Da: Invocazione all’Orsa Maggiore, trad. di Luigi Reitani. SE, Milano 1994
Ingeborg Bachmann, Poetessa austriaca
Breve biografia di Ingeborg Bachmann-Poetessa austriaca (Klagenfurt 1926 – Roma 1973). Ottenne il primo riconoscimento col premio conferitole dal “Gruppo 47” per le poesie riunite in Die gestundete Zeit (1953), nelle quali i motivi ideologici della sua formazione intellettuale (Heidegger, Wittgenstein) s’incontrarono con il tema della generazione venuta dopo gli orrori della guerra nella dimensione d’un linguaggio spesso tormentato e astruso, ma sempre autentico. Nella successiva raccolta, Anrufung des grossen Bären (1956), i nodi espressivi tendono a sciogliersi in un dettato più lucido (vi compare spesso, al posto del metro libero, la strofa rimata), pur senza perdere di profondità. Di singolare interesse (a parte alcuni testi minori, fra i quali ricorderemo i radiodrammi Die Zikaden, 1955 e Der gute Gott von Manhattan, 1958, in forma di ballata) sono altresì i volumi di racconti Das dreissigste Jahr (1961) e Simultan (1972) e il romanzo Malina (1971): pagine narrative caratterizzate da una intensa vibrazione poetica, anche se quasi sempre lontane dai moduli della “prosa lirica
Proponiamo quattro poesie inedite di Giuseppe Carlo Airaghi, che ha pubblicato di recente le raccolte I quaderni dell’aspettativa (2019) e Quello che restava da dire (2020).-Fonte –Blog Pane e Scorpioni-
L’ultimo scompartimento
“Quante stazioni dovremo passare
per ritornare di nuovo alla luce?”
chiede la signora che stringe la borsa
e la vita al grembo serrato
mentre dispensa sorrisi senza obiettivi,
sospesi a mezz’aria.
Viaggiamo tra palazzi periferici
che ci voltano coscienti le spalle
prima di venire inghiottiti dal buio ipogeo
tra le stazioni di Lancetti e porta Vittoria.
“La luce ci riaccoglierà
poco prima di giungere a destinazione”
vorrei rispondere
ma taccio nella consapevolezza
della soggettività di ogni mia risposta.
L’ultimo scompartimento del treno
è luogo riservato agli ultimi,
ai viaggiatori con biciclette moleste al seguito,
alle ombre senza biglietto da esibire,
rintanate nei cessi ad evitare il controllore
o tesi nel corpo in allerta a scrutare,
lungo il corridoio immisurabile,
l’arrivo della divisa che pretenderà
un compenso che non possono permettersi,
in bilico tra la sopravvivenza,
la rivolta
e la normalità anormale
di uomini dal destino segnato
e uomini senza neppure un destino
a cui affidare il peso del corpo nel viaggio.
C’è chi, guadagnato un precario posto nel mondo,
custodisce nella tasca la legittimità
di un biglietto obliterato
seduto sui sedili di chi non teme
il giudizio del controllore
e chi fugge la voce che pretende un biglietto
in una lingua non conosciuta
ma riconosciuta come lingua di una legge divina.
Io non so più quale sia
la giusta forma di comportamento,
vorrei scendere a ogni fermata non mia
(magari a Porta Garibaldi dalle tante alternative)
dimenticare il dovere della destinazione,
riscrivere una nuova storia da onorare.
Ma non lo faccio
per senso del dovere
mi limito a spiare fuori dal finestrino
le sagome e le ombre sotto i neon,
nel tempo sufficiente
a leggere un’ultima poesia
tra le stazioni di Forlanini e Segrate.
Chi resta si dia pace
Nelle viscere dell’ospedale vecchio di Garbagnate
spingiamo il letto medicale
verso il magazzino dell’economato.
Restituiamo il letto in comodato
e il dolore che vi è giaciuto
e la morte ospitata senza invito,
subita nella resa, lucidamente attesa.
Tornati a casa nell’espressione di rito
riapriremo le imposte alla luce
che entrerà senza cerimonie
ne cordoglio, ne vergogna.
Ritorneremo a un amore privo di rimorso,
a fischiettare cucinando il sugo,
ad ascoltare canzoni sceme alla radio
ad alto volume da una stanza all’altra,
malgrado la foto con lo sfondo di cielo
sistemata sulla mensola alta in soggiorno,
quotidiano arredo
su cui poseremo e toglieremo la polvere
per il resto dei giorni a venire.
Sei ancora sveglia?
Sei ancora sveglia? domando.
Sono ormai le due del mattino.
I sogni arrivano in punta di piedi,
approdano al respiro del tuo seno bianco
dopo avere percorso le strade di campagna
che ricuciono i lembi dei campi arati,
i quartieri addormentati
nelle ore sillabate, una ad una,
dalle donne che condividono l’attesa
con la ruggine fiorita
sulla ruota abbandonata nel cortile.
Alla mia domanda rispondi
con un sorriso silenzioso
e quel silenzio mostra
la bellezza capace
di far vacillare il mondo,
il mio buon senso,
i fogli bianchi
che dovrei stracciare
come si stracciano i sogni interrotti.
La finestra
Dalla parte in silenzio della strada
osservo la casa
(qualcuno direbbe la spio),
la finestra ancora illuminata,
il pudore tenue di una tenda bianca.
Dietro il vetro
ci sono io,
una mano a scostare la tenda.
Guardo fuori
l’uomo che dalla strada mi osserva
(qualcuno direbbe mi spia)
e forse mi somiglia.
Trattengo a stento un cenno di saluto
per timore di essere frainteso.
Giuseppe Carlo Airaghi
Giuseppe Carlo Airaghi è nato a Legnano nel 1966 e vive attualmente a Lainate, sempre in provincia di Milano.
Come racconta lui stesso, in passato è stato geometra, animatore di villaggi turistici, venditore di prodotti siderurgici e cantante di una band rock-blues. Sognava una carriera da ballerino ma la sua completa mancanza di coordinazione si è rivelata un ostacolo insormontabile. Attualmente lavora presso un’azienda di servizi, “cassa integrazione Covid-19 permettendo”.
Ha una moglie paziente e due figli recentemente usciti incolumi dall’adolescenza.
Sul comodino si ostina ad accumulare libri, che tenta di leggere contemporaneamente senza mai riuscire a terminarne uno.
Per una bibliografia dettagliata e le indicazioni per acquistare i suoi libri, consultate il profilo dell’autore.
