Non vorrei mandare via i fantasmi da queste stanze – vorrei solo non facessero più male i lettini rossi ancora intatti la crema per le mani della mamma e la mia voce che anticipa il ritornello della fiaba. È un dolore che mi incastra sulla soglia di ogni stanza, e sa di vita che è stata in questa casa vuota e piena mentre mi muovo scoordinata pensando da che parte cominciare ad aprirla.
Chi resta
Nel toccare le camicie e i pantaloni, di vigogna e le scarpe con i lacci è rapita da ogni gesto che una volta scivolava senza quel nitore strano. Dopo un anno la stupisce la memoria delle dita – l’abitudine è un cassetto che si chiude inosservato.
La mia casa
Sulla soglia del silenzio resta tutta la memoria delle voci che avevamo. Io le avverto rare, vere e le faccio balenare tra il passo e il cuore.
Nel giardino milanese due note di lettura
Guido Oldani:”Nella Milano in cui alberga ancora la zavorra del tardo serenismo, da un lato continua un certo tratteggio del mitomodernismo, dall’altro dò vita al realismo terminale quale possibile poetica non legata alle singole culture. È Augusto Pivanti che mi indica il presente lavoro di Fabia Tolomei. Siamo al tempo del progressivo impoverimento del linguaggio e proprio qui sta la ragione della leggibilità di questi versi. La giovane Tolomei, infatti, dispone di un suo respiro verbale adeguato e consistente. Nel giardino che sembra quasi essere quello del privato, colloquia con il proprio tempo che le fa da specchio e gli interlocutori sono sempre modicamente presenti, così da non ramificare troppo la scrittura in risaputi generi poetici”.
Augusto Pivanti:”Fabia Tolomei è “una di famiglia”: della sua – di quella dalla quale proviene, alla quale geneticamente appartiene – e, in lettura più vasta, di una famiglia che – se anche non fosse, ma è, altroché se è – sarebbe stata “inventata” dall’autrice, debitrice come ella appare, in questa opera prima, ad un senso di adesione alla circolarità degli affetti, ad un desiderio incontenibile e incomprimibile di essere parte (de)scrivente in una forma di “partecipazione che tutto vede”, a cui nulla sfugge e dalla quale nulla fugge per manifesto bene-essere nel collocarsi entro il proprio fotogramma.”
Le cose che importano Fabia Tolomei
Pagine 70
Prezzo 13 euro
ISBN 978-88-94944-66-2
M’infiamma il desiderio.
E brillano i miei occhi.
Sistemo la morale nel primo cassetto che trovo,
mi muto in demonio,
e bendo gli occhi dei miei angeli
per un bacio.
-Dormi profondamente-
Dormi profondamente
e non ti preoccupare
per la mia insonnia,
lasciami sognare un po’
di strade alberate
e di vaste dune,
dove possa galoppare
sui miei cavalli bramosi,
io,
la donna che dovrà essere
buona
e ragionevole
domattina.
Ho osservato il mio specchio
Ho osservato il mio specchio
e vi ho visto
una donna
pienamente soddisfatta
con gli occhi brillanti
d’una squisita malizia.
L’ho invidiata
Abbiamo volti
che portiamo sulle spalle
sulle carte d’identità
nelle foto ricordo
Abbiamo volti
Abbiamo volti
che strappiamo conserviamo
nascondiamo riveliamo
ai quali ci abituiamo che rinneghiamo
che amiamo
e odiamo
Abbiamo volti
che conosciamo…
diciamo: li conosciamo?
-Che follia-
Che follia!
Il mio cuore ogni volta che sente bussare
apre la porta.
-Uno straniero mi guarda-
Uno straniero mi guarda,
uno straniero mi parla,
sorrido ad uno straniero,
parlo ad uno straniero,
m’ascolta uno straniero,
davanti
alle sue pene
pulite e bianche
piango,
sulla solitudine che unisce
gli stranieri.
-La donna che guarda dalla finestra-
La donna che guarda dalla finestra
vorrebbe avere delle lunghe braccia
per prendere il mondo
il suo Nord e il suo Sud
il suo Est e il suo Ovest
nel suo grembo
come una tenera madre
vorrebbe avere grandi mani
per carezzare i suoi capelli
scrivere delle poesie
per alleviare la sua pena.
-Desideravo-
Desideravo
che le tue labbra sfiorassero
il mio collo,
per chiudere gli occhi
e assaporare
la magia di quel
momento
proibito.
-Io e la mia felicità-
Io e la mia felicità
aspettiamo
le vibrazioni dei tuoi passi.
-Sei molto diverso dagli altri-
Sei molto diverso dagli altri.
Il tuo segno distintivo:
il mio bacio
sulla
tua bocca.
-Sono la ladra dei dolci-
Sono la ladra dei dolci
esposti nel tuo negozio
le mie dita sono appiccicaticce
e non sono riuscita
a metterne uno solo
in bocca.
-Questa sera-
Questa sera
un uomo uscirà
in cerca
di una preda
per soddisfare il segreto dei suoi desideri.
Questa sera
una donna uscirà
in cerca
di un uomo che la renderà
la padrona del suo giaciglio.
Questa sera
la preda e il predatore si incontreranno
e si compenetreranno
e forse…
forse
si scambieranno i ruoli.
-Sul letto-
Sul letto
una macchia rossa
inumidita dalle lacrime del vergine desiderio.
