica del tempo) rappresentano una felice sintesi tra forme vecchie e nuove. Essi rivelano, per altro, la disposizione del poeta a trasfigurare persone, avvenimenti e luoghi lontani, sicché ogni cosa sembra sospesa in una singolare dimensione della memoria, che può essere facilmente confusa con la nostalgia personale. Ma questo modo di comporre, più che da vagheggiamenti meramente intimistici, deriva dalla constatazione del passare del tempo (e della “corrosione” che ciò produce negli uomini) e diviene perciò un dato obiettivo, realistico, che travalica i confini dell’esperienza privata.
Pure la successiva adesione di Quasimodo all’ermetismo [Oboe sommerso (1932) ed Erato e Apollion (1936)] è stata oggetto talvolta di rilievo critico. In ciò si è voluto ravvisare una sorta di operazione mimetica, un adeguamento linguistico esteriore, privo di una partecipazione autentica e convinta, funzionale soltanto alle suggestioni dell’epoca, che com’è noto era dominata dall’esigenza di una poesia essenziale, depurata dalle scorie del manierismo e della retorica nazionalistica. Secondo questa interpretazione, la produzione ermetica di Quasimodo parrebbe ridursi o a puro esercizio accademico o a desiderio di superare i grandi maestri, quali erano appunto Montale ed Ungaretti. A guardar bene, si tratta invece di un periodo di studio, di transizione, in cui l’artista ricerca una nuova fisionomia per la sua poesia, secondando così un naturale processo creativo, per cui un autore può volgersi al nuovo, soltanto dopo aver elaborato l’antico.
Il travaglio creativo è però definitivamente superato, non tanto nelle Nuove poesie (1936- 42) che segnano un felice ritorno ad una lirica accorata e sincera, quanto nelle opere Giorno dopo giorno (1947) e La vita non è sogno (1949) che vengono editate nel dopoguerra ed in cui appaiono, inequivocabili, le tracce di un mutamento formale e contenutistico: la cruda realtà del conflitto ha segnato profondamente il poeta e nei suoi versi trovano ora posto le sofferenze e le speranze dei popoli. A questo periodo appartengono componimenti di esemplare nitore stilistico e di elevato contenuto sociale, come Alle fronde dei salici e Uomo del mio tempo. Da tale “svolta” nasce il cantore della solidarietà umana e dell’impegno civile. Dalla sua manifesta adesione alla vita concreta e dall’aperto schierarsi contro i mali del mondo, Quasimodo trae il suo maggior consenso.
Ma sarebbe un errore limitare il suo valore artistico alla produzione più matura, relativizzando quella precedente e ponendo entrambe in un inconciliabile dicotomia. Ad esaminare attentamente i temi svolti nelle prime raccolte, viene fuori un poeta sensibile, “a tutto tondo”, che si strugge per la propria terra natia, non tanto perché essa è fisicamente lontana, ma perché viene avvertita come Eden o paradiso perduto. Nelle Nuove Poesie, grazie anche ad una forma più distesa ed intelligibile, si capisce perfettamente che l’autore non allude ad un luogo suo esclusivo, ma ad una dimensione comune, a un “approdo” per tutti coloro che, oppressi da una realtà dura ed ostile, ambiscono a ritrovare l’equilibrio interiore e la quiete dell’anima. Ne deriva che la Sicilia cantata dal poeta non è quella reale, ma quella mitica, tutt’uno con la sfolgorante luce dell’antica isola greca, dove le visioni erano certamente più rassicuranti di quelle del presente.
L’autore considera l’uomo un essere imperfetto, un angelo caduto, e perciò vede la generosa sua terra del passato non tanto come entità geografica, ma come un rifugio dal male, dalla violenza, dall’ingiustizia e dalla stessa solitudine. Per quanto la forma linguistica, oscillante fra classicismo e modernità, possa indurre ad equivoci, nelle Nuove poesie, Quasimodo precorre temi che svilupperà più compiutamente in seguito, nella raccolta: Giorno dopo giorno. Ecco, perché, anche in questa fase del suo itinerario compositivo, egli va considerato pensoso ed impegnato testimone della realtà.
Nemmeno dovrebbe lasciar dubbi sulla portata del suo contributo artistico la parentesi ermetica, che alcuni si affannano a definire “epidermica” e che lui stesso, a un certo punto, sembrò ripudiare. C’è, invece, in quei versi l’impronta dell’universalità, la stimmata dell’autentica arte, un’arte pura e genuina, qual era appunto il fine della nuova poesia. Basti l’esempio della celeberrima: Ed è subito sera (“Ognuno sta solo sul cuor della terra/ trafitto da un raggio di sole/ ed e’ subito sera“) breve quanto un epigramma greco, ma efficace come soltanto la grande poesia sa essere.
Non è una malinconia fine a se stessa, ovvero quella del poeta tardo-decadente o crepuscolare, né è l’intimo sfogo di un uomo inerte, che gioca ad autocommiserarsi. È invece un disperato richiamo alla solidarietà, alla comunione fra gli uomini (mai così necessaria) e compendia perciò, in un’originale e straordinaria sintesi lirica, le istanze più sentite di un intero secolo e le voci soavi di mille cantori.
Ed è subito sera
Ognuno sta solo sul cuor della terra
trafitto da un raggio di sole:
ed è subito sera
Ora che sale il giorno (dalla raccolta Ed è subito sera. Poesie, 1942)
Finita è la notte e la luna
si scioglie lenta nel sereno,
tramonta nei canali.
È così vivo settembre in questa terra
di pianura, i prati sono verdi
come nelle valli del sud a primavera.
Ho lasciato i compagni,
ho nascosto il cuore dentro le vecchi mura,
per restare solo a ricordarti.
Come sei più lontana della luna,
ora che sale il giorno
e sulle pietre bette il piede dei cavalli!
**
Alle fronde dei salici (dalla raccolta Giorno dopo giorno, 1947)
E come potevamo noi cantare
con il piede straniero sopra il cuore,
fra i morti abbandonati nelle piazze
sull’erba dura di ghiaccio, al lamento
d’agnello dei fanciulli, all’urlo nero
della madre che andava incontro al figlio
crocifisso sul palo del telegrafo?
Alle fronde dei salici, per voto,
anche le nostre cetre erano appese,
oscillavano lievi al triste vento.
Uomo del mio tempo (dalla raccolta Giorno dopo giorno, 1947)
Sei ancora quello della pietra e della fionda,
uomo del mio tempo. Eri nella carlinga,
con le ali maligne, le meridiane di morte,
t’ho visto – dentro il carro di fuoco, alle forche,
alle ruote di tortura. T’ho visto: eri tu,
con la tua scienza esatta persuasa allo sterminio,
senza amore, senza Cristo. Hai ucciso ancora,
come sempre, come uccisero i padri, come uccisero
gli animali che ti videro per la prima volta.
E questo sangue odora come nel giorno
Quando il fratello disse all’altro fratello:
«Andiamo ai campi». E quell’eco fredda, tenace,
è giunta fino a te, dentro la tua giornata.
Dimenticate, o figli, le nuvole di sangue
Salite dalla terra, dimenticate i padri:
le loro tombe affondano nella cenere,
gli uccelli neri, il vento, coprono il loro cuore.
Già la pioggia è con noi (dalla raccolta Ed è subito sera, 1942)
Già la pioggia è con noi,
scuote l’aria silenziosa.
Le rondini sfiorano le acque spente
presso i laghetti lombardi,
volano come gabbiani sui piccoli pesci;
il fieno odora oltre i recinti degli orti.
Ancora un anno è bruciato,
senza un lamento, senza un grido
levato a vincere d’improvviso un giorno.
Avara pena, tarda il tuo dono
in questa mia ora
di sospirati abbandoni.
Un òboe gelido risillaba
gioia di foglie perenni,
non mie, e smemora;
in me si fa sera;
l’acqua tramonta
sulle mie mani erbose.
Ali oscillano in fioco cielo,
labili: il cuore trasmigra
ed io son gerbido,
e i giorni una maceria.
Salvatore Quasimodo
Vento a Tindari (dalla raccolta Acque e terre, 1930)-
Tindari, mite ti so
Fra larghi colli pensile sull’acque
Delle isole dolci del dio,
oggi m’assali
e ti chini in cuore.
Salgo vertici aerei precipizi,
assorto al vento dei pini,
e la brigata che lieve m’accompagna
s’allontana nell’aria,
onda di suoni e amore,
e tu mi prendi
da cui male mi trassi
e paure d’ombre e di silenzi,
rifugi di dolcezze un tempo assidue
e morte d’anima
A te ignota è la terra
Ove ogni giorno affondo
E segrete sillabe nutro:
altra luce ti sfoglia sopra i vetri
nella veste notturna,
e gioia non mia riposa
sul tuo grembo.
Aspro è l’esilio,
e la ricerca che chiudevo in te
d’armonia oggi si muta
in ansia precoce di morire;
e ogni amore è schermo alla tristezza,
tacito passo al buio
dove mi hai posto
amaro pane a rompere.
Tindari serena torna;
soave amico mi desta
che mi sporga nel cielo da una rupe
e io fingo timore a chi non sa
che vento profondo m’ha cercato.
**
Specchio (dalla raccolta Acque e terre, 1930)
Ed ecco sul tronco
si rompono gemme:
un verde più nuovo dell’erba
che il cuore riposa:
il tronco pareva già morto,
piegato sul botro.
E tutto mi sa di miracolo;
e sono quell’acqua di nube
che oggi rispecchia nei fossi
più azzurro il suo pezzo di cielo,
quel verde che spacca la scorza
che pure stanotte non c’era.
**
Isola (dalla raccolta Oboe sommerso, 1932)
Di te amore m’attrista,
mia terra, se oscuri profumi
perde la sera d’aranci,
o d’oleandri sereno,
cammina con rose il torrente
che quasi n’è tocca la foce.
Ma se torno a tue rive
e dolce voce al canto
chiama da strada timorosa
non so se inerzia o amore,
ansia d’altri cieli mi volse,
e mi nascondo nelle perdute cose.
**
Fresche di fiumi in sonno
Ti trovo nei felici approdi,
della notte consorte,
ora dissepolta
quasi tepore d’una nuova gioia,
grazia amara del viver senza foce.
Vergini strade oscillano
fresche di fiumi in sonno:
E ancora sono il prodigo che ascolta
dal silenzio il suo nome
quando chiamano i morti.
Ed è morte
uno spazio nel cuore.
**
Imitazione della gioia
Dove gli alberi ancora
abbandonata più fanno la sera,
come indolente
è svanito l’ultimo tuo passo
che appare appena il fiore
sui tigli e insiste alla sua sorte.
Una ragione cerchi agli affetti,
provi il silenzio nella tua vita.
Altra ventura a me rivela
il tempo specchiato. Addolora
come la morte, bellezza ormai
in altri volti fulminea.
Perduto ho ogni cosa innocente,
anche in questa voce, superstite
a imitare la gioia.
Imitazione della gioia
Dove gli alberi ancora
abbandonata più fanno la sera,
come indolente
è svanito l’ultimo tuo passo
che appare appena il fiore
sui tigli e insiste alla sua sorte.
Una ragione cerchi agli affetti,
provi il silenzio nella tua vita.
Altra ventura a me rivela
il tempo specchiato. Addolora
come la morte, bellezza ormai
in altri volti fulminea.
Perduto ho ogni cosa innocente,
anche in questa voce, superstite
a imitare la gioia.
**
Alla nuova luna (dalla raccolta La terra impareggiabile, 1958)
In principio Dio creò il cielo ..
e la terra, poi nel suo giorno
esatto mise i luminari in cielo
e al settimo giorno si riposò.
Dopo miliardi di anni l’uomo,
fatto a sua immagine e somiglianza,
senza mai riposare, con la sua
intelligenza laica,
senza timore, nel cielo sereno
d’una notte d’ottobre,
mise altri luminari uguali
a quelli che giravano
dalla creazione del mondo. Amen.
**
Salvatore Quasimodo
Lettera alla madre (dalla raccolta La vita non è un sogno, 1949)
Mater dolcissima, ora scendono le nebbie, il Naviglio urta confusamente sulle dighe,
gli alberi si gonfiano d’acqua, bruciano di neve; non sono triste nel Nord:
non sono in pace con me, ma non aspetto perdono da nessuno,
molti mi devono lacrime da uomo a uomo.
So che non stai bene, che vivi come tutte le madri dei poeti,
povera e giusta nella misura d’amore per i figli lontani.
Oggi sono io che ti scrivo:
Finalmente, dirai, due parole di quel ragazzo che fuggì di notte
con un mantello corto e alcuni versi in tasca.
Povero, così pronto di cuore lo uccideranno un giorno in qualche luogo.
Certo, ricordo, fu da quel grigio scalo di treni lenti che
portavano mandorle
e arance, alla foce dell’Imera, il fiume pieno di gazze, di sale,
d’eucalyptus.
Ma ora ti ringrazio, questo voglio, ell’ironia che hai messo sul mio labbro,
mite come la tua. Quel sorriso m’ha salvato da pianti e da dolori.
E non importa se ora ho qualche lacrima per te, per tutti quelli che come te
aspettano, e non sanno che cosa.
Ah, gentile morte, non toccare l’orologio in cucina che batte
sopra il muro
tutta la mia infanzia è passata sullo smalto del suo quadrante,
su quei fiori dipinti: non toccare le mani, il cuore dei vecchi.
Ma forse qualcuno risponde?
O morte di pietà, morte di pudore.
Addio, cara, addio, mia dolcissima Mater.
**
Alla foce dell’Ebro (poesia di Alceo tradotta da Salvatore Quasimodo, dalla raccolta Lirici greci, 1940)
Ebro, il più bello dei fiumi,
che nella Tracia con forte suono scorri
lungo terre famose pei cavalli,
al purpureo mare presso Aino tacito scendi.
E lì molte fanciulle muovono
molli sulle anche: con l’acqua chiara
nel palmo delle mani, come con olio
addolciscono la pelle.
**
Tramontata è la luna (poesia di Saffo tradotta da Salvatore Quasimodo, dalla raccolta Lirici greci, 1940)
Tramontata è la luna
e le Pleiadi a mezzo della notte;
anche giovinezza già dilegua,
e ora nel mio letto resto sola.
Scuote l’anima mia Eros,
come vento sul monte
che irrompe entro le querce,
e scioglie le membra e le agita,
dolce amara indomabile belva.
Ma a me non ape, non miele;
e soffro e desidero.
O Conchiglia marina (poesia di Alceo tradotta da Salvatore Quasimodo, dalla raccolta Lirici greci, 1940)
O conchiglia marina, figlia
della pietra e del mare biancheggiante,
tu meravigli la mente dei fanciulli.
Salvatore Quasimodo (Modica, 20 agosto 1901 – Napoli, 14 giugno 1968)- è stato un poeta e traduttore italiano, esponente di rilievo dell’ermetismo. Ha contribuito alla traduzione di vari componimenti dell’età classica, soprattutto liriche greche, ma anche di opere teatrali di Molière e William Shakespeare.