DESCRIZIONE-Pablo PICASSO Nel 1935, quando ha già 54 anni e attraversa un periodo di crisi nella professione e nella vita privata, Picasso comincia a scrivere poesie, una passione alla quale si dedicherà, con alcune interruzioni, fino al 1959 facendone il territorio di una geniale sperimentazione. Guidato da un istinto innato, maneggia la lingua con la stessa libertà inventiva con cui utilizza gli altri mezzi espressivi nel suo lavoro di artista. Ama i giochi di parole, gli inventari, le accumulazioni e le combinazioni. Alterna il francese allo spagnolo; liriche composte di getto a elaborate riscritture basate sulla ripresa e variazione degli stessi elementi; poesie fiume, in cui le parole si spintonano proprio come gli oggetti si assemblano sulla tela, a labirintici componimenti a rizoma in cui la linearità è messa al bando: una scrittura personalissima, vertiginosa, inafferrabile, che sfida ogni classificazione ma a cui non sono estranee suggestioni colte, dal barocco spagnolo a Mallarmé, da Alfred Jarry al dadaismo e al surrealismo. Dietro il poeta si intravede in filigrana il pittore, con i numerosi riferimenti alla luce, alle ombre e soprattutto ai colori. Anche i temi che ricorrono sono gli stessi che popolano i dipinti: la Spagna, la corrida, le danze e i canti popolari; la guerra e la violenza della dittatura franchista; il cibo, l’amore, la morte. Arricchita dalle riproduzioni di alcune splendide pagine manoscritte, questa raccolta dei più significativi testi di uncorpus che ne comprende oltre 350 documenta un aspetto ancora poco noto dell’opera di Picasso contribuendo a far luce sul percorso creativo del più grande artista del Novecento.
Uno specchio si riflette nell’altro, gli occhi di lui si avvicinano
al cosmo di nuove prospettive che nascono,
come tatti dell’universo,
degli occhi che moltiplicano
il volto del vecchio.
Una bella donna lo trucca
e lui chiude le palpebre in estasi.
La sposa severa con blusa nera di seta
oppure una tanguera
di bordello.
Lei toglie le spine mortali dal suo viso,
gli mette polveri che danno trasparenza al viso totale
e risalta la vita sulle guance
e le palpebre con ogni pennellata.
Con tre zampe lui misura placidamente il suolo
che trema come un bandoneon
suonato da un ubriaco.
Allora si mette gli occhiali e vede la sfera
piena di fulgore giallastro.
La guarda e legge la propria sorte
scritta sulle striature della tigre
come un indovino maya.
Il suono smarrito dell’organetto rotto
che hanno portato i marinai
apre l’orizzonte della pampa.
Quelli che giunsero laggiù con speranza
adesso muoiono crocifissi dalla nostalgia per la patria,
abbandonati due volte dalla propria patria e dalla terra nuova,
senza tessere neppure un brandello di sogno,
vagano per il gran labirinto del tempo
e incontrano il proprio volto vero ed eterno
un secondo prima della morte.
Il poeta ha scoperto il suo destino,
il suo volto era il volto stesso della madre.
“Mamma, mamma, nella sua origine
la mia vera esistenza è solo la metà di me stesso
il resto è tuo!
Tu vivi in me mentre io mi trucco”.
Il poeta chiede al cameriere un sacchetto dalla cucina
per l’arancia e le bucce.
La gente di periferia non capisce mai
perché lui conservi tanto premurosamente questo frutto volgare.
(Traduzione di Ikuko Sagiyama)
Satoko Tamura Kawamura è nata in Giappone nel 1947. Ha seguito i corsi di Letteratura Ispanoamericana presso l’Università Nazionale Autonoma del Messico (UNAM) e di teoria dell’espressione poetica presso l’Università Complutense di Madrid, e ha conseguito il dottorato presso l’Università Ochanomizu di Tokio. Dal 1989 è stata eletta Membro Straniero dell’Accademia Cilena della Lingua. Ha pubblicato numerose raccolte poetiche e traduzioni da Naruda, Cortazar, Marquez e altri. Fra i numerosi riconoscimenti internazionali, ha ricevuto il dottorato ad honorem in lettere dalla World Academy of Arts and Culture (California, Usa).
Breve biografia di Paolo Volponi-(Urbino, 6 febbraio 1924 – Ancona, 23 agosto 1994). Scrittore, poeta e narratore. Nelle sue opere si affermare l’esigenza di una razionalità capace di affermare le più integrali possibilità dell’uomo e di mirare ad una libera espansione delle sue facoltà corporee e mentali, a uso positivo del lavoro, della scienza e della tecnica. Nel 1975 divenne presidente della Fondazione Agnelli, ma fu costretto a lasciare tale incarico per la sua adesione al partito revisionista , sgradita ai vertici della Fiat. Nel 1991 si oppose alla dissoluzione del PCI e aderì a Rifondazione Comunista, che a suo avviso “manteneva viva la speranza di un mondo più giusto e più razionale. Nel suo ultimo romanzo “Le mosche del capitale”, narra la vita di un manager la cui genialità viene schiacciata in azienda dalle cieche logiche di potere e di guadagno. Tra le opere poetiche ricordiamo: Memoriale; Poesie e poemetti; Con testo afronte; Le mosche del capitale; Nel silenzio campale.
Paolo Volponi
Nella divisione del lavoro internazionale
ha un suo tratto assegnato anche la tua pena: …………..
Il paesaggio collinare di Urbino,
che innocente appare quercia per quercia
mentre colpevole muore zolla per zolla,
é politicamente uguale
al centro storico di Torino
che crolla palazzo per palazzo
o ai giardini della utopica lvrea
ricca casa per casa;
tutti nella nebbia che sale
del mare aureo del capitale.
L’unità di tutti i democratici.
Ma chi di loro e di noialtri
Può stare sempre unito con gli altri?
Seno diverse le entrate, le uscite e i nastri
di registro, di paga, di cure termali,
di premi, compensi, indennizzi in caso di disastri.
Sono divisi i beni, le aliquote, i mali
Perfino i giorni e il corso degli astri.
Non ‘e vero che siamo tutti uguali,
noi siamo una serie di impiastri
stesi fra i civili e gli animali.
Paolo Volponi
da POESIE 1946-66
L’amor di sé L’alba ancora non lascia
l’ultima onda notturna;
ancora trattiene l’ambascia
di persistere sola, recisa
ogni corda l’aria stessa, la fascia
del proprio lucore indivisa
dalla tela nera che s’accascia
non dietro, ma sotto tra l’intrisa
minuta rena della sua diaccia
incerta orma, alterna, lisa
dalla sua labile irriverente traccia.
La direzione è opposta
al verso del piede che frena
e dello sguardo che accosta
trepido la prima spalla terrena
libera, non tesa una mano opposta
per indicare una scena
seppure piccola, appena opposta
alla nera matassa, alla vulva oscena
della notte, incinta, non deposta…
Ma spinta di fronte alla vista di sé
pallida stenderà la colpa
lucente alta sopra la testa
e si scioglierà in vapore dentro
l’imprendibile sabbia.
