La Bucovina della nascita, l’America dell’emigrazione, la Romania del ritorno, la Germania dell’epilogo: in nessuna di queste terre Rose Ausländer (Czernowitz 1901 – Düsseldorf, 1988) riconosce la sua terra madre. Nel 1939 il suo primo volume di poesie, Der Regenbogen (L’arcobaleno), pubblicato per l’interessamento di Alfred Margul-Sperber.
Nel 1941, per sfuggire alla deportazione, si rifugia con la madre nel ghetto di Czernowitz. Lì incontra Paul Celan, la cui amicizia avrà grande influsso sullo stile della Ausländer, che riuscirà finalmente a liberarsi del suo tono classicheggiante ed espressionista.
Rose Ausländer
Nella primavera del 1944 l’armata rossa marcia su Czernowitz e Rose Ausländer lascia di nuovo il paese alla volta dell’America, si stabilisce a New York. Le vessazioni e la dura vita di quegli anni di conflitto e persecuzione antisemita hanno sortiscono un influsso molto negativo sulla vita pubblica e privata della poetessa che, delusa dalla storia e turbata nella psiche, prende a scrivere in lingua inglese per tornare al tedesco solo nel 1956, un anno prima di incontrare nuovamente Paul Celan, a Parigi.
Il suo secondo volume di poesie Blinder Sommer viene pubblicato nel 1965, questa volta con grande successo. Nel 1966 Rose Ausländer ritorna in Germania e, pur non conoscendo la lingua italiana, si reca più volte in Italia, in particolar modo a Venezia, che la affascina per la sua atmosfera.
È la lingua tedesca, quella che non ha mai abbandonato – anche se nel periodo vissuto a New York scrive in inglese – la sua vera casa nonostante la miseria, nonostante la persecuzione (è di famiglia ebrea), nonostante la malattia fisica e psichica che la colpisce presto e che negli ultimi anni della sua vita la costringe a letto.
Nonostante tutto, Rose Ausländer è la poeta della speranza che canta, a voce bassa, la vita in tutta la sua bellezza e terribilità. Disse di sé: Mi scrivo nel nulla. «Esso mi conserverà per sempre.»
Stefanie Golisch, scrittrice e traduttrice è nata nel 1961 in Germania e vive dal 1988 in Italia. Ultime pubblicazioni in Italia: Luoghi incerti, 2010. Terrence Des Pres: Il sopravvivente. Anatomia della vita nei campi di morte. A cura di Adelmina Albini e Stefanie Golisch, 2013. Ferite. Storie di Berlino, 2014. Nove sue poesie sono presenti nella Antologia cura di Giorgio Linguaglossa Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Roma, Progetto Cultura, 2016)
Paul Delvaux, Landscape with Lanterns, 1958
Bekenntnis
Ich bekenne mich
zur Erde und ihren
gefährlichen Geheimnissen
zu Regen Schnee
Baum und Berg
Zur mütterlichen mörderischen
Sonne zum Wasser und
seiner Flucht
zu Milch und Brot
zur Poesie
die das Märchen vom Menschen
spinnt
zum Menschen
bekenne ich mich
mit allen Worten
die mich erschaffen
Confessione
Confesso
la terra e i suoi
segreti pericolosi
pioggia neve
montagna albero
il sole materno assassino
l’acqua e
la sua fuga
latte e pane
la poesia
che ordisce la fiaba
dell’uomo
confesso
l’uomo
con tutte le parole
che mi creano
Versöhnung
Wieder ein Morgen
ohne Gespenster
im Tau funkelt der Regenbogen
als Zeichen der Versöhnung
Du darfst dich freuen
über den vollkommenen Bau der Rose
darfst dich im grünen Labyrinth
verlieren und wiederfinden
in klarerer Gestalt
Du darfst ein Mensch sein
arglos
Der Morgentraum erzählt dir
Märchen du darfst
die Dinge neu ordnen
Farben verteilen
und wieder
schön sagen
an diesem Morgen
du Schöpfer und Geschöpf
Riconciliazione
Ancora una mattina
senza spettri
nella rugiada scintilla l’arcobaleno
come segno di riconciliazione
Puoi gioire
della fattura perfetta della rosa,
puoi perderti nel verde labirinto
e ritrovarti
in una veste più chiara
Puoi essere umano
senza sospetto
Il sogno mattutino ti racconta
favole tu puoi
riordinare le cose
spargere colori
e dire ancora
bello
stamani
tu creatore e creato
Mutterland
Mein Vaterland ist tot
sie haben es begraben
im Feuer
Ich lebe
in meinem Mutterland
Wort
Rose Ausländer
Patria madre
La mia patria è morta
l’hanno seppellita
nel fuoco
Io vivo
nella mia patria madre
parola
rose-auslander
Nicht fertig werden
Die Herzschläge nicht zählen
Delphine tanzen lassen
Länder aufstöbern
aus Worten Welten rufen
horchen was Bach
zu sagen hat
Tolstoi bewundern
sich freuen
trauernd
höher leben
tiefer leben
noch und noch
nicht fertig werden
. Non finire
Non contare i battiti del cuore
fare danzare i delfini
scoprire paesi
dalle parole chiamare mondi
ascoltare quello
che Bach ha da dire
ammirare Tolstoj
gioire
tristemente
vivere più in alto
vivere più in basso
ancora e ancora
non finire
. Nachtzauber
Der Mond errötet
Kühle durchweht die Nacht
am Himmel
Zauberstrahlen aus Kristall
. Ein Poem besucht den Dichter
Ein stiller Gott
schenkt Schlaf
eine verirrte Lerche
singt im Traum
auch Fische singen mit
denn es ist Brauch
in solcher Nacht
Unmögliches zu tun
Magia notturna
La luna arrossisce
l’aria fresca attraversa la notte
nel cielo
raggi magici di cristallo
Rose Ausländer
Una poesia fa visita a un poeta
Un dio silenzioso
dona il sonno
una allodola smarrita
canta nel sogno
anche i pesci cantano insieme
perché si usa
fare cose impossibili
in una notte come questa
. Noch bist du da
Wirf deine Angst
in die Luft
Bald
ist deine Zeit um
bald
wächst der Himmel
unter dem Gras
fallen deine Träume
ins Nirgends
Noch
duftet die Nelke
singt die Drossel
noch darfst du lieben
Worte verschenken
noch bist du da
Sei was du bist
Gib was du hast
. Ancora ci sei
Butta la tua paura
nell’aria
Presto
il tuo tempo finirà
presto
il cielo crescerà
sotto l’erba
i tuoi sogni
cadranno nel nulla
Ancora
profuma il garofano
canta il tordo
ancora puoi amare
regalare parole
ancora ci sei
sii ciò che sei
dai ciò che hai
*
Neue Zeichen
brennen
am Firmament
doch
sie zu deuten
kommt kein Seher
und
meine Toten
schweigen tief
*
Nuovi segni
bruciano
al firmamento
ma
non c’è veggente
per interpretarli
e
i miei morti
tacciono profondamente
Rose Ausländer
Das Weißeste
Nicht Schnee
Weißer die Zeichen
die der Einsiedler
auf die Tafel der Einsamkeit
schreibt
Das Weißeste
Zeit
. Il più bianco
Non la neve
Più bianchi i segni
che l’eremita
scrive sulla tavola
della solitudine
Il più bianco
il tempo
Wer
Wer wird sich meiner erinnern
wenn ich gehe
Nicht die Spatzen
die ich füttere
nicht die Pappeln
vor meinem Fenster
der Nordpark nicht
mein grüner Nachbar
Meine Freunde werden
ein Stündchen traurig sein
und mich vergessen
Ich werde ruhen
im Leib der Erde
sie wird mich verwandeln
und vergessen
Chi
Chi si ricorderà di me
quando me ne andrò
Non i passeri
che cibo
non i pioppi
davanti alla mia finestra
non il parco nord
mio verde vicino
I miei amici saranno
tristi per un’oretta
e mi dimenticheranno
Riposerò
nel grembo della terra
mi trasformerà
mi dimenticherà
Hoffnung II
Wer hofft
ist jung
Wer könnte atmen
ohne Hoffnung
daß auch in Zukunft
Rosen sich öffnen
ein Liebeswort
die Angst überlebt
. Speranza II
Chi spera
è giovane
Chi potrebbe respirare
senza la speranza
che anche in futuro
le rose si apriranno
una parola d’amore
sopravvivrà la paura
rose-auslander
Gib mir
Gib mir
den Blick
auf das Bild
unsrer Zeit
Gib mir
Worte
es nachzubilden
Worte
stark
wie der Atem
der Erde
. Dammi
Dammi
lo sguardo
sull’immagine
del nostro tempo
Dammi
le parole
per riprodurlo
Parole
forti
come il respiro
della terra
.
Wo sich verbergen
Wo
wenn der Regen abspringt
von schmutzigen Ziegeln
wo
wenn der Damm reißt im
Gedächtnis und die
gestauten Wasser hervorbrechen
wo
sich verbergen
wenn sie dich anfallen
ungestüm
und sich verbünden mit
stürzenden Himmeln
Rose Ausländer
.
Dove nascondersi
Dove
quando la pioggia
si stacca dalle tegole sporche
dove
quando la diga si rompe nella
memoria e le acque stivate
irrompono
dove
nascondersi
quando ti assaltano
impetuosi
e s’uniscono con
i cieli cadenti
rose-auslander
Denn
Denn ich hab dir
nichts versprochen
nur den Docht für die Lampe
und das Kännchen Öl
für gedämpftes Licht
auf dem Tisch
mit den Blutflecken
Den Teppich
kann ich nicht weben
mit diesen Fäden aus Draht
Sag nicht Gute Nacht
die Nacht ist nicht gut
die fremde vergessliche Nacht
Poiché
Poiché non ti ho
promesso nulla
solo lo stoppino per la lampada
e il bricco d’olio
per una luce bassa
sul tavolo
macchiato di sangue
Non posso tessere
il tappeto
con questi fili di ferro
Non dire Buona notte
la notte non è buona
notte estranea senza memoria
Raum II
Noch ist Raum
für ein Gedicht
Noch ist das Gedicht
ein Raum
wo man atmen kann
Stanza II
Ancora c´è spazio
per una poesia
Ancora la poesia
è uno spazio
dove si può respirare
Weil
du ein Mensch bist
weil
ein Mensch eine Muschel ist
die manchmal tönt
weil
du in mir tönst
als wär ich eine Muschel
weil
wir uns kennen
ohne Namen und Samen
weil
das Wort Welle ist
weil
du Wort und Welle bist
weil
wir strömen
weil
wir manchmal
zusammenströmen
Wort Welle Muschel Mensch
. Perché
tu sei un uomo
perché
un uomo è una conchiglia
che a volte suona
perché
tu suoni in me
come se fossi una conchiglia
perché
ci conosciamo
senza nome né seme
perché
la parola è onda
perché
tu sei parola e onda
perché
noi scorriamo
perché
a volte scorriamo
insieme
parola onda conchiglia uomo
Hoffnung IV
Mein
aus der Verzweiflung
geborenes Wort
aus der verzweifelten Hoffnung
daß Dichten
noch möglich sei
. Speranza IV
La mia parola
nata dalla
disperazione
dalla disperata speranza
che è ancora possibile
fare poesia
. Bukowina II
Landschaft die mich
erfand
wasserarmig
waldhaarig
die Heidelbeerhügel
honigschwarz
Viersprachig verbrüderte
Lieder
in entzweiter Zeit
Aufgelöst
strömen die Jahre
ans verflossene Ufer
. Bukovina II
Paesaggio che mi
inventò
braccia di acqua
capelli di bosco
le colline di mirtilli
nere di miele
Canzoni fratelli
in quattro lingue
in tempi disuniti
Dissolti
scorrono gli anni
alla riva di una volta
. Dichten
Sieben Höllen
durchwandern
Der Himmel sieht
es gern
geh sagt er
du hast nichts
zu verlieren
Fare poesia
Attraversare
sette inferni
Il cielo
è d’accordo
vai dice
non hai nulla
da perdere
Stefanie Golisch
Stefanie Golisch, scrittrice e traduttrice è nata nel 1961 in Germania e vive dal 1988 in Italia. Ultime pubblicazioni in Italia: Luoghi incerti, 2010. Terrence Des Pres: Il sopravvivente. Anatomia della vita nei campi di morte. A cura di Adelmina Albini e Stefanie Golisch, 2013. Ferite. Storie di Berlino, 2014. Nove sue poesie sono presenti nella Antologia cura di Giorgio Linguaglossa Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Roma, Progetto Cultura, 2016)
Poesie da “Poesie Verdi”- da “Mobili”- da “Oggetti” (canto per Ustica)- da “Langue”- da “Altri ambienti”
VOCE
Senza preavviso la tua voce mi risuona di colpo lenta lenta – guardavo ferma la fuga delle mattonelle? attendevo un bus? un pane dal fornaio?-. proprio allora, proprio lei piano rinasce la tua voce, sottovoce, nota a nota non intera, sillabe affettuose come cura interminabile per un attimo mi sana, terapia buona mollica per il cervello. da “Oggetti” (canto per Ustica)
POMODORI RADICI FOGLIE
LEILA FALA’-Poesie da “Oggetti” (canto per Ustica)
Pomodori radici foglie compone il pensiero e tenue lo tiene al concreto lavorare la terra. Pulisco una foglia da un piccolo insetto dimentico presto la fretta coltivo non vista il mio tempo Allora sento scorrere la lentezza Respiro. – Poesie verdi –
SANDALI
Nello spazio stretto fra un sandalo divelto e la parola estate si consuma piano la mancanza e lenta si avverte l’assenza e si precipita nel mondo sospeso delle vite perse con i loro pettinini, pastiglie, spazzolini così poco adatti all’occasione eppure così appropriati nei loro necessaire per la vacanza. Questi siamo noi, colti nel nudo della nostra vita questi erano loro impreparati. da “Oggetti” (canto per Ustica)
SOLO AMICI
Ah ecco allora. È così che funziona. Perché i fidanzati almeno si lasciano. Allora piangono sui lavandini dei bagni camminano fino a perdersi si lamentano ai telefoni non mangiano più nulla mangiano cioccolata vengono coccolati. Non noi, noi no, che eravamo solo amici solo non ci siamo più sentiti non hai telefonato non hai più risposto quando ho chiesto “come stai?” e tutte quelle cose non le posso fare non mi posso lamentare non mi puoi mancare neanche posso farmi consolare. Neanche a Natale. Scalza. Lavoro al computer. Scrivo parole. Ho scarpe senza suole.