Ama per la prima volta
e si immerge nell´acqua eterna della vita
quel sudore
caldo
e i suoi strani effluvi
che emanano da due corpi
che festeggiano la morte del desiderio.
-Specchio-
Mi sono guardata allo specchio
e ho visto
una donna
pienamente soddisfatta,
dallo sguardo radioso
e squisita malizia.
-Tristezza-
Sola
non le permetto
di farmi visita.
Volteggia intorno a me
la caccio via.
Eccola
simile a una mosca nera
simile a una orribile mosca nera
vola qui, ronza di là
per atterrare sul profondo del mio cuore.
Tristezza
una mucca impazzita
rumina
l´erba e il fieno
della mia estasi.
-Verso di lui-
Si è diretta verso di lui
per offrirgli
i suoi pori
e le sue unghie
decorate da ciliegie
che ha divorato
avidamente.
Se ne è andata
con il cestino del suo cuore
svuotato.
-Filo di luce-
Lo guardai
attraverso un filo di luce
che filtrava
dalla finestra della mia misericordia.
Il corpo affaticato
disteso accanto a me
affamato come me.
Gli ho fatto cenno
di avvicinarsi
ma ha rifiutato.
Glielo ho ordinato
ma ha disobbedito.
L’ho obbligato
si è avvicinato tremante dalla paura
di toccare
un altro corpo.
-L’Amore-
Lo voglio,
caldo
e profondo
che mi dia vertigine;
altrimenti, non ti avvicinare.
Che parta
dal mignolo della mia mano,
per finire alla punta dei miei piedi,
passando
per i miei monti,
le mie valli e le mie gole
e catturi
la mia anima.
– Aspetto,e cosa aspetto ?-
Aspetto,
e cosa aspetto ?
Un uomo carico di fiori
e di parole dolci.
Un uomo
che mi guardi e mi veda.
Che mi parli e m’ascolti.
un uomo che pianga
per me.
Provo pietà per lui
e l’amo.
-Impediscimi-
Impediscimi, mio saggio marito,
Impediscimi, mio saggio marito,
di issarmi sui tacchi della mia femminilità,
perché all’angolo
mi aspetta un giovane
-Lei mi apre-
Lei mi apre
le sue ampie porte.
Mi chiama
e mi spinge a lanciarmi
nel suo spazio
e come un uccello
davanti alla porta aperta della gabbia
non oso.
-Delitto-
Che
meraviglioso delitto
ho commesso?
Ho goduto
di un corpo
che mi ha donato
un fiume inebriante
e una ribellione di vita.
-Anime scalze-
Le ho viste.
Loro,
i loro volti dai lividi celati.
Loro,
gli ematomi nascosti tra le cosce,
Loro,
i loro sogni rapiti, le loro parole azzittite
Loro,
i loro sorrisi affaticati.
Le ho viste
tutte
passare nella strada
anime scalze,
che si guardano dietro,
temendo di essere seguite
dai piedi della tempesta,
ladre di luna
attraversano,
camuffate da donne normali.
Nessuno le può riconoscere
tranne quelle
che sono come loro.
-Vieni, vieni-
Vieni, vieni
ho preparato la tavola del mio ventre
il giardino delle mie cosce dai frutti maturi
le mie cosce calde e felici
succose di nettare di desiderio.
Ma
prepara la tua bocca affinché io possa mangiare.
Vieni, vieni
ben temperato è il mio vino sacro
che ti darà il godimento
di una donna
matura d’amore.
– Mi ha detto che sarebbe venuta-
Mi ha detto che sarebbe venuta
quando?
non lo so
tuttavia lei verrà, è sicuro
ma prima
bisognerà che mi tolga
lo sfavillio degli occhi
la freschezza della pelle
la pienezza dei seni
l’umido dei passi
la lucentezza dei capelli.
Dovrà privarmi
della voglia di correre
di danzare
di scoprire le braccia
di guardarmi nello specchio.
Le servirà far morire il mio desiderio
il desiderio di baciare
di fare l’amore.
– È venuta tutta intera-
È venuta tutta intera,
con l’odore del suo letto
e della sua cucina,
con i baci di suo marito
nascosti sotto la camicetta,
con il suo sperma
ancora caldo
nel ventre.
È venuta,
con la sua storia e i suoi sogni,
le sue rughe,
e il suo sorriso screpolato,
con la peluria che si tesse
sul bordo delle sue guance,
con i resti delle loro colazioni
appiccicati ai denti.
È venuta con tutti i miei dolori,
la donna che vive con il mio uomo.
-Che dispiacere-
Che dispiacere
per ogni parola d’amore
che voleva dichiararsi
e che fu seppellita viva.
Che dolore
in gola.
-Aspetto dietro la tua porta-
Aspetto
dietro la tua porta,
non aizzarmi contro i tuoi cani rabbiosi
perchè mi caccino.
I tuoi cani
che ho visto nascere,
che ho nutrito,
che ho carezzato,
che si sono dimenticati
che li abbracciavo
e che nascondevano la loro testa
nel mio grembo.
Ah,gli ingrati!
Ogni volta
che apro la mia valigia,
ne esce polvere.
– Madame Chevrot-
Età : 75 anni Professione : ex stiratrice
È da molto
che non vedo Madame Chevrot,
la donna che di solito
incontravo nella strada principale.