Niente l’assorbe né la desta
e solo l’onda notturna
più larga sotto la chiglia
della luna dentro la nuova urna
le toccherà un gomito e le ciglia
ancora lucide del rimpianto:
perla della conchiglia
dell’amore di sé.
D’autunno è con noi D’autunno è con noi
ogni foglia e ghianda
ed è raggiunto il cielo.
Fra le avellane svolazza
la palomba ferita,
freme il sottobosco
agli scoppi
dei ricci di castagna.
Dolcissima è l’ultima uva
celata fra i pampini rossi,
sul fianco dei monti sale
il fumo delle carbonaie.
A sera
io provo il caldo smemorato
delle castagne,
del torbido vino,
il più nudo corpo
della mia donna.
Tu sei l’uomo Tu sei l’uomo
che nelle fiere
appresti il tiroasegno
con il gallo di ferro
che colpito scoppia
sulla polvere da sparo
nel selciato.
Che scavi il pozzo,
che porti a maggio
la croce di canna
nel campo di grano.
Tu freni il puledro,
conduci la volpe prigioniera
a tutte le case;
tu fischi ai bovi
nell’abbeverata
che hanno le rane nell’orme.
Tu sei l’uomo
che porti alle ragazze
il geranio e lo sposo.
Tu arroti i coltelli e le falci.
Tu insegni il fischio ai merli
ed hai l’erba che sana
il morso della vipera.
Paolo Volponi
Domani è già marzo Domani è già marzo e la strada
scopre tra i frutteti il petto della contrada.
A marzo il contadino
riordina gli attrezzi e libera i confini.
A marzo i contadini
scendono verso i paesi;
si fermano nelle piazze mercatali
davanti alle osterie, ai forni, ai falegnami
che odorano sotto i portali di pietra fiorita,
davanti ai negozi di ferramenta,
davanti a tutti gli spacci
con un sentore d’acqua muffita.
I vecchi si fermano alle porte;
i giovani salgono le vie cittadine.
Ormai li mischia aprile,
mese senza paura,
e salgono insieme i mezzadri e i garzoni,
i mietitori, i braccianti, i legnaioli,
i muratori di campagna, gli innestatori,
gli scavatori di pozzi e di vigna,
i cercatori d’acqua e i cacciatori.
Il giorno nella città non ha paura,
stretto tra le mura è sempre luminoso,
e sempre vive di qualche cosa, ora per ora;
preso alla mattina presto nei mercati,
nella profonda luce che rispecchiano
le facciate nobiliari o i porticati;
guidato per le vie al suono del selciati
sino ai vertici gentili dei rioni;
alzato a mezzogiorno in fronte alle chiese
su tutte le piazze, una sopra l’altra,
di mattone o di pietra,
non è vinto dalla foglia incerta,
non morto nella morte degli insetti;
non arato, seminato, sarchiato,
faticato ora per ora,
dalla mattina alla sera.
Il giorno gira nella città il suo dolce sole,
muove il ventaglio alto delle nubi,
e chiama dal mare l’amorosa luce serale
che si stende su tutte le terrazze,
sui giardini pensili, sull’arcate
dalle quali soffia l’Appennino.
Si congiunge alla notte per le strade,
quando vicino s’odono risate di ragazze
verso i torrioni e voci da tutti i portoni.
Porgimi, amore Porgimi, amore
il tuo ramo fiorito
la mente mattutina
nel cui cespo chiaro
ai venti incerti di ottobre
ripara l’allodola ferita,
l’azzurro ginepro degli altipiani
prossimi alla marina.
O la tua pietra
in bilico sul fiume,
la perduta foglia di salice
sull’acqua,
l’alga tenebrosa
dove un invisibile pesce respira.
Amore, amore,
porgimi del tuo albero
il frutto più alto
così la tua uva nascosta
e il piccolo orto
dal pettirosso fedele;
il tuo cavallino
dalla coda leggera,
la vipera che ti beve
il latte nel seno,
l’amoroso gallo
che ti sveglia
e la civetta compagna
alle tue notti di luna.
Porgimi, amore,
il tuo mutabile tempo
giovanile,
l’immobile sole
e il quarto di luna
della tua esatta stagione.
Paolo Volponi
Mia quaglia Della chiarissima quaglia
che nasce sulla spiaggia
agli approdi dei templi,
nell’ora che la luna di marea
rotola sabbia
e pesci luminosi,
tu hai lo smarrimento
e l’attonito canto.
Conosci il canneto
dove l’insetto sorpreso
annega nelle gocce,
il campo spiumato
alle piogge meridiane del grano.
Sul tuo collo
è giugno
stagioni delle falci
dal tenero filo,
luglio sulle spalle
con steli d’avena,
agosto sulla schiena
dorme come un cacciatore.
La vergine I sassi bianchi
sono le tue spalle
gli alberi la tua statura;
è la tua gola che batte
se una rosa si muove
non vista nel giardino.
Dì pure al vento
di perdere il tuo canto
nella voce dei fossi,
al rosmarino
di chiudere i sentieri.
L’innocente starna
si leva alta sul bosco
e m’indica il tuo cammino.
Poesia di Marijan Grakalić tradotta da Božidar Stanišić
è un commiato per Dubravka Ugrešić
Fonte -East Journal-
Pubblichiamo una poesia di Marijan Grakalić, apparsa su Radio Gornij Grad e tradotta per noi dal celebre scrittore bosniaco Božidar Stanišić. La poesia, sincera e antiretorica, è un commiato per Dubravka Ugrešić, scrittrice croata morta lo scorso 17 marzo, e a cui East Journal ha dedicato un paio di articoli in ricordo del suo formidabile contributo letterario. Con lei se ne va un altro pezzo di quella generazione di scrittori e intellettuali che seppero descrivere – vivendolo sulla propria pelle – la disgregazione jugoslava, il rimontare del nazionalismo – non solo nei Balcani – e la riflessione sul ruolo della letteratura nella società. Alcuni dei suoi libri sono tradotti in italiano.
Con partenza di Dubravka U.