LEILA FALA’
GIORNI
Ci sono giorni che non riesco a starmene seduta la sedia è troppo alta, il divano non accoglie. Ci sono i giorni del letto duro e inospitale che pare il disordine insopprimibile del cosmo riversarsi in un instabile equilibrio del mio corpo. Se ne stanno dure le cose e ossute preoccupate di seguire il palinsesto quotidiano. da “Mobili”
MI HANNO INSEGNATO A SCUOLA
Mi hanno insegnato a scuola l’albero. Si estende. Con le braccia accoglie . Ho imparato quasi solo la città come albero si dipana contraddice se stessa trattiene, raccoglie estranea non accoglie. – Poesie verdi –
A SCAVARE A SCAVARE
A scavare a scavare a scovare patate da terra un tesoro insospettato nascosto la sotto solo segnalato da una piantina di foglie sopra il terreno. Strano che le patate non crescano nelle reti del supermercato. – Poesie verdi –
LA MIA CASA E’ IN CITTA’
La mia casa è in città. La città avvolta da rumori meccanici e aria senza movimento. Ma le mie finestre toccano i rami degli alberi il vento li fa dondolare penso sempre di abitare la vacanza lenta. – Poesie verdi –
LANGUE
L’oca langue langue d’oc lingua d’oca batte qua e qua sguazza e gioca evoca cantori e rifà il verso poi si basta e s’acquieta Lingua scritta in punta di penne ad ingannevoli equazioni sussurra dis-soluzioni senso e dissenso leggera si eleva e leva il torpore intenso causato da abusi mediatici di senso da lingua diva televisiva finta oca che gioiva giuliva ma illanguidiva e ti seduceva Lingua di piuma che eroica si batte ma è sola e poca e si fa fioca senza stupire starnazza povera lingua. D’altra parte è d’oca perciò stupidamente ora langue Così la penna. da “Langue”
FINESTRE
Certe sere preferisco finestre chiuse. E’ quando l’arietta, le tende che svolazzano mi soffiano via la testa immagino me stessa prendere la rincorsa e dal centro della stanza saltare fuori dalle cose. Il mio corpo si librerebbe per un attimo volerebbe fermo lì a mezza via libertà di cartoooon. On. Off. da “Altri ambienti”
OGGETTI
Noi non eroi non ministri né santi ci accontentiamo di cose che si possono acquistare per sopire un sospetto di vuoto e solitudine nelle nostre vite abituali. Prodotti di mercato. Oggetti. Merci normali. Questi sono i nostri resti. Eppure è negli oggetti che ti cerco e ancora e in ciò che è stato tuo riaffiori in tepore. Restano loro a me come se potessero reggere il mondo. da “Oggetti” (canto per Ustica)
LEILA FALA’
HO CAMMINATO NEL BOSCO
Ho camminato nel bosco ho colto asparagi e bocci alla fine ero stanca, affamata. Che frittata quella sera. – Poesie verdi –
EQUILIBRI
Ecco siamo a fianco a fianco è stato un lungo andare architettando strategie delicate guglie di ceramica che sostenessero per difetto solidi costrutti quotidiani. da “Altri ambienti”
DI RIFLESSO
Come si affianca all’uno l’altro treno di notte alla stazione quando i vetri dall’altro lato specchiano l’errore raddoppiando l’illusione di partenza, non capisco mai all’inizio se sono io che parto o se sei tu a staccarti lasciandomi con tutto ancora dentro le valigie.
ABAT-JOUR
Quando a colloquio col sonno mi spoglio scappano dai ripari diurni del corpo penzolano su l’abat-jour in attesa sul colle dei libri non letti sui colloqui virtuali di cellulari in riposo ali di parole dette lette ascoltate rubate a bocche distratte e insegne loquaci. Attendono come passeri sul filo che la luce si spenga. E vanno a infilarsi rimescolate nei sogni a spiegare i significati della mia irrequietezza il senso dei gesti non fatti. Mi sospingono fino a depositarmi verso minuscole verità della vita. da “Mobili”
MERENDINE
Ecco il bifidus che ci salva il mondo mentre il sogno screpola, affanna incastrato tra i denti del quotidiano nelle misere vite che rincorriamo nell’immagine video desolata nella spelonca delle veline delle escortine, delle brave mammine delle ministre maestrine delle mafie di stato. Abbiamo disoccupato le strade dai sogni. Ora sono vuote. Nel vuoto carico, tirato a lucido ci basteranno merendine dietetiche gusto cioccolato, per la felicità?
CERTE SERE
Certe sere che mi ami si vede che mi ami e allora non ho tanto bisogno di tutte quelle paillettes sulle ciglia per sopravvivere. da “Altri ambienti”
MOBILIA
Scaffale a giorno su misura componibile adattabile ai momenti di solitudine. Brulica di pensieri smodati in edizione economica e brossura. Disponibile anche in metallo per risuonare il mezzogiorno e non dimenticare di mangiare. Tappeto in lana per scivolare dal divano. Antimacchia durevole, resistente con motivi suonati a mano. Disponibile anche in altri pensieri per baci nuovi lusinghieri. Cassettiera stile libero con alone senza bicchiere completa, corredata di affetti personali e scrittoio a scomparsa per guerre senza parole colme di effetti collaterali. Causa trasloco cedesi prezzi trattabili. da “Mobili”
-Giulia Ananìa L’AMORE È UN ACCOLLO Poesie (quasi) romantiche parole cantate da
: romane come la lingua universale che fu di Pier Paolo Pasolini e di Gabriella Ferri–
-Editore -Red Star Press- ROMA-
Poesie Erotiche e ironiche, tenere e al tempo sferzanti, innamorate persino nella disillusione e dolci anche quando piangono e, nel sorridere, riflettono, commuovono e feriscono…L’AMORE È UN ACCOLLO Così sono le parole cantate da Giulia Ananìa: romane come la lingua universale che fu di Pier Paolo Pasolini e di Gabriella Ferri, stradaiole per vocazione girovaga di un’autrice dalle radici capaci di estendersi da Trastevere a Bombay; e, come uno scalpello, capaci di cesellare in un tempo via via crudele e indifferente quegli attimi di assoluto stupore a cui si dà il nome di Poesia.
-Editore -Red Star Press- ROMA-
Quella della cooperativa editoriale Red Star Press è la storia di un piccolo gruppo di lavoratrici e lavoratori che, dopo aver prestato a lungo il proprio braccio e la propria mente all’industria editoriale, prendono la decisione di fare una cosa diversa: creare loro stessi, e senza padroni, una casa editrice in grado di dare il giusto spazio ai temi relativi alla storia e alla memoria del movimento operaio. Correva l’anno 2012 e, nel mese di aprile, vedeva la luce il primo titolo con la stella in copertina.
Si trattava de “Il libretto rosso della Resistenza”, destinato a inaugurare la collana “I libretti rossi”, pensata per offrire in chiave divulgativa i testi dei giganti del pensiero politico rivoluzionario e in modo sintetico quelli che sono stati i grandi momenti di riscossa popolare. Insieme ai “Libretti rossi”, nel giro di pochi mesi arrivano in libreria e negli infoshop di movimento i volumi della collana “Unaltrastoria” e “Tutte le strade”: libri concepiti per durare nel tempo, concentrandosi, rispettivamente, sulla storia delle grandi lotte di liberazione e, in modo meno convenzionale, su generi come il reportage, la biografia, il memoir, il fumetto, la narrativa e la poesia, per tradurre con la carta e con l’inchiostro quelle che sono le aspirazioni di cambiamento provenienti da ogni tempo e da ogni paese. Con gli anni, a questa programmazione, si sono affiancati i contenuti ospitati nelle collane “Le Fionde” (saggistica politica), “Barrio Chino” (urbanistica, geografia sociale e antropologia urbana) e, dedicata ai bambini e alle bambine, la nuova collana “Red Star Kidz”: materiale che, fedeli alla nostra vocazione “stradaiola”, abbiamo avuto l’occasione di diffondere nel corso dei principali appuntamenti dedicati ai libri in giro per l’Italia. costruendo un punto di riferimento orgogliosamente antifascista, antisessista e antirazzista agli ingranaggi collettivi della memoria.
Ci sono altri temi particolarmente cari alla Red Star Press. La musica, la controcultura e lo sport popolare – un campo rispetto al quale, dalla Red Star, nasce l’etichetta Hellnation Libri – e poi l’arte contemporanea e ipercontemporanea, di cui, in modo sistematico, si occupa l’altra etichetta della cooperativa: Bizzarro Books.
Nella sede di viale di Tor Marancia 76, a Roma, in ogni caso, la Red Star Press non si occupa solo di libri. Dalla serigrafia, infatti, escono le t-shirt ispirate alle pubblicazioni e fedeli alla stessa linea editoriale: pensiamo ciò che siamo e stampiamo ciò che pensiamo; e ciò che siamo lo indossiamo! O, convinti che muri puliti possano solo significare popoli muti, lo appendiamo: come accade con le grafiche dedicate ai grandi personaggi della storia popolare.
Questa, in sintesi, è la storia della Red Star Press. E identici sono i motivi che ispirano il suo lavoro. Affinché l’editoria torni a dare spazio ai sogni. In attesa di assaltare il cielo.
Red Star Press
Viale di Tor Marancia 76
Roma, Italia
CAP 00147
«Giulia mi sembrava quella che ho spesso cercato e non ho mai trovato» (Carlo Verdone)
Giulia Ananìa
Erotiche e ironiche, tenere e al tempo sferzanti, innamorate persino nella disillusione e dolci anche quando piangono e, nel sorridere, riflettono, commuovono e feriscono… Così sono le parole cantate da Giulia Ananìa: romane come la lingua universale che fu di Pier Paolo Pasolini e di Gabriella Ferri, stradaiole per vocazione girovaga di un’autrice dalle radici capaci di estendersi da Trastevere a Bombay; e, come uno scalpello, capaci di cesellare in un tempo via via crudele e indifferente quegli attimi di assoluto stupore a cui si dà il nome di Poesia.
Com’è che te chiami stavolta?
Qual è il tuo nome d’arte?
Marta? Federico? Carlotta?
Vabbè è inutile che te cerchi un nome
te chiami Amore-
Giulia Ananìa
Introduzione di Carlo Verdone-Postfazione di Irene Ranaldi
Edizioni Red Star Press Viale di Tor Marancia 76 Roma, Italia CAP 00147
La mia spada è la poesia. Versi di lotta e d’amore nell’opera della poetessa persiana Simin Behbahani
WriteUp Edizioni-Roma
Simin Behbahāni (in persiano سیمین بهبهانی; Teheran, 20 giugno1927 – Teheran, 19 agosto2014) è stata una poetessairaniana. La presente monografia costituisce la prima indagine sistematica in italiano sulla poetessa persiana Simin Behbahāni (Tehran 1927 – Tehran 2014), due volte candidata al Nobel, e include una vasta antologia con gli originali persiani in appendice. I componimenti debitamente commentati di Simin Behbahāni sono disposti nel volume in ordine tematico, in modo da offrire un affresco significativo della sua poesia, nel contesto degli eventi salienti e spesso drammatici della storia dell’Iran contemporaneo. Nei suoi versi, caratterizzati da un forte e ostinato impegno civile, si riflettono spesso le condizioni dei disagiati ed emarginati, poiché Simin dà voce a quelli che una voce non hanno, in particolare a donne cui, senza essere una femminista dichiarata, ella offre larghissimo spazio. Simin si dedica anche al “diverso”, all’escluso: il ladruncolo, l’infanticida, la prostituta, la zingara; a quest’ultima anzi, divenuta quasi il suo alter ego, la poetessa intitola la raccolta “Zingaresche”. Ma la sua figura poliedrica, che oscilla tra classicismo e innovazione, si esprime anche attraverso squisiti versi lirici che trasudano sentimento ed erotismo, senza mai del tutto abbandonare la cornice dell’impegno civile. In effetti persino nei suoi versi amorosi, l’io lirico erompe talvolta in grida di denuncia contro le disuguaglianze, sociali e di genere, contro la violenza di ogni potere individuale o politico:
Simin Behbahani
La mia spada
La mia spada alla parete appendere, no, non voglio
Al dolce sonno abbandonarmi se non nella tomba, io non voglio. La mia spada è questa stessa poesia più efficace di qualsiasi spada Con questa spada che dolcemente agisce sangue versare non voglio Tranne la verità non so dire: se dovessero tagliarmi la testa La testa porgerei in avanti evitare la morte no, non voglio. O uomo, io sono una donna, un essere umano se pervendetta sulla mia testa Non metterai una corona di spine mi basta: che tu vi sparga le rose, certo non voglio. Con sette colori di seta io tesso d’amore uno scialle
Ma sfibrare questi fili colorati io proprio non voglio Non voglio a ogni istante le fiamme alla nostra città appiccare. Ogni giorno una rivolta nel mondo io di sicuro non voglio O tu, misogino dalla sorte infausta basta guerra follia e ignoranza! Se tutto questo desideri tu vattene, io no, certo non lo voglio!