Mi sorrideva
e il suo sorriso mi costringeva a fermarmi,
anche se avevo fretta,
per parlare del tempo,
della sua bellezza di un tempo
e degli uomini che l’hanno amata.
Madame Chevrot è piccola,
un naso grosso come una melanzana
e pochi denti
rotti e neri,
Lei giura con fierezza, che sono veri.
Elegante, per quanto l’età lo permetta.
Truccata, tanto che le cascano le palpebre …
Al nostro ultimo incontro
mi ha raccontato
di aver conosciuto un uomo
nella sala da ballo
dove stava imparando la salsa.
Lui avrebbe tanto voluto vivere con lei …
Ma lei?
Lei esitava,
divisa tra rinunciare alla sua libertà
e rinunciare al suo russare,
perché, mi diceva,
è tutto quello che lui può offrirle
la notte.
– Grazie a tutti quelli che.-
Grazie a tutti quelli
che mi hanno amato
e a tutti quelli che mi hanno detestato
a quelli che mi hanno abbandonato
e a quelli che ho abbandonato
Ogni volta mi hanno ridato fuoco
e riacceso in me il desiderio
Ci sono quelli che ho dimenticato
e quelli che non dimenticherò mai
Non mi hanno impedito
d’avventurarmi
ogni volta
ad amare di nuovo.
Takis Varvitsiotis- Poesia – AMORE MIO, ABBIAMO COSTRUITO UNA TORRE
Amore mio, abbiamo costruito una torre
di pietra
alta sul crinale della montagna
e abbiamo piantato ombre su tutte le pareti
e aspettiamo
che appaiano i primi squisiti granelli
i primi cristalli
quella luce che argenterà gli uccelli
e che all’improvviso rivestirà la nostra carne
con un lampo
nel dolce respiro di settembre
Takis Varvitsiotis- (1916-2011)-Poeta greco.Avvocato, pubblicò le sue prime poesie nel 1936. Fu anche un illustre saggista e traduttore di opere di celebri poeti francesi, spagnoli e latinoamericani: la sua poesia è lirica e perspicace, con influenze del Neosimbolismo e del Surrealismo francese di Paul Éluard e Pierre Reverdy.
Sara De Simone -Nessuno sta bene alle quattro del mattino
Plath, Bishop, Pizarnik, Dickinson e le altre: la poesia nasce dal buio.
Sara De Simone è laureata in Filologia romanza alla Sapienza di Roma e dottorata in Letterature comparate alla Scuola Normale Superiore di Pisa. Ha tradotto, con Nadia Fusini, “Scrivi sempre a mezzanotte”, il carteggio d’amore tra Virginia Woolf e Vita Sackville-West (Donzelli, 2019). Fa parte del direttivo dell’Italian Virginia Woolf Society e della redazione di Femministerie, su cui scrive. È curatrice della sezione Poesia di Inquiete Festival e direttrice artistica di Eccentriche: storie di artiste irregolari, indipendenti, visionarieShare errore
L e quattro del mattino. L’ora in cui, secondo Shakespeare, ci si prepara a uccidere un tiranno (Riccardo III, atto V) o a giustiziare un innocente (Misura per misura, atto IV). In cui Charlotte Brontë fa svegliare di soprassalto Jane Eyre, per sventare un incendio. L’ora esatta in cui anche Gregor Samsa dovrebbe alzarsi, ma non lo fa, perché è diventato un insetto. Alle quattro del mattino, ne La casa degli spiriti, si imbalsamano cadaveri. E sempre alle quattro, Napoleone, secondo Tolstoj, fissa l’orologio perché non riesce a dormire.
Orario non facile, le quattro del mattino. Tempo di pericoli e affanni. Piega sdrucita tra la notte e il giorno, dove ‘mai’ e ‘per sempre’ si toccano. Ci confondono.
Lo sapeva bene la poeta polacca Wisława Szymborska, premio Nobel per la letteratura nel 1996, quando scriveva: “Ora del chissà-se-resterà-qualcosa-di-noi. / Ora vuota. / Sorda, vana. / Fondo di ogni altra ora. / Nessuno sta bene alle quattro del mattino. / Se le formiche stanno bene alle quattro del mattino / – le nostre congratulazioni. E che arrivino le cinque, / se dobbiamo vivere ancora”.
“Se dobbiamo vivere ancora”: parole che tutti, almeno una volta, avremo pronunciato alle quattro del mattino, misurando il respiro, e per ciò stesso perdendolo (succede così col respiro: pensarlo, il più delle volte, lo complica).
Le quattro del mattino: ora della logica debole, delle visioni e delle associazioni, delle strade traverse. Intercapedine tra buio e luce, tasca infinitamente bucata, pronta a inghiottirci. E però anche spazio potenziale, di travasi fra possibile e impossibile, luogo di tremori – sì – ma anche di fuochi, e improvvise chiarezze. Per questo, le quattro del mattino, sono spesso anche l’ora di chi crea.
In Massachusetts, alle quattro del mattino, Emily Dickinson non dorme. È il 1863, ha poco più di trent’anni, ma da tempo preferisce scrivere di notte, nella sua stanza tutta per sé. Grata per la solitudine, libera dagli schemi diurni, a lume di lampada, con i capelli sciolti, la poeta risponde alle molte lettere di amici e parenti e lavora ai versi annotati brevemente durante il giorno.