Di nuovo nella notte il freddo bagliore del tempo che è passato
bussa alla porta, non si preoccupa degli ideali di mente, di salute
o sforzi di fortuna, tiene la sua campana
nascosta nel campanile costruito di ricordi e monumenti
di pietra. Scappo da loro, lì più che altrove
si può sentire la morte, e anche la tua morte. Allora pubblicherà
qualcuno, chiunque, la propria foto con te
sulla facciata di qualche palazzo, sul muro del castello descritto in
qualche vecchio libro. Lo farà per il desiderio
che anche lui sia nell’aura della gloria oltremondana, che si distingua
come custode della memoria propria o altrui, che
si presta attenzione a come è per lui la tua partenza
la stessa perdita, non importa quale, ma assolutamente
già allontanata dalle fauci della vita all’ombra, in un luogo
dove la luce si ritira prima dell’oscurità, da qualche parte
dove finiscono tutti i saluti dal buio. L’unica cosa in cui credo
ora son le parole che salgono dritte al mio
cuore, esse non immortaleranno niente e nessuno, nemmeno
te, saranno solo oneste e piene della loro stessa stanchezza,
della stanchezza del mondo che scompare con noi nelle strade deserte
delle città. Non è rimasto quasi nulla, in primavera
si dimentica ancora di più che in inverno, e presto forse
non ci sarà proprio nessuno a sentire il freddo bagliore del tempo,
la vibrazione della mano intorpidita e delle labbra gettate lungo la strada.
(Dubravka Ugrešić, 1949-2023)
di Marijan Grakalić Traduzione dal croato: Božidar Stanišić
—
Marijan Grakalić (1957) è uno scrittore, poeta, storico e pubblicista croato. È direttore del portale di cultura e letteratura Radio Gornji Grad, uno dei più letti dell’ex Jugoslavia, al quale collaborano numerosi autori della regione; è il fondatore del Festival della Cultura di Gornji Grad, che si tiene ogni anno a Zagabria. Negli anni Ottanta e Novanta è stato direttore della nota casa editrice Azur, poi direttore della casa editrice Mladost.
—
Di Dubravka Ugrešić sono usciti in lingua italiana:
Il museo della resa incondizionata, traduzione di Lara Cerruti, Milano, RCS Libri Bompiani, 2002
Vietato leggere, traduzione di Milena Djoković, Roma, Nottetempo, 2006
Il ministero del dolore, traduzione di Lara Cerruti, Milano, Garzanti, 2007
Baba Jaga ha fatto l’uovo, traduzione di Milena Djokovic, Roma, Nottetempo, 2011
Cultura karaoke, traduzione di Olja Perišić Arsić e Silvia Minetti, Roma, Nottetempo, 2014
Europa in Seppia, traduzione di Olja Perišić-Arsić e Silvia Minetti, Roma, Nottetempo 2016
Andrea Figari -Poesie Inedite pubblicate dal Blog L’Altrove
Andrea Figari è nato a Torino nel 1983 e ha conseguito la Laurea specialistica in Giurisprudenza presso la Facoltà di Torino. È autore fin qui di quattro raccolte, tutte pubblicate con Carta e Penna Editore: “Sentieri d’Esperanza” (2009), “Schegge di Rwanda” (2010), “ChiScac? Ovvero scacchi inVersi” (2013), “POeLITICA, Schegge di Poesia” (2020). Partecipa attivamente ad iniziative, incontri letterari oltre che aver ottenuto riconoscimenti in concorsi. Gestisce il blog: https://scheggedipoesia.wordpress.com/
Intreccio di colori
Vessillo di pace. La sua bandiera, i suoi colori, un intreccio di pensieri, arcobaleno di immagini. Il rosso è il primo scalino, il colore del sangue, quel sangue che scorre nelle vene e fino al cuore, al suo battito giunge. Rosso che si intreccia con l’arancione, il colore della buccia di molti agrumi, frutti di alberi, prezioso cibo per gli inverni freddi. Arancione che si intreccia con il giallo, il colore del grano nei campi da raccogliere e far divenire pane; un raggio di sole a riscaldare il suolo. Giallo che si intreccia con il verde, il colore della speranza, dell’erba e di un albero le sue foglie; un prato su cui correre. Verde che si intreccia con l’azzurro, il colore del cielo limpido, schiarito dopo il passaggio delle nuvole; in una favola il nome di un principe. Azzurro che si intreccia con il blu, il colore del mare, sguardo verso l’orizzonte a scrutare terre lontane. Blu che si intreccia con il viola, il suono dolce di uno strumento musicale, il nome di un fiore, per concludere il percorso.
La grolla dell’amicizia
Si narra una storia tra le case in pietra della Valle d’Aosta. Si tramanda il tempo che fu seduti davanti ad un camino, in una baita di montagna. Occasione preziosa a conclusione di una fredda giornata, al calare della sera, con le impronte di vita lasciate ormai sulla neve. Intorno al fuoco si ripercorrono i momenti, gli attimi trascorsi insieme. Si ripercorrono i ricordi, emozioni che si imprimono dentro. Gli sguardi si incrociano, le mani attendono la presa i legami si rafforzano. Il dolce profumo nell’aria inebria gli animi, riscalda i cuori. Giunge il momento del passaggio. Un grazie, un prego, un tesoro al suo interno, la bevanda è da sorseggiare, il rito, il calore della convivialità, la grolla dell’amicizia.
Sarebbe tempo
Sarebbe tempo di pace, sarebbe il tempo di seminare il grano nei campi d’Ucraina. Sarebbe tempo di pace, sarebbe il tempo di raccogliere il cibo di una terra coltivata. Sarebbe il tempo di dare spazio, alle stagioni, il loro trascorrere, lento e inesorabile. Sarebbe il tempo della natura, scende la neve in inverno, il sole scalda i germogli in primavera. Sarebbe tempo di pace, sarebbe il tempo di non dimenticare, di ricordare. Di costruire, di ricostruire, di risollevare. Sarebbe il tempo di mani, occhi e volti, sguardi che si intrecciano, diritti che si fondono, si infondano in luoghi dove sono ancora negati. Sarebbe il tempo della gente comune, di Russia e Ucraina. Di Iran, di chi ogni giorno è in lotta.
L’AUTORE
Andrea Figari è nato a Torino nel 1983 e ha conseguito la Laurea specialistica in Giurisprudenza presso la Facoltà di Torino. È autore fin qui di quattro raccolte, tutte pubblicate con Carta e Penna Editore: “Sentieri d’Esperanza” (2009), “Schegge di Rwanda” (2010), “ChiScac? Ovvero scacchi inVersi” (2013), “POeLITICA, Schegge di Poesia” (2020). Partecipa attivamente ad iniziative, incontri letterari oltre che aver ottenuto riconoscimenti in concorsi. Gestisce il blog: https://scheggedipoesia.wordpress.com/
L’Altrove -Chi siamo
“La poesia non cerca seguaci, cerca amanti”. (Federico García Lorca)
Con questo presupposto, L’Altrove intende ripercorrere insieme a voi la storia della poesia fino ai giorni nostri.