Simin Behbahani
Biografia
Azamā Arghun, una delle intellettuali più dotte della sua epoca, padroneggiava perfettamente la letteratura persiana, l’arabo, il francese e l’inglese. Aveva tradotto una biografia di Napoleone in persiano e fu attraverso un suo ghazal che conobbe Abbās Khalili, il direttore del quotidiano “Eqdām”, con il quale si sposò dopo un breve fidanzamento. Il matrimonio non durò a lungo, e Simin fu il frutto di questa breve unione. Lei stessa afferma di aver ereditato il suo talento letterario dalla madre e anche dal padre, autore di saggi e libri di storia, e uno dei primi in Iran a pubblicare romanzi in stile occidentale1 Abbās Khalili fondò inoltre il giornale “Eqdām” in epoca anteriore al regime dei Pahlavi e lo curò per altri vent’anni dopo il settembre 1941.
Simin Behbahani
Fakhr-e Azamā Arghun, sua madre, una donna all’avanguardia in un’epoca in cui leggere e scrivere era considerato quasi un peccato per le donne, ricevette un’alta formazione in diverse discipline, studiando letteratura, legge e diritto islamico, lingua araba, astronomia, filosofia, logica e geografia sotto la direzione di vari precettori e maestri che si occuparono anche dei suoi due fratelli. Cominciò presto a insegnare francese, e fu una delle prime a fondare, insieme ad altre donne intellettuali, l’associazione “delle donne patriottiche”. Per diversi anni Fakhr-e Azamā Arghun e le sue colleghe e amiche si spesero per fornire educazione e istruzione a tante iraniane meno fortunate di loro. Simin crebbe dunque in un ambiente stimolante e già a dodici anni cominciò a mettere insieme qualche verso; a quattordici il suo primo ghazal venne pubblicato dal giornale “Now Bahār”, curato dal celebre poeta e finissimo letterato Malek ol-Sho’arā Bahār (1885-1952). Questo suo primo ghazal, che lasciava già trasparire un chiaro interesse per i temi sociali, cominciava così: ای توده گرسنه و نالان چه می کنی؟ ای ملت فقیر و پریشان چه می کنی؟ Tu, popolo affamato e lamentoso cosa farai? Tu popolo povero e abbattuto cosa farai?
Simin lasciò gli studi a metà delle scuole medie, dopo uno scontro con il preside della scuola, che l’accusava di aver scritto in un giornale un anonimo rapporto sulle condizioni sgradevoli del collegio in cui studiava. La vicenda fu riportata anche da giornali controllati dal partito comunista “Tudeh”, cui Simin collaborò per un certo tempo fino a quando questo rapporto non si interruppe per motivi politici. Questo evento cambiò comunque il destino di Simin e l’orientamento della sua poesia, che da quel momento privilegiò il tema della battaglia contro l’ingiustizia. Due mesi dopo l’espulsione dalla scuola, in un periodo di confusione e incertezza sui propri obiettivi, Simin sposò Hassan Behbahāni a diciassette anni. Lei stessa descrive questo matrimonio come un “terreno glaciale” che aveva ridotto il suo corpo in cenere e le sue speranze in perpetue fredde illusioni.
Simin ebbe tre figli, ma non si sentì mai innamorata, e non trovò mai compatibile la sua visione della vita con quella del marito. Grazie tuttavia alla svolta del matrimonio, ella riuscì a ritrovare l’energia e la determinazione per finire le scuole superiori e, in seguito, venne ammessa alla facoltà di giurisprudenza. Il suo secondo matrimonio, con Manouchehr Koushiyār, durò quattordici anni. Simin così rievoca quegli anni: “Ho trascorso tutto quel periodo con amore e sacrificio per poter rendere felice un uomo che alla sua scomparsa mi lasciò in una solitudine eterna”. A Manouchehr Koushiyār è dedicato il libro “Quell’uomo, il mio compagno di strada”, in cui così ricorda gli anni trascorsi insieme: “Finimmo insieme gli studi di giurisprudenza. Io diventai insegnante di letteratura nelle scuole superiori e rimasi in quella professione, mentre lui intraprese l’attività di avvocato; eravamo felici in quei giorni trascorsi insieme, con l’amore che ci univa”.
Simin Behbahani
La poetica di Simin
Simin viaggiò e partecipò a diverse conferenze e programmi internazionali inerenti alla letteratura e alla questione femminile, ma non rimase mai per lungo tempo lontana dall’Iran. Più volte ha ribadito nel corso della sua vita di essere interessata a conoscere e approfondire le usanze, i costumi e i modi di vivere del suo amato paese. Il sentimento patriottico, accanto alla sensibilità per i temi sociali, è certamente una delle corde predilette del suo canto. Sia nella poesia che nelle interviste Simin rimane fedele a una dichiarazione che suona quasi come un manifesto poetico: “O mio paese, con il tuo passato, i tuoi poeti, i tuoi sovrani e le tue resistenze, e tutte le tue sofferenze, tutti i tuoi trionfi e tutti i tuoi inverni infiniti: io mi ricordo tutto di te”. E in un’altra occasione Simin afferma: “Qui c’è tutta la mia gioia, la poesia e la passione / qui c’è il mio trono, la mia bara e la mia tomba”. Simin comincia a comporre le sue poesie in forma di quartine, e poi prosegue con il ghazal, forma classica a cui apporterà alcune importanti innovazioni formali. I suoi ghazal costituiscono spesso una riflessione sulle condizioni sociali e le conseguenti ripercussioni nella sfera delle emozioni individuali. Le parole di Simin, in estrema sintesi, si potrebbero vedere come “reazione” poetica alle provocazioni del mondo esterno, della vita sociale, della storia dell’Iran contemporaneo.
Opere
Ecco di seguito un elenco delle sue opere principali (dove non diversamente specificato, il testo si compone interamente di poesie):
1951 Setar shekaste (Il Setar rotto) poesie e due racconti 1956 Jāy-e pā (L’impronta dei piedi) 1957 Chelcherāgh (Candelabro) 1963 Marmar (Marmo) 1973 Rastākhiz (Risurrezione) 1981 khatti ze sor’at va az ātash (La traiettoria della velocità e del fuoco) 1984 Dasht-e arjan (Pianura di Arzhan) 1989 Majmū’e-ye ash’ar (La raccolta delle poesie) 1991 Ān mard, marde hamraham (Quell’uomo, il mio compagno di strada, poesie e prose) 1992 Kāghazin jāme (Un abito di carta) 1995 Yek dariche Āzādi (Una finestra di libertà) 1995 Koli va nāme va eshgh (Zingara, lettera, amore) 1995 Āsheghtar az hamishe bekhan! (Canta, più innamorata di sempre!) 1995 Sha’eran-e emruz-e Faranse (I poeti contemporanei francesi) 1996 Bā ghalb-e khod che kharidam? (Cosa ho acquistato con il mio cuore?) 2000 Yad-e ba’zi nafarāt (Il ricordo di alcune persone) 2001 Kelid va khanjar: Ghesseha va ghosseha (La chiave ed il pugnale: le favole e le tristezze) 2001 Yeki masalan in ke (Uno per esempio che…) 2003 Majmū’e-ye ash’ar (Raccolta di poesie)
Simin Behbahani
Traduzioni e studi in italiano
Nahid Norozi, “La mia spada è la poesia”. Versi di lotta e d’amore nella poetessa persiana Simin Behbahāni (con ampia antologia di poesie tradotte e commentate, e con gli originali in appendice), WriteUp Books (“Ferdows. Collana di Studi iranici e islamici”), Roma 2023.
WriteUp deriva dall’inglese “to write up”, che vuol dire letteralmente “scriverci sopra, commentare”. Essere protagonisti del mondo di oggi significa esserci, commentare, tenere uno sguardo sempre vigile sulla realtà contemporanea.
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Angelo Sommaruga articolo scritto per la Rivista PAN N°2 del 1934-
Giosuè Carducci nasce il 27 luglio 1835 a Valdicastello, vicino Lucca, e fino al 1839 vive immerso nel meraviglioso paesaggio toscano della Maremma. Nella sua esperienza personale, questi anni in Toscana rivestono un ruolo fondamentale per la formazione della sua sensibilità: l’immagine di una natura incontaminata, energica e vitale accompagnerà tutta la sua produzione poetica. Dopo i primi studi, nel 1853 viene ammesso alla Scuola Normale Superiore di Pisa dove uscirà, laureato in Filologia, nel 1856.
Giosuè CARDUCCI
Passando da Pisa a Firenze, negli anni successivi all’Università, partecipa agli incontri della società “Amici Pedanti” che si batteva per un immediato ritorno al classicismo della letteratura contro la modernità e le nuove idee del Romanticismo, un dibattito molto sentito in Italia all’epoca in quanto ogni intellettuale e letterato del tempo si schierava – e lottava – a favore o contro il classicismo in contrasto con le idee romantiche. Sua la frase: «Colui che potendo esprimere un concetto in dieci parole ne usa dodici, io lo ritengo capace delle peggiori azioni.» Arrivano anni duri, però, per il giovane Carducci. Suo fratello muore suicida e presto anche il padre passa a miglior vita lasciando Carducci responsabile per la madre e per l’altro fratello. Sono comunque anni di intensa attività editoriale, non si da per vinto, cura varie edizioni di classici italiani e, negli stessi anni, sposa Elvira Menicucci da cui ebbe quattro figli. Nel 1859 cade il Granducato di Toscana, evento questo che suscita in lui un grande entusiasmo in vista dei moti risorgimentali, e fino agli anni immediatamente successivi all’Unità d’Italia insegnerà prima in un liceo di Pistoia poi all’Università di Bologna, dove vive a partire dal 1860. In questo periodo sale in lui una crescente delusione verso la nuova classe dirigente dello Stato Unitario – è soprattutto insofferente verso la mancata liberazione di Roma – e comincia ad appoggiare ideali repubblicani e giacobini fino ad un aspro anticlericalismo, tutti atteggiamenti questi che lo metteranno in cattiva luce davanti al governo ufficiale che arriverà addirittura a sospenderlo dall’insegnamento. Il 1870 si apre per Giosuè Carducci con altri gravi lutti: perde la madre e uno dei figli avuti nel primo matrimonio. Si accompagna però a questo dolore un grande successo come poeta, pubblica una raccolta di poesie e comincia una nuova relazione amorosa con una donna intellettuale entrata in contatto con lui, inizialmente, attraverso scambi epistolari: Carolina Cristofori Piva. Intanto il suo atteggiamento giacobino si affievolisce gradualmente e nel 1876 viene candidato come democratico alle elezioni parlamentari. Pian piano comincia ad accettare il ruolo dei monarchici Savoia come garanti dell’Unità italiana e, dopo l’incontro con la regina Margherita a Bologna, nel novembre del 1878, fu tanto grande per lui il fascino esercitato dalla donna che scrisse un’ode Alla regina d’Italia avviandosi così, definitivamente, verso gli ideali monarchici. Non solo: Giosuè Carducci diventa il vate dell’Italia umbertina e viene nominato, nel 1890, senatore del Regno. Gli ultimi anni continuano ad essere caratterizzati da una febbrile attività editoriale e poetica consacrando la sua posizione di poeta ufficiale dell’Italia monarchica. Vince il premio Nobel per la letteratura nel 1904 e a pochissimi anni da questo meritato successo muore a Bologna, per una broncopolmonite, il 16 febbraio del 1907.
Curiosità
Giosuè Carducci così descriveva se stesso: «Sono superbo, iracondo, villano, soperchiatore, fazioso, demagogo, anarchico, amico insomma del disordine ridotto a sistema; e mi è forza fare il cittadino quieto e da bene.» Era notoriamente amante del buon cibo e del vino, organizzava mangiate con gli amici che iniziavano la mattina e terminavano la sera e pare che la sua collaborazione con la rivista “Cronaca Bizantina” venisse pagata con barili di Vernaccia!
Lo stile di Carducci
Un nuovo tipo di Classicismo da opporre al RomanticismoIn Italia, nonostante la diffusione di alcune delle idee romantiche circolanti in Europa nel corso dell’Ottocento, il classicismo non si è mai spento: l’educazione scolastica lo mantiene in vita e l’esempio di poeti come Monti, Foscolo e Leopardi garantiscono degli esempi autorevoli e dei modelli a cui rifarsi soprattutto per imitare il linguaggio aulico e latineggiante. A dispetto di questo, però, il classicismo ha assunto un aspetto stantio e chiuso: il mondo latino è divenuto solo un repertorio di figure a cui attingere e un linguaggio da imitare in modo sterile. Carducci invece ripropone un classicismo vitale ed energico che viene ad imporsi nella cultura italiana come un modello elevato di comunicazione poetica che si mescola con un grande bisogno di realismo. La poesia deve, attraverso un linguaggio e tematiche riprese dal mondo greco e latino, raccontare la realtà contemporanea senza introdurre elementi surreali o inquietanti come quelli del romanticismo.