Salvatore Quasimodo
* * * * * *
DALLE “METAMORFOSI” DI OVIDIO
PROSERPINA, CYANE
LIBRO V – VV 385-520
Non lontano dalle mura di Enna s’apre il Pergo,
lago d’acque profonde; mai il Caistro,
nelle sue onde fuggenti, ode canti di cigni
più di quello. Una selva corona le sue acque
e ne avvolge le rive, e le fronde come velo
allontanano l’impeto di Febo. I rami danno ombra
e l’umida terra fiori d’ogni specie:
là eterna è primavera. Mentre in quel bosco
giocava Proserpina cogliendo bianchi gigli e viole
con gioia di fanciulla, a gara con le amiche,
colmandone il grembo e i canestri, la vide Plutone
e subito l’amò e la rapì: tanto fu rapido amore.
Proserpina, impaurita, chiamava con voce dolente
la madre e le compagne, ma più la madre;
e poi che lacerata alle spalle pendeva la sua veste,
caddero dalla tunica sciolta tutti i fiori.
V’era tanta innocenza nella sua fresca età,
che per i fiori caduti fu in pena la fanciulla.
E intanto Plutone dal carro incitava i cavalli
chiamandoli per nome ad uno ad uno,
e sul collo e la criniera scuoteva le briglie
d’oscuro colore di ferro. E passò dai profondi
laghi e gli stagni acri di zolfo dei Pàliei
che su ribollono da squarci della terra,
e là dove i Bacchiadi, gente di Corinto,
fra due porti ineguali, alzarono una città.
Fra Ciane ed Aretusa si stende una zona di mare
chiusa da due esili punte di terra:
qui visse Ciane, la ninfa più famosa di Sicilia,
e da lei ebbe nome lo stagno. Ora la ninfa
uscendo improvvisa dall’acque sino ai fianchi,
riconobbe la dea e così disse: «O Plutone,
non andrai lontano; se Cerere non vuole
non potrai avere la fanciulla: dovevi chiedere
Proserpina, non prenderla con forza.
E se piccole cose posso accostare alle grandi,
anch’io, amata da Anapo, divenni la sua sposa
alle vive preghiere, non per timore.»
Disse, e aprendo le braccia cercava di fermarlo.
Ma non tenne più l’ira il figlio di Saturno,
e incitando i tremendi cavalli, col braccio potente
vibrò lo scettro dentro il profondo dell’acque:
e la terra percossa aprì la via del Tartaro,
e riportò nell’abisso l’obliquo carro veloce.
Ora Ciane piangendo la dea rapita e le leggi
della fonte spezzate da Plutone, ha come ferito
il cuore silenzioso, e si consuma in lacrime
e si scioglie in quelle acque di cui fu dea suprema.
Avresti potuto vedere le membra farsi tenere,
le ossa Flessibili, le unghie perdere durezza,
e sciogliersi in acqua le parti più sottili:
le chiome azzurre, i piedi, le dita, le gambe,
perché più rapide mutano le esili membra
in acque gelide. Poi gli òmeri, la schiena,
fianchi e il petto furono piccoli ruscelli,
l’acqua giunse al sangue per le vene guaste,
nulla rimase di lei che si potesse prendere.
Intanto la madre cercava con ansia la figlia
per tutta la terra e nel profondo del mare.
Né l’Aurora dai capelli freschi di rugiada,
non Espero la vide mai in riposo,
andò con due torce di pino accese
nel fuoco dell’Etna, lungo le gelide notti,
quando la dolce luce oscura le stelle.
E sempre cercava la figlia dal sorgere
Al tramonto del sole; e stanca, arsa di sete,
dai aveva bagnato le labbra ad una fonte,
vide una capanna dal tetto di paglia
andò subito a battere alla piccola porta.
Ina vecchia venne ad aprire, e alla dea
che chiedeva da bere, offrì dell’acqua dolce
da lei preparata con il grano cotto.
E mentre beve, un fanciullo senza grazia in volto,
anche audace, si ferma davanti alla dea,
e la deride dicendole: «Avida!» E la dea offesa
riversa sul fanciullo ciò che ancora restava
dell’acqua mescolata al grano. E subito quel volto
si copre di macchie, e le braccia diventano gambe,
e la coda s’aggiunge alle membra mutate,
e il corpo (perché non abbia molto potere nel male)
si contrae in piccola forma: non più lungo
d’una lucertola. E la vecchia, stupita, piangendo
vuole toccare il mostro che fugge e si nasconde:
il mostro ha un nome che s’addice al suo colore,
screziato sul corpo di macchie variopinte.
Lungo sarebbe dire per quante terre e mari
vagò la dea: non c’era più luogo al mondo
dove ancora cercare. E ritornò in Sicilia,
e andò per tutta l’isola e giunse fino a Ciane,
che certo, se ninfa, le avrebbe detto ogni cosa;
ma non aveva più bocca, né lingua per parlare,
né modo per esprimersi; pure le mostrò un segno:
caduta là, galleggiava sull’acqua
della sorgente la cintura di Proserpina,
nota alla madre. E appena Cerere la vide,
come se allora sapesse la sorte della figlia,
cominciò a strapparsi i capelli e a lungo a battersi il petto.
E ancora non sa dove si trovi la figlia,
e dà colpa a tutta la terra (e la chiama nemica
e indegna del dono delle messi), e più alla Sicilia,
dove vide quel segno, ragione del suo pianto.
E là con mano spietata rompe gli aratri che voltano
le zolle, e con ira dà morte ai coloni ed ai giovenchi,
e vuole i campi sterili, e guasta le sementi.
E si perde la fama della terra siciliana,
dovunque esaltata come fertile; e le messi
muoiono appena verdi, ora perché il sole infuria
pioggia, e avversi sono i venti e le stelle.
E gli uccelli divorano i semi appena sparsi,
e il loglio e l’erbe spinose e la tenace gramigna
frmano il grano che cresce. Allora Aretusa
levò il capo fuori dall’acque dell’Elide
e, gettate le chiome stillanti dalla fronte
dietro le orecchie, così disse: «O madre delle messi,
madre della vergine cercata in ogni luogo, riposa
della lunga fatica, non fare violenza alla terra.
La terra è fedele, non ha colpa, senza volere
si aprì quando veniva rapita Proserpina.
Non prego per la mia terra, sono qui straniera,
io nacqui a Pisa. la mia patria è l’Elide.
Abito la Sicilia come ospite; ma questa terra
mi è cara più d’ogni altra; e per me, Aretusa,
questi sono i Penati, questa la casa, e tu,
dea benigna, difendila. Perché venni in Ortigia
dalla mia terra lungo infinite onde del mare,
dirò a suo tempo, quando avrai meno dolore
e più sereno il volto. Vado per un sentiero
aperto sotto terra e per caverne profonde
sollevo qui il capo e vedo stelle ignote.
Ora, mentre scorrevo per i gorghi dello Stige,
vidi Proserpina, triste ed ancora spaurita
nel volto, ma regina del mondo delle ombre,
ma già sposa potente del re dell’Averno.»
E a questo parole, la madre parve di pietra,
e a lungo rimase stupita, come presa dal fulmine.
Ma quando il dolore vinse la sua grave inerzia,
allora si levò col carro su per l’alto cielo.
E là, cupa in volto, coi capelli sparsi, irata,
ferma davanti a Giove, così disse: «O Giove,
per il sangue mio, ti prego, per il tuo sangue.
Se non hai amore per me, chiedo pietà per la figlia:
invoco il tuo aiuto, anche se nacque da me.
Ho ritrovato la figlia che così a lungo cercai,
se ritrovarla vuol dire sapere d’averla perduta;
se sapere dov’è vuol dire averla trovata.»
Salvatore Quasimodo
ARETHUSA, ALPHEUS, LYNCUS
LIBRO V – VV 552-661
Ma perché avete piedi e penne d’uccelli,
o figlie d’Achelo, e volto ancora di vergini?
Forse perché, o Sirene, eravate con Proserpina
quando coglieva fiori della primavera?
Dopo averla invano cercata per tutta la terra,
perché la vostra ansia fosse nota ai mari
vi venne desiderio delle ali
per vagare sui flutti, e per volere divino
le vostre membra si dorarono subito di penne.
E perché il vostro canto, così dolce da udire,
e perché questo dono così grande
non fosse mai privo di parole, rimase a voi
il volto di fanciulla, la voce umana.
Ora, con giustizia, tra la sorella e il fratello,
Giove divise in due parti il volgere dell’anno.
E la dea, nume dei due regni, sta insieme alla madre
un tempo uguale a quello che vive con lo sposo.
Cerere mutò subito in cuore e nell’aspetto,
e la sua fronte, che perfino a Plutone parve triste,
è lieta come il sole che appare dalle nubi aperte.
E Cerere, serena per la figlia ritrovata,
vuole che tu, Aretusa, racconti la tua fuga,
e perché sei una sorgente sacra. Tacque la fonte,
e dalle acque profonde levò il capo Aretusa,
e asciugando con la mano i suoi verdi capelli
narrò gli antichi amori del fiume dell’Elide.
«lo fui – disse – una delle ninfe achee
e più di me nessuna amava andare per i boschi
e fu più avida nel tendere le reti. Non chiedevo
fama alla bellezza. ero forte, ma pure si diceva
ch’ero bella. Non amavo la lode alla bellezza,
anzi mi vergognavo del mio corpo,
di questo dono selvatico, gioia per le altre,
e se piacevo sentivo grave colpa.
Tornavo stanca, ricordo, dalla selva di Stìnfalo,
era d’estate, e grave fatica cresceva la calura.
E vidi un ruscello che scorreva tacito,
senza gorghi, limpido sino al fondo, tanto
che ogni piccola pietra poteva contarsi dall’alto,
tale che avresti detto queh’acqua senza moto.
Bianchi salici e pioppi nutriti dall’acqua
spargevano docili l’ombra sulle rive in declivio:
m’avvicina e mi bagno prima le piante dei piedi,
e poi fino al ginocchio; ma ancora non ero contenta,
e slaccio le vesti leggere e le appendo ad un salice,
e nuda mi tuffo nell’acqua. E mentre taglio le onde
e a me le riporto, scorrendo ora in qua ora in là
e agito le braccia, odo non so qual rumore
salire dal fondo; e impaurita mi fermo alla sponda vicina.
“Dove vai cosi in fretta, o Aretusa?”
grida l’Alfeo di sotto le acque, “dove vai cosí in fretta?”
ripete con rauca voce. E io fuggo nuda, com’ero
(all’altra riva erano le vesti). E più egli m’insegue
e arde d’amore: nuda gli sembro più pronta.
Correvo come colomba che fugge lo sparviero
con ali tremanti; senza pietà m’inseguiva,
come sparviero preme su trepida colomba.
Fino a Orcomeno, a Psòfide, le forze mi sostennero,
fino a Cillene, alle curve del Menalo, al gelido
Erimanto, nell’Elide; ma ero più veloce d’Alfeo.
Ma non potevo resistere a lungo alla corsa,
le mie forze non erano uguali alle sue;
egli non piegava alla fatica. Ma corsi ancora
per campi, per monti di selve, per rocce,
per dirupi dove non c’era un sentiero.
E il sole m’era alle spalle; e vidi un’ombra
lunga davanti a me, se pure non era il timore
a crearla. Ma davvero a quel rumore di passi
tremavo di paura e già quell’alito forte
m’agitava le bende ai capelli. E sfinita gridai:
“Sono perduta, o Diana, soccorri la tua Aretusa
a cui affidasti sovente e l’arco e la faretra
con le frecce.” Ebbe pietà la dea e in una densa nube
mi chiuse. E il fiume, girando per la vana nebbia
che mi copriva, cercò dentro la nube; e due volte,
ignaro, passò dal luogo dove la dea m’avvolse,
e due volte chiamò a gran voce: “Aretusa! Aretusa!”
Che cuore io avevo, o infelice! Non era d’agnello
quando sente i lupi fremere intorno all’ovile,
o di lepre nascosta nella macchia, se scorge
il muso nemico dei cani e non osa un piccolo moto?
Ma là rimase Alfeo perché non vide più oltre
un’orma del mio piede, e fissava la nube.
E gelido sudore intanto copre le mie membra,
e da tutto il mio corpo stiuano cellule gocce,
e dovunque io vada, ecco uno scorrere d’acqua,
e dai capelli scende rugiada; e in breve tempo,
più breve di quello che occorre per narrare,
Alfeo ritorna fiume per unirsi alle mie acque.
E Diana apri la terra, ed io, profonda, per oscure
grotte vengo in Ortigia, che al mio nome divino
fu grata, portandomi alla luce del cielo.»
E qui tacque Aretusa. Aggioga Cerere allora
due serpi al suo carro e col morso ne frena la bocca
e viene levata per l’aria fra il cielo e la terra.
E subito verso Tritonia guida il carro leggero,
e là lo consegna a Trittòlemo; e impone che parte
dei semi già avuti si sparga su vergine terra
e parte in quella arata dopo lungo riposo.
Sopra le terre d’Asia e d’Europa era passato
altissimo il giovane in volo e calava nella Scizia,
dove Linco era re. Trittòlemo entrò nella reggia,
e Linco gli chiese di dove veniva, e perché, a quelle rive,
e il nome e la sua patria. E il giovane rispose-
«La mia patria è Atene, il mio nome è Trittòlemo.
Non giunsi qui su nave, né a piedi sulla terra;
l’aria mi apri la strada. Porto i doni di Cerere,
che, sparsi per i campi, daranno messi feconde
e il dolce nutrimento.» Nasce invidia al barbaro
e pensa di fare egli stesso quel dono cosi grande,
ed accoglie Trittòlemo. E quando l’ospite dorme,
l’assale con la spada e tenta di colpirlo al petto.
Ma lo muta Cerere in linee e ordina a Trittòlemo
di guidare per l’aria i sacri serpenti aggiogati.
Salvatore Quasimodo
CYPARISSUS
LIBRO X – VV. 86-140
Nella di stesa piana priva d’ombra,
sulla cima d’un colle verde d’erba tenera,
giunse Orfeo, e toccò le corde della cetra:
e subito d’intorno nacque l’ombra. E apparve la quercia
e l’albero delle Eliadi, e l’ischio dalle alte fronde,
il tiglio delicato, il faggio, il vergine lauro,
il fragile nocciòlo, il frassino utile per l’aste,
l’abete senza nodi, il leccio curvato dalle ghiande,
il platano felice, l’acero di vari colori,
il salice che vive lungo i fiumi e il loto delle acque,
il bosso sempre verde e l’umile tamerice,
il mìrto di due colori e il viburno dalle bacche cerule.