Si propone, inoltre, di restituire alla poesia quel ruolo di supremazia che ultimamente ha perso e, allo stesso tempo, di farla conoscere ad un pubblico sempre più vasto.
Troverete, infatti, qui tutto quello che riguarda la poesia: eventi, poesie scelte, appuntamenti di reading, interviste ai poeti, concorsi di poesia, uno spazio dedicato ai giovani autori e tanto altro.
Noi de L’Altrove crediamo che la poesia possa ancora portare chi legge a sperimentare nuove emozioni. Per questo ci auguriamo che possiate riscoprirvi amanti e non semplici seguaci di una così grande arte.
Jacint Verdaguer-Poeta spagnolo di lingua catalana
Biografia di Jacint Verdaguer (1845-1902)-Poeta e sacerdote spagnolo, uno dei maggiori di lingua catalana.Romantico, è ascritto alla generazione della Restaurazione del 1874, che nel quadro del Rinascimento ricollocò la lingua catalana nella categoria di lingua letteraria.
MANDORLO
*
Ti guardo
e ti ammiro,
mandorlo in fiore,
che osi
coprirti di rose
per il mese di gennaio.
Se arriva il gelo,
il tuo fiore bianco
appassirà
come l’erba falciata.
Ma tu sarai sbocciato,
e, all’Infinito,
devoto giardiniere,
avrai donato il primo fiore.
Signore,
se per il cuore
amarti è fiorire,
come il mandorlo
voglio affrettarmi
ad amare;
come lui, voglio sbocciare,
morire lentamente.
Jacinto Verdaguer y Santaló
POEMES DE JACINT VERDAGUER QUÈ ÉS LA POESIA
La poesia és un aucell del cel que fa sovint volades a la terra, per vessar una gota de consol en lo cor trist dels desterrats fills d’Eva.
Los fa record del paradís perdut on jugava l’amor amb la ignocència, i els ne fa somiar un de millor en lo verger florit de les estrelles.
Ella és lo rossinyol d’aquells jardins, són llur murmuri bla ses canticeles, que hi transporten al pobre desterrat dant-li per ales místiques les seves.
No es deixa engabiar en los palaus, no es deixa esbalair per la riquesa, en la masia amb los senzills del cor ses ales d’or i sa cançó desplega.
Mes per sentir-li modular a pler la pobra humanitat està distreta. Qui està distret amb lo borboll mundà, com sentirà la refilada angèlica?
L’aucell del paradís no es fa oir, no, de qui escolta la veu de la sirena. Lo cel que es mira en la fontana humil no s’emmiralla en la riuada tèrbola.
De poetes cabdals prou n’hi ha haguts; cap d’ells la dolça melodia ha apresa. Qui n’arribés a aprendre un refilet, aquell ne fóra l’àliga superba.
Mes l’aucellet refila tot volant, calàndria de l’empírea primavera, allí dalt entre els núvols de l’orient llença un raig d’harmonies i s’encela.
Jo l’he sentida un bell matí de maig, lo bell matí del maig de ma infantesa. Jo l’he sentida la gentil cançó, per ço m’és enyorívola la terra.
Aires del Montseny (1896)
LES TRES VOLADES
Entre la vinya i el fenollar amor me pres, fe’m Déus amar. Ramon Llull
Lo matí de ma infantesa, quin matí fou tan hermós!, lo cor vessava de càntics, lo camp vessava d’olors. Jo em sentí unes ales nàixer i volí de flor en flor,
a quiscuna que em somreia li dictava una cançó: si cançons no li plavien, li donava un bes o dos.
No veia de vostra tenda, gran Déu, les estrelles d’or. Les vegí per entre els arbres, i adéu floretes del bosc; per la bresca de mos càntics ja no teniu prou dolçor. Prou veia aprés les estrelles, mes no us veia encara a Vós, del cel bellesa increada, robadora de l’amor. Ara que us veig i us abraço, adéu, estrelles i tot; per aimar a qui tant aimo ja no tinc prou gran lo cor.
Idil·lis i cants místics (1879)
LO COLP
Lo món me creia feliç, l’enveja em feia la gala, mes jo perdia el cantar com a l’hivern la calàndria. Dormien en sol mortal
les cançons en la meva arpa, en ella i en lo meu cor que anava arronsant les ales, quan lo colp de vostra mà
fa deixondir la meva ànima, com los aucells adormits en los niuets de la branca, al sentir baix en lo tronc una forta destralada.
Flors del calvari (1896)
SUM VERMIS
Veieu-me aquí, Senyor, a vostres plantes, despullat de tot bé, malalt i pobre, de mon no-res perdut dintre l’abisme. Cuc de la terra vil, per una estona
he vingut en la cendra a arrossegar-me. Fou mon bressol un gra de polsinera, i un altre gra serà lo meu sepulcre. Voldria ser quelcom per oferir-vos,
però Vós me voleu petit i inútil, de glòria despullat i de prestigi.
Feu de mi lo que us plàcia, fulla seca de les que el vent s’emporta, o gota d’aigua de les que el sol sobre l’herbei eixuga, o, si voleu, baboia de l’escarni. Jo só un no-res, més mon no-res és vostre; vostre és, Senyor, i us ama i vos estima. Feu de mi lo que us plàcia; no en só digne d’anar a vostres peus; com arbre estèril, de soca a arrel traieu-me de la terra, morfoneu-me, atuïu-me, anihilau-me.
Veniu a mi, congoixes del martiri, veniu, oh creus, mon or i ma fortuna, ornau mon front, engalonau mos braços. Veniu llorers i palmes del Calvari, si em sou aspres avui, abans de gaire a vostre ombriu me serà dolç l’asseure’m. Espina del dolor, vine a punyir-me, cuita a abrigar-me amb ton mantell, oh injúria; calúmnia, al meu voltant tos llots apila, misèria, vine’m a portar lo ròssec. Vull ser volva de pols de la rodera a on tots los qui passen me trepitgen; vull ser llençat com una escombraria del palau al carrer, de la més alta
cima a l’afrau, i de l’afrau al còrrec. Escombreu mes petjades en l’altura; ja no hi faré més nosa, la pobresa serà lo meu tresor, serà l’oprobi
lo meu orgull; les penes ma delícia.
Des d’avui colliré los vilipendis i llengoteigs com perles i topazis per la corona que en lo cel espero. Muira aquest cos insuportable, muira; cansat estic de tan feixuga càrrega; devor’l lo fossar, torne a la cendra d’on ha sortit, sum vermis et non homo. Jo no só pas la industriosa eruga que entre el fullam de la morera es fila de finíssima seda lo sudari. Jo me’l filo del cànem de mes penes; mes, dintre aqueixa fosca sepultura, tornat com Vós, Jesús, de mort a vida, jo hi trobaré unes ales de crisàlide per volar-me’n amb Vós a vostra glòria.