Fonte- Studenti-Mondadori Media S.p.A. – Via Gian Battista Vico 42 –
CARDUCCI e la BIZANTINACARDUCCI e la BIZANTINACARDUCCI e la BIZANTINACARDUCCI e la BIZANTINACARDUCCI e la BIZANTINACARDUCCI e la BIZANTINACARDUCCI e la BIZANTINACARDUCCI e la BIZANTINACARDUCCI e la BIZANTINACARDUCCI e la BIZANTINACARDUCCI e la BIZANTINACARDUCCI e la BIZANTINACARDUCCI e la BIZANTINACARDUCCI e la BIZANTINACARDUCCI e la BIZANTINACARDUCCI e la BIZANTINACARDUCCI e la BIZANTINACARDUCCI e la BIZANTINACARDUCCI e la BIZANTINABiblioteca DEA SABINA- IL CARDUCCI E LA BIZANTINA -RIVISTA PAN FEBBRAIO 1934 19
Profilo di Agnese Monaco è Scrittrice, Poetessa, Commediografa, Musicista, Pittrice. Iscritta alla Siae, Dor ed Olaf. Ha scritto raccolte di poesie, vari romanzi , una raccolta di favole, testi musicali collaborando con grandi nomi del panorama musicale italiano,due commedie teatrali,tra cui (Cambia Canale) ed un cortometraggio (Redini di Vita sulle possibili cause della depressione. Ricordiamo anche la sperimentazione negli Ossimori, Paradossi, Haiku, Aforismi,Saggi Brevi,Recensioni, tradotti anche in lingua Inglese, Francese e Spagnola con relative pubblicazioni Italiane ed Estere. E’ presente nell’ambito letterario dal 1996 .Ultimamente si dedica anche alla fotografia. Ha partecipato con i suoi quadri a numerose mostre pittoriche, creando nuovi stili, facendo mosaici,dopo aver imparato le tecniche antiche,scalfendo rame,ed usando tutti i materiali che le trasmettevano vibrazioni. Nel 2007 viene scelta con il suo quadro “Sognando il Sol Levante”, tra i migliori del Lazio di quell’anno per un concorso. Attualmente un suo quadro sta “girando” nei vari Musei della Lombardia, insieme ad altre opere di altri autori. Affascinata dalla conoscenza di culture straniere per soddisfare le sue brame, dopo aver studiato per anni l’inglese, il francese, lo spagnolo si sta dedicando allo studio del giapponese. Sempre attenta alla tutela degli animali ed al volontariato ha donato i suoi contributi per queste cause.
Echi di sirene
Echi di sirene,
lacrime infrante,
spezza l’anima,
grida sante,
tortura infinita,
infligge la pena,
ma fai almeno che io non veda,
luce negli occhi,
echi distorti,
trema la voce,
ecco la croce,
tu con un’ altra,
resto affranta,
un turbine,
mi afferra,
ho bisogno di terra,
lampo, recidi l’ immagine,
occhi non dovete vedere,
speranze non dovete cadere,
resta ,
tutto resta,
echi di sirene traditemi,
fate di me un Ulisse,
almeno lui visse.
Lacrime sul viso,
guardandoti di lei intriso.
***
Brama di sapienza
Brivido della mente,
assapora ogni ardore,
osservandosi invadente.
Squisito frutto d’amore,
il credere in se stessi
distruggendo ogni dolore.
Ma, per ambo i sessi,
la vittoria più grande
è il credere in se stessi.
***
Nel fuoco
Nel Fuoco,
il cuore resta vuoto.
Un libro aperto,
esprime il tormento.
Una vita,
non è mai finita.
Esistenza iniziata,
dal passato riesumata.
Esule nell’oceano,
ti cerco invano.
Breve biografia di Agnese Monaco nasce a Roma nel Luglio del 1979. Scrittrice, Poetessa, Commediografa, Musicista, Pittrice. Iscritta alla Siae, Dor ed Olaf.Ha scritto raccolte di poesie, vari romanzi di cui uno stile beat generation, una raccolta di favole, testi musicali collaborando con grandi nomi del panorama musicale italiano,due commedie teatrali,tra cui (Cambia Canale) ed un cortometraggio (Redini di Vita) sulle possibili cause della depressione.Ricordiamo anche la sperimentazione negli Ossimori, Paradossi, Haiku, Aforismi,Saggi Brevi,Recensioni, tradotti anche in lingua Inglese, Francese e Spagnola con relative pubblicazioni Italiane ed Estere. È presente nell’ambito letterario dal 1996 .Ultimamente si dedica anche alla fotografia. Ha partecipato con i suoi quadri a numerose mostre pittoriche, creando nuovi stili, facendo mosaici,dopo aver imparato le tecniche antiche,scalfendo rame,ed usando tutti i materiali che le trasmettevano vibrazioni. Nel 2007 viene scelta con il suo quadro “Sognando il Sol Levante”, tra i migliori del Lazio di quell’anno per un concorso. Attualmente un suo quadro sta “girando” nei vari Musei della Lombardia, insieme ad altre opere di altri autori. Affascinata dalla conoscenza di culture straniere per soddisfare le sue brame, dopo aver studiato per anni l’inglese, il francese, lo spagnolo si sta dedicando allo studio del giapponese. Sempre attenta alla tutela degli animali ed al volontariato ha donato i suoi contributi per queste cause.
BookSprint Edizioni
Agnese Monaco
Questa Raccolta di poesie giovanili “E’ solo l’inizio di Agnese Monaco” nasce dall’esigenza di dare una qual forma di coerenza e razionalità ai pensieri sfusi del nostro tempo, alle complicate interrelazioni personali ed alle difficoltà che desolati eventi provocano nel nostro status quotidiano. Destini incrociati, sentimenti, gioie, dolori, disastri e riflessioni, giungono da sfondo a questo quadretto di immagini sublimate da eterni inchiostri. Convinta di soddisfare le vostre esigenze e bramosie di particolarità intellettuali vi auguro una lieta lettura.
Agnese Monaco
MOSTRE ed alcuni contest e concorsi:
Agnese Monaco
Finalista LIBERinARTE – in Mostra con un suo quadro in Provincia di Rieti 05/04/2009.
In mostra al Liceo Plauto di Roma con alcuni suoi quadri presso i locali della scuola anni :1995 -1996- 1997-1998 -1999.
E’ stata in Mostra con un suo quadro dal 10.09.2011 al 17.09.11 –Rocco Basciano Art Gallery Via Cascina Barocco, 10 Milano (MM1 Bisceglie).
E’ stata in Mostra con un suo quadro dal 17.11.2011 al 19.11.2011 – presso l’Associazione Circuiti Dinamici Spazio 2 | Via Giovanola, 19/c Milano [MM2 Abbiategrasso]
E’ stata in Mostra con un suo quadro dal 14.1.2012 al 28.1.2012 – presso la Galleria L’Acanto Via Enrico Nöe, 33 Milano [MM2 Piola].
In gara con una sua fotografia al Contest lumix life style 2011.
Ha partecipato al concorso fotografico “OBBBIETTIVO ROMA” I°ed.-2011-Pro Loco di Roma. Ed è presente nel Calendario nella copertina.
Ha partecipato su Arte per passione con l’opera “Biciclettando” per il MTB ORIENTEERING -2010- Il tema era la creazione del poster ufficiale del Mondiale assoluto di Mountain Bike Orienteering, previsto in Italia nel mese di agosto 2011.
Sta partecipando al concorso Arbre Magique- 2011 con tre idee grafiche per il noto alberello-2011
E’ Stata presente in Mostra con una sua fotografia da Sabatini –via Germanico 168/a – Roma. Dal 21.12.2011 al 13.1.2012 per il Contest di Radio Rock e Sabatini.
E’ stata in Mostra con un suo quadro il 17.03.2012 Auditorium PIME Milano – L’Associazione Polimnia, in collaborazione con il Centro Missionario P.I.M.E. di Milano in tale data ha presentato un Concerto di Primavera dove il ricavato è stato devoluto a sostegno dello sviluppo del continente africano, in particolare al raggiungimento degli obiettivi del progetto k 373 per il completamento della scuola materna ed elementare di Abidjian in Costa d’Avorio.
E’ stata inMostra con un suo quadro il 29 maggio 2012 al Centro Diurno -Ospedale San Carlo Borromeo -Azienda Ospedaliera, Via Francesco Primaticcio, 8 Milano.
E’ presente sui cartelloni “Nissan Quashquai” con due creazioni a Milano – Via Edmondo De Amicis , angolo Corso di Porta Ticinese.
E’ stata in mostra con quattro suoi quadri il 7 Luglio all’Open Gallery Indipendenza Gaeta – Ass. I Graffialisti – Pres. A.Magliozzi – Gaeta.
E’ stata in Mostra con un suo quadrodal 4.09.2012 al 14.09.2012 -Rocco Basciano Art Gallery Via Cascina Barocco, 10 Milano (MM1 Bisceglie).
Sarà in Mostra con un suo “MicroBook” contenente quattro sue poesie ed immaginiil 20.09.2012 -Rocco Basciano Art Gallery Via Cascina Barocco, 10 Milano (MM1 Bisceglie).
E’ stata in mostra con due sue opere presso ” Circuiti Dinamici ” Via Giovanola 19/c Milano [MM2 Abbiategrasso] Dal 19 novembre al 5 dicembre 2012.
E’ stata in mostra presso Circuiti Dinamici | Via Giovanola 19/c Milano [MM2 Abbiategrasso] dal 10.12.2012 al 9.01.2013.
Con un suo quadro è presente sul concorso MICRO2-Circuiti Dinamici.
Un suo quadro è in Mostra nel Museo della Poesipittura di Roscigno Vecchia (SA)- Gennaio 2013/febbraio 2013.
E’ stata in Mostra con un suo quadro all’ Atelier Chagall – Alzaia Naviglio Grande, 4, Milano , dal 2 al 10 Marzo 2013.
Un suo quadro è presente nella Mostra Permanente “Un ritratto per la venerabile Maria Bolognesi” presso il Centro Maria Bolognesi – via Giovanni Tasso,49, Rovigo.
Poesie di Konstantinos (Costantinos) Kavafis (gr. Κωνσταντῖνος Καβάϕης).
dal Blog L’Ombra delle Parole – Rivista Letteraria Internazionale
Appunto impolitico di Giorgio Linguaglossa
BIOGRAFIA di Konstantinos Kavafis nacque a Alessandria d’Egitto il 29 aprile 1863 e morì nell’ospedale greco San Saba di Alessandria d’Egitto il 29 aprile 1933. Trascorse ad Alessandria la maggior parte della sua vita, visitando la Grecia solo tre volte (nel 1901, 1903 e 1932). Il greco, la sua lingua poetica, lo dovette reimparare durante l’adolescenza.
Konstantinos Kavafis
Kavafis vivendo in una città di mare, meta di viaggiatori ed emigranti in cerca di fortuna, si trovò in un felice crogiuolo di incontro tra persone di diverse culture. In Europa, in campo poetico, dominavano i simbolisti francesi, in Egitto vi era la grandissima e mirabile tradizione della poesia araba e per ragioni familiari Kavafis era vicino anche alla poesia ellenica di Omero, Saffo, Alceo, Anacreonte. Impiegato per tutta la vita in un ufficio del ministero dei lavori pubblici d’Egitto coltivò quasi segretamente il suo amore per la poesia. In un primo tempo, compose i suoi versi in una lingua epurata ma dopo il 1903 si rivolse al parlato, arricchito di forme dialettali di Costantinopoli e di parole tratte dalla tradizione classica. Le sue liriche pubblicate postume nel 1936, si possono suddividere in due gruppi: quelle scritte prima del 1910, che risentono dell’influenza dei parnassiani e dei simbolisti, e quelle che, composte dopo il 1910, rappresentano la parte migliore della sua produzione. Formatasi al di fuori della tradizione, la sua opera segna una reazione agli ideali cantati da Palamas.
Itaca
Quando ti metterai in viaggio per Itaca
devi augurarti che la strada sia lunga,
fertile in avventure e in esperienze.
I Lestrigoni e i Ciclopi
o la furia di Nettuno non temere,
non sarà questo il genere di incontri
se il pensiero resta alto e un sentimento
fermo guida il tuo spirito e il tuo corpo.
In Ciclopi e Lestrigoni, no certo,
né nell’irato Nettuno incapperai
se non li porti dentro
se l’anima non te li mette contro.
Devi augurarti che la strada sia lunga.
Che i mattini d’estate siano tanti
quando nei porti – finalmente e con che gioia –
toccherai terra tu per la prima volta:
negli empori fenici indugia e acquista
madreperle coralli ebano e ambre
tutta merce fina, anche profumi
penetranti d’ogni sorta;
più profumi inebrianti che puoi,
va in molte città egizie
impara una quantità di cose dai dotti
Sempre devi avere in mente Itaca –
raggiungerla sia il pensiero costante.
Soprattutto, non affrettare il viaggio;
fa che duri a lungo, per anni, e che da vecchio
metta piede sull’isola, tu, ricco
dei tesori accumulati per strada
senza aspettarti ricchezze da Itaca.
Itaca ti ha dato il bel viaggio,
senza di lei mai ti saresti messo
in viaggio: che cos’altro ti aspetti?