È sul finire di una di queste lunghe notti, nell’ora incerta che precede l’aurora, che Emily Dickinson porge l’orecchio al risveglio del mondo:
Gli Uccelli cominciarono alle Quattro – / Il loro orario per l’Alba/ Una Musica variata come lo spazio – / Ma vicina come il Mezzogiorno.
Fuori dalla finestra una melodia crescente, articolata, anticipa e prepara la vita, mentre la vita dei più giace incosciente: si tratta di un’inaugurazione “senza testimoni”. Solo la poeta, che ha attraversato il buio ad occhi aperti, può godere della solitudine grande di assistere all’alba prima dell’alba.
Alle quattro del mattino, fuori dalla camera da letto della poeta americana Elizabeth Bishop – è il 1956, ha appena vinto il Premio Pulitzer, è in Brasile, a casa dell’amante Lota de Macedo Soares – gli uccelli non cantano (o almeno, non ancora). Ad abitare lo spazio tra la notte e l’alba ci sono, piuttosto, lunghe catene di immagini, concrezioni di ricordi, traffici fra vero e non-vero.
È quanto accade nella poesia Sunday 4 a.m., in cui la semplice osservazione del paesaggio della stanza, che si dispone attorno al corpo steso della poeta, diviene sequenza di figure, spettacolo combinatorio che allucina l’oggetto quotidiano e lo trasforma in visione composita, ricca.
Così, l’icona di una Madonna si confonde col ricordo di una certa zia Mary; i quadrati della finestra si trasformano in caselle di gioco; voci lontane, che parlano di cavalli da ferrare, sembrano suoni d’organo o di armonio; un gatto appare saltando con una falena in bocca; un “ruscello cerca a tentoni la via delle scale”: visioni alterate, sacro e infanzia, natura che preme per entrare. Fino a quando “un uccello / sistema due note ad angolo retto”: la fantasmagoria è finita. L’alba è giunta per mettere ordine, e a confermarlo è proprio il canto di un uccello, preciso e proporzionato elemento di realtà. Ma la lanterna magica delle quattro del mattino ha avuto tempo per fare il suo lavoro. E una poesia è nata.
Il sonnifero che Sylvia Plath prende ogni sera prima di andare a letto smette di agire puntualmente alle quattro del mattino. È l’ottobre del 1962, la rottura con suo marito Ted Hughes si è appena consumata, tra furore, angoscia e senso di liberazione. Plath sta mettendo insieme le poesie per “Ariel”, la sua raccolta-capolavoro. Vive da sola con i figli, prima in campagna, poi a Londra, e tutte le mattine, mentre loro dormono, si alza alla stessa ora. Lo racconta in un appunto scritto per una trasmissione della BBC:
Le mie nuove composizioni hanno in comune una cosa, sono state tutte scritte verso le quattro del mattino: quell’ora ancora azzurra, immobile, silenziosa, quasi eterna, prima del canto del gallo e del pianto del bambino, della musica tintinnante del lattaio che depone le bottiglie.
È in questa finestra di tempo senza tempo che nascono testi straordinari come “Lady Lazarus”, “Daddy”, “Ariel”. In una lettera del 21 ottobre del 1962 alla sua psichiatra americana, Sylvia Plath ribadisce: “mi alzo ogni giorno alle quattro, quando l’effetto del sonnifero si esaurisce, e scrivo come una furia fino alle otto”. Quattro le ore in cui la penna corre feroce, quattro i mesi che la separano dal suicidio. Poco più di cento giorni in cui Sylvia Plath, “come una furia”, alle quattro del mattino, scrive più di cinquanta poesie: sono tra i suoi versi più potenti.
In un piccolo appartamento di Buenos Aires, la poeta argentina Alejandra Pizarnik – amica di Julio Cortázar, intensa corrispondente di Cristina Campo, riscoperta dalla critica internazionale solo in questi ultimi anni – trascorre notti intere alla ricerca dei versi giusti. Ha l’abitudine di scriverli su una lavagna: li fissa, li sposta, li cancella, come se si trattasse di un dipinto, di una scultura da ridurre al minimo. Cerca la sottrazione, la poesia nuda, la “poesía pura”.
“Tutta la notte faccio la notte. / Tutta la notte scrivo. / Parola dopo parola scrivo la notte”, dice la poeta, dall’esilio permanente della sua insonnia, non-luogo di tormento e insieme di “lucidez exasperada” – lucidità esasperata, quella di cui ha bisogno per creare. In un appunto di diario del 29 giugno 1964, Pizarnik annota:
Ieri notte, alle 4 del mattino, grande crisi di paura del futuro. […] Chi non riesce a vivere non vuole morire, chi non riesce a vivere spera di vivere, sente che la vita gli è dovuta. […] Impossibilità di un luogo per riposare. Terminare con felicità questa ricerca è morire. Rinunciare a qualcosa di favoloso.
La rinuncia avverrà tra la notte del 24 e l’alba del 25 settembre del 1972. Sulla lavagna i suoi ultimi versi, perfetti: “No quiero ir / nada más / que hasta el fondo”.