Veniste anche voi, edere dai prensili piedi flessuosi,
con la vite densa di foglie e l’olmo avvolto di tralci
e gli orni e le picce e gli àlbatri colmi di rossi pomi
e la lenta palma, premio al vincitore,
e il pino con l’aspra chioma raccolta in cima,
caro alla madre degli dèi, anche se Ati
lasciò per Cibele la sua natura d’uomo
e s’indurí in quel tronco. E fra quegli alberi
apparve anche il cipresso, simile alle mete,
albero ora, ma fanciullo un tempo diletto
al dio che piega le corde dell’arco e della cetra.
Viveva un cervo meraviglioso, sacro alle ninfe
delle terre di Cartaia. Ramose e aperte,
fitta ombra spargevano le corna sul suo capo:
e splendevano d’oro. E dal liscio collo,
giù sugli òmeri pendevano collane di gemme.
Dal giorno della nascita, legato con tenui fili,
un piccolo globo d’argento oscillava sulla fronte,
lucevano perle alle orecchie, intorno alle tempie.
Senza timore, vinta la timidezza naturale,
entrava nelle case e abbandonava il collo
alle carezze di mani anche ignote.
Ma più era caro a te, Cyparissus,
il più bello fra gli uomini di Ceo. Tu lo guidavi
ai giovani pascoli e alle acque di chiara sorgente:
tu gli intrecciavi fiori di vari colori tra le corna,
e talvolta, lieto cavaliere, andavi qua e là
sul suo dorso e frenavi la sua bocca mansueta
con briglie purpurce. Ma un meriggio d’estate,
quando la calura ardo le curve braccia del Cancro,
il cervo riposava stanco sull’erba del prato
al fresco d’ombra che stendeva un albero;
e Cyparissus ignaro lo trafisse con un dardo.
E come vide che moriva per il colpo crudele,
invocò subito la morte. Quante parole di conforto
gli rivolse Febo dicendo che non valeva dolore
quella perdita lieve: ma, nel continuo lamento,
egli chiede agli dèi, quale dono supremo,
di lasciarlo sempre nel pianto. E senza fine pianse
tutto il suo sangue, e le membra presero a inverdire,
e i capelli, prima fluenti sulla fronte bianchissima,
divennero ruvide fronde, e già dure
volsero l’esile cima verso il cielo stellato.
Salvatore Quasimodo
GALATEA, ACIS, POLIPHEMUS
LIBRO XIII – VV 737-897
L’inquieta Cariddi infuria sulla riva d’occidente,
Scilla sull’opposta riva. L’una attira e divora
le navi e le ributta, l’altra cinge di cani feroci
il fosco ventre; ed ha l’aspetto di vergine:
a credere agli oracoli, forse fu vergine un tempo.
Molti chiedono invano Scilla come sposa,
e lei cara alle ninfe del mare,
a questo narra gli amori dei giovani delusi.
Un giorno Calatea, porgendole al pettine i capelli,
così parlò a Scilla fra un sospiro e l’altro:
«Almeno tu, o vergine, susciti amore fra la dura razza
degli uomini, e, come fai, senza timore
ti puoi anche negare. Ma io, figlia di Nèreo
e dell’azzurra Doride, con infinite sorelle
che mi stanno a fianco, solo con pianto
ho potuto sfuggire all’amore del Ciclope.»
Qui le lacrime le chiusero la voce.
Allora la vergine le asciugava gli occhi
col suo candido pollice e, consolandola, diceva:
«Parla, o diletta, non nascondermi il dolore
che ti tormenta: tu sai che ti sono fedele.»
E così rispondeva la ninfa alla figlia di Crateide:
«Aci, nato da Fauno e dalla ninfa del Simeto,
era la grande gioia del padre e della madre,
ma più la mia, perché solo con me s’era congiunto.
Bello, di sedici anni, una lieve lanugine
copriva le sue tenere guance. Ed io l’amavo;
ma con ardore cercava me il Ciclope.
Non dirò, se lo chiedi, che l’amore per Aci
fu più dell’odio che portavo all’altro: fu uguale.
Potente il tuo dominio, o Venere benefica!
Anche il Ciclope, terrore delle selve,
che mai ospite lasciò senza una pena,
che non cura gli dèi e il vasto Olimpo,
provò che cosa fosse amore, e, avido di me,
dimenticò il gregge e le spelonche.
E ora ti fai bello, o Polifemo, vuoi piacere,
e col rastrello pettini i ruvidi capelli,
e l’ispida barba ami tagliare con la falce,
e ti specchi nell’acqua per fare lieto il volto.
Non hai più brama di stragi, non sei più selvatico,
quieta è la sete mai sazia di sangue,
le navi arrivano e partono sicure.
Intanto Télemo, giunto sull’Etna dei Siculi
(Télemo Eurúnide, che dal volo degli uccelli
fa giusto presagio), andò dal tremendo Polifemo
e gli disse: “Quell’occhio che hai sulla fronte
ti sarà tolto da Ulisse”. Rise Polifemo,
e rispose: “T’inganni, o stupido indovino;
già un’altra mi tolse l’occhio”. E cosi sdegnava
chi invano prediceva il vero. E camnmnando
o affondava sul lido il passo pesante
o stanco tornava nella cupa spelonca.
Sporge nel mare, in forma di cuneo, un alto
acuto colle che l’acqua bagna ai lati.
E qui sale il feroce Ciclope e si ferma
sulla vetta; e il gregge lanoso lo segue
senza guida. E lasciato il tronco di pino
(era il suo bastone, e poteva essere un’antenna),
e presa la zampogna a cento piccole canne
udirono sui monti e le acque arie pastorali.
Io, nascosta da una rupe, avvinta ad Aci,
queste parole, ricordo, udii da lontano:
“O Galatea, tu sei bianca più della foglia
di neve del ligustro, piú fiorente dei prati, snella
più dell’ontano, splendente più del cristallo, più lasciva
del tenero capretto, più liscia delle conchiglie
levigate dal moto assiduo del mare, più cara
del sole d’inverno e dell’ombra d’estate,
più eccellente dei pomi, più viva agli occhi
dell’alto platano, più nitida del ghiaccio,
più dolce dell’uva matura, morbida più delle piume
del cigno e del latte rappreso, e, se tu non mi fuggi,
magnifica più dell’orto irrigato. Tu, Galatea,
sei più selvatica dei tori non domati, più dura
antica quercia, più volubile delle onde,
flessibile più dei ramoscelli del salice
e della vitalba, più ferma di questi scogli,
più violenta d’un fiume, più superba del pavone,
più impetuosa del fuoco, più pungente delle spine,
più tremenda d’un’orsa che ha i piccoli nati,
piú sorda del mare, più furiosa d’una serpe pestata,
e, questo almeno a te potessi togliere,
tu fuggi non solo più del cervo inseguito
dai secchi latrati, ma più del vento e dell’aria leggera.
Ti pentiresti, conoscendomi, d’avermi fuggito:
che rimpianto allora del tempo perduto, e che ansia
di tenermi! Mia è una parte del monte,
mie numerose spelonche scavate nella pietra viva,
dove non soffri il sole nel mezzo dell’estate,
né l’inverno. Là sono frutti che curvano i rami,
e nei lunghi filari pende l’uva simile all’oro
e quella purpure a: l’una e l’altra io serbo per te.
Tu coglierai con le tue mani le tenere fragole
nate all’ombra delle Belve, e le còrníole autunnali
e le prugne: non solo quelle livide per il succo viola,
ma anche quelle più buone, colore della cera vergine.
Se mi vorrai come sposo avrai sempre castagne
e mele selvatiche, e ogni albero per te darà il suo frutto.
Tutte le pecore che vedi sono mie: e molte vagano per le valli,
molte per il bosco, molte sono chiuse negli antri;
né, se lo chiedi, saprei il loro numero.
i poveri contano le pecore. Se ne dicessi le lodi,
non mi crederesti: tu stessa potrai vedere
come camminano a stento con le poppe gonfie
tra le gambe. Negli ovili stanno i teneri figli
degli agnelli, al riparo dal freddo, e i capretti
d’uguale età. Ho sempre latte fresco: parte
lo tengo per bere, parte lo faccio indurire
con caglio disciolto. Non avrai solo facili svaghi
e doni comuni, come daini, lepri, capre, o due colombe
o un nido d’uccelli tolto dalla cima d’un albero.
lo trovato sui monti due gemelli d’un’orsa
ho possono giocare con te, e tanto gli orsacchiotti
sono simili tra loro che appena potresti distinguerli;
quando li trovai, io dissi: “Li terrò per la mia donna.
Solleva, dunque, il capo splendente dall’onde celesti,
vieni, o Galatea, e accogli i miei doni.
Certo mi conosco, e poco fa io vidi la mia immagine
nell’acqua limpida, e mi piacque il mio aspetto.
guarda come son grande. Nemmeno Giove, nel cielo
(voi dite sempre che là regni non so quale Giove)
ha un corpo maggiore del mio; una densa chioma
scende sulla mia fronte scura, e fa ombra alle spalle
come un bosco. Ma non devi credere orrido il mio corpo
perché ispido di peli. brutto è l’albero privo di fronde,
brutto il cavallo senza il velo d’una bionda criniera
sul collo; gli uccelli sono coperti di piume,
la lana adorna le pecore, la barba e i peli ruvidi
fanno bello il corpo dell’uomo. lo ho un solo occhio
in mezzo alla fronte, ma simile a un ampio scudo.
Che dico? Non vede il sole dal cielo immenso
tutte le cose della terra? Ed anche il sole
ha un solo occhio. Mio padre, poi, è il re del mare:
e sarà padre del tuo sposo. Solo abbi pietà di me
e accogli le preghiere di chi ti supplica:
a te sola io cedo. lo che disprezzo Giove, il cielo
e il fulmine che tutto penetra, a te, figlia di Nèreo,
mi piego: la tua ira è più acuta del fulmine.
Sopporterei il disprezzo se tu fuggissi tutti;
ma perché mi rifiuti e porti amore ad Aci,
e preferisci Aci a Polifemo? Piace a se stesso, e sia;
ma che piaccia a te pure, questo non vorrei,
Galatea. Ma se lo prendo, sentirà quale forza
è chiusa nel mio corpo. Vive gli strapperò le viscere,
e le membra a brani spargerò per i campi
e per il tuo mare (così Aci si unisca a te).
Ardo, ma più ribolle il sangue per l’offesa,
e mi pare d’avere l’Etna nel petto
con le sue forze; e tu, Galatea, non ti commuovi?”
E dopo questo vano lamento (io vedevo ogni cosa)
il Ciclope vi alza, e come toro furioso
che perduta la giovenea non può stare fermo
e va per le selve e i monti che conosce,
quando mi scorse con Aci, gridò: “Vi vedo,
ma questo è l’ultimo abbraccio d’amore.”
Ed era la sua voce quella d’un Ciclope
preso dall’ira; e l’Etna tremò a quell’urlo.
Allora, spaurita, m’immersi nel mare vicino,
e in fuga volse le spalle il giovane Aci, gridando:
aiuto, Galatea, ti prego, aiuto, o padre, o madre,
nel vostro regno accogliete il figlio prossimo alla morte.”
E il Ciclope l’insegue, e staccato un pezzo di monte
lo lancia sul fuggiasco. Solo un estremo
della rupe lo colse, ma fu per lui la morte.
e perché Aci riprendesse la forza dell’avo,
feci quello che potevo ottenere dal fato.
Dalla rupe scorreva sangue vivo, ma, ecco, quel rosso
comincia a svanire, come colore di fiume
che torbido di pioggia schiarisce a poco a poco.
Poi la pietra si spacca, e dalle crepe escono tenere
canne, e il cavo più profondo risuona d’acque in moto.
E d’improvviso esce di là, fino alla cintola
(o mirabile cosa), un giovane con le corna
che spuntano appena cinte di molli canne.
E somigliava ad Aci, ma più alto e col viso ceruleo.
Ma anche cosi, mutato in fiume, Aci rimase com’era,
e ora il fiume ha il nome ch’era una volta di Aci. »
Salvatore Quasimodo
…Un saggio critico:
Unità e valore della poesia di Salvatore Quasimodo di Antonio Magliulo
Affermare che Salvatore Quasimodo (1901 – 1968) è da considerarsi fra i “sommi” della poesia contemporanea potrebbe sembrare superfluo, tenuto conto dei prestigiosi riconoscimenti da lui ottenuti nel corso della sua carriera e dell’importanza che l’artista occupa tuttora nel panorama letterario europeo. Eppure, talvolta, nel confronto sempre aperto fra i protagonisti italiani del Novecento, egli sembra leggermente offuscato da nomi di eminenti colleghi, come, ad esempio, Montale e Ungaretti. Ciò, in verità, capita per diversi motivi, così riassumibili:
-la tendenza a considerare il poeta modicano come un allievo, un epigone dell’Ermetismo.
È opinione di molti, infatti, che l’accostamento di Quasimodo ad Ungaretti e Montale sarebbe arbitrario, frutto cioè di un’esemplificazione, di uno schematismo scolastico, sia per il divario anagrafico esistente tra loro, sia per la tardiva adesione dell’artista siciliano alla nuova poesia.
-l’accentuarsi della divaricazione fra letterati e pubblico, prodottasi a partire dagli anni Trenta/Quaranta.
È pur vero che, col palesarsi della poesia ermetica, il linguaggio si impreziosisce, assume significati indecifrabili, allontanandosi ulteriormente dalla massa e isolando ancor più gli autori in un mondo sui generis, aristocratico ed elitario. In effetti, Quasimodo si trova ad operare nella fase più acuta di tale divaricazione e ne diviene, incolpevolmente, uno dei maggiori “imputati”.
-l’abitudine a tenere ancora separate e indipendenti le produzioni quasimodiane, quella anteriore e posteriore alla guerra.
Secondo alcuni (e questo è l’equivoco maggiore da chiarire) la produzione giovanile di Quasimodo mostrerebbe i “limiti” di un evidente ancoraggio alla poetica decadentista e ai suoi stilemi estetizzanti, mentre soltanto l’altra, quella più recente, per la sua forma esplicita e un aperto impegno civile, meriterebbe il riconoscimento che ha.
Effettivamente, in Acque e terre la prima raccolta di Quasimodo, che risale al 1930, non è difficile cogliere delle assonanze con la lirica pascoliana e dannunziana. I versi, sorretti da un’evidente impronta classica e da un “apparato” implicito e sottilmente allusivo (proprio della tendenza poetica del tempo) rappresentano una felice sintesi tra forme vecchie e nuove. Essi rivelano, per altro, la disposizione del poeta a trasfigurare persone, avvenimenti e luoghi lontani, sicché ogni cosa sembra sospesa in una singolare dimensione della memoria, che può essere facilmente confusa con la nostalgia personale. Ma questo modo di comporre, più che da vagheggiamenti meramente intimistici, deriva dalla constatazione del passare del tempo (e della “corrosione” che ciò produce negli uomini) e diviene perciò un dato obiettivo, realistico, che travalica i confini dell’esperienza privata.