E se la trovi povera, non per questo Itaca ti avrà deluso.
Fatto ormai savio, con tutta la tua esperienza addosso
già tu avrai capito ciò che Itaca vuole significare.
(1911)
.
Una notte
Era volgare e squallida la stanza,
nascosta sull’equivoca taverna.
Dalla finestra si scorgeva il vicolo,
angusto e lercio. Di là sotto voci
salivano, frastuono d’operai
che giocavano a carte: erano allegri.
E là, sul vile, miserabile giaciglio,
ebbi il corpo d’amore, ebbi la bocca
voluttuosa, la rosata bocca
ditale ebbrezza, ch’io mi sento ancora,
mentre che scrivo (dopo sì gran tempo!),
nella casa solinga inebriare.
Konstantinos Kavafis
Ogni tanto lui giura
Ogni tanto lui giura
di cominciare una vita migliore.
Ma quando viene la notte a tentarlo
con le promesse e con le sue lusinghe,
ma quando viene la notte che domina
la carne, a quei piaceri consueti
del corpo che desidera, che vuole,
perdutamente ancora s’abbandona.
Sulle scale
Mentre scendevo l’ignobile scala,
tu entrasti dalla porta e per un istante
vidi il tuo volto sconosciuto e tu vedesti me.
Subito mi nascosi per non farmi vedere di nuovo e tu
passasti rapido nascondendo il volto
e ti infilasti nell’ignobile casa
dove non avresti trovato il piacere,
così come non l’avevo trovato io.
Eppure l’amore che volevi io l’avevo da darti,
l’amore che volevo – me l’hanno detto i tuoi occhi
stanchi e ambigui – tu l’avevi da darmi.
I nostri corpi si avvertirono e si cercarono,
il sangue e la pelle intuirono.
Ma noi, turbati, ci eclissammo.
Il tavolo vicino
Avrà ventidue anni appena.
Ma – altrettanti anni fa – son certo
d’averlo goduto quello stesso corpo.
Non è affatto eccitamento d’amore.
Ero entrato da poco nel Casino;
per bere molto non avevo tempo.
Lo stesso corpo io l’ho goduto.
E anche se non rammento dove – un’amnesia che conta?
Ecco, ora che siede al tavolo vicino
riconosco ogni gesto – e sotto i suoi vestiti
rivedo nude quelle membra amate.
Il sole del pomeriggio
Questa camera, come la conosco!
Questa e l’altra, contigua, sono affittate, adesso,
a uffici commerciali. Tutta la casa, uffici
di sensali e mercanti, e Società.
Oh, quanto è familiare, questa camera!
Qui, vicino alla porta,
c’era il divano: un tappeto turco davanti,
e accanto lo scaffale con due vasi gialli.
A destra… no, di fronte… un grande armadio a specchio.
In mezzo il tavolo dove scriveva;
e le tre grandi seggiole di paglia.
Di fianco alla finestra c’era il letto,
dove ci siamo tante volte amati.
Poveri oggetti, ci saranno ancora, chissà dove!
Di fianco alla finestra c’era il letto.
E lo lambiva il sole del pomeriggio fino alla metà.
…Pomeriggio, le quattro: c’eravamo separati
per una settimana… Ahimè,
la settimana è divenuta eterna.
Aspettando I Barbari
.
Che aspettiamo, raccolti nella piazza?
Oggi arrivano i barbari.
Perché mai tanta inerzia nel Senato?
E perché i senatori siedono e non fan leggi?
Oggi arrivano i barbari Che leggi devon fare i senatori? Quando verranno le faranno i barbari.
Perché l’imperatore s’è levato
così per tempo e sta, solenne, in trono,
alla porta maggiore, incoronato?
Oggi arrivano i barbari. L’imperatore aspetta di ricevere il loro capo. E anzi ha già disposto l’offerta d’una pergamena. E là gli ha scritto molti titoli ed epiteti.
Perché i nostri due consoli e i pretori
sono usciti stamani in toga rossa?
Perché i bracciali con tante ametiste,
gli anelli con gli splendidi smeraldi luccicanti?
Perché brandire le preziose mazze
coi bei caselli tutti d’oro e argento?
Oggi arrivano i barbari, e questa roba fa impressione ai barbari.
Perché i valenti oratori non vengono
a snocciolare i loro discorsi, come sempre?
Oggi arrivano i barbari: sdegnano la retorica e le arringhe.
Perché d’un tratto questo smarrimento
ansioso? (I volti come si son fatti seri)
Perché rapidamente e strade e piazze
si svuotano, e ritornano tutti a casa perplessi?
S’è fatta notte, e i barbari non sono più venuti. Taluni sono giunti dai confini, han detto che di barbari non ce ne sono più.
E adesso, senza barbari, cosa sarà di noi?
Era una soluzione, quella gente.
(1908)
(traduzione di Filippo Maria Pontani)
Dal cassetto
Volevo appenderla a un muro della stanza.
Ma l’umidità del cassetto l’ha guastata.
Non la metto in un quadro questa foto.
Dovevo conservarla con più cura.
Queste le labbra, questo il viso…
ah, per un giorno solo, per un’ora
solo tornasse quel passato.
Non la metto in un quadro questa foto.
Mi fa soffrire vederla così guasta.
Del resto, se anche non fosse guasta,
che fastidio badare a non tradirmi…
una parola, o il tono della voce…
se mai qualcuno mi chiedesse chi era.
Per quanto sta in te
E se non puoi la vita che desideri
cerca almeno questo per quanto sta in te:
non sciuparla nel troppo commercio con la gente
con troppe parole e in un viavai frenetico.
Non sciuparla portandola in giro
in balìa del quotidiano gioco balordo
degli incontri e degli inviti
fino a farne una stucchevole estranea
Konstantinos Kavafis Poesie e prose – Bompiani
Candele
Stanno i giorni futuri innanzi a noi
come una fila di candele accese
dorate, calde e vivide.
Restano indietro i giorni del passato,
penosa riga di candele spente:
le più vicine danno fumo ancora,
fredde, disfatte, e storte.
Non le voglio vedere: m’accora il loro aspetto,
la memoria m’accora il loro antico lume.
E guardo avanti le candele accese.
Non mi voglio voltare, ch’io non scorga, in un brivido,
come s’allunga presto la tenebrosa riga,
come crescono presto le mie candele spente.
Aspettando i barbari
Che cosa aspettiamo così riuniti sulla piazza?
Stanno per arrivare i Barbari oggi.
Perché un tale marasma al Senato?
Perché i Senatori restano senza legiferare?
È che i barbari arrivano oggi.
Che leggi voterebbero i Senatori?
Quando verranno, i Barbari faranno la legge.
Perché il nostro Imperatore, levatosi sin dall’aurora,
siede su un baldacchino alle porte della città,
solenne e con la corona in testa?
È che i Barbari arrivano oggi.
L’Imperatore si appresta a ricevere il loro capo.
Egli ha perfino fatto preparare una pergamena
che gli concede appellazioni onorifiche e titoli.
Perché i nostri due consoli e i nostri pretori
sfoggiano la loro rossa toga ricamata?
Perché si adornano di braccialetti d’ametista
e di anelli scintillanti di brillanti?
Perché portano i loro bastoni preziosi e finemente cesellati?
È che i Barbari arrivano oggi e questi oggetti costosi abbagliano i Barbari.
Perché i nostri abili retori non perorano con la loro consueta eloquenza?
È che i Barbari arrivano oggi. Loro non apprezzano le belle frasi né i lunghi discorsi.
E perché, all’improvviso, questa inquietudine e questo sconvolgimento?
Come sono divenuti gravi i volti!
Perché le strade e le piazze si svuotano così in fretta
e perché rientrano tutti a casa con un’aria così triste?
È che è scesa la notte e i Barbari non arrivano.
E della gente è venuta dalle frontiere dicendo che non ci sono affatto Barbari…
E ora, che sarà di noi senza Barbari?
Loro erano una soluzione.
(traduzione di Filippo Maria Pontani)
Konstantinos Kavafis
Appunto impolitico di Giorgio Linguaglossa
Per Kavafis sono false le utopie delle grandi ideologie, sono falsi gli idoli della civiltà, è falsa la morale sessuale borghese; la verità non localizzata e temporalizzata nel corpo di un individuo non è verità ma menzogna. Vero è solo ciò che si può osservare da nessun luogo. Vero è il luogo del corpo. Kavafis guarda con sfiducia e sospetto alla cultura del suo tempo che si stava avviando alla più grande carneficina della storia. Per Kavafis l’uomo non è veramente umano se non è fedele ad un punto di vista che ha sede nel corpo. Allo stesso tempo, l’uomo non può disertare il suo posto, che però è sempre relativo, in tutte le epoche e in tutte le civiltà. Kavafis resta fedele all’unica certezza: alla dimensione individuale vitale, relativistica e prospettivistica; nella sua visione poetica il gesto definitivo non occupa alcun posto, c’è solo la prospettiva vitale che può dare un senso alla storia individuale e sociale. Per il poeta alessandrino la verità può essere soltanto una verità vitale e parziale, legata ai nostri sensi e ai nostri umori e alla nostra esistenza. Di conseguenza, sfiducia totale nella storia e sfiducia totale nelle ideologie della sua epoca e predilezione per una utopia rovesciata, la pittografia di una Alessandria astorica, irreale, pagana, nutrita dei fasti di un lontanissimo passato. È una Alessandria immaginaria, che non esiste, quella di Kavafis, frutto di una potente carica visionaria e fantastica. La fama di Kavafis comincia a diffondersi ad opera di Edward Morgan Forster, autore di romanzi piuttosto come Camera con Vista, Casa Howard, e Maurice, dai quali sono stati tratti film di successo. Forster lo incontrò ad Alessandria, e fece pubblicare alcune sue poesie tradotte in inglese sulle riviste londinesi. Seguirono altri ammiratori illustri, come W.H.Auden, T.S.Eliot, Marguerite Yourcenar, e diversi italiani, tra cui Ungaretti, nativo di Alessandria d’Egitto.
Trovo limitativa la definizione della lingua poetica di Kavafis come «caotico universo linguistico» di Pier Paolo Pasolini, grande ammiratore di Kavafis, soprattutto per quella parte della sua opera poetica dedicata all’eros efebico. Il poeta alessandrino disegna invece una utopia all’incontrario, una Alessandria d’Egitto che non esiste.
Nella poesia di Kavafis sorge per la prima volta nella poesia europea il mito dell’Efebo. Una sorta di Antinoo dei suburbi della città, poiché tutte le vicende delle sue poesie si svolgono in una Alessandria levantina, ricca di luci soffuse e di ombre. Il corpo oggetto d’amore è sempre quello di un giovane, del quale Kavafis quasi sempre fa scivolare nella poesia, come per caso, l’età efebica. Si avverte nettamente una nostalgia, un rimorso, un ricordo di un amore del lontano passato ormai irraggiungibile.
-“Poesia in forma di rosa” di Pier Paolo Pasolini-
Pier Paolo PASOLINI
–“La Guinea”–“Poesia in forma di rosa” di Pier Paolo Pasolini-Copia Anastatica da NUOVI ARGOMENTI N° doppio 59/60 -Luglio-Dicembre 1978-Pier Paolo Pasolini -Carlo Maria Ossola: Scrittore, poeta, autore e regista cinematografico e teatrale italiano (Bologna 1922 – Ostia, Roma, 1975). Dopo aver seguito nell’infanzia gli spostamenti del padre, ufficiale di carriera, compì gli studî a Bologna, dove si laureò nel 1945 con una tesi su Pascoli. Nel 1943 si trasferì nel paese materno di Casarsa della Delizia, in Friuli, con la madre e il fratello minore Guido, morto poi nella lotta di resistenza (il padre, fatto prigioniero in Africa, sarebbe tornato alla fine del 1945), e vi rimase fino al genn. 1950, quando, per sfuggire allo scandalo provocato dalla pubblica denuncia della sua omosessualità, si stabilì con la madre a Roma. Da questo momento la sua vicenda biografica coincide appieno con la tumultuosa attività dello scrittore, del regista e dell’intellettuale impegnato a testimoniare e a difendere, spesso anche in sede giudiziaria, la propria radicale diversità, fino alla morte per assassinio, avvenuta la notte tra il 1° e il 2 nov. 1975 all’idroscalo di Ostia.