In un seminterrato di Londra, nel febbraio del 1999, Sarah Kane – drammaturga potente, sensibile, disturbante – sta finendo di scrivere la sua ultima opera teatrale. Sono le 4 e 48 del mattino: “after 4.48 I shall not speak again”, avverte. Le 4 e 48: “l’ora in cui la depressione viene in visita” e “l’ora in cui la sanità viene in visita”. Per Kane, le due ospiti arrivano insieme e sono irriducibili. Nell’ora segreta in cui notte e giorno si toccano, pazzia e lucidità avanzano palmo a palmo, gemelle inseparabili, pronte a far saltare qualsiasi confine. Si tratta di una detonazione potente, di una babele dolorosa e insieme di una riduzione della lingua all’essenziale: “the capture / the rapture / the rupture / of a soul”.
Alle 4 e 48 l’anima si rompe per troppa chiarezza, perché l’inizio e la fine delle cose si sono mostrate insieme: visione agglutinata, deposito assoluto del mondo, un tutto-intero che non lascia respiro. Non ho nessuna voglia di morire / nessun suicida ne ha mai avuta / guardatemi scompaio / guardatemi / scompaio / guardatemi / guardatemi / guardate” – scrive Kane. Poi un lungo spazio bianco. Poi le ultime parole: “Per favore aprite le tende.”.
A percorrere le esistenze e i versi di queste artiste straordinarie, tutte diverse fra loro, ma tutte accomunate dal fatto di essere sveglie, e di scrivere, alle quattro del mattino, viene proprio da dar ragione a Szymborska. “Nessuno sta bene alle quattro del mattino”. C’è però chi, attraversando ad occhi aperti questo territorio pericoloso, ci ha dato parole per nominarlo. Dickinson, Bishop, Plath, Pizarnik, Kane, Szymborska: forse potremmo immaginarle tutte insieme, abitanti del continente impossibile delle quattro del mattino.
Ciascuna sola, nella sua stanza, in un determinato tempo, in un determinato spazio, eppure tutte dentro lo stesso campo lungo. Mentre scrivono e pensano e sopportano il mondo anche per noi, che dormiamo protetti, che non vediamo la smagliatura terribile e miracolosa delle quattro, quando il sorgere del sole è così vicino, eppure non abbastanza per non avere paura che non sorga.
Da domani in poi, se ci capiterà di fissare l’orologio prima dell’alba, e di perderci nel fondo sfondato delle quattro del mattino, di sentirci i più soli al mondo – soli anche accanto a un corpo amato, dal cui sonno siamo irrimediabilmente esclusi – se ci capiterà di dover attraversare svegli quella curva a gomito, quel binario di scambio, di sentire su di noi tutti i dolori del parto del Giorno, come se dovessimo farlo nascere noi, il Giorno, ricordiamoci delle poete delle quattro del mattino.
Sempre vive, a quell’ora, in un continente segreto, sveglie per darci parole. Pensiamo a quelle parole. Chiudiamo gli occhi un momento.
“E che arrivino le cinque, / se dobbiamo vivere ancora”.
Sara De Simoneè nata a Caserta e vive a Roma. Si è laureata in Filologia romanza alla Sapienza di Roma e dottorata in Letterature comparate alla Scuola Normale Superiore di Pisa. Ha approfondito la sua formazione in Studi di genere all’Università di Utrecht e all’interno del Laboratorio di Studi femministi Sguardi sulle differenze.
Fa parte dell’International Network for Comparative Humanities (Princeton University-University of Notre Dame) ed è nel direttivo della Italian Virginia Woolf Society. Ha tradotto con Nadia Fusini il carteggio tra Virginia Woolf e Vita Sackville-West «Scrivi sempre a mezzanotte. Lettere d’amore e desiderio» (Donzelli, 2019).
Scrive su il manifesto e Il Tascabile. È curatrice della sezione Poesia per Inquiete Festival e direttrice artistica di Eccentriche. Dialoghi su artiste fuori dal comune.
Cenni biografici di Antonio Porpetta- 1936-2023-Poeta, scrittore e saggista spagnolo.Autore giunto tardi alla poesia, nelle sue opere stabilisce una dimensione poetica che ha più a che fare con la voce e lo “slancio” dell’umano essere se stesso e con la struttura formale del poema che con dati realistici o contributi soggettivi.
Nell’allucinato plenilunio
———-
la mia gazzella muove
———-
leggera
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per dirupati anfratti
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a sterrare speranze sepolte
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in cui morire.
Ma quell’utopia suicida
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è sale della terra,
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è tremolante torcia
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che illumina la storia
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ben sapendone
———-
il cieco disamore.
NON CHIEDETEMI MAI
Respingo pregiudizi secolari,
ricevo visite, lavoro e faccio spesa,
sorsi di tenerezza dono all’albero ricco
del mio sangue e intanto fino in fondo
vivo questa morte nata con me
———-
(nel continuo mutamento sempre me stessa
———-
con le cose che amo creo la bellezza,
———-
con quelle in cui credo libertà)
Ma la sera una teoria di pietrose tastiere
è bersaglio dolente per me sola
mentre un’ala di gabbiano canuto
oltre le sartie ferme del tempo
mi germina infinite dimensioni
scavando guance dal gemito roco
———-
(non chiedetemi mai perché le scriva
———-
queste cose totali dissepolte
———-
ai margini dell’umana solitudine)
Poi il vento che scava finestre
riaccende un fumido faro
per chi — come me — rimane
———-
alla soglia
REDI IN TE IPSUM
Una traccia iridata sopra i vetri
ridendo lentamente muore —
la mia presenza non è necessaria
alla festa finale della pioggia
ma dentro qualcosa che grida
vuole uscire dal mite
vortice d’ombra: tutto questo
presente sparirà – tutto è
e si disfa — come te anima mia
che passi le vetrate
per raspare il muro —
ogni aria di ruggine o d’asfalto
al delicato fiuto fatta vana.