Pure la successiva adesione di Quasimodo all’ermetismo [Oboe sommerso (1932) ed Erato e Apollion (1936)] è stata oggetto talvolta di rilievo critico. In ciò si è voluto ravvisare una sorta di operazione mimetica, un adeguamento linguistico esteriore, privo di una partecipazione autentica e convinta, funzionale soltanto alle suggestioni dell’epoca, che com’è noto era dominata dall’esigenza di una poesia essenziale, depurata dalle scorie del manierismo e della retorica nazionalistica. Secondo questa interpretazione, la produzione ermetica di Quasimodo parrebbe ridursi o a puro esercizio accademico o a desiderio di superare i grandi maestri, quali erano appunto Montale ed Ungaretti. A guardar bene, si tratta invece di un periodo di studio, di transizione, in cui l’artista ricerca una nuova fisionomia per la sua poesia, secondando così un naturale processo creativo, per cui un autore può volgersi al nuovo, soltanto dopo aver elaborato l’antico.
Il travaglio creativo è però definitivamente superato, non tanto nelle Nuove poesie (1936- 42) che segnano un felice ritorno ad una lirica accorata e sincera, quanto nelle opere Giorno dopo giorno (1947) e La vita non è sogno (1949) che vengono editate nel dopoguerra ed in cui appaiono, inequivocabili, le tracce di un mutamento formale e contenutistico: la cruda realtà del conflitto ha segnato profondamente il poeta e nei suoi versi trovano ora posto le sofferenze e le speranze dei popoli. A questo periodo appartengono componimenti di esemplare nitore stilistico e di elevato contenuto sociale, come Alle fronde dei salici e Uomo del mio tempo. Da tale “svolta” nasce il cantore della solidarietà umana e dell’impegno civile. Dalla sua manifesta adesione alla vita concreta e dall’aperto schierarsi contro i mali del mondo, Quasimodo trae il suo maggior consenso.
Ma sarebbe un errore limitare il suo valore artistico alla produzione più matura, relativizzando quella precedente e ponendo entrambe in un inconciliabile dicotomia. Ad esaminare attentamente i temi svolti nelle prime raccolte, viene fuori un poeta sensibile, “a tutto tondo”, che si strugge per la propria terra natia, non tanto perché essa è fisicamente lontana, ma perché viene avvertita come Eden o paradiso perduto. Nelle Nuove Poesie, grazie anche ad una forma più distesa ed intelligibile, si capisce perfettamente che l’autore non allude ad un luogo suo esclusivo, ma ad una dimensione comune, a un “approdo” per tutti coloro che, oppressi da una realtà dura ed ostile, ambiscono a ritrovare l’equilibrio interiore e la quiete dell’anima. Ne deriva che la Sicilia cantata dal poeta non è quella reale, ma quella mitica, tutt’uno con la sfolgorante luce dell’antica isola greca, dove le visioni erano certamente più rassicuranti di quelle del presente.
L’autore considera l’uomo un essere imperfetto, un angelo caduto, e perciò vede la generosa sua terra del passato non tanto come entità geografica, ma come un rifugio dal male, dalla violenza, dall’ingiustizia e dalla stessa solitudine. Per quanto la forma linguistica, oscillante fra classicismo e modernità, possa indurre ad equivoci, nelle Nuove poesie, Quasimodo precorre temi che svilupperà più compiutamente in seguito, nella raccolta: Giorno dopo giorno. Ecco, perché, anche in questa fase del suo itinerario compositivo, egli va considerato pensoso ed impegnato testimone della realtà.
Nemmeno dovrebbe lasciar dubbi sulla portata del suo contributo artistico la parentesi ermetica, che alcuni si affannano a definire “epidermica” e che lui stesso, a un certo punto, sembrò ripudiare. C’è, invece, in quei versi l’impronta dell’universalità, la stimmata dell’autentica arte, un’arte pura e genuina, qual era appunto il fine della nuova poesia. Basti l’esempio della celeberrima: Ed è subito sera (“Ognuno sta solo sul cuor della terra/ trafitto da un raggio di sole/ ed e’ subito sera“) breve quanto un epigramma greco, ma efficace come soltanto la grande poesia sa essere.
Non è una malinconia fine a se stessa, ovvero quella del poeta tardo-decadente o crepuscolare, né è l’intimo sfogo di un uomo inerte, che gioca ad autocommiserarsi. È invece un disperato richiamo alla solidarietà, alla comunione fra gli uomini (mai così necessaria) e compendia perciò, in un’originale e straordinaria sintesi lirica, le istanze più sentite di un intero secolo e le voci soavi di mille cantori.
«Per una benvenuta dismisura». Estasi, voce e follia nella poesia di Claudia Ruggeri
di Germana Dragonieri
Hölderlin: “siamo un segno senza significato”: / ma dove le due serie entrano in contatto? / Ma è vero? E che sarà di noi? / E tu perché, perché tu? / E perché e che fanno i grandi oggetti / e tutte le cose-cause / e il radiante e il radioso?
Andrea Zanzotto, La beltà
Life’s […] a tale / told by an idiot, full of sound and fury / signifying nothing
William Shakespeare, Machbeth
Pallaksch. Pallaksch
Paul Celan, Tubinga, gennaio
Una comune radice indoeuropea (*bhl) tiene insieme le parole flatus (“fiato”, “soffio”, “respiro”, poi “suono”) e follis intorno all’idea di un fluire sonoro, ritmico, vocale (flumen, fluere, fluxus, flectere, flexio) ingovernabile: «il follis», ci informa Corrado Bologna, è infatti «il “mantice”, il sacco vuoto e quindi ripieno di aria sonora; da cui, per estensione metaforica, il “folle”, dal “movimento incontrollato”, l’uomo sacco, “ripieno di vuoto”» (Flatus vocis. Metafisica e antropologia della voce, Il Mulino, Bologna, 2000, p. XXII). Il folle è quindi l’uomo-vuoto che però risuona, che emette il flatum, la phoné, la voce: vale a dire il significante puro e libero che precede qualsiasi opposizione di distinti, qualsiasi significato. Il poeta è, in questo senso, un follis: qualcuno che non parla ma è parlato dalla propria voce; qualcuno la cui parola – lungi dal pretendere di affermare o distinguere, di «separare il no dal sì», per citare Celan (in Parla anche tu) – piuttosto siflette, oscillando indifferentemente tra il sì e il no, seguendo il flusso vitalissimo del significante: Pallaksch. Pallaksch[1].
Claudia Ruggeri
Non è dunque un caso che una poeta della voce qual è stata Claudia Ruggeri (Napoli 1967 – Lecce 1996) apra la propria plaquette-poemetto inferno minore (1988-1990) con un ciclo di componimenti intitolato Il Matto (prosette). Tratto distintivo della sua scrittura – insieme a quell’ipercitazionismo che aveva suscitato nel dedicatario Fortini l’impressione, alquanto miope, di una poesia «ingioiellata», eccessiva e immatura – è proprio il predominio da lei accordato al suono-significante sul senso-significato, del quale restituiscono una traccia sensibile anche le registrazioni delle sue memorabili letture in pubblico. «Il mio fine», scrive la poeta in una prosa significativamente intitolata Elogio della follia, «non è quello di partecipare al lettore la genesi passionale dei miei versi, quanto l’indurlo ad ascoltare un istante di sé. […] Non è da cercare di comprendere il senso che io ho descritto con la parola, quanto il risalire ad un senso personale ed appassionato graziato dal solo ritmo».
Il senso graziato, salvato dal ritmo: così l’autrice delega alla tessitura fonico-linguistica dei propri componimenti – straripanti di figure di suono quali assonanze, allitterazioni, poliptoti, rime al mezzo, anadiplosi, omeoteleuti e spesso composti proprio in vista di un’esecuzione orale – il compito di creare una consequenzialità non più rinvenibile, perché programmaticamente occultata e stravolta, sul piano della punteggiatura, della sintassi e delle funzioni del discorso. Ne risulta una sorta di «scrittura ad alta voce» (Roland Barthes, Il piacere del testo, Einaudi, Torino, 1974, p. 65): un dettato poetico privo di nessi logici, imperscrutabile e oscuro sul piano del significato, che chiede di essere ascoltato prima che decifrato, e che domanda al pubblico quell’atto di «compartecipazione» e «co-autorialità» che sempre si produce all’interno di una comunità d’ascolto, di fronte a una performance (Paul Zumthor, La presenza della voce. Introduzione alla poesia orale, Il Mulino, Bologna, 1984, p. 290).
«ormai la carta si fa tutta parlare, / ora che è senza meta e pare un caso…», recita l’incipit di il Matto II. «Parlare», «senza meta», «caso»: tre parole-chiave nella poetica ruggeriana, tutte contenute in quella radice *bhl, nello spazio semantico che intercorre tra il flatus e il follis. La poesia è infatti per l’autrice soprattutto un «suono mago» (in [ma la fiamma della forma ha incendiato]), un flatus follis: magico e mai padroneggiabile dettato, attività involontaria, impersonale e «senza meta» come la vita poetica del pazzo che, scrive Agamben a proposito di Hölderlin, è tale in quanto «vive secondo un dettato, in un modo che non è possibile decidere né padroneggiare» (La follia di Hölderlin, Quodlibet, Macerata, p. 223). «Soffriva di una mancanza di consequenzialità nel pensiero…», riferisce Thedor Vischer a proposito di un incontro col poeta tedesco (ivi, p. 130).
Sull’onda di una simile mancanza di consequenzialità e seguendo più il principio di casualità che quello di causalità, anche la poesia di Ruggeri non dice, bensì vive secondo un dettato: in essa la φωνή (“parola che non afferma e non nega, ma accenna”), la voce, il ritmo e il caos prevalgono sul λόγος (“parola che afferma” o “che nega”) il discorso, la sintassi, l’ordine. Come per Celan «Un fragore: è / la Verità in persona / entrata / fra gli uomini, / nel mezzo del / turbine delle metafore» (in Svolta del respiro), così anche per la poeta salentina il fragore e il suono prevalgono sulla metafora e sul senso quali portatori di una verità in persona, corporea e insindacabile, che non afferma ma piuttosto accenna, balbetta, canta.
Di questo predominio della voce sul senso è emblematico il gusto, mutuato in parte dalla poetica di André Breton e dei surrealisti spagnoli tradotti dal conterraneo Vittorio Bodini, per l’ecolalìa e per il suo corrispettivo retorico, l’anadiplosi: ovvero per la ripetizione di una o più parole della frase e/o del verso, tesa a simulare il «richiamo disanimale» del Matto, il linguaggio follis dei malati mentali: «non son non son castelli ma qui ma qui ti specchia»; «e il biancore il biancore che spossa» (in il Matto IV). Come il mantra della mistica buddhista o la “preghiera del cuore” del misticismo ortodosso – che prevedono la ripetizione incessante di una stessa formula secondo il ritmo del respiro, allo scopo di meglio «discendere dentro il proprio cuore» (Racconti di un pellegrino russo, Rusconi, Milano, 1973, p. 16) –, anche le poesie-preghiere-lalìe ruggeriane agiscono più sul piano del corpo e del respiro che su quello della comunicazione funzionale, mostrando peraltro lo stretto legame tra oralità e orazione: «nel mio cervello elettrico / solo un circuito ancora regge il carico / quello della preghiera» (in Al padrone).
Pure l’eccesso di significati di cui la fitta rete intertestuale di riferimenti e citazioni carica la sua poesia, lungi dall’essere solamente il sintomo di un patologico horror vacui, risponde invece alla necessità profonda di neutralizzare i significati stessi, per farne nenia pre-/in-significante, melodia a servizio di un estatico “sapere senza conoscenza”. Come avviene nell’arte barocca – della quale l’autrice aveva peraltro un esempio vivo nella sua città (Lecce) e un eccellente interprete e studioso in Bodini –, anche nella sua poesia l’eccesso e l’iper-saturazione della pagina mirano a lanciare chi la scrive verso lo smisurato, l’infinito; se si vuole, verso un Dio che non è che «la parola che, in ogni civiltà, ha avuto la funzione di indicare esattamente questa dismisura» del sentire e del sapere umani (Jean-Luc Nancy, Federico Ferrari, Estasi, Luca Sossella Editore, Bologna, 2022, p. 14).
Proprio come le guglie barocche, i versi di Claudia sono una cosa stretta e altissima che trascina estaticamente verso l’alto: «e le sbronze testuali dove il verso inscenò / cose strette e altissime» (in [Napoli l’ebbi strana ed il porto]); «T’avrei lavato i piedi / oppure mi sarei fatta altissima / come i soffitti scavalcati di cieli» (in Lamento della sposa barocca). Verso l’alto – o verso il basso, indifferentemente: l’opera ruggeriana – rimasta inedita durante la vita dell’autrice e pubblicata integralmente solo nel 2020 con la curatela di Annalucia Cudazzo (Musicaos, Lecce) – racconta infatti da un lato di una catàbasi nel caos del proprio inferno minore (la depressione, la debilitazione fisica e mentale), dall’altro del tentativo di un’ascesa spirituale, che si intensifica a partire dalla seconda e ultima raccolta, )e pagine del travaso. qui per riudire la pazzesca evenienza del dattilo, la cui stesura coincide non a caso con gli ultimi e durissimi anni della sua vita (1990-1996). Un doppio e simultaneo movimento, insomma, verso quella che lei stessa chiama «una benvenuta dismisura» (in lettera al Matto sul senso dei nostri incontri).
Per capire (sentire) questa poesia vertiginosa e barocca, bisogna allora fare proprio l’insegnamento di Wittgenstein e «gettar via la scala dopo averla usata»: rinunciare al senso logico di ciascuna frase, dopo essere ascesi o discesi «per essa – su di essa – oltre essa» (Tractatus logico-philosophicus, 6.54). Il trobar clus, dotto e pluristilistico di Ruggeri – il cui registro poetico spazia agilmente dall’aulico al volgare, dal colloquiale all’arcaico, dalle lingue straniere al dialetto locale – è teso infatti non tanto a centrare un significato, quanto a moltiplicarlo fino a rimuoverlo, al fine di conservare l’equivocità del senso propria della lingua poetica: «mi tengo in limine. mi conservo l’equivoco / degli stili incrociati», si legge in [che cos’è che sale dal deserto come una colonna di fumo]. Tenendosi in limine, ovvero non introducendo nella in-flessione della voce la pietra dura del significato, la poesia sprigiona infatti quell’«eccesso semiotico» che rende possibile «l’interminabilità del processo di attribuzione di senso» che la caratterizza come genere (Franco Bifo Berardi, Respirare. Caos e poesia, Luca Sossella Editore, Bologna, 2019 p. 21).