Pier Paolo PASOLINILA GUINEA DI Pier Paolo PASOLINI 7LA GUINEA DI Pier Paolo PASOLINI 8LA GUINEA DI Pier Paolo PASOLINI 9LA GUINEA DI Pier Paolo PASOLINI 10LA GUINEA DI Pier Paolo PASOLINI 11LA GUINEA DI Pier Paolo PASOLINI 12LA GUINEA DI Pier Paolo PASOLINI 13LA GUINEA DI Pier Paolo PASOLINI 14LA GUINEA DI Pier Paolo PASOLINI 5LA GUINEA DI Pier Paolo PASOLINI 16LA GUINEA DI Pier Paolo PASOLINI 17LA GUINEA DI Pier Paolo PASOLINI 18LA GUINEA DI Pier Paolo PASOLINI 19LA GUINEA DI Pier Paolo PASOLINI 20LA GUINEA DI Pier Paolo PASOLINI 21LA GUINEA DI Pier Paolo PASOLINI 22LA GUINEA DI Pier Paolo PASOLINI 23LA GUINEA DI Pier Paolo PASOLINI 24LA GUINEA DI Pier Paolo PASOLINI 25LA GUINEA DI Pier Paolo PASOLINI 26LA GUINEA DI Pier Paolo PASOLINI 27LA GUINEA DI Pier Paolo PASOLINI 28Biblioteca DEA SABINA –“La Guinea”, in “Poesia in forma di rosa” di Pier Paolo Pasolini-
Biblioteca DEA SABINA –“La Guinea”, in “Poesia in forma di rosa” di Pier Paolo Pasolini-
Alle volte è dentro di noi qualcosa (che tu sai bene, perché è la poesia) qualcosa di buio in cui si fa luminosa
la vita: un pianto interno, una nostalgia gonfia di asciutte, pure lacrime. Camminando per questa poverissima via
di Casarola, destinata al buio, agli acri crepuscoli dei cristiani inverni, ecco farsi, in quel pianto, sacri
i più comuni, i più inutili, i più inermi aspetti della vita: quattro case di pietra di montagna, con gli interni
neri di sterile miseria – una frase sola sospesa nella triste aria, secco odore di stalla, sulla base
del gelo mai estinto – e, onoraria, timida, l’estate: l’estate, con i corpi sublimi dei castagni, qui fitti, là rari,
disposti sulle chine – come storpi o giganti – dalla sola Bellezza. Ah bosco, deterso dentro, sotto i forti
profili del fogliame, che si spezzano, riprendono il motivo d’una pittura rustica ma raffinata – il Garutti? il Collezza?
Non Correggio, forse: ma di certo il gusto del dolce e grande manierismo che tocca col suo capriccio dolcemente robusto
le radici della vita vivente: ed è realismo… Sotto i caldi castagni, poi, nel vuoto che vi si scava in mezzo, come un crisma,
odora una pioggia cotta al sole, poco: un ricordo della disorientata infanzia. E, lì in fondo, il muricciolo remoto
del cimitero. So che per te speranza è non volerne, speranza: avere solo questa cuccia per le mille sere che avanzano
allontanando quella sera, che a loro, per fortuna, così dolcemente somiglia. Una cuccia nel tuo Appennino d’oro.
La Guinea… polvere pugliese o poltiglia padana, riconoscibile a una fantasia così attaccata alla terra, alla famiglia,
com’è la tua, e com’è anche la mia: li ho visti, nel Kenia, quei colori senza mezza tinta, senza ironia,
viola, verdi, verdazzurri, azzurri, ori, ma non profusi, anzi, scarsi, avari, accesi qua e là, tra vuoti e odori
inesplicabili, sopra polveri d’alveari roventi… Il viola è una piccola sottana, il verde è una striscia sui dorsali
neri d’una vecchia, il verdazzurro una strana forma di frutto, sopra una cassetta, l’azzurro, qualche foglia di savana
intrecciata, l’oro una maglietta di un ragazzo nero dal grembo potente. Altro colpo di pollice ha la Bellezza:
modella altri zigomi, si risente in altre fronti, disegna altre nuche. Ma la Bellezza è Bellezza, e non mente:
qui è rinata tra anime ricciute e camuse, tra pelli dolci come seta, e membra stupendamente cresciute.
Il mare è fermo e colorato come creta: con case bianche, e palme: «tinte forti da tavolozza cubista», come dice un poeta
africano. E la notte! Sensi distorti da ogni nostro dolce costume, occorrono, per cogliere i folli decorsi
che accadono, come pestilenze, a queste lune. Perduti dietro metropoli di capanne in uno spiazzo tra palme nere come piume,
alberi di garofano, di cannella – e canne uguali alle nostrane, quelle sparse intorno a ogni umano abitato – come tre zanne,
tre strumenti suonati quasi dal fuoco di un forno inestinguibile, da gote nere sotto le falde dei cappelli flosci presenti a ogni sbornia –
urlavano sempre le stesse note di leopardi feriti, una melodia che non so dire: araba? o americana? o arcaici e bastardi
resti di una musica, il cui lento morire è il veloce morire dell’Africa? Questo terzetto era al centro, scurrile
e religioso: neri-fetenti come capri i tre suonatori, schiena contro schiena, stretti, perché, intorno, in due sacri
cerchi di pochi metri, rigirava una piena di migliaia di corpi. Nel cerchio interno erano donne, a girare, addossate, appena
sussultanti nella loro danza. All’esterno i maschi, tutti giovani, coi calzoni di tela leggera, che, intorno a quel perno
di trombe, stranamente calmi, buoni, giravano scuotendo appena spalle e anche: ma ogni tanto, con fame di leoni,
le gambe larghe, il grembo in avanti, si agitavano come in un atto di coito con gli occhi al cielo. Al fianco
le donne, vesti celesti sopra i neri cuoi delle pelli sudate, gli occhi bassi, giravano covando millenaria gioia…
Ah, non potrò più resistere ai ricatti dell’operazione che non ha uguale, credo, a fare dei miei pensieri, dei miei atti,
altro da ciò che sono: a trasformare alle radici la mia povera persona: è, caro Attilio, il patto industriale.
Nulla gli può resistere: non vedi come suona debole la difesa degli amici laici o comunisti contro la più vile cronaca?
L’intelligenza non avrà mai peso, mai, nel giudizio di questa pubblica opinione. Neppure sul sangue dei lager, tu otterrai
da una dei milioni d’anime della nostra nazione, un giudizio netto, interamente indignato: irreale è ogni idea, irreale ogni passione,
di questo popolo ormai dissociato da secoli, la cui soave saggezza gli serve a vivere, non l’ha mai liberato.
Mostrare la mia faccia, la mia magrezza – alzare la mia sola, puerile voce – non ha più senso: la viltà avvezza
a vedere morire nel modo più atroce gli altri, con la più strana indifferenza. Io muoio, ed anche questo mi nuoce.
Nulla è insignificante alla potenza industriale! La debolezza dell’agnello viene calcolata ormai più senza
fatica nei suoi pretesti da un cervello che distrugge ciò che deve distruggere: nulla da fare, mio incerto fratello…
Mi si richiede un coraggio che sfugge del tutto al reale, appartiene ad altra storia; mi si vuole spelacchiato leone che rugge
contro i servi o contro le astrazioni della potenza sfruttatrice: ah, ma non sono sport le mie passioni,
la mia ingenua rabbia non è competitrice. Non c’è proporzione tra una nuova massa predestinata e un vecchio io che dice
le sue ragioni a rischio della sua carcassa. Non è il dovere che mi trattiene a cercare un mondo che fu nostro nella classica
forza dell’elegia! nell’allusione a un fatale essere uomini in proporzioni umane! La Grecia, Roma, i piccoli centri immortali…
annette Dei di milioni di guadi, percepisce l’odore dell’umidità dei quaranta gradi sopra zero immobili nelle coste, Mogadiscio
e le buganvillee di Nairobi, gli odori bradi delle bestiacce scomposte in un selvatico galoppo, per gli sventrati, i radi
orizzonti pervasi d’un funebre stallatico; la quantità, l’immensità che pesa inutilmente nel mondo, i cui prati bruciati
o marci d’acqua, sono una distesa priva di possibile poesia, rozza cosa restata lì, ai primordi, senza attesa,
sotto un sole meccanico che, annosa e appena nata, essa subisce come infinità. Ne nasce un bestiale colore rosa
dove il sesso paesano che ognuno ha disegnato in calzoni di allegro cotone, in gonne comprate negli stores indiani,
con soli occhiuti e cerchi di pavone, come un’isola galleggia in un oceano ronzante ancora per un’esplosione
recente e sprofondata dentro le maree… Fiori tutti d’un colore, di cotone, occhiuti e cerchiati popolano le Guinee
galleggiando nel tanfo d’un’uccisione, nella carne delle estati sempre feroce a divorare cibi cui la notte impone
le tinte equatoriali della morte precoce, il blu e il viola e la polvere orrenda, la libertà, che partorisce il popolo con voce
famigliare, e, in realtà, tremenda, il nero dei villaggi, il nero dei porti coloniali, il nero degli hotels, il nero delle tende…
E… alba pratalia, alba pratalia, alba pratalia… I prati bianchi! Così mi risveglio, il mattino, in Italia,
con questa idea dei millenni stanchi bollata nel cervello: i bianchi prati del Comune… della Diocesi… dei Banchi
toscani o cisalpini… quelli rievocati nel latino del duro, dolce Salimbene… Il mondo che sta in un testo, gli Stati
racchiusi in un muro di cinta – le vene dei fiumi che sono poco più che rogge, specchianti tra gaggìe supreme
– i ruderi, consumati da rustiche piogge e liturgici soli, alla cui luce l’Europa è così piccola, non poggia
che sulla ragione dell’uomo, e conduce una vita fatta per sé, per l’abitudine, per le sue classicità sparute.
Non si sfugge, lo so. La Negritudine è in questi prati bianchi, tra i covoni dei mezzadri, nella solitudine
delle piazzette, nel patrimonio dei grandi stili – della nostra storia. La Negritudine, dico, che sarà ragione.
Ma qui a Casarola splende un sole che morendo ritira la sua luce, certa allusione ad un finito amore.
Pier Paolo Pasolini
da “Poesia in forma di rosa (1961-64)”, Milano, Garzanti, 1964
Fonte -Enciclopedia TRECCANI-Pier Paolo Pasolini -Carlo Maria Ossola: Scrittore, poeta, autore e regista cinematografico e teatrale italiano (Bologna 1922 – Ostia, Roma, 1975). Dopo aver seguito nell’infanzia gli spostamenti del padre, ufficiale di carriera, compì gli studî a Bologna, dove si laureò nel 1945 con una tesi su Pascoli. Nel 1943 si trasferì nel paese materno di Casarsa della Delizia, in Friuli, con la madre e il fratello minore Guido, morto poi nella lotta di resistenza (il padre, fatto prigioniero in Africa, sarebbe tornato alla fine del 1945), e vi rimase fino al genn. 1950, quando, per sfuggire allo scandalo provocato dalla pubblica denuncia della sua omosessualità, si stabilì con la madre a Roma. Da questo momento la sua vicenda biografica coincide appieno con la tumultuosa attività dello scrittore, del regista e dell’intellettuale impegnato a testimoniare e a difendere, spesso anche in sede giudiziaria, la propria radicale diversità, fino alla morte per assassinio, avvenuta la notte tra il 1° e il 2 nov. 1975 all’idroscalo di Ostia.
Fin dagli esordî in friulano, che comprendono Poesie a Casarsa (1942) e La meglio gioventù (1954; poi ripreso con intenti diversi e notevole incremento di testi: La nuova gioventù, 1975), ben oltre la nozione ermetica di poesia pura, il giovane P. puntava alla scoperta di una lingua intatta, che fosse quasi un equivalente letterario del suo religioso desiderio di purezza (fonderà così nel 1945 l’Academiuta di lenga furlana). Il suo interesse per la poesia dialettale trovò espressione in due importanti antologie: Poesia dialettaledelNovecento (in collab. con M. Dell’Arco, 1952) e Canzoniere italiano. Antologia della poesia popolare (1955; poi, in versione ridotta: La poesia popolare italiana, 1960); mentre il suo talento di critico letterario, affascinato più dai modelli della critica stilistica (Auerbach, Spitzer, Contini) che dal sociologismo marxista d’ispirazione gramsciana, si esplicò in una serie di interventi sulla letteratura contemporanea, e soprattutto sulla poesia, che sarebbero confluiti in Passione e ideologia (1960). Gli anni Cinquanta furono gli anni della sua completa affermazione letteraria. La sua prima notevole raccolta di poesie in lingua, Le ceneri di Gramsci (1957), sembra chiudere definitivamente una stagione della poesia italiana. L’ansia profetica dell’Usignolo della chiesa cattolica (pubbl. nel 1958, ma composto prima del trasferimento a Roma) si sarebbe riproposta, dopo la parentesi decisiva delle Ceneri, nei termini mutati di un’ininterrotta controversia (La religione del mio tempo, 1961; Poesia in forma di rosa, 1964; Trasumanar e organizzar, 1971). P. fondava, intanto, insieme a F. Leonetti e R. Roversi, Officina, la rivista della polemica antinovecentesca; era anche diventato condirettore di Nuovi argomenti, rivista fondata nel 1953 da A. Moravia e A. Carocci. E aveva dovuto affrontare difficoltà molto più gravi dopo la pubblicazione dei suoi due romanzi d’ambientazione romana: Ragazzi di vita (1955), per il quale dovette subire un processo per oscenità, e Una vita violenta (1959), che era stato accolto freddamente tanto dalla critica marxista quanto dai giovani critici della neoavanguardia. Ma la vocazione di P., già insofferente dei limiti di un genere letterario, si era orientata verso altri mezzi d’espressione: il cinema (v. oltre), del quale si sarebbe poi occupato anche in veste di teorico, il teatro (Orgia, 1968; Affabulazione, 1969; Calderón, 1973) e il giornalismo (soprattutto, dal 1973, le collaborazioni al Corriere della sera, poi raccolte con altre in Scritti corsari, 1975). In ritardo rispetto alla data di composizione, erano intanto apparsi il romanzo Il sogno di una cosa (1962) e le prose narrative di Alì dagli occhi azzurri (1965), oltre a vari scritti minori. Postume, in ordine sparso, sono uscite raccolte di scritti giornalistici (Lettere luterane, 1976; Le belle bandiere, 1977; Il caos, 1979), di critica letteraria (Descrizioni di descrizioni, 1979; Il portico della morte, 1988), opere narrative (La divina mimesis, 1975; Amado mio, 1982; Petrolio, 1992, romanzo incompiuto che riassume e porta a livello di quasi insostenibile incandescenza tutti i temi dello scrittore), nonché le raccolte complete dei suoi testi teatrali (Teatro, 1988) e poetici (Bestemmia. Tutte le poesie, 1993). Diversi scritti appartenenti alla fervida stagione friulana del poeta sono stati raccolti dal cugino N. Naldini in Un paese di temporali e di primule (1993) e in Romàns (1994); per sua cura sono anche apparse le Lettere 1940-1954 (1986) e le Lettere 1955-1975 (1988). Tutte le opere di P. sono state raccolte nell’edizione diretta da W. Siti (10 tomi, 1998-2003).