———-
Dov’è che vai — se tu stessa
———-
ritorni e non ti fermi
———-
anima sempreviva, intenerita:
———-
passeggia a lungo — dopo si vedrà
da MENO MALE.
QUASSÙ
la notte ha ormai lunghe dita
è tempo di pioggia e di vento,
nei cesti noci funghi castagne
quassù nelle case già s’accendono
fuochi e tutto muta o s’avvita
al sole sbiancato, luce di questa
stanchezza stranita dove niente
va perso, niente di lucida vita.
OGNI ESILIO
Nei tuoi occhi s’arrotolano gridi
ombre mobili di plenilunio ghiacciato
alberi secchi e mutilati fiori:
tu stai alle regole del gioco
e fingi d’esplorare ancora
ma altro tempo — felice —
frastorna la memoria
e già ogni esilio s’innerva
nel tuo sguardo, ogni paura antica
da LA CASA DI LIDE
«…il punto tra memoria e desiderio
si sposta, è alla deriva di un gorgo…»
(Mario Luzi)
E nel quasi-svegliarsi
nella non-consistenza
al di qua della soglia
giovane ancora pensarsi
con l’oro il riso la voglia
———-
non capire nel grigio
———-
confuso se è giorno di già
———-
o speranza di alba
———-
che neghi
———-
quest’altra reale
———-
barbarica età
«Ecco, qualcuno ci dice: sì, tu
mi entri nel sangue…
Che giova, egli non può trattenerci,
noi svaniamo in lui e intorno a lui…»
(Rainer Maria Rilke)
Per una volta entrare nell’altro
che adesso in mezzo alla strada
mi parla
——-
— scambiare il mio sé col tuo io
———-
i ricordi la pelle la bocca —
vedere le cose diverse
amarmi da fuori di fronte
però chissà se il tuo io mi va stretto
se l’occhio s’è accorto
del glicine timido sulla ringhiera
——-
— un universo tra plastiche stanche —
di un gatto che passa col rosso
di me che tremo per lui
———-
che semino idee sull’asfalto
———-
consumo parole nell’aria
———-
facendo l’amore col vento…
Ma almeno una volta più bello sarebbe
scambiare la vita aprire una porta
di un altro il sorriso sapere
——-
— di un’altra pietà — LA LUCE.
NOTTURNO
«… e ci saranno strofe d’amore
che già sanno
a memoria le case»
(F. Garcìa Lorca)
Già si spensero i vetri affocati
del tramonto
nelle stradette brevi della città
ritorta verso un cielo in salita
con esili braccia di pietra
e il suo volto fasciato di silenzi
prepara asfodeli di riso notturno
tra rari lampioni e antiche ombre
Sulla fragilità del marciapiede
risuona il passo mio vagante
dietro immagini sepolte
all’arco del tempo incorruttibile:
mi perdo in questo gioco estenuante
che sempre cede il posto alle domande
(dove vita s’annida batte ora
un pipistrello cieco
come pensiero inquieto ed assonnato)
PARTIGIANO
Per noi
fu d’improvviso giorno
quando dal vischio uscimmo
della vergogna;
tu scendevi la notte
partigiano
alla casa sicura di cibo
ed io, bambina,
stropicciandomi gli occhi
oscuramente
ti sentivo padre
della mia libertà.
Risalivi in collina
col mitra portando
piccole lotte sognate,
velleità di vecchi e ragazzi:
altro non chiedevamo, allora,
che ritrovarci lassù
quando il gallo
frantumando la notte
altre attese brevi porgeva
e nell’aria
allegre andavano canzoni.
CREATURE
Sale ai ginocchi l’erba
maculata dell’inverno
mentre sotto la crosta
già striscia marzo
e l’oscura forza che affatica
la terra: lì crepita il bulbo,
si ramifica in figli
che nasceranno deboli
come quelli umani.
Perduto nei millenni il cielo
— il cielo che ogni cosa
fa piccola quaggiù —
solo la terra ha voce
le sue creature storte
un po’ contuse dentro: eppure
qualcosa canta piano — adesso —
nel cuore che sa,
FOSSILI
Un fossile chiuso dentro l’ambra,
la nenia dei secoli
— era vita, la sua, lanceolata,
e adesso è pietra —
la luce liquida perduta
per tutto quel tempo — lunghissimo, nero —
che t’ha salvato, fossile buono
———-
(anche un po’ fortunato)
al riparo dall’acqua
che cresceva nei pozzi
L’ho dentro
il tuo odore di aria remota,
letizia scampata all’inferno:
———-
tu – fatto pietra –
ora duri per sempre
———-
io quale impronta
di me nemmeno una foglia
Io nei secoli senza mai rivedermi.
GENESI
in noi una strana terra di nessuno
che protegge le idee, le emozioni:
qui aspettano a lungo la parola bella
che le affranchi, ma quale lingua diversa,
misteriosa, lì si dipana o si aggruma,
quale respiro di libertà e di nascosto
fuoco dilaga all’improvviso…
Nasce un linguaggio nuovo,
inaspettato o forse addirittura altro
che per un attimo almeno
attinge alla tua umanità e ti porta
lontano dall’ottusa gravità
della materia, dell’avere, del tempo:
tutto questo forse un giorno
si chiamerà poesia.