Era proprio alla Dismisura, al Vuoto, a Dio o un dio che Ruggeri parlava – e a quella figura-tarocco del Matto che è di tutto questo una sorta di simbolo totemico: «ò spensierato ò grande», si legge ancora in il Matto II. La sua scrittura è una lode allo spensierato, ovvero al senza-pensiero, all’insensato, al folle, il cui linguaggio non può che prendere forma di preghiera, canto o poesia: di una lingua, insomma, balbettante, innocua, anti-economica e smisurata. È infatti, a mio avviso, anche e soprattutto della lingua, della voce e della poesia il «folle volo» cui la poeta si riferisce – citando Dante – in uno dei suoi ultimi componimenti, e che presagisce il (non più metaforico) salto nel vuoto con cui si ucciderà, gettandosi dal balcone della casa dove viveva con la madre, a Lecce, il 27 ottobre 1996, a soli 29 anni: «e volli / il ‘folle volo’ cieca sicura tuta / volli la fine dell’era delle streghe volli // il chiarore di chi ha gettato gli arnesi / di memoria di chi sfilò il suo manto / poggiò per sempre il libro» (in [ma la fiamma della forma ha incendiato]).
Sono versi testamentari, ultimi, che depongono per sempre la volontà di dire e quindi di essere: «mi tolgo / dal dettaglio di questi ultimi versi» (in …[(i tuoi occhi come colombe su ruscelli d’acqua]). L’omonimìa tra il corpo e il testo, tipico delle scritture performative e orali come la sua, si spinge nel caso di Claudia fino all’estremo più tragico: «E, vedi, il nostro corpo / il nostro corpo soltanto può dire: bianco, tellina, lontano / vento», recitano i versi altrettanto ultimi, scritti cioè a ridosso della morte, di un altro poeta che ci ha lasciati troppo presto, e altrettanto colpevolmente dimenticato dalla critica ufficiale (Antonio Santori, La linea alba, Marsilio, Venezia, 2007 p. 98). Finita l’era delle streghe, finito cioè l’incanto estatico dello scrivere-dire poetico, anche quel corpo che soltanto può dire si appresta a finire e si spegne, tirato giù – nel caso di Claudia – dal peso intollerabile delle malattie, della morte del padre e di alcuni amici (tra cui il poeta Dario Bellezza, portato via dall’AIDS nello stesso anno); soprattutto, dal peso dell’incomprensione e dell’isolamento intellettuali e umani che l’avevano spinta a definirsi una rosa-fungo che «non si addice ai prati».
Tirata giù, infine, da «un’immensa nostalgia» di altrove: come scrive in uno dei suoi ultimi appunti, l’autrice a ridosso della morte sa ormai di essere finita «in basso tra quelli che non sono più leggeri, ed hanno completamente abolito nei loro sogni la funzione del volo: quando si trovano nel vuoto non ricordano più che si vola e sono portati giù dalla loro immensa nostalgia» (in Claudia Ruggeri, Poesie, a cura di Annalucia Cudazzo, Musicaos, Lecce, 2020, p. XXXIII).
“…
“mi tengo in limine, mi conservo l’equivoco
degli stili incrociati ché nel pieno rumore
dell’infrenabile selva, altro splendore, sai,
altre memorie, altro si lega si strega si ride;
prima della parola ò autore prima
della parola che ti erra e che ti erra
e che ti sbenda, prima che smazzata che ti mette
nella legge e tutto inizia
a muoversi non esprimendo non misurando delimitando a rito;
quale sicura sicura andatura,
quale percorso per entro inchiostri spinti
contraffarà l’ingorgo and so stay there my art
e questo libro senza controllo e questa ottava
inappagata questa mandragora murata, e nondimeno tu
dormi incastrata, qui, nella terra nulla dove la rosa
è un fungo e non si addice ai prati
[che cos’è che sale dal deserto come una colonna di fumo], vv. 20-35, da ) e pagine del travaso, in Claudia Ruggeri, Poesie, a cura di Annalucia Cudazzo, Musicaos, Lecce, 2020, p. 47.
[1]Pallaksch è una parola senza senso cui, stando alla testimonianza del suo primo biografo ed editore, Cristoph Theodor Schwab, Hölderlin attribuiva talora il significato di “sì”, talaltra di “no”.
Breve biografia di Rudyard Kipling nasce a Bombay nel 1865. La sua vita si svolge tra l’India, l’America e l’Inghilterra. E’ il poeta dell’imperialismo britannico dell’età vittoriana. Nei suoi versi di sapore whitmaniano emerge la sua azione politica e sociale ma anche l’immaginario della mitologia e del folklore inglese. La morte del figlio e lo scoppio della prima guerra mondiale segneranno la sua vita e la scrittura avrà una serie di tensioni inconsce che cambieranno il suo stile fantastico. Ricordiamo i suoi racconti indiani Soldiers Three (1888); In black and White; The Day’s Work e Many Inventions. Nel 1892 pubblica The Light That Failed e nel 1894 The Jungle Book. Come poeta pubblica nel 1896 The Seven Seas e nel 1903 Five Nations. Vince il Premio Nobel nel 1907. Tra le opere famose di Kiplin ricordiamo anche i romanzi definiti “per ragazzi”: Captains Courageus e Stalki and Co. Muore nel 1936 a Londra.
GETSEMANI
1914/18
L’Orto chiamato Getsemani era, sì, in Piccardia, e lì veniva la gente a vedere i soldati inglesi passare. Di là passavamo – di là passavamo e sostavamo, secondo il caso, e portavamo con noi le maschere antigas, un po’ oltre il Getsemani.
L’Orto chiamato Getsemani conteneva in sé una bella ragazza, ma per tutto il tempo che mi parlava io pregavo che il calice da me fosse allontanato. L’ufficiale sedeva sulla sua sedia, gli uomini erano distesi sull’erba, e per tutto il tempo che là sostammo io pregai che il calice da me fosse allontanato.
Ma non lo fu – non lo fu – non fu da me allontanato. Lo bevvi quando incontrammo il gas, un po’ oltre il Getsemani!
RECESSIONAL
Dio dei nostri padri, conosciuto in antico, Signore delle nostre lunghe linee di battaglia, sotto la cui terribile mano reggiamo un dominio su palmeti e pinete – Dio, Signore degli eserciti, resta con noi, perché non dimentichiamo – non dimentichiamo!
Tumulti e grida muoiono, capitani e sovrani trapassano, ma il tuo antichissimo sacrificio resta, un cuore umile e contrito, Dio, Signore degli eserciti, resta con noi, perché non dimentichiamo – non dimentichiamo!
In lontani mari dileguarono le nostre flotte, su dune e promontori si spengono i fuochi: ecco, tutta la nostra pompa di ieri si fa tutt’uno con Ninive e con Tiro! Giudice delle nazioni, risparmiaci, perché non dimentichiamo – non dimentichiamo!
Se resi ebbri dalla potenza liberiamo lingue che non ti venerano, vantandocene come usano i Gentili, o stirpi minori che non conoscono la Legge, Dio, Signore degli eserciti, ugualmente resta con noi, perché non dimentichiamo – non dimentichiamo!
Per i cuori pagani che solo si fidano di canne fumanti e schegge di ferro, valorosa polvere che edifica sulla polvere, e che vigilando non t’invocano a vigilare, per le loro concitate vanterie e le stolte parole – pietà della tua gente, Signore!
L’APPELLO
Se qualche diletto vi ho pur dato per qualcosa che io abbia operato, possa ora giacere sereno in quella notte che sarà anche vostra quando che sia:
e per quel poco, poco spazio che i morti rioccupano nelle menti, vorrei che altro non cercaste che i libri che mi lasciai dietro.
Rudyard Kipling (traduzione di Tommaso Pisanti)
Rudyard Kipling
Breve biografia di Rudyard Kipling nasce a Bombay nel 1865. La sua vita si svolge tra l’India, l’America e l’Inghilterra. E’ il poeta dell’imperialismo britannico dell’età vittoriana. Nei suoi versi di sapore whitmaniano emerge la sua azione politica e sociale ma anche l’immaginario della mitologia e del folklore inglese. La morte del figlio e lo scoppio della prima guerra mondiale segneranno la sua vita e la scrittura avrà una serie di tensioni inconsce che cambieranno il suo stile fantastico. Ricordiamo i suoi racconti indiani Soldiers Three (1888); In black and White; The Day’s Work e Many Inventions. Nel 1892 pubblica The Light That Failed e nel 1894 The Jungle Book. Come poeta pubblica nel 1896 The Seven Seas e nel 1903 Five Nations. Vince il Premio Nobel nel 1907. Tra le opere famose di Kiplin ricordiamo anche i romanzi definiti “per ragazzi”: Captains Courageus e Stalki and Co. Muore nel 1936 a Londra.
GETHSEMANE
1914/18
The Garden called Gethsemane
In Picardy it was,
And there the people came to see
The English soldiers pass.
We used to pass – we used to pass
Or halt, as it might be,
And ship our masks in case of gas
Beyond Gethsemane.
The Garden called Gethsemane,
It held a pretty lass,
But all the time she talked to me
I prayed my cup might pass.
The officer sat on the chair,
The men lay on the grass,
And all the time we halted there
I prayed my cup might pass.
It didn’t pass – it didn’t pass –
It didn’t pass from me.
I drank it when we met the gas
Beyond Gethsemane!
RECESSIONAL
God of our fathers, known of old,
Lord of our far-flung battle line,
Beneath whose awful hand we hold
Dominion over palm and pine –
Lord God of Hosts, be with us yet,
Lest we forget—lest we forget!
The tumult and the shouting dies:
The Captains and the Kings depart:
Still stands Thine ancient sacrifice,
An humble and a contrite heart.
Lord God of Hosts, be with us yet,
Lest we forget—lest we forget!
Far-called our navies melt away;
On dune and headland sinks the fire:
Lo, all our pomp of yesterday
Is one with Nineveh and Tyre!
Judge of the Nations, spare us yet,
Lest we forget—lest we forget!
If, drunk with sight of power, we loose
Wild tongues that have not Thee in awe,
Such boastings as the Gentiles use,
Or lesser breeds without the Law –
Lord God of Hosts, be with us yet,
Lest we forget—lest we forget!
For heathen heart that puts her trust
In reeking tube and iron shard,
All valiant dust that builds on dust,
And guarding calls not Thee to guard,
For frantic boast and foolish word,
Thy Mercy on Thy People, Lord!
THE APPEAL
If I have given you delight
By aught that I have done,
Let me lie quiet in that night
Which shall be yours anon:
And for the little, little, span
The dead are born in mind,
Seek not to question other than
The books I leave behind.
Traduzione dal Nederlandese di Patrizia Filia-Rivista Atelier-
Breve biografia di INEKE HOLZHAUS è nata nei Paesi Bassi nel 1951. È poetessa, novellista, drammaturga, regista teatrale e insegnante di scrittura creativa. Per la radio olandese ha realizzato programmi letterari e d’arte. Durante i festival Poetry International a Rotterdam e Maastricht Poetry Nights ha presentato poesie tradotte in nederlandese di poeti invitati. Nel 2008 esce la sua raccolta Hond in Pompeï, nel 2011 Waar je was; seguono nel 2014 Bovengronds e nel 2016 Blijven en Weggaan. Nel 2015 le venne assegnato il premio HofvijverPoëzie.
Traduzione dal Nederlandese di PATRIZIA FILIA (1953) vive e lavora nei Paesi Bassi dal 1982. È regista teatrale, drammaturga, scrittrice e traduttrice. Pubblica in Olanda nel 2016 il ricordo In de Mokumse jaren; nel 2018 il ciclo poetico Astarte, le traduzioni Il solitario con poesie di Jan Jacob Slauerhoff e Blues con poesie di Kees Klok; nel 2019 la raccolta di testi teatrali Theaterteksten e il ciclo poetico Diarium belli. Nello stesso anno esce in Italia, da Edizioni Ensemble, la traduzione L’eterna imbarcazione con 121 poesie di Jan Jacob Slauerhoff.
IN BICICLETTA
L’asfalto scintilla sibilando di pioggia
– se guardi bene vedi, guarda –, la sua
voce persa incontaminatamente vicina
tuo padre parla al tuo berretto sul seggiolino
davanti e grida forte più tardi dietro
nomi di vie di pittori ed eroi, s’arrotola
con una mano una sigaretta, l’accende
ha una risposta ancora prima di chiedere, pesca
libri nella sua libreria, li apre ai tuoi occhi
– vedi come la luce squarcia le nuvole
pigmentate, le mani di Hals, la pura
Madonna fiamminga con pargolo. Leggi, guarda
viaggia, ogni secondo conta anche se dormi –
e non sai se la sua mano è ancora posata sulla
tua schiena, il suo fiato sul collo o se tu già vai
ti spinge, corre accanto alla tua bicicletta
– sì vai pure
libera
GIARDINO CHIUSO
*
Lui in piedi sotto gli uccelli, nomina le loro code
e le tonalità canterine, il suo pensiero fluisce
il cespuglio in quelle more nere estati porta
in autunno ricamata scorza fiorita, ali
gli si avvolgono attorno, becchi chiacchierano
avidi nella sua voliera senza rete.
Quanto vuoto è lui nutrendoli di semi delicati
un cranio bianco su cui picchi muratori
ticchettano spietati fresche parole.
*
Fuori dall’aia corni da caccia, clacson
grida, due caprioli riescono a scampare
vivi, i loro biondi didietro trionfano
sui canini di cani nervosi.
Nella casa il suo schermo spande gli ultimi
messaggi – cinture esplosive forse nascoste
sotto festosi fuochi d’artificio, anche ciclofurgoni
per il trasporto di bimbi corrono pericolo, vittime
sono riposte – l’immagine s’inceppa, si smorza
gli uccelli tacciono, si riparano, giungono gufi
ed anche la notte inghiotte il giardino.
METEO
Non tagliammo più la paglia
lasciammo che il giorno ci scivolasse dalle mani
solo un fresco succo ci tenne svegli, uve
contro il muro succhiarono quanto restava
dell’umidità di un suolo pietroso –
verificammo la meteo, c’imbattemmo in profughi
su barche, imparammo parole contemporanee –
e domani di nuovo senza pioggia, accogliemmo
mosse immagini d’anatroccoli
salvati in un pozzo, guardammo filmini d’animali
contro decapitazioni in nome di un dio
ci rotolammo su letti smarriti
udimmo mucche smagrite invocare cibo
ma non più a vicenda, aspettammo la pioggia
tememmo la grandine, ci tememmo a vicenda, fino
a quando la pioggia cadde, scorse nei ruscelli, fiumi
per il raccolto, gli animali, per più tardi.
Fotografia di proprietà dell’autrice.
OP DE FIETS
Het asfalt glanst suizend van regen
– als je goed kijkt zie je, kijk –, zijn
verloren stem onbedorven dichtbij
je vader praat tegen je muts in het zitje
voorop en roept luider later achterom
straatnamen van schilders en helden, rolt
met één hand een sigaret, steekt hem op
weet antwoord voor je iets vraagt, vist
boeken uit zijn kast, slaat ze voor je open
– zie je hoe het licht barst uit de wolken
van verf, de handen van Hals, de zuivere
Vlaamse Madonna met kind. Lees, kijk
reis, iedere seconde telt ook als je slaapt –
en je weet niet of zijn hand nog op je rug
ligt, zijn adem in je hals of dat je zelf al gaat
hij duwt je aan, rent naast je fiets
– ja ga maar
los
ja ga
BESLOTEN TUIN
*
Hij staat recht onder de vogels, benoemt
hun staart en zangtonen, zijn denken stroomt
de struik in die zomers zwarte bessen draagt
geborduurd bloemvlies in het najaar, vleugels
winden zich om hem heen, snavels kletsen
gretig in zijn volière zonder gaas.