Nel cinema P. operò a partire dal 1954, come sceneggiatore (con M. Soldati, La donna del fiume; con F. Fellini, Le notti di Cabiria; con M. Bolognini, Marisa la civetta, Giovani mariti, La notte brava, Il bell’Antonio, La giornata balorda; e, fra i tanti, con B. Bertolucci, La commare secca, autore anche del soggetto). P. dapprima trasferì i frutti della sua ricerca narrativa (Accattone, 1961; Mamma Roma, 1962; La ricotta, episodio del film collettivo Ro.Go.Pa.G., 1963, condannato per vilipendio alla religione di stato), reinventando un linguaggio cinematografico autonomo di alta qualità figurativa (P. era stato allievo di R. Longhi a Bologna). Il linguaggio di P. approdò a risultati più compiuti ne Il Vangelo secondo Matteo (1964), in cui l’armonica fusione del cinema con la letteratura, la pittura e la musica diede l’avvio a quel “cinema di poesia” di cui P. doveva essere in Italia uno dei più convincenti teorici (Il cinema di poesia, 1965; Osservazioni sul piano sequenza, 1967; Empirismo eretico, 1972). Su questa linea, i film che seguirono, soprattutto Edipo re (1967), Teorema (1968) e Medea (1969), accesi da un realismo visionario che, nonostante scarti e manifeste libertà, sorregge poi anche gl’impegni drammatici e linguistici dei film della “trilogia della vita” (o, come altri l’hanno definita, “dell’Eros”), partiti alla riscoperta del sesso attraverso una rilettura delle fonti della grande favolistica mondiale: Decameron (1971), I racconti di Canterbury (1972), Il fiore delle Mille e una Notte (1974). L’ultimo film, uscito postumo, Salò o le 120 giornate di Sodoma (1976), luttuosa metafora del potere e interpretazione in chiave provocatoria del libro omonimo di Sade. Non vanno dimenticati Che cosa sono le nuvole? (dal film collettivo Capriccio all’italiana, 1968) e Porcile (1969). Rimane un grande esempio del cinema d’inchiesta Comizi d’amore (1965), indagine sulla sessualità nell’Italia dei primi anni Sessanta, condotta da P. insieme a Moravia e Musatti. Esemplare parabola della storia d’Italia, dalla predicazione francescana ai funerali di Togliatti, è Uccellacci e uccellini (1966), ultima “legenda aurea” della civiltà italiana.
Pasolini e il Novecento. – L’edizione delle Opere di Pasolini colloca la sua opera tra i classici del secondo Novecento. E a ragione, poiché solo Pasolini (come D’Annunzio e più di Pirandello) ha sperimentato tutti i generi della creazione del 20° secolo: romanzo e novella, teatro e cinema, critica letteraria e saggistica politica, e non meno la poesia. Già questa semplice ragione di “generi” crea un singolare accostamento: D’Annunzio, Pirandello, Pasolini, un essere nel proprio tempo, nel quale la retorica – strumento dell’argomentare, del persuadere, dell’insegnare, leva essenziale di ogni “passione e ideologia” – è esibita, non velata, non nascosta, non lenita da strumenti di “sordina”. Sì che non pare ardito oggi dire che Pasolini è stato per l’ultimo Novecento il rovesciamento speculare di quello che fu D’Annunzio all’ouverture del 20° secolo: là fu la parola chiamata a colmare le lacune del tempo, parola di gloria (e di lusso vitale dell’io), qui la parola della negazione, dell’abiezione, dei margini prossimi al niente: “i segni del desiderio di morire, / le occhiaie del vile, / il mento del debole, / … / le scarpe dello statale, / il culo del soldato semplice, / la calvizie del disadattato, / la schiena del condannato a morte” (Il dolore dei poeti, da Poesie marxiste, 1964-65). L’Italia repubblicana trova così oggi due emblemi nobili della propria identità: da una parte Calvino, la ragione e l’utopia, la trasparenza e la levità, l’Italia dell’Ariosto e di Galileo; dall’altra Pasolini, l’Italia di Jacopone e di Belli, di Gioacchino da Fiore e di Gadda: stracci e apocalissi. Una civiltà magmatica – il dialetto friulano e Dante, i tragici greci e gli Evangeli, il sottoproletariato e la Nuova Guinea – ma non più e soltanto latina: Pasolini sa partire da Alba pratalia, alba pratalia delle nostre origini e arrivare alla lugubre Nuova Preistoria che viviamo, alla profezia degli ultimi: “La Negritudine, dico, che sarà ragione”. In certo modo – come lucidamente hanno osservato Calvino e Barthes per l’utopia di Fourier – il profetismo pasoliniano si sbilancia oltre la rasserenata compiutezza delle ideologie: supera ogni finalismo della storia prevedendo la fine della storia, e intanto della propria. Nessun altro poeta come Pasolini ha messo in scena, costantemente provandola e riprovandola in parole come sarà nei fatti, la propria morte: “Stesura in ‘cursus’ di linguaggio ‘gergale’ corrente, dell’antefatto: Fiumicino, il vecchio castello e una prima idea vera della morte: […] – sono come un gatto bruciato vivo, / Pestato dal copertone di un autotreno” (Una disperata vitalità). Un Pasolini che incarna in sé, come scriverà, il destino di Cassandra: “Basti pensare a una figura come quella di Cassandra, che prevede, anzi vede fisicamente la propria morte” (Nota per l’ambientazione dell’Orestiade in Africa). Una lettura della storia dell’Italia unita, tutta incentrata sulle identità popolari: il cristianesimo e il marxismo; il pensiero laico-liberale, stendardo della borghesia, non fu mai una vera alternativa, ma parve a Pasolini la continuazione del Potere, non la plenitudine della Verità: “Quelli di voi che possiedono un cuore / votato alla maledetta lucidità, / vadano nei laboratori, nelle scuole, / a ricordare che nulla in questi anni ha / mutato la qualità del conoscere, eterno pretesto, / forma utile e dolce del Potere, NON MAI VERITÀ. // […] Vadano, tanto per cominciare, dai Crespi, dagli Agnelli, / dai Valletta, dai potenti delle Società / che hanno portato l’Europa sulle rive del Po: // è giunta per ognuno di loro l’ora che non ha / proporzione con quanto ebbe e quanto odiò” (Vittoria). Erano gli anni di Barbiana e tra poco di Lettera a una professoressa, l’utopia di un’eguaglianza fatta non per accumulo (produzione e consumo: la vagheggiata affluent society), ma per condivisione dell’essenziale: l’Italia di Pasolini e don Milani, Danilo Dolci e padre Turoldo, e anche – sia non indebito il paragone – dei papi veneti del Concilio, papi degli umili. Quella via, via di parola e di pane, di poveri e giustizia, fu l’orizzonte scomodo di Pier Paolo Pasolini: “Ma nei rifiuti del mondo, nasce / un nuovo mondo […] / la loro speranza nel non avere speranza” (La religione del mio tempo, 4). Quella vita che non ha nient’altro, per sostenerla, che il suo consumarla, sacro deserto della fame, della manna, ove si attraversa – come Mosè, come Edipo – il miraggio, “sospinti dalla violenza del suo assillo”. Così Pasolini ci ha rinnovato la biblica coscienza del sacro: quella coscienza – di Frazer e Cumont, di Caillois e di Deonna, ma anche di Bresson e di Tarkovskij – che “ciò che è sacro si conserva accanto alla sua nuova forma sconsacrata” (Medea).
GABRIELE D’ANNUNZIO nasceva Il 12 marzo 1863, esattamente 160 anni fa
Articolo di DANIELA MUSINI
Dichiarava di essere nato <<a bordo del Brigantino Irene>> e non era vero perché il difficile parto di sua madre Luisa de Benedictis avvenne in un palazzotto signorile di Corso Manthoné a Pescara, alle 8 del mattino del 12 marzo 1863, non <<sotto l’Ariete durocozzante>> come lui millantava, ma sotto il fascinoso e fantasioso segno dei Pesci.
Suo padre era Francesco Paolo, possidente e poi sindaco della città adriatica e avrà con l’illustre figlio rapporti sovente turbolenti.
Abruzzese quindi, Gabriele, e l’amata sua terra natia rivivrà in molte sue pagine poetiche, narrative e drammaturgiche.
«Porto la terra d’Abruzzi, porto il limo della mia foce alle suole delle mie scarpe, al tacco de’ miei stivali», scrisse con orgoglio nel “Libro segreto”: non rinnegò mai le sue origini, neppure quando a 19 anni si trasferirà nella Capitale, diventando nel contempo brillante giornalista, acuto osservatore della fastosa Roma del tempo e raffinato arbiter elegantiarum.
Ma questo Abruzzese sempre agghindato (possedeva un guardaroba sterminato che comprendeva, tra l’altro, 50 soprabiti, 200 paia di scarpe e 500 cravatte) conquisterà il mondo: provocherà la follia nelle donne e l’esaltazione nei soldati, sarà idolatrato e detestato, vivrà tra ozii lussuosi e debiti clamorosi, in un’esistenza lussureggiante e inimitabile.
Controverso, contraddittorio a volte, persino discutibile come personaggio, ma indiscutibile fu la sua grandezza di scrittore-intellettuale che seppe traghettare la letteratura italiana verso una dimensione europea e moderna, così come inoppugnabili saranno l’onnivoro suo ingegno, il vitalissimo bisogno sperimentalistico e quella sorta di “ulissismo” culturale che lo fece aderire a tutte correnti e stili artistici della sua epoca.
Sì, è vero, fu un cleptomane letterario: rubò idee e versi a Poeti e intellettuali, ma seppe restituirli con incomparabile maestrìa. Joyce, Musil, von Hoffmansthal, Proust lo ammirarono incondizionatamente, Montale gli fu debitore.
Il suo genio creatore produsse opere immortali: romanzi (Il Piacere, L’innocente, Il trionfo della morte, Il fuoco), novelle (Terra vergine, Le novelle della Pescara), tragedie teatrali (La città morta, La figlia di Iorio, La fiaccola sotto il moggio, queste ultime ambientate nel suo amato Abruzzo), fino ad arrivare al Notturno con quel suo linguaggio innovativo, sorprendente e modernissimo.
E che dire della sua sterminata produzione poetica? Dalla sua prima raccolta, Primo Vere, scritta da adolescente, fino alle Laudi, scrigno di gemme preziose in cui rifulge Alcyone, che raccoglie liriche di incomparabile bellezza e di assoluta perfezione (Sera fiesolana, L’onda, La pioggia nel pineto).
Il suo fu uno stile particolarissimo: pennellate lampeggianti, opulento cromatismo, manipolazione incantata di luci e ombre, un’armonizzazione musicale sublime. La maestria verbale, la suggestione sensuale, l’inarrivabile uso della parola da lui utilizzata sia per la capacità evocativa che per la pertinenza semantica, costituiscono una magia e una malìa da cui è difficile sottrarsi.
Riuscì ad infiammare gli animi e a conquistare migliaia di donne grazie ad un fascino magnetico ed irresistibile (nonostante la poca avvenenza).
Ebbe una sola moglie, Maria Hardouin di Gallese che gli diede tre figli: Mario, Gabriellino e Veniero. Un’altra figlia, Renata, l’ebbe da Maria Gravina Cruyllas Ramacca Anguissola di San Damiano, principessa siciliana che per lui lasciò la famiglia e alla quale dedicò il suo romanzo capolavoro “L’innocente”.
Non fu né un buon marito, né un buon padre: troppo tumultuosa la sua esistenza, in cui preminenti l’attività artistica e la passione per le donne. Già, le donne.
Migliaia, si disse, ma poche quelle veramente amate e tutte trasfigurate in Muse, tutte eternate nei suoi capolavori. «Il mio cervello è alimentato dal fuoco degli inguini», soleva ripetere, ribadendo quanto il trasporto sentimentale ed erotico fosse propellente necessario alla sua creatività.
Ed ecco allora Giselda Zucconi, l’amore della sua «adolescenza anelante e furiante», eternata col nome di “Lalla” nella sua seconda raccolta poetica “Canto Novo”, ecco “Barbara” (al secolo Elvira Natalia Fraternali, maritata, assai infelicemente, Leoni), con cui visse una ribollente passione a San Vito Chietino in una casetta annegata nel verde, che oggi è conosciuta come Eremo Dannunziano, e immortalata nella figura di Ippolita Sanzio del suo romanzo “Il trionfo della morte”.
Destinataria di torride lettere e bugie impietose, dopo l’abbandono del Poeta, condurrà una triste esistenza in un pensionato gestito da suore.