Flors de calvari (1896)
La meva ànima està trista, Catalunya del meu cor, tants dies que no t’he vista! tants mesos ha que t’enyor!
Lluny de tu, què se me’n dóna de les flors ni dels jardins? Ton amor és ma corona, tos rebrolls mos gessamins.
Per mi no té llum lo dia, no té la nit un estel; mos estels, oh pàtria mia! se quedaren en ton cel.
Mos somnis en tes arbredes, en tes lires mes cançons, se quedaren on tu et quedes, bressol de mes il·lusions.
Fent lo cant de les cigales lo meu cor volant, volant, ha sentit caure les ales que mai més li tornaran.
Si alguna ploma li’n brota seria, pàtria, al sol teu, si pel maig, que tot rebrota, pogués trobar-s’hi el cor meu.
He pujat a una alta serra, de la serra he vist el mar; mar que toques a ma terra, si m’hi volguessis tornar!
Qui pogués desfer los passos i arribar, pàtria, a ton port! Qui pogués dormir en tos braços més que fóra el son de mort!
De la sèrie «Lluny de ma terra», Pàtria (1888)
LOS DOS CAMPANARS
Doncs ¿què us heu fet, superbes abadies, Mercèvol, Serrabona i Sant Miquel, i tu, decrèpit Sant Martí, que omplies aqueixes valls de salms i melodies
la terra d’àngels i de sants lo cel?
Doncs ¿què n’heu fet , oh valls!, de l’asceteri, escola de l’amor de Jesucrist? On és, oh soledat!, lo teu salteri? On tos rengles de monjos, presbiteri,
que, com un cos sens ànima, estàs trist?
D’Ursèol a on és lo Dormitori? La celda abacial del gran Garí? On és de Romualdo l’oratori, los palis i retaules, l’ori evori que entretallà ha mil anys cisell diví?
Los càntics i les llums s’esmortuïren; los himnes sants en l’arpa s’adormiren, la rosa s’esfullà com lo roser; com verderoles que en llur niu moriren quan lo bosc les oïa més a pler.
Dels romàntics altars no en queda rastre, del claustre bizantí no en queda res: caigueren les imatges d’alabastre i s’apagà sa llàntia, com un astre
que en Canigó no s’encendrà mai més.
Com dos gegants d’una legió sagrada sols encara hi ha drets dos campanars: són los monjos darrers de l’encontrada, que ans de partir, per última vegada, contemplen l’enderroc de sos altars.
Són dues formidables sentinelles que en lo Conflent posà l’eternitat; semblen garrics los roures al peu d’elles; les masies del pla semblen ovelles al peu de llur pastor agegantat.
Una nit fosca al seu germà parlava lo de Cuixà: -Doncs, que has perdut la veu? Alguna hora a ton cant me desvetllava i ma veu a la teva entrelligava cada matí per beneir a Déu.
-Campanes ja no tinc- li responia lo ferreny campanar de Sant Martí-. Oh!, qui pogués tornar-me-les un dia! Per tocar a morts pels monjos les voldria; per tocar a morts pels monjos i per mi.
Que tristos, ai, que tristos me deixaren! Tota una tarda los vegí plorar; set vegades per veure’m se giraren; jo aguaito fa cent anys per on baixaren; tu que vius més avall, no els veus tornar?
-No! Pel camí de Codalet i Prada sols minaires i llauradors: diu que torna a son arbre la niuada, mes ai!, la que deixà nostra brancada no hi cantarà mai més dolces amors.
Mai més! Mai més! Ells jauen sota terra; nosaltres damunt seu anam caient; lo segle que ens deu tant ara ens aterra, en son oblit nostra grandor enterra
i ossos i glòries i records se’ns ven.
-Ai!, ell ventà les cendres venerables del comte de Rià, mon fundador; convertí mes capelles en estables, i desniuats los àngels pels diables en eixos cims ploraren de tristor.
I jo plorava amb ells i encara ploro, mes ai!, sens esperança de conhort, puix tot se’n va, i no torna lo que enyoro, i de pressa, de pressa, jo m’esfloro, rusc on l’abell murmuriós s’és mort.
-Caurem plegats- lo de Cuixà contesta- Jo altre cloquer tenia al meu costat; rival dels puigs, alçava l’ampla testa, i amb sa sonora veu, dolça o feresta, estrafeia el clarí o la tempestat.
Com jo, teia nou-cents anys de ma vida, mes, nou Matusalem, també morí; com Goliat al rebre la ferida, caigué tot llarg, i ara a son llit me crida son insepult cadavre gegantí.
Abans de gaire ma deforme ossada blanquejarà en la vall de Codalet; lo front me pesa més i a la vesprada, quan visita la lluna l’encontrada,
tota s’estranya de trobar-m’hi dret.
Vaig a ajaure’m també: d’eixes altures tu baixaràs a reposar amb mi, i ai!, qui llaure les nostres sepultures on foren Sant Miquel i Sant Martí-.
Aixís un vespre els dos cloquers parlaven; mes, l’endemà al matí, al sortir lo sol, recomençant los càntics que ells acaben, los tudons amb l’heurera conversaven, amb l’estrella del dia el rossinyol.
Somrigué la muntanya engallardida com si estrenàs son verdejant mantell; mostrà’s com núvia de joiells guarnida; i de ses mil congestes la florida blanca esbandí com taronger novell.
Lo que un segle bastí, l’altre ho aterra mes resta sempre el monument de Déu; i la tempesta, el torb, l’odi i la guerra al Canigó no el tiraran a terra, no esbrancaran l’altívol Pirineu.
Canigó (1886) [afegit el 1901 com a epíleg]
Jacinto Verdaguer y Santaló
Jacinto Verdaguer y Santaló
Jacinto Verdaguer y Santaló
Biografía di Jacinto Verdaguer y Santaló
Jacinto Verdaguer y Santaló12a (Folgarolas, 17 de mayo de 1845-Vallvidrera, 10 de junio de 1902) fue un poeta y sacerdote español que escribió su obra en lengua catalana, en cuya literatura influyó especialmente el obispo Torras y Bages que lo calificó de «príncipe de los poetas catalanes». También se lo conoce en catalán como Mossèn Cinto Verdaguer por su condición de clérigo.3
Biografía
Fue el segundo hijo de los ocho nacidos del matrimonio formado por José Verdaguer y Ordeix (Tabérnolas, 1817-Folgarolas, 1876) y Josefa Santaló y Planas (Folgarolas, 1819-1871). De los ocho solo sobrevivieron tres, dados los escasos medios de la familia. Su padre era maestro de obras y su madre trabajaba en casa como hiladora. La religiosidad de su madre le hizo ingresar, en 1855, a los diez años de edad, en el Seminario de Vich. Mientras cursaba los estudios eclesiásticos, vivía en una casa de campo cercana a la ciudad —Can Tona—, donde daba clases a los niños y ayudaba en las faenas agrícolas. En 1865 participó en los Juegos Florales de Barcelona y obtuvo dos galardones. Al año siguiente volvió a ganar dos premios en los mismos Juegos Florales.