Hoe leeg is hij als hij ze fijne zaden voert
een witte schedel waarin boomklevers
onbarmhartig verse woorden tikken.
*
Buiten de haag jachthoorns, claxons
kreten, twee reeën weten te ontkomen
levend, hun blonde konten triomferen
over hoektanden van nerveuze honden.
In het huis strooit zijn beeldscherm laatste
berichten – bomgordels misschien verborgen
onder feestelijk vuurwerk, ook bakfietsen
voor peutervervoer lopen gevaar, slachtoffers
zijn geborgen – het beeld hapert, dooft uit
de vogels vallen stil, schuilen, uilen komen
en ook de nacht neemt de tuin in zich op.
MÉTÉO
We sneden het strogras niet meer
lieten de dag uit onze handen glijden
alleen koel sap hield ons wakker, druiven
tegen de muur zogen wat er nog aan vocht
te vinden was uit de versteende grond –
we toetsten météo, stuitten op vluchtelingen
in boten, leerden hedendaagse woorden –
en morgen weer geen regen, ontvingen
bewegende beelden van eendenkuikens
gered uit een put, dierenfilmpjes ingezet
tegen onthoofdingen in naam van een god
we rolden ons om op verdwaalde bedden
hoorden vermagerde koeien roepen om voer
maar wij elkaar niet meer, wachtten op regen
vreesden de hagel, vreesden elkaar, tot
het water viel, stroomde in beken, rivieren
voor het gewas, voor de dieren, voor later.
Breve biografia di
Ineke Holzhaus
è nata nei Paesi Bassi nel 1951. È poetessa, novellista, drammaturga, regista teatrale e insegnante di scrittura creativa. Per la radio olandese ha realizzato programmi letterari e d’arte. Durante i festival Poetry International a Rotterdam e Maastricht Poetry Nights ha presentato poesie tradotte in nederlandese di poeti invitati. Nel 2008 esce la sua raccolta Hond in Pompeï, nel 2011 Waar je was; seguono nel 2014 Bovengronds e nel 2016 Blijven en Weggaan. Nel 2015 le venne assegnato il premio HofvijverPoëzie.
Traduzione dal Nederlandese di PATRIZIA FILIA (1953)vive e lavora nei Paesi Bassi dal 1982. È regista teatrale, drammaturga, scrittrice e traduttrice. Pubblica in Olanda nel 2016 il ricordo In de Mokumse jaren; nel 2018 il ciclo poetico Astarte, le traduzioni Il solitario con poesie di Jan Jacob Slauerhoff e Blues con poesie di Kees Klok; nel 2019 la raccolta di testi teatrali Theaterteksten e il ciclo poetico Diarium belli. Nello stesso anno esce in Italia, da Edizioni Ensemble, la traduzione L’eterna imbarcazione con 121 poesie di Jan Jacob Slauerhoff.
Biblioteca DEA SABINA
-La rivista «Atelier»-
http://www.atelierpoesia.it
La rivista «Atelier» ha periodicità trimestrale (marzo, giugno, settembre, dicembre) e si occupa di letteratura contemporanea. Ha due redazioni: una che lavora per la rivista cartacea trimestrale e una che cura il sito Online e i suoi contenuti. Il nome (in origine “laboratorio dove si lavora il legno”) allude a un luogo di confronto e impegno operativo, aperto alla realtà. Si è distinta in questi anni, conquistandosi un posto preminente fra i periodici militanti, per il rigore critico e l’accurato scandaglio delle voci contemporanee. In particolare, si è resa levatrice di una generazione di poeti (si veda, per esempio, la pubblicazione dell’antologia L’Opera comune, la prima antologia dedicata ai poeti nati negli anni Settanta, cui hanno fatto seguito molte pubblicazioni analoghe). Si ricordano anche diversi numeri monografici: un Omaggio alla poesia contemporanea con i poeti italiani delle ultime generazioni (n. 10), gli atti di un convegno che ha radunato “la generazione dei nati negli anni Settanta” (La responsabilità della poesia, n. 24), un omaggio alla poesia europea con testi di poeti giovani e interventi di autori già affermati (Giovane poesia europea, n. 30), un’antologia di racconti di scrittori italiani emergenti (Racconti italiani, n. 38), un numero dedicato al tema “Poesia e conoscenza” (Che ne sanno i poeti?, n. 50).
Direttore responsabile: Giuliano Ladolfi Coordinatore delle redazioni: Luca Ariano
Redazione Online Direttori: Eleonora Rimolo, Giovanni Ibello Caporedattore: Carlo Ragliani Redazione: Mario Famularo, Michele Bordoni, Gerardo Masuccio, Paola Mancinelli, Matteo Pupillo, Antonio Fiori, Giulio Maffii, Giovanna Rosadini, Carlo Ragliani, Daniele Costantini, Francesca Coppola.
Redazione Cartaceo Direttore: Giovanna Rosadini Redazione: Mario Famularo, Giulio Greco, Alessio Zanichelli, Mattia Tarantino, Giuseppe Carracchia, Carlo Ragliani.
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Jack Kerouac,Scrittore e poeta, nato giovedì 12 marzo 1922 a Lowell, Massachusetts (USA – Stati Uniti d’America), morto martedì 21 ottobre 1969 a St. Petersburg, Florida (USA – Stati Uniti d’America)
Jack Kerouac
Jack Kerouac, E’ uno dei padri della beat generation, l’autore di Sulla strada (1957), lo scrittore che seppe intercettare in anticipo lo spirito di un Paese che stava cambiando, l’interprete di un desiderio di libertà e di profondità spirituale che erano nell’aria, prima degli hippy, di una ribellione contro la civiltà occidentale. I grandi spazi dell’America da attraversare coincidevano con quelli della coscienza. Ha ispirato molti, come Bob Dylan, come i movimenti pacifisti, con le sue idee e con il suo stile immediato, la prosa spontanea, rapsodica e jazz; e continua a ricorrere ancora oggi, nella nostra cultura, ad essere evocato, attraverso quel suo concetto geniale di vivere “on the road”. Jack Kerouac è nato cento anni fa, il 12 marzo 1922, a Lowell (Massachusetts), ed è morto giovane, a 47 anni nel 1969, per una emorragia addominale causata dall’alcolismo.
Poesie di Jack Kerouac
DULUOZ
Nome tratto da fonti
di primo mattino
Nella sede di un giornale
Tanti Anni Fa a Lowell Mass
Mentre gli uccelli cacavano
Sul canale
E Sperma galleggiava
Tra i Muri di Mattone
Di un Albeggiar di Fumo
Che usciva da un Camino
di Chtistian Hill
Ah Sire, Duluoz,
Re dei miei Pensieri,
Salve a te!
(Caccia un’altra lattina di birra)
QUALUNQUE MOMENTO
Qualunque momento hai voglia
Di scrivere una cazzuta poesia
Apri ‘sto libro
& Strilla nient’ altro
Che Crema
Strilla
Non ti scomare
Scorri
Scortica
Scrosta i bordi di Scrono
AllitteRa le Rane
Bekkek! Bekkek!
Koax! Koax!
Carra Quax!
Carra qualquus
Kerouacainius!
Jack Kerouac
PERSINO JOYCE
Persino lui, Joyce,
ha avuto l’amore
Persino i poeti ciechi.
IL POETA
Quante volte da quando
Ho visto il poeta
di Greenwich Village
Scorciare al lavoro nell’ alba grigia
Con la gavetta &
il taglio di capelli fuori moda
Occhi allo Hudson
Narici alla strada
All’inverno, al lavoro, alla carità,
Ai pasti, cibo di follia
Tante volte da quando
Ho visto il poeta
Che scriveva ritmi & rime
Incazzato tra Minetta’s
E Minetta Lane
Affrettarsi al Lavoro
Sessosico, sessitico, psico
analizzato?
Al lavoro nell’alba impoetica
Le mattine dopo essermi sbronzato
con Lucien & Allen
& gli Angeli Alleati
Nella Vasta Pesciaia
di Manhattan
O America!
O canti!
Poesie!
o Sax Alti! o Tenori!
Suonate!
(il Poeta è Morto).
Jack Kerouac
TUONO
Il tuono fa un frastuono
di rumore come finestre
Chiuse in silenzio
istericamente
Perciò Papi è caduto dalle scale
del tempo
Malgrado l’acquasanta
E tutti i vs. beveroni
nell’
Eternità.
LA ROSA
«Ah, Rosa»ho gridato,
«Risplendi nella Fosforescente
Notte.»
L’INSETTO
E al piccolo insetto che io sono
ho detto
«Insetto, detto, vetta, tetta del tempo,
Prova, prendi, prendi, spremi, vola,
L’amore traversa i t.i zigomi
Sulla fosforescente trasparente
ala
Del Metamorfosato Insetto
Kafkiano divora formaggio»
Jack Kerouac
L’ORRORE
Quindi ho visto l’orrore,
E ho gridato,
«Toglitimi di do sso».
L’errorrore mi ha messo osso
Per osso in un sacco di terra,
Poi mi ha arrostito in forno
D’infernocielo nell’alluminio
Di Diavolo Dio Gesù ,
Cioè la Vs. Santa Trinità.
I SORRISI
I sorrisi scostano la pelle delle guance
Da perle d’osso
E mostrano a chi guarda
Tremolare la crema
In occhi di pietra.
SULLE LACRIME
Lacrime è la mia fronte che si rompe,
Il lunato agitato
sedersi
In bui cimiteri di treni
Quando per vedere il volto di mia madre
Che richiamava dalla sua visione
Piansi alla comprensione
Della trappola mortalità
E del sangue personale della terra
Che mi aspettavano
Padre padre
Perché mi hai abbandonato?
Mortalità & repulsione
Scorrazzano per questa città
Infelicità è il mio secondo nome
Voglio essere salvato,
Affondato-non può essere
Non vuole essere
Mai fu fatta per essere
Così da vomitare!
DA VECCHIO
Quando comincerò a invecchiare
E forse sentirò .il braccio sinistro
intorpidirsi
E il cervello resistita speranza,
Siederò addormentato
L’energia soffocata esaurita
nel mio occhio
E l’amore fuggito da me
Quando la peggior notizia
Mi fu portata
Ed esultai di essere solo
Di ormai essere morto
Ho avuto la visione del
santo
Misconosciuto & troppo stanco
per spiegare il perché
E di dolci intenzioni
un altro giorno-
Persino Stanley Gould
andrà in cielo.
LO SO
Lo so che non so scrivere
versi
Ma questo è il mio libro
di righine lattine
Di birra e allora compatiscimi
invisibile
Lettore lasciami pasticciare
anche
Quando ho i postumi & sono senza
idee.
Jack Kerouac
DIO
Seduto sui nostri significati
Egomaniaco Dio,
Solitaria macchia d’olio luccico di pioggia
È solito irritarci per di più
Nel Reale.
SPERANZE
La poesia non lo sa:
Il condizionatore
Disusato d’inverno
È come le mie speranze
Un po’ dentro, un po’ fuori,
Verdi su ruota bianca,
Buone solo a gettare
Un’ombra lunga
Nella livida luce della strada.
55° Chorus
Un giorno o l’altro alzeranno monumenti
costruiti in onore dei folli
quelli che oggi stanno in manicomio
Come primi pionieri del concetto
per il quale se perdi la ragione
attingi al sapere più perfetto
Il quale è immune da predicati
quali «lo sono,. io voglio, io ragiono -»
-immune dal dire: «Lo farò»
– Immune
Immune anche da follia in virtù
del non contatto
Ma per intanto questi medici
deterministi credono davvero
che un matto è matto –
E per questo hanno eretto una religione
da un miliardo di dollari, detta Psico-medicina,
e ah –
Be’ apprenderemo la normalità
dell’Ard Bar
Al mattino, alle volte, da soli
Blues
Parte delle stelle mattutine
La luna e la posta
L’insaziabile X, il dolore delirante,
– la luna Sittle La
Pottle, teh, teh, teh, –
I poeti in vecchie stanze gufose
che scrivono curvi parole
sanno che le parole furono inventate
perché il nulla era nulla
Usando le parole, usate le parole,
le X e gli spazi vuoti
E la pagina bianca dell’Imperatore
E l’ultimo dei Tori
Prima che la primavera si metta in moto
Sono una montagna di nulla
di cui volenti o nolenti disponiamo
Così di notte contratteremo
nel mercato delle parole.
Poesia
Il jazz s’è suicidato
Fate che la poesia non faccia la stessa fine
Non temiate
l’aria fredda della notte
Non date retta alle istituzioni
quando trasformate i manoscritti in
arenaria
non inchinatevi né fate a cazzotti
per i pionieri di Edith Wharton
o per la prosa alla nebraska di ursula major
no, statevene nel vostro giardinetto
& ridete, suonate
il trombone di mollica
& se poi qualcuno vi regala perline
ebree, marocchine, o vattelappesca,
addormentatevi con quella collana al collo
È probabile che facciate sogni più belli
La pioggia non c’è
non ci sono più me
te lo dico io, ragazzo,
affidabile come la merda.
Jack KEROUAC50esimo anniversario della morte di Jack Kerouac il padre della Beat Generation- Jack Kerouacè considerato uno dei più importanti scrittori americani e padre fondatore della Beat Generation. Grazie alle sue idee di libertà, alla sua costante ricerca di realizzazione personale attraverso nuove strade senza mai piegarsi alle convenzioni sociali e grazie al suo stile immediato e concitato totalmente nuovo nel panorama letterario americano, Kerouac divenne, infatti, fonte d’ispirazione di un’intera generazione. La Beat Generation fu un movimento culturale americano costituito da vari autori – come Allen Ginsberg, William S. Burroughs, Gregory Corso, Lawrence Ferlinghetti, Gary Snyder, Michael McClure, Charles Olson e ovviamente Jack Kerouac – che influenzò profondamente la società del tempo, portando alla luce il disagio che stavano vivendo le nuove generazioni e il contrasto tra ciò che la propaganda del governo vendeva come sogno americano e la realtà del dopoguerra.