L’ASSENZA
multiforme l’assenza dona
incertezze, scava vuoti
di senso, moltiplica falsi
legami, corre, dio, come corre
la gente verso la calaverna
che brucia col gelo la terra
———-
eppure è qui il nostro posto
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— ieri un amico mi ha detto —
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il mondo ha tanto bisogno
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dei resistenti dell’anima
IL BRIVIDO
Luce di marzo
che gioca su di te,
strade di luce
calpestate dal sole
ed io impotente appendice
presa dall’ombra.
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Nel lago mansueto dei tuoi occhi
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si specchiano mille ipotesi d’amore,
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preludi di parole indugiate
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al brivido breve che mi coglie
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sapendo che addosso ho solo
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la povertà di me stessa.
INQUIETUDINE
Troverò un quieta landa
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dove posare finalmente il cuore,
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errante falco inassuefatto
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ai deserti di livida arenaria:
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dal madido profondo allora
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ti parlerò di me, della ricerca mia
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ostinata e dei prati d’astri
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sfiorati nel lungo andare solitario.
Troverà un senso infine
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la mia presenza umana tra miliardi
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sotto le fredde stelle inaccessibili,
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quando mi specchierò appagata
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nel piccolo fondo d’un bicchiere
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che intera conterrà la mia inquietudine
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placata da un amore senza fine.
LO SPECCHIO
lo specchio ingoia tutto fedelmente
non lo sapevi che non ha pietà:
ti sei fatta cassa di risonanza
per ogni dolore, nodo dell’umanità
e adesso specchiarti non ti piace?
Quel filo d’aria fredda che t’insegue
negli anni t’ha reso un Amleto
un po’ triste un po’ rabbioso,
un’anima che cerca la sua anima
se fuori della porta latrano voci
LA MIA CITTÀ
Pronta di pietre
alte in tramontana
———-
(un balzo – quasi – e spazio)
cuore rupestre del vento roditore
e poi lampioni rari
– stelle fanè in vetrina –
e dita d’erbe/d’aria
che sulle case ricamano sudari;
il sole si ricerca nei cortili
sopra il muschio dei pozzi scardinati
tra gente che quieta tesse vita
e pianamente parla – in ironia –
L’anima vecchia della mia città
———-
(confine e verde e vita)
con le sue mura sapide, con gli archi
– ventagli stretti al cielo –
lega l’ossame etrusco ai nostri giochi
———-
(acqua passata per le sue fontane)
e nei vicoli occhiuti di balconi
tra i grilli addormentati sui gerani
le mie corse rubate al primo bacio
Poi tutto vola – sai – ma lei traspare
e di noi vibra, della nostra vita
———-
(le occhiaie della storia, che ferita)
LA FOLLIA
Libero va, consegnato all’ignoto,
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il pensiero sinuoso
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per giochi alienanti
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tra bianchi fogli da riempire
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ed agavi riemerse dall’inconscio.
C’è forse una speranza che resiste
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a quest’oltraggio estremo:
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qualche ombra di un’età sconfitta
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stampata sul muro del ricordo
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come un glicine riverso
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sulla ringhiera di ferro arrugginito.
da D’AMORE E D’ALTRO
LA QUIETA COLPA
Angoli acuti, spigoli,
asettici fonemi,
occhi che fuggono
su labbra sibilanti,
paura di specchiarsi
nella gemella freddezza
da obitorio
del vicino.
Proibito ridere di niente,
leccarsi le ferite
apertamente,
proibito essere veri
nella lebbra scura
del conformismo.
La mia quieta colpa
è la difformità
dell’innocenza.
da POSTILLE AL NECESSARIO
NOI QUI
noi qui sepolti nel dubbio
davanti alla triste demenza
del male, qualcuno tenta
col mistero del Dio dell’amore
ma non vuol dire grazie
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unito alle voci infinite
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che al male dicono no,
———-
chiuse nel disperato pensiero
———-
ieri oggi sempre, nei secoli
———-
dei secoli…
LA DISSENNATA ASSENZA
Le ali vischiose dei ricordi
le loro dita di gelo e cenere
e mille idee
ferme sul foglio bianco:
ti pare poco dilapidare qui
le tue memorie — la dissennata
assenza che ti sfratta.
Lava questo presente dal ricordo
della lontana vita
troppo presto fuggita —
ora parvenza e sogno
di tutto quanto è stato.
È solo cosa tua
non l’ospita la storia — meglio
allora come un vecchio cane
sciogliere il cappio molle
dei ricordi: vedi, le rondini
oggi svegliano il cielo
il sole cresce, scorre per casa
ancora qualche dolce cuore
entra uno sciame d’aria —
è la fiamma d’un giorno
un sorso lungo.
Cercami nella tempesta Quando smarrisci il senso disperato.
Essere casa.
Nella notte dove le acque Permeano l’esistenza ascolta il mio grido. Di lacerante sconfitta.
Non ti presentare solo.
Siamo in tanti ma ben nascosti E aspettiamo che germogli una nuova aurora. Dipinta.
Inanella le tue paure Cospargi di cenere il capo abbia pietà della mia ironia
Sono vecchia E fragile.
Non ti chiedo che un passaggio Il grido storce in me La tua immagine.
Rimpianto.
Numero infinito
Ci sono anime e terra.