El 24 de septiembre de 1870 fue ordenado sacerdote en Vich por el obispo Luis Jordá, y en octubre de ese mismo año cantó su primera misa en la ermita de Sant Jordi de Puigseslloses, cercana a su pueblo natal. El día siguiente celebra la segunda misa en la ermita de San Francisco, próxima a Vich.
Jacinto Verdaguer
El 17 de enero de 1871 fallece su madre, a los cincuenta y dos años de edad. El día 1 de septiembre es nombrado coadjutor de Viñolas de Oris (Osona), donde permanecerá dos años. En 1873 publica la Passió de Nostre Senyor Jesucrist. Deja la parroquia por cuestiones de salud y se va a Barcelona, en busca de curación.
A los veintiocho años, en diciembre de 1874, entró como sacerdote en la Compañía Trasatlántica de Antonio López y López (futuro marqués de Comillas), habiéndole recomendado los médicos, para mejorar su salud, los aires del mar. Pasó dos años cruzando el Atlántico, de España a Cuba (y viceversa). El 8 de septiembre de 1876 muere su padre, a los sesenta y cinco años. En el barco “Ciudad Condal”, de regreso de Cuba, termina el poema La Atlántida. En noviembre entra, como capellán, en la casa del futuro marqués de Comillas, en el palacio Moja de Barcelona.
En 1877 el Consistorio de los Juegos Florales le concede el premio extraordinario de la Diputación de Barcelona por el poema La Atlántida. Es su consagración como poeta. El crítico Menéndez y Pelayo considera a Verdaguer «el poeta con más dotes creativos de España», y Mistral, el poeta provenzal que le vaticinó un gran futuro como poeta, le manda una carta de felicitación. En 1878, el marqués de Comillas corre con los gastos de la primera edición, bilingüe, del poema. Verdaguer viaja a Roma, en una peregrinación organizada por el obispo de Barcelona. El papa León XIII, también poeta, lo recibe y le habla de La Atlántida. Verdaguer le obsequia con un ejemplar del poema
En 1880, tras haber obtenido los tres premios canónicos en los Juegos Florales, fue proclamado Mestre en Gai Saber. Ese mismo año publicó dos libros sobre Montserrat: Canciones y Leyenda. En 1884 viajó a París, Suiza, Alemania y Rusia, y el año anterior lo había hecho, acompañando al segundo marqués de Comillas, al norte de África (Marruecos y Argelia). Durante estos años realizó también largas excursiones por el Pirineo catalán, y fue el primer español en pisar la cima del Aneto. En 1883, presenta a los Juegos Florales una extensa oda A Barcelona que le merece un premio extraordinario. El Ayuntamiento de la ciudad publica el poema en una edición de cien mil ejemplares.
Portada de una edición madrileña en castellano de Canigó (1898), obra del dibujante José Arija.
En 1886 publica Canigó, su segundo gran poema épico. El 21 de marzo de dicho año, el obispo Morgades lo coronó «en nombre de Cataluña» en el Monasterio de Santa María de Ripoll. Más tarde realizó un viaje de peregrinación a Tierra Santa, que le produjo una profunda crisis personal. Dedicó los años siguientes a la oración y, sobre todo, a las limosnas (era el capellán-limosnero del marqués de Comillas). Frecuentó a grupos de videntes y asistió a prácticas exorcísticas. Su producción literaria pasó por una época de sequía, y no volvió a publicar poesía hasta unos años más tarde.
En mayo de 1893, se ve forzado a abandonar su cargo de capellán-limosnero en el palacio de los marqueses de Comillas. Por esas fechas termina la trilogía Jesús Infant, dedicada a la Sagrada Familia. Tras dejar la casa del marqués, se instala en el santuario mariano de La Gleva, cerca de Vich, donde residirá dos años. En 1894 publica Roser de tot l’any y Veus del Bon Pastor. El 31 de marzo de 1895 abandona el santuario y se instala en Barcelona, en casa de la familia Durán-Martínez, a cuyo padre Verdaguer había asistido en su lecho de muerte.
El obispo de Vich, que lo había coronado en Ripoll, le abrió un expediente disciplinario por desobediencia, y se le prohibió ejercer el ministerio sacerdotal. El poeta pasó dos años de soledad y amargura, durante los cuales escribió otro tipo de poesía, más personal y muy dolorida. En 1895 y 1897 publicó en la prensa izquierdista de Barcelona unos durísimos artículos «en defensa propia», que causaron gran estupor en la jerarquía eclesiástica y en la opinión pública catalana. La intervención de los monjes agustinos de El Escorial fue decisiva para que el obispo Morgades le devolviera las licencias sacerdotales, tras la retractación del capellán-poeta. A finales de diciembre de 1897, Verdaguer pudo celebrar misa, y en febrero de 1898 fue destinado, por el obispo de Barcelona, a la parroquia barcelonesa de Belén, donde pasó sus últimos años como beneficiado.
«La capilla ardiente durante la exposición del cadáver de Mosén Jacinto Verdaguer». Dibujo de Nicanor Vázquez.
En 1902 se le declara una tisis galopante. El 17 de mayo de 1902, el mismo día que cumplía cincuenta y siete años, se trasladó desde Barcelona a la finca conocida como Quinta Juan (Vila Joana, en catalán), en Vallvidrera, donde su propietario, exalcalde de la entonces villa de Sarriá, le ofreció pasar unas semanas para restablecerse de una tisis pertinaz. El 10 de junio, poco antes de las seis de la tarde, el poeta falleció. Tres días después, el cadáver de Verdaguer, tras haber sido expuesto en el Ayuntamiento de Barcelona, fue sepultado en la montaña de Montjuich, en una roca delante del mar, después de un largo trayecto por las calles de la ciudad, en una de las manifestaciones de duelo más multitudinarias de la historia de Cataluña.
Entre sus obras poéticas destacan La Atlántida (1877), Idilios y cantos místicos (1879), Canigó (1886), Patria (1888), Flores del Calvario (1896), Montserrat (1898) y Aires del Montseny (1901). En prosa publicó Excursiones y viajes (1887), Dietario de un peregrino a Tierra Santa (1889) y los artículos En defensa propia (1895-1897).