Jack Kerouac nasce a Lowell, Massachusetts, il 12 marzo 1922 come Jean-Louis Kerouac, in una famiglia di origini franco-canadesi. I suoi primi anni d’infanzia furono sereni, nonostante la morte del fratello maggiore Gerard quando Jack aveva solo quattro anni, trauma che lo colpì molto e che lo accompagnerà per tutta la vita. Verso i sedici anni, però, la situazione in casa cominciò a peggiorare: gli affari del padre andavano male e l’uomo iniziò a bere e ha giocare d’azzardo. Le uniche consolazioni per Jack erano la scuola, dove già si notava la sua passione per la letteratura e il suo talento per la scrittura, e Mary Carney, una ragazza irlandese e suo primo amore, sentimento che ispirerà l’opera Maggie Cassidy. Dopo il liceo si trasferì a New York per frequentare la Horace Mann Preparatory School, dove emersero tutte le potenzialità di Jack, sia in campo letterario che sportivo. In questo periodo cominciò a frequentare anche i circoli artistici e culturali dove conobbe alcune delle persone che ispireranno i suoi lavori. Kerouac iniziò quindi a frequentare la Columbia University, che però abbandonò molto presto per arruolarsi nell’esercito dopo essere rimasto sconvolto dall’attacco giapponese a Pearl Harbor del 1941, ed infatti nel 1942 si imbarcò come sguattero per la marina mercantile. Ma anche questa esperienza non durò a lungo: nel 1943 venne riformato per inadeguatezza al servizio militare a seguito di una diagnosi che lo attestava come uno “psicopatico costituzionale e personalità schizoide, ma non psicotica”. Torna quindi a casa dei genitori lavorando come marinaio. Il 1944 fu un anno molto importante per lui. Conobbe Lucien Carr, William S Burroughs e Allen Ginsberg, il nucleo originale della Beat Generation. Queste conoscenze, oltre ad irresistibili stimoli intellettuali, gli portarono un arresto per favoreggiamento in un caso di omicidio e per pagarsi la cauzione fu costretto a sposare la ricca ragazza che frequentava all’epoca, Edie Parker. Il matrimonio però durò pochissimo: Jack abbandonò la moglie per continuare i suoi vagabondaggi in città insieme ai suoi amici artisti. Nel 1945 Jack incontrò Neal Cassady, un ladro d’auto di vent’anni appena uscito dal riformatorio. Lo scrittore lo vedeva come il simbolo più puro dell’emarginazione e rimase affascinato dalla sua personalità travolgente, tanto da farne il protagonista del suo libro Sulla Strada (On the Road), e fu per raggiungere Neal a Denver che nel 1947 Kerouac si mise per la prima volta sulla strada, in viaggio per il Nord America. Tra il 1949 e il 1950 arrivarono le prime soddisfazioni professionali, una casa editrice comprò e pubblicò La città e la metropoli. Fu un successo ma ancora non faceva di Kerouac uno scrittore del tutto riconosciuto. Tornò a New York e li conobbe e sposò Joan Haverty. Anche questo matrimonio durò solo qualche mese. Dopo la separazione la donna scoprì di essere incinta, ma lo scrittore non volle mai riconoscere la bambina. Nel 1953 Kerouac cominciò ad elaborare con più consapevolezza il suo rivoluzionario metodo di scrittura: una prosa spontanea, immediata, composta da associazioni di idee – rese a un ritmo quasi musicale – dove le convenzioni sociali e la punteggiatura non venivano più rispettate. Stile che trovò la sua prima espressione ne I sotterranei, scritto a seguito della fine di una storia avuta con una ragazza appena uscita da un ospedale psichiatrico che gli spezzò il cuore tradendolo con un suo amico. In quello stesso periodo, non riuscendo a far pubblicare le sue opere già concluse, Jack cadde in depressione e si lasciò andare nel bere. Fu solo nel 1957 che il tanto agognato successo arrivò. Il romanzo Sulla Strada venne pubblicato e fu incredibilmente amato dalla critica e dal pubblico, venendo addirittura definito sul New York Times “una vera e propria opera d’arte”. Nonostante la fama, però, Kerouac rimaneva irrequieto ed era atterrito dall’idea che i suoi successivi lavori non avrebbero potuto riscuotere all’altrettanta approvazione. E così fu. Tutti i suoi libri pubblicati dopo furono stroncati dalla critica, fatto che lo portò a metà del 1960 ai limiti di un tracollo psico-fisico, aggravato dall’alcolismo e da una dipendenza da droghe che ormai lo consumava. Gli anni che ne seguirono non fecero che aggravare le sue condizioni e la sua depressione, nonostante gli sforzi della sua famiglia e della casa editrice che cercavano in tutti i modi aiutarlo a uscirne. Tra i vari sforzi di rilanciarlo e di ispirare la sua vena narrativa vi fu un viaggio in Italia su invito della casa editrice Arnoldo Mondadori Editore. L’esperienza fu disastrosa e si concluse a Napoli dove Jack in un’intervista si mise a difendere l’intervento americano nel Vietnam suscitando molte opposizioni e polemiche. Tornò in America in condizioni sempre più precarie ricevendo un nuovo duro colpo nel 1968, quando l’amato amico Neal Cassady fu trovato morto in una stazione. Un giorno di ottobre nel 1969 Jack accusò forti dolori all’addome e venne portato all’ospedale: il suo fegato aveva ceduto per la cirrosi epatica. A quarantasette anni, il 21 ottobre 1969, Jack Kerouac morì.Jack Kerouac
POESIE da “Il viaggio misteriosofico di Bartolo Cattafi” in Lo specchio oscuro. Piccolo – Cattafi – Ripellino di Franco Pappalardo La Rosa, Edizioni dell’Orso, 2004, pag. 75
Nei due tempi in cui la critica lo scinde – il primo comprendente Nel centro della mano [1951], Partenza da Greenwich [1955], Le mosche del meriggio [1958] e L’osso, l’anima [1964], e , il secondo, che inizia, distanziato da un ottennio, con L’aria secca del fuoco [1972], e prosegue con La discesa al trono [1975], Marzo e le sue idi [1977], L’allodola ottobrina [1979] e le postume Chiromanzia d’inverno [1983] e Segni [1986] – l’itinerario poetico di Bartolo Cattafi appare sicuramente non lineare, ma zigzagante dentro l’infinità dei percorsi labirintici tracciati dagli aspetti del reale: dalla fredda, ingombrante, ossessiva presenza degli oggetti, che ribalta prospettive, inganna, genera angoscia. L’intera avventura poetica di Cattafi, infatti, tende ad accreditarsi, letteralmente, come ininterrotto poema (o diario di bordo) e, metaforicamente, come viaggio, poi, si lascia intuire come impeto esplorativo e di ricerca, come ansia irrefrenabile di conoscenza.
Bartolo Cattafi
Tre poesie di Bartolo Cattafi, con una citazione critica di Franco Pappalardo La Rosa
Liffey River
La Birra Guinness ha molte porte scure
sui docks e qualche lume
sparso in un lento
regno di chiatte e di vagoni
di ruggine vagante lungo il fiume,
dove il cigno e il gabbiano sono amici
col petto bianco puntato contro il fango.
Più davanti, a lato della foce,
un prato di trifoglio nella pioggia:
in mezzo vi s’ammucchiano le nostre
giacche, le anime e i loro
segreti scoloriti, le belle
bottiglie tracannate
da una gola tenera, feroce.
E Cristo passa,
astro avvolto di nebbia o nido
per le stanche farfalle che partono da noi,
dolce luce d’oblio.
Dublino, 1952
(da Partenza da Greenwich, Quaderni della Meridiana, Milano, 1955)
Autocondanna
Non fummo né abili né attenti,
non vedemmo le cose, c’era buio.
Comparve un esile barbaglio,
era il filo di fiamma di una torcia
o d’altro dramma che riguarda l’uomo.
Le cose cominciavano a chiarirsi.
Chiedemmo arnesi d’emergenza,
sedia, benda, un gruppo di fucili
repentini.
Alle spalle, che importa, ciò che conta
è la porta d’uscita per salvare
l’unica cosa amata, a lungo amata,
trafugandola al mondo, alla chiarezza.
(da L’osso, l’anima, Mondadori, 1964)
Bartolo Cattafi
Queste cose terrestri
Queste cose terrestri
che scoppiano tra i piedi come rose
le raccatti ammirato le porti
ai più alti ripiani
e perdi il lume degli occhi
non vedi
le altissime cose cadute in frantumi.
(da L’allodola ottobrina, Mondadori, 1979)
La discesa al trono
Non è una pausa di riflessione
è un raccogliere forze ed elemosine
seduti a sommo delle scale
prima d’intraprendere
la discesa al trono
e tutto profondere
al fondo roccioso
aspro inebriante della disperazione.
Cricetide
Cricetide che i rudimenti conosce
l’alfabeto della maratona
roditore di sterili chilometri
saltato su una sfera
lo faccio ruotare in aria
intorno al suo asse saldato
a due pareti di gabbia
con quattro zampe
la fronte corrugata
occhi lucenti e muso
protesi all’orizzonte
compio così viaggi interminati
sul rotondo veicolo
della mia solitudine
topouccello volante tra sbarre
con un tonfo infine si smonta
col corpo pesante giaccio
in fondo alla gabbia
le gambe aperte
la zampina sul petto
come napoleone dopo sedan
sèvres sestrière senegal
e la megiera mi dice mangia
la minestra di segale e rape
non toccare la caffettiera
non è il tuo copricapo
ora si smette con le galoppate
finisce tutto
se ne va la bionda
vivandiera del reggimento distrutto.
Qua o là
Qua o là
si morde un punto dello stesso globo
ciò che in questa calda
giornata liquefatta ci sostiene
è un odio sordo
livida spirale che s’allarga
al largo dietro un banco di foschía
infuria una battaglia di triremi.
È un dolce commercio
È un dolce commercio
darti questo o quello
di me
mani piedi testa
ciò che più bolle
in pentola coi visceri del mondo
solo un eden ebbi
fu talvolta l’intreccio
delle mie brame belanti
con le tue trame.
Arancia
Scala immensa
gradini infiniti
il tuo fianco aperto
d’arancia ormai
rotolata in basso
verso marmellata muffita
io più in basso di te
aggrappato a un piano
di sopravvivenza
a quel colaticcio attingo
e mi lecco le dita.
da La discesa al trono, Mondadori, 1975
Bartolo Cattafi
Le città invisibili | Taranto
Presenze nella città vecchia – Taranto Foto di Rosanna Frattaruolo, 2023
«…Ma la città non dice il suo passato, lo contiene come linee d’una mano, scritto negli spigoli delle vie, nelle griglie delle finestre, negli scorrimano delle scale…»
A centimetri cinque
Con uno schiocco imprevisto
imperativo
a centimetri cinque dalla testa
scrostò l’intonaco
scheggiò un mattone
schiacciato cadde
piombo impolverato
calmatosi un rombo
di sangue nella testa
restai immobile
girai lo sguardo
con la mano feci
un pallido gesto di saluto
c’erano morte e vita su quel muro
la vite americana arrancava in salita
senza aiuto
a centimetri cinque dal traguardo.
Bartolo Cattafi, da Poesie scelte (1946-1973), Mondadori, 1978
§ §
Le città invisibili sono un sogno che nasce dal cuore delle città invivibili. Le città sono un insieme di tante cose: di memoria, di desideri, di segni d’un linguaggio; le città sono luogo di scambi […] ma questi scambi non sono soltanto scambi di merci, sono scambi di parole, di desideri, di ricordi. (Italo Calvino)
Il suo primo incontro con la poesia avviene proprio nella sua terra nativa, dove nella primavera del 1943 trascorre un periodo di convalescenza durante la Seconda guerra mondiale. Quella «snervante primavera» è per lui come rituffarsi in una seconda infanzia, dove si ritrova «a enumerare le cose amate, a compitare in versi un ingenuo inventario del mondo». Il tragico scatenarsi dei bombardamenti lo vede estraniato, con naturalezza, in un quadro bucolico inebriante: «Me ne andavo nella colorita campagna nutrendomi di sapori, aromi, immagini; la morte non era un elemento innaturale in quel quadro; era come un pesco fiorito, un falco sulla gallina, una lucertola che guizza attraverso la viottola».[1] Nel 1951 pubblica la prima raccolta di versi, Nel centro della mano.
I viaggi che compie in Europa e in Africa diventano i motivi ispiratori di alcune sue raccolte di poesie come Partenza da Greenwich del 1955. Silvio Ramat parla di «viaggio inteso come necessità biologica, di avventura e di verifica di una condizione umana, che altrimenti non arriva a scoprire il proprio valore, il proprio significato».[2]
Nel 1964 con L’osso, l’anima, ottiene il premio Chianciano.
Per la sua opera riceve il premio Mondello nel 1975. Il poeta – che, secondo Carmelo Aliberti in un suo saggio[4], è tra i più validi della generazione fiorita nel secondo dopoguerra, comprendente tra gli altri Luciano Erba, Nelo Risi, Giorgio Orelli e Giovanni Giudici – muore prematuramente a causa di una grave malattia e non ha avuto gran riconoscimento dalla critica. Quella di Bartolo Cattafi rappresenta peraltro un’esperienza poetica da riconsiderare anche alla luce di qualche giudizio ponderato, quale ad esempio quello di Giorgio Bàrberi Squarotti su L’aria secca del fuoco: «uno dei testi poetici più inquietanti del dopoguerra: con amarezza Cattafi compie uno dei più acuti e mortali esami di coscienza della sua generazione».[5]
Un’antologia delle sue poesie, curata da Vincenzo Leotta e Giovanni Raboni, è uscita nel 1990 nella collana Lo Specchio (Mondadori, 1990), poi negli Oscar (2001). Un’altra raccolta è apparsa pure postuma: Occhio e oggetto precisi – Poesie 1972-’73, con prefazione di Silvio Ramat (Scheiwiller, 1998).
Nel 2019 l’intera opera poetica di Cattafi è stata raccolta nel volume Tutte le poesie, a cura di Diego Bertelli, introduzione di Raoul Bruni, per Le Lettere di Firenze.
Lame, con un’acquaforte di Cattafi e due acqueforti di Carmelo Cappello, Verona, Sommaruga, 1974, *Ostuni, con sette disegni di Ruggero Savinio (Milano, Edizioni 32, 1975),
La discesa al trono (ivi, 1975), Ipotenusa, avec une gravure di André Haagen. Sanningheber, Origine, 1975),
Chiromanzia d’inverno, pubblicata postuma (ibidem, nel 1983),
Segni, con la prefazione di Marisa Bulgheroni (ivi, Scheiwiller, 1986).
Note
^ Le citazioni autobiografiche virgolettate sono tratte dal profilo Bartolo Cattafi di Silvio Ramat, in Letteratura italiana – I Contemporanei, volume sesto, Milano, Marzorati, 1974, p. 1369.