La vera, “imaginifica” Musa della sua Vita fu però la più grande attrice di tutti i tempi: Eleonora Duse. Di cinque anni più vecchia di lui, tisica, appassionata e di inarrivabile talento, lo proiettò sull’empireo della drammaturgia europea: fu lei l’ispiratrice e la sovvenzionatrice di tutti i suoi capolavori teatrali. Lui l’amò senz’altro, ma la tradì persino con la sua rivale Sarah Bernhardt; è vero che la eternò nell’eterea Ermione de “La pioggia nel pineto” (che all’inizio si chiamò Heleonora), ma poi la tratteggiò impietosamente ne “Il fuoco” e la lascerà comunicandole, spietato: «Sento nelle fibre più profonde il bisogno imperioso del piacere, della vita carnale, del pericolo fisico, dell’allegrezza».
In realtà aveva perso la testa per la giovane e avvenente Alessandra Starabba di Rudinì, bella e statuaria (che ribattezzerà “Nike”, come la Nike di Samotracia), la quale, quando sarà da lui abbandonata, fuggirà in Francia, si farà suora, ma conserverà sempre, tra le biografie dei Santi e i libri di preghiera, le audacissime lettere del suo mai dimenticato amante.
E poi via via fino ad uno dei più brucianti amori della sua Vita, quella contessa fiorentina, che di nome faceva Giuseppina Giorgi Mancini, ma che lui appellerà “Giusini” nello splendido “Solus ad Solam”, una sorta di struggente diario scritto da Gabriele quando la sua appassionata amante finirà nel gorgo della follia, per arrivare a quella che fu la sua ultima Ninfa Egeria: l’attrice del muto Elena Sangro, nome d’arte della vastese Maria Antonietta Bartoli Avveduti che divenne la protagonista del torrido e senile poemetto “Carmen Votivum”.
Ma anche nella girandola di passioni e avventure, la sua linfa creativa continuò sempre ad essere vitalissima, non solo nella scrittura, ma anche nella pubblicità: fu lui a conferire il nome “La Rinascente”, a cambiare genere all’automobile che da maschile diventerà femminile («L’ Automobile è femminile. Questa ha la grazia, la snellezza, la vivacità d’ una seduttrice; ha, inoltre, una virtù ignota alle donne: la perfetta obbedienza», scrisse a Giovanni Agnelli, fondatore della FIAT), ma fu anche lui ad inventare la parola tramezzino, scudetto, a indicare rispettivamente in “Aurum” e in “Parrozzo” i nomi da dare al liquore e al dolce più amati dagli Abruzzesi.
E diede un apporto importante anche nel Cinema: al Kolossal “Cabiria” del 1913 lavorò direttamente, suggerendone il titolo, il nome del protagonista (Maciste) e scrivendone le didascalie per le quali percepì una somma favolosa.
“Poeta, Eroe e mascalzone”, lo definì lo scrittore inglese E.M.Forster: d’Annunzio fu tutte e tre le cose e molto di più.
Eroe, certamente: dalla Beffa di Buccari al Volo su Vienna durante la Grande Guerra, fino alla straordinaria conquista di Fiume, il 12 Settembre 1919 alla testa di 2000 fervorosi combattenti.
Fu fervente nazionalista, mai fascista e con Mussolini ebbe rapporti conflittuali: <<d’Annunzio è come un dente guasto: o lo si estirpa o lo si ricopre d’oro>> diceva di lui il Duce. Scelse la seconda via e lo confinò in una prigione dorata.
A Villa Cargnacco sul Lago di Garda, dimora lacustre che, trasformata e trasfigurata, diventerà il celebre e celebrato Vittoriale degli Italiani, monumento al suo genio e alla sua indomita personalità, visse dal 1921 con l’ultima compagna della sua Vita, la talentuosa pianista Luisa Baccara.
E lì fu risucchiato in un gorgo erotico senza fine, vittima ormai di un predace e patetico delirio sessuale. E nella ubriacatura orgiastica degli ultimi anni una giovane donna spicca su tutte: la Contessa Scapinelli Morasso, “Titti”, l’«ultima Clematide», fresca e splendente creatura, che gli destò un ultimo singulto d’amore. E a Titti, lui, vecchio, ripugnante, ma ancora disperatamente vorace, scriverà la sua ultima, straziata lettera d’amore, datata 2 febbraio 1938. Non ci sarà risposta.
Gabriele d’Annunzio, il sitibondo vampiro di corpi e di anime, l’artifex smagliante di capolavori e di vite inimitabili, morirà di lì a poco, per ictus cerebrale, alle 20,05 del 1° marzo 1938 (ultimo giorno di Carnevale), mentre è intento a «capolavorare» alla sua scrivania.
E la leggenda continua…
Articolo di Daniela Musini
Gabriele D’ANNUNZIO –Il “LIBRO SEGRETO”
Ps: Per fugare dubbi sul suo cognome: Rapagnetta era il cognome di suo padre Francesco Paolo che, essendo stato adottato da piccolo dallo zio acquisito Antonio D’Annunzio, espunse il suo cognome originario, sicché Gabriele nacque da Francesco Paolo D’Annunzio (sarà il Poeta a volere la “d” minuscola nobilitante) e da Luisa de Benedictis.
Il cognome di Gabriele pertanto NON È RAPAGNETTA ma D’Annunzio o d’Annunzio, come si firmava.
Gabriele D’AnnunzioBiblioteca DEA SABINA-Gabriele D’Annunzio- “FRANCESCA da RIMINI”- Musica di Riccardo Zandonai con autografo – Edizione 1914-Gabriele D’Annunzio
Da Poesie ritrovata dalla Rivista L’Altrover-RENZO NANNI nasceva a Livorno il 4 marzo 1921-Già da bambino Nanni fu inoltrato verso l’amore per la scrittura e la poesia. Trasferitosi a Padova con la famiglia, terminò i suoi studi e iniziò ad interessarsi di politica militando nel Partito Comunista. Durante la Seconda guerra mondiale, fu impegnato sul fronte russo Per anni Renzo non riuscì a parlare di questa esperienza così traumatica. Solo quarant’anni dopo ne racconterà attraverso il poemetto Minuscolisu pagina bianca.
Dopo la guerra e la resistenza italiana, sposa Maria Germano e si laurea in lettere. È durante quegli anni che cresce il suo interesse verso la letteratura e l’arte, stringe amicizie importanti per la sua vita e la sua carriera e organizza eventi culturali
a favore della pace e della fratellanza fra i popoli. In particolare Nanni è l’animatore delle Olimpiadi culturali a Genova nel 1950, una grande kermesse a cui partecipano, oltre ai migliori artisti italiani, Picasso e Neruda, della cui conoscenza Nanni andrà sempre orgoglioso. Nel 1950 è 1° segnalato al Premio Chianciano, l’anno dopo è segnalato per l’Italia al Festival Mondiale della Gioventù a Berlino. Sono gli anni che lo vedono collaborare a Rinascita, L’Unità, Mondo operaio, Lavoro Nuovo. Nel 1952 esce il suo primo volumetto di poesie, L’avvenire non è la guerra, inserito nella rosa dei finalisti al Viareggio di quell’anno. Con questa opera, afferma Giuliano Manacorda, «viene in primo piano l’epos resistenziale, temperato dalla presenza di accenti civili o moralistico-descrittivi […]. Il tema resistenziale si riconnette senza fratture alle lotte per il lavoro: la “guerra nostra” ora si è spostata nelle campagne di Calabria e di Sicilia, dove i lavoratori cadono negli scontri con le forze dello Stato, alla Sardegna dei pastori, alle fabbriche in sciopero, ovunque è ancora tempo di “canti da gridare”».
Passano venticinque anni prima che Nanni pubblicasse il suo secondo libro di poesie. È del 1977 la raccolta Terra da amare. Intanto svolge il suo lavoro come professore in alcuni licei di Roma. Alla fine degli anni ’60 conobbe l’editore Signorelli che lo spinge a scrivere un manuale di letteratura italiana per le scuole secondarie: così nel ’73 esce Letteratura italiana: materiali per un programma, in quattro volumi.
Nel 1966 si trasferì con la famiglia a Velletri e qui si dedica alla terra e completamente alla scrittura poetica. A pochi anni di distanza l’uno dall’altro escono Braccialimitative e il mondo (1979), Minuscoli supagina bianca, poemetto nel quale riprende, a quarant’anni di distanza, il tema della ritirata di Russia (1982), Fasi di luna, nel quale annuncia agli «scolari diletti» la sua pensione affermando: «Lascio a voi […] / una parte vistosa di me» (1989), Fuoripista (1996), Una vita quasi un secolo (2003). A Velletri si inserisce nella vita culturale e sociale della città, collabora con il giornale locale “Il Cittadino” (sul quale cura dal giugno del 2001 al novembre del 2003 la rubrica di poesia Svegliati e canta) e, soprattutto, contribuisce alla nascita della associazione “La vigna dei poeti”, che diventa in poco tempo luogo di aggregazione e di elaborazione culturale delle migliori energie sul territorio. Si spense il 1º aprile 2004. Dopo la morte, Maria trovò, fra vecchie carte, le poesie giovanili di Renzo, scritte nel 1943: alcuni cari amici e l’editore Caramanica li pubblicano nel 2005 col titolo Questo mestesso. Nello stesso anno , a cura de “La vigna dei poeti”, il volume Omaggio a Renzo Nanni, che contiene, insieme a testi del poeta scomparso, ma anche i versi e le riflessioni di quelli che definiva i suoi «amici della poesia».
L’opera di Nanni è lontana dagli sperimentalismi di quegli anni, ma ciononostante è intensa e ricca. La sua poesia narra, con questo verseggiare classico e novecentesco, i tempi bui della guerra, del periodo post-bellico e della resistenza. È tutta una cronaca vissuta, grave, sprezzante, che ha come protagonista l’uomo. Sono memorie di un ragazzo che ha visto e sentito sulla propria pelle ogni orrore. Scriverne e attenzionare il pubblico verso tali realtà, ormai passate a sempre presenti, porta l’autore e il suo lettore a mai dimenticarsene.
Di seguito una selezione di poesie tratte da L’avvenire non è la guerra, edito da Il Canzoniere.
Presto ci desteremo
Presto ci desteremo coi morti sulle labbra divenuti canzoni, in un sole che spianerà le borgate di baracche e le memorie logore come vecchie tute operaie.
Coro dei compagni caduti
Nel giorno della resurrezione non saliremo le scale di vetro noi così carichi di dolore così poveri per le gemme del cielo così pieni di maledizione noi che morimmo per amore di terra di case diroccate sepolte ai margini della strada. Nel giorno della resurrezione busseremo alla vostra porta col mitra degli impiccati e secoli di pazienza operaia. Poi chiederemo conto a Dio: Mario di una ferita alla nuca Giulio della tisi del figlio consumata nella disoccupazione Agnese di quella sua malattia non voluta (costava troppo stare puliti costava troppo mantenere chi ha sempre fame) Luca della casa del padre sventrata con quattro bestie coi suoi vecchi col ramo di lillà rampicante nel sole noi di quel muro assolato del cortile dove cademmo senza bende senza preghiere. Poi torneremo per sempre sui monti il giorno della resurrezione…
Resistenza
Non fu solo una pagina di storia per dare nome a una strada. Furono lunghi anni di carcere spalancati alla libertà. Messaggio di morti dalla voce chiara, aria di monti e la villeggiatura dei poveri nelle ville dei signori. Di là, un’Italia avvilita, una classe disfatta, serva per denaro, obbediente per la paura a “leggi inique”, di qua, una società di eguali che morivano per i diritti dell’uomo. Resistenza fu la fabbrica salvata per il lavoro, furono i campi puliti dalle mine, le strade barricate, le case fatte trincee. E fu scritta sui muri anche se proibito diffusa sui giornali anche se proibito gridata per tutte le piazze anche se proibito. Uno scriveva e moriva uno fischiava in un cinema e moriva un altro cantava e moriva. Resistenza è ancora la stessa gente che si dà la mano e muore e vuole salvare le fabbriche per il lavoro, vuole la terra per il contadino, i campi puliti dalle mine una volta per sempre, le porte delle carceri spalancate alla libertà. E che non sia proibito leggere e che non sia proibito scrivere né cantare né lavorare in pace.
Liberate Nazim Hikmet
Compagni, liberate Nazim Hikmet il poeta cui vorrebbero tappare la bocca perché voi per sua bocca parlate ed essi temono le vostre parole temono un uomo perché temono milioni di uomini per questo essi vogliono tappare la bocca al poeta per questo lo lasciano consumare in carcere come una piccola fiamma non alimentata e non sanno che il fuoco cresce dentro di voi con le sue parole che ogni operaio oggi è anche poeta e sa morire piuttosto che tacere perché suo oggi è il canto e il mondo e la fiamma dell’avvenire.
L’avvenire non è la guerra
A Napoli ieri notte hanno sbarcato la guerra. L’hanno ancorata nel Golfo senza canzoni e la città della musica taceva come un gran pugno chiuso minaccioso. Nave nemica non arresterai l’avvenire nave che non risplendi alla luce del giorno, perché porti tenebre e ti muovi a lumi spenti sopra un mare vuoto. L’avvenire è il respiro del mondo fatto dall’alito di milioni di uomini uniti. Hanno sbarcato trecentonove tonnellate di guerra a Napoli fra case ancora diroccate dalla guerra. Ma l’avvenire non si misura a tonnellate è dentro il cuore gonfio delle madri è nella cronaca dello sciopero generale è sulle terre dei feudi dove si muore seminando il grano.
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