Come numero infinito Ti affacci al mare di questo sogno. Distesa piatta di acque mai ferme. E l’odore ti porta lontano, navigando Fino all’orizzonte. Origine Di ogni respiro e lacrima.
Io non sono il mare ma nemmeno la terra.
Così abbandonato il pensiero Si fa serio. Distratto dal blu oltremare. Trino il richiamo di Cristo. Sacerdote E punto fisso di una vita.
Serena Rossi-Breve biografia
Serena Rossi è nata a Milano nel 1972.Nel 1999 si laurea in Farmacia. Segue svariati corsi di arti visive, dal 2002 espone sue opere in mostre italiane ed internazionali e alcune di esse fanno parte di collezioni private e pubbliche come il museo a cielo aperto di Camo e la collezione della BPL. Nel 2012 pubblica la silloge “Nel divenire calmo dell’infinito” ed. Caosfera, e viene inserita in diverse antologie e collane di poesia, nel 2016 pubblica “5 poesie” ed. Ilrobotadorabile in serie limitata e l’e-book “Ho chiesto al mare di piangere”. Nel 2017 esce “Non ci sono solo eroi” ed. NullaDie e l’edizione limitata “Lamine” ed. ilrobotadorabile. Nel 2018 esce “Noi non siamo” ed. NullaDie, nel 2019 “5 poesie” ed. limitata ilrobotadorabile e nel 2020 pubblica la silloge “Disegno papaveri rossi” ed. NullaDie, “Confinamento” ed. limitata ilrobotadorabile e “Dodici confinamenti” ed. abrigliasciolta. Nel 2021 pubblica come curatore ed uno dei sette autori “Voci dal confinamento” ed. NullaDie, “Non serve la paura” ed. NullaDie ed è presente nell’Ebook in lingua inglese “And Magazine” del Dottor Kousik Sastri e nella rivista indiana “Taj Mahal review” del Dottor Santosh Kumar. In questi anni riceve premi di merito e di posizione a concorsi letterari nazionali ed internazionali e le sue liriche sono pubblicate in antologie di pregio. Collabora con diverse testate letterarie in rete e dal 2022 fa parte della redazione milanese della rivista culturale online Il pensiero mediterraneo. Ha partecipato e vinto diversi premi e concorsi letterari.
L’Altrove è un Blog di poesia contemporanea italiana e straniera
La poesia non cerca seguaci, cerca amanti”. (Federico García Lorca)
Con questo presupposto, L’Altrove intende ripercorrere insieme a voi la storia della poesia fino ai giorni nostri.
Si propone, inoltre, di restituire alla poesia quel ruolo di supremazia che ultimamente ha perso e, allo stesso tempo, di farla conoscere ad un pubblico sempre più vasto.
Troverete, infatti, qui tutto quello che riguarda la poesia: eventi, poesie scelte, appuntamenti di reading, interviste ai poeti, concorsi di poesia, uno spazio dedicato ai giovani autori e tanto altro.
Noi de L’Altrove crediamo che la poesia possa ancora portare chi legge a sperimentare nuove emozioni. Per questo ci auguriamo che possiate riscoprirvi amanti e non semplici seguaci di una così grande arte.
Laura Boscardin – POESIE dalla raccolta “FERITE SINUOSE”
Dalla raccolta inedita “Ferite sinuose”
Distese con i palmi delle mani all’insù guardiamo le montagne sporgersi come canini nel cielo stellato: la luna è uno spicchio d’unghia incarnata in queste dita che sfioriamo per ricordare cos’è la tenerezza quando incombe minacciosa l’oscurità di quella domanda che pende dalle labbra come una corda nera sopra il vuoto abissale degli occhi dirupo.
*
a F.
Una vestaglia argentata di onde a ciuffo il mare nel tramonto di luglio la sabbia affollata e noi pelli salate palmo su piede in una carezza che è miele fuso viene dall’arancione tenue laggiù dove l’ora si specchia sopra l’acqua e cristallizza le nove e diciotto la luce sfiamma nel tiepido cielo e la notte insiste a farsi strada.
*
Siedi nel divano amaro quando in testa pungono aghi incendiati di pressione. Increspi la fronte avvolgi il petto tra le braccia provi a calmare le membrane lacerate dal rigore della regola. Ma sprofondi nell’orizzonte dello schienale fino a non farti più vedere: una larva schiacciata dalla sua stessa forza.
*
“Memory and real care sit under the surface, like still reservoirs waiting to be drawn from.”
Cynan Jones. The Long Dry
Sono crateri di pelle morta quei crepi nelle mani depositi di ricordi dal passato dove il viso s’indurisce la mandibola scrocchia all’aprirsi la bocca sgancia sospiri per vivere come bombe in un prato che è lingua: lì crescono papaveri macchiati da parole tenute nascoste.
*
Lentiggini come laghi fangosi popolano quel viso pietrificato. Occhi grigi nell’ufficio sterile persi tra pile di fogli bianchi dove la tua miseria si scrive. La poltrona accoglie gambe accavallate e il piede destro inquieto dondola l’ansia di dover spiegare a parole la voragine dell’anima.
Breve biografia di Laura Boscardin è nata a Bassano del Grappa (VI) nel 1995. È laureata in lingue e letterature straniere all’Università Ca’ Foscari di Venezia. Vive a Barcellona, dove lavora come agente letterario. Questa è la sua prima pubblicazione
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