Interno Poesia, 2024 – A cura di Damiana De Gennaro
Descrizione-Per la prima volta nelle librerie italiane L’anniversario dell’insalata -Poesie di Tawara Machi, fenomeno editoriale da due milioni di copie. Pubblicato in Giappone per la prima volta nel 1987, il libro mette subito d’accordo critica e pubblico: oltre a collezionare prestigiosi premi per aver infuso nuova linfa alla forma metrica tanka, le cui origini risalgono alle prime opere di poesia scritta in lingua giapponese, il volume scala le classifiche con cifre di vendita vertiginose. Leggere l’opera prima di Tawara Machi, le cui poesie oggi fanno parte dei manuali scolatici giapponesi, è come sfogliare una raccolta di istantanee che testimoniano le forme assunte dell’amore nella società post-capitalista. Figure amate, oggetti di uso quotidiano e piatti preparati in fretta prendono vita sul fondo di una realtà scandita dal ritmo incalzante della pubblicità. Senza mai esprimere giudizi, l’autrice (e la curatrice e traduttrice del volume Damiana De Gennaro) ci consegna frammenti di visioni che vanno a comporre un disegno più ampio: le istanze dei rapporti umani in Giappone subito prima della crisi economica degli anni Novanta.
Tawara Machi
L’autrice Tawara Machi (Ōsaka, 1962) è autrice di raccolte di poesia, saggi e traduzioni di opere della tradizione letteraria giapponese in lingua contemporanea. Il suo libro d’esordio, L’anniversario dell’insalata (1987), vince la trentaduesima edizione del Premio Kadokawa e supera i due milioni di copie vendute. Avendo ricevuto i più prestigiosi riconoscimenti in campo letterario, le sue poesie oggi sono riportate sui manuali di letteratura per le scuole giapponesi. Tra le sue altre opere in poesia, inedite in Italia, ricordiamo: Kaze no te no hira (1991), Chokorēto kakumei (1997), Au made no jikan (2005), Pū-san no hana (2008), Umarete banzai (2010), Ore ga Mario (2013), e Mirai no saizu (2020), Abokado no tane (2023).
空の青海のあおさのその間サーフボードの君を見つめる
ti guardo
cavalcare le onde –
spazio azzurro
in cui cielo e mare
si confondono
*
同じもの見つめていしに吾と君の何かが終わってゆく昼下げる
tardo pomeriggio –
guardiamo nello stesso punto
mentre
qualcosa, tra noi due,
si sta spezzando
*
上り下がりのエスカレーターすれ違う一瞬君に会えてよかった
sono grata
alle scale mobili che
portandoci in direzioni opposte
anche solo per un attimo
ci hanno fatti incrociare
*
サ行音ふるわすように降る雨の中遠ざかりゆく君の傘
il tuo ombrello
si allontana nel paesaggio –
ha solo
suoni sibilanti
il sillabario della pioggia
*
「元気でね」マクドナルドの片隅に最後の手紙を書きあげており
allora,
stammi bene –
gli scrivo
quest’ultima lettera
da un angolo del McDonald’s
Attilio Bertolucci:C’è un proverbio che dice: “Dovrebbe sempre essere settembre”. Settembre ,un mese mite, dolce, venato appena di nostalgia, di una sottile malinconia. Un mese che i poeti come Attilio Bertolucci sentono vicino al loro cuore-Poesie di :Antonia Pozzi,Attilio Bertolucci,Luigi Pirandello,Leonardo Sciascia,Hermann Hesse,Grazia Rombolini,Forough Farrokhzad, Gabriele D’Annunzio.
Attilio Bertolucci
ATTILIO BERTOLUCCI, “Sirio”, 1929
SETTEMBRE
Chiaro cielo di settembre
illuminato e paziente
sugli alberi frondosi
sulle tegole rosse
fresca erba
su cui volano farfalle
come i pensieri d’amore
nei tuoi occhi
giorno che scorri
senza nostalgie
canoro giorno di settembre
che ti specchi nel mio calmo cuore.
Antonia Pozzi: la Poetessa dell’Anima
SETTEMBRE
Boschi miei
che le nuvole del settembre
lente percorrono
mentre le prime foglie
crollano giù dai rami
e adunano umidore per i sentieri
intanto che nel cielo
gli alberi si denudano —
così come di sera
quando cadono le ombre
giù dalle cime
s’incupisce la terra
e in alto si rivelano
i disegni dei monti
e delle stelle —
miei boschi
vi è tanta pace
in questa vostra muta
rovina
che in pace ora alla mia
rovina penso
e sono come chi
stia sulla riva di un lago
e guardi miti le cose
rispecchiate dall’acqua
Luigi Pirandello
“Settembre” di Luigi Pirandello
Le speranze se ne vanno
come rondini a fin d ’anno:
torneranno?
Nel mio cor vedovi e fidi
stanno ancora appesi i nidi
che di gridi
già sonaron brevi e gaj:
vaghe rondini, se mai
con i raj
del mio Sole tornerete,
le casucce vostre liete
troverete.
Leonardo Sciascia
Pioggia di settembre, Leonardo Sciascia
Le gru rigano lente il cielo,
più avido è il grido dei corvi;
e il primo tuono rotola improvviso
tra gli scogli lividi delle nuvole,
spaurisce tra gli alberi il vento.
La pioggia avanza come nebbia,
urlante incalza il volo dei passeri.
Ora scroscia sulla vigna, tra gli ulivi;
per la rabbia dei lampi preghiere
cercano le vecchie contadine.
Ma ecco un umido sguardo azzurro
aprirsi nel chiuso volto del cielo;
lentamente si allarga fino a trovare
la strabica pupilla del sole.
Una luce radente fa nitido
Il solco dell’aratro, le siepi s’ingemmano;
tra le foglie sempre più rade
splende il grappolo niveo dei pistacchi.
Hermann Hesse
Settembre di Hermann Hesse
Triste il giardino,
cade la fresca pioggia sui fiori
L’Estate trema
tranquillamente verso la fine.
Gocciola una dopo l’altra una foglia d’oro
giù dalla grande acacia.
L’estate sorride con stupore e nostalgia
nel sogno del Giardino morente.
S’attarda tra le rose,
Si ferma desiderosa di pace;
Lentamente chiude i suoi [grandi] occhi pesanti di stanchezza.
****************
HERMANN HESSE
September, Hermann Hesse
Der Garten trauert,
kühl sinkt in die Blumen der Regen.
Der Sommer schauert
still seinem Ende entgegen.
Golden tropft Blatt um Blatt
nieder vom hohen Akazienbaum.
Sommer lächelt erstaunt und matt
in den sterbenden Gartentraum.
Lange noch bei den Rosen
bleibt er stehn, seht sich nach Ruh.
Langsam tut er die großen,
müdgewordenen Augen zu.
“Ecco arriva settembre, mese dolce e propizio, di piogge a colorare i prati e di dolci frutti della terra.
Amo settembre, il sole è ancora caldo, si respira ancora aria di gioia e vacanza e qualcosa mi sussurra di sognare e reinventarmi, quasi fosse un nuovo inizio. E’ settembre.”
Settembre
Saluterò di nuovo il sole,
e il torrente che mi scorreva in petto,
e saluterò le nuvole dei miei lunghi pensieri
e la crescita dolorosa dei pioppi in giardino
che con me hanno percorso le secche stagioni.
Saluterò gli stormi di corvi
che a sera mi portavano in offerta
l’odore dei campi notturni.
Saluterò mia madre, che viveva in uno specchio
e aveva il volto della mia vecchiaia.
E saluterò la terra, il suo desiderio ardente
di ripetermi e riempire di semi verdi
il suo ventre infiammato,
sì, la saluterò
la saluterò di nuovo.
Arrivo, arrivo, arrivo,
con i miei capelli, l’odore che è sotto la terra,
e i miei occhi, l’esperienza densa del buio.
Con gli arbusti che ho strappato ai boschi dietro il muro.
Settembre, andiamo. È tempo di migrare.
Ora in terra d’Abruzzi i miei pastori
lascian gli stazzi e vanno verso il mare:
scendono all’Adriatico selvaggio
che verde è come i pascoli dei monti.
Han bevuto profondamente ai fonti
alpestri, che sapor d’acqua natia
rimanga ne’ cuori esuli a conforto,
che lungo illuda la lor sete in via.
Rinnovato hanno verga d’avellano.
E vanno pel tratturo antico al piano,
quasi per un erbal fiume silente,
su le vestigia degli antichi padri.
O voce di colui che primamente
conosce il tremolar della marina!
Ora lungh’esso il litoral cammina
La greggia. Senza mutamento è l’aria.
Il sole imbionda sì la viva lana
che quasi dalla sabbia non divaria.
Isciacquio, calpestio, dolci romori.
Ah perché non son io cò miei pastori?
“Settembre, andiamo. È tempo di migrare.” Il primo giorno di settembre porta con sé la promessa di un nuovo inizio, il che si collega direttamente all’idea di movimento e alla prospettiva di avanzare in una direzione ben precisa.
In un solo verso della poesia I pastori, Gabriele D’Annunzio, il poeta vate, è riuscito ad esprimere entrambe queste sensazioni tipicamente settembrine: l’inizio e il movimento, tramite l’accostamento di due verbi “andare” e “migrare” che appaiono quasi sinonimici, eppure esprimono due moti differenti. L’uso dell’imperativo “andiamo” riflette la necessità di muoversi, di spostarsi, appare come una chiamata alle armi: levatevi, alzatevi, sottintende un incitamento. L’infinito “migrare” invece rimanda all’idea dell’erranza e al proposito della ricerca di un luogo più accogliente, quindi, in breve, al cambiamento.
Nel verso di apertura della lirica I pastori, D’Annunzio esprime una sorta di “passaggio di stato”: dalla stasi al moto, dalla pace alla irrequietezza, tutte sensazioni che, a ben vedere, la fine dell’estate porta con sé.
Settembre è iniziato, è tempo di andare; ciascuno torni alle attività consuete nella stagione che porta il profumo dell’uva matura evocando il tempo della raccolta e della vendemmia.
La poesia I pastori (il cui titolo originale era I pastori d’Abruzzo, Ndr) fu scritta da Gabriele D’Annunzio nel 1903 ed è contenuta nell’ultima sezione dell’Alcyone intitolata Sogni di terre lontane. La raccolta Alcyone rappresenta il vertice massimo della poetica d’annunziana e si presenta come un’autentica celebrazione della natura: nelle cinque sezioni dell’opera infatti il poeta descrive il trionfo della primavera sino all’arrivo dell’autunno. I pastori, ambientata nel tempo mite di settembre che preannuncia l’imminenza della stagione autunnale, rappresenta una delle liriche conclusive.
Gabriele D’Annunzio
I pastori di Gabriele D’Annunzio: parafrasi
Settembre è arrivato, è ora di partire.
Adesso, in Abruzzo, i pastori, miei conterranei, lasciano i pascoli montani e scendono verso il mare:
si dirigono verso il mar Adriatico in burrasca che appare verde come i pascoli montani. Lungo il cammino hanno assaporato la dolce acqua delle montagne che ha il sapore delle loro terre e resterà nei loro tristi cuori di migranti per confortarli, affinché la loro nostalgia (della terra natia) sia meno dura.
I pastori hanno fabbricato nuovi bastoni di legno di nocciolo e ora camminano per il sentiero antico che conduce verso la pianura, quasi fosse un fiume d’erba silenzioso, seguendo le orme lasciate dai loro antenati.
È gioiosa la voce di colui che per primo scorge in lontananza il tremolio delle onde del mare. Ora il gregge procede lungo la costa. Il vento tace, mentre il sole si riverbera dorato sul mantello delle pecore, rendendolo di un colore simile alla sabbia.
Il movimento delle onde si accompagna al lento calpestio del gregge, sono rumori dolci.
Ah, perché io non sono con i miei pastori?
I pastori di Gabriele D’Annunzio: analisi e commento
Nella lirica I pastori, Gabriele D’Annunzio compone un idillio pastorale che sembra riflettere lo schema classico, seguendo la tradizione delle Bucoliche virgiliane. Come non associare ai pastori cantati da D’Annunzio, Titiro e Melibeo, i protagonisti della prima ecloga di Virgilio? Anche i pastori abruzzesi di D’Annunzio, proprio come Titiro, sono costretti a partire: ma il loro non sarà un esilio senza ritorno.
La lirica d’annunziana è pervasa da un sentimento di struggente nostalgia, che sembra ben accostarsi ai dolci moti dell’aria di settembre che segna la fine dell’estate. L’imminenza dell’autunno rievoca nel cuore del poeta vate la nostalgia e l’affetto per la propria terra natale, l’Abruzzo. Riportando in vita una delle tradizioni più antiche della propria terra, la pratica della transumanza, D’Annunzio sembra rispondere a questo nostalgico richiamo d’amore.
In quattro strofe in versi endecasillabi il poeta ritrae passo passo il cammino dei pastori che come ogni anno, seguendo una pratica antica, con l’arrivo del vento d’autunno abbandonano i pascoli montani per dirigersi verso le aree costiere. La lirica è chiusa significativamente da un endecasillabo finale, che appare isolato e distaccato dagli altri versi, e ci restituisce intatta la nostalgia del poeta tramite l’emergere della voce dell’Io lirico che improvvisamente si intromette nel canto con un grido accorato: “ah, perché io non sono con i miei pastori?”.
La poesia si apre con un’esortazione: l’invito a partire è dato dall’imperativo “andiamo”. Seguono quindi tutte le varie fasi del viaggio: dalla preparazione (i pastori si abbeverano alle fonti montane e forgiano i bastoni, Ndr) sino al cammino dai monti verso il mare. L’arrivo dei pastori alla meta viene descritto come un momento di quiete, riflette una pace idilliaca: il sole risplende sul manto delle pecore e il loro lento scalpiccio si accompagna allo sciacquio delle onde marine.
D’Annunzio evoca una serie di suoni onomatopeici che si riflettono nelle orecchie dei lettori come dolci rumori familiari, suoni che ci restituiscono l’atmosfera accogliente e piena di grazia di settembre. Ogni nuovo inizio possiede un suono dolce, d’altronde, e ci ricorda che la vita è un continuo “incominciare”.
I pastori di Gabriele D’Annunzio: figure retoriche
Apostrofe: la poesia si apre con un’esortazione “Settembre, andiamo”
Allitterazioni: numerose le allitterazioni dei suoi r e l che danno il ritmo alla poesia. Nel primo verso in particolare la ripetizione del suono “r” produce una ripetizione confortante che suggerisce la presa mnemonica del verso “settembre; migrare; ora; terra”.
Personificazione: il mare Adriatico viene definito “selvaggio” come un uomo straniero o un animale non ancora domato.
Similitudini: il mare è verde come i pascoli dei monti; la lana del gregge è dorata come la sabbia.
Metafora: “erbal fiume silente”, l’erba calpestata dai pastori appare come un fiume silenzioso in cui non s’ode neppure il lento sciabordio dell’acqua. Nel componimento sono frequenti i simboli e le analogie tra i pascoli e il mare.
Onomatopee: “isciacquio; calpestio” sono espressioni che evocano suoni.
Sinestesia: l’espressione “dolci rumori” produce l’accostamento di due sfere sensoriali diverse, quella uditiva e quella del gusto.
Epifrasi: nell’endecasillabo finale, definito dalla domanda retorica “perché io non sono con i miei pastori?” è racchiuso il senso dell’intero componimento, ovvero la nostalgia del poeta che ha dato origine al canto.
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