En 1971 la Fábrica Nacional de Moneda y Timbre emitió un billete de 500 pesetas con la efigie del poeta y clérigo en el anverso, en el reverso aparece la vista del monte Canigó.
El servicio de Correos emitió en 1977 un sello de Jacinto Verdaguer en una serie dedicada a Personajes españoles. Aparece en él vestido con barretina catalana.
Fondo personal
Carta autógrafa de Jacinto Verdaguer a Menéndez Pelayo.
La biblioteca del poeta ingresó como fondo el 1908 en la Biblioteca de Cataluña, y constituye una de sus colecciones fundacionales. Poco después ingresó un importante conjunto de documentación personal y literaria, adquirido a los herederos de Verdaguer por el conde de Lavern y donado por este mecenas a la Biblioteca; en 1915 se adquirieron igualmente otras seis cajas con documentación literaria procedente de la editorial L’Avenç. A principios de los sesenta ingresó un importante conjunto de autógrafos y agendas procedentes de la colección Fondevila, y a mediados d eso setenta un importante conjunto de documentos que habían sido conservados por los descendientes de uno de los doctores que asistieron a Verdaguer en su muerte. La colección continua abierta a nuevos ingresos.
La colección de autógrafos del Archivo histórico se compone de once libretas y cerca de doscientos documentos sueltos ordenados por temas, e incluye manuscritos y borradores de sus libros. El apartado de impresos lo integran: aleluyas, coplas, himnos, cánticos, canciones de Navidad, canciones de cuna y partituras musicales, ordenados también por temas. Unas ochenta imágenes, con retratos dedicados o firmados, fotografías de lugares y ambientes relacionados con la vida y la obra de Verdaguer, así como el álbum “El Vanadis”, nombre del yate alquilado en 1883 por el marqués de Comillas y a bordo del cual Verdaguer realizó un crucero por el Mediterráneo, acompañado de diversos miembros y amigos de las familias López-Güell, conforman el tercer gran apartado del fondo. La documentación personal de Jacinto Verdaguer ingresó en el AHCB el 16 de marzo de 1945 procedente de la Quinta Vilajoana. Después de su muerte, los barceloneses organizaron su entierro donde mucha gente fue a verlo. Hoy en día, en Vallvidrera, hay su casa, que se puede visitar como museo.
Legado
En Barcelona, la figura de Jacinto Verdaguer recibió un amplio culto póstumo inmediatamente después de su fallecimiento. Muestra de ello son las iniciativas que dieron lugar a los primeros memoriales en los cuales el poeta sería recordado y homenajeado. Entre estos cabe mencionar la tumba del poeta en el cementerio de Montjuïc, que se convirtió rápidamente en un lugar de veneración y peregrinaje, la instalación de la Sala Verdaguer en el Museo de Arte Decorativo y Arqueológico (1903), o el ingreso de su retrato en la Galería de Catalanes Ilustres (1906). También otras iniciativas igualmente significativas, como la de la colocación de su retrato en la Galería de Excursionistas Catalanes Ilustres del Centre Excursionista de Catalunya, o la lápida de mármol instalada en uno de los muros de la estación superior del funicular. Es también inmediatamente después de su muerte cuando se planteó la erección del gran Monumento a Mosén Jacint Verdaguer que, sin embargo, no se inauguró hasta el 1924.4
El culto a Verdaguer transciende la ciudad de Barcelona, como lo demuestra el hecho de que sea una de las personalidades históricas que tiene más calles en Cataluña, el monumento y la casa-museo dedicados a su figura en el pueblo natal, Folgarolas, o las esculturas existentes en Vic y la Mare de Déu del Mont, por mencionar únicamente algunos ejemplos.5
· «Testamento otorgado por el Rdo. Sr. Jacinto Verdaguer y Santaló», copia del testamento autógrafo ante el notario Manuel Borràs i de Palau. Barcelona, 10 de junio de 1902; en Inventari de manuscrits verdagueriansArchivado el 22 de junio de 2010 en Wayback Machine. Recurso electrónico, Barcelona, Biblioteca de Catalunya, 2004, ref. 383/15. 2, pág. 40.
· «Mosén» en castellano y mossèn en catalán (‘mi señor’), era el título que se daba a los clérigos y a la nobleza de segundo orden en la antigua Corona de Aragón. Cfr. DRAE, lema «mosén».
Biografia di Jacint Verdaguer (1845-1902)-Poeta e sacerdote spagnolo, uno dei maggiori di lingua catalana.Romantico, è ascritto alla generazione della Restaurazione del 1874, che nel quadro del Rinascimento ricollocò la lingua catalana nella categoria di lingua letteraria.
Poesie inedite di Daniele Giustolisi,pubblicate dalla Rivista Atelier-
Daniele Giustolisi è nato a Catania nel 1989 e vive a Bologna. In versi ha pubblicato Se scendevi per strada (Capire edizioni, 2019) con cui ha vinto il Premio Le stanze del tempo. Si occupa da sempre di arti figurative, musica e letteratura. Oltre a contributi di critica letteraria e di arte su ClanDestino, Nuova Ciminera, AlmaPoesia, ha pubblicato, in saggistica, L’officina del vivere: attraverso il Diario di Angelo Fiore (Centro Studi Angelo Fiore, 2018) e Alla finestra. Sguardi, soglie, fratture tra pittura e cinema (Industria&Letteratura, 2023). Collabora con il Centro di poesia contemporanea di Catania. Ha inciso dischi e suonato in ambito rock, metal e jazz come batterista e percussionista. Gli inediti sono tratti da “La condizione dell’orma”, di prossima pubblicazione nel 2025.
Daniele Giustolisi
a Diana che arriva
Ancona è questo tempo che scioglie i pendii,
sei tu entrata al mattino
in un movimento d’alba,
quando agosto è l’acqua ferma del porto,
risveglio di tavolo, radio, pane,
la resa che s’innalza da terra,
la sua somiglianza alle vele,
a questa rotta adriatica
che della tua forma consegna il nome.
*
Da questa finestra chiusa,
a te che dormi,
si ostina il breve viale,
superstite soglia della sera
che non dà voci,
solo luci in lontananza.
*
Nell’ora più buia
posso percorrerti senza vederti,
ritrovarti come madre cieca col figlio
nei passi d’ansia della notte.
Portami ancora a sentire la tua voce,
Oriente che sferza santuari.
Portami da te, alle tue rive,
foce che tiene le pietre della mia casa,
La rivista «Atelier» ha periodicità trimestrale (marzo, giugno, settembre, dicembre) e si occupa di letteratura contemporanea. Ha due redazioni: una che lavora per la rivista cartacea trimestrale e una che cura il sito Online e i suoi contenuti. Il nome (in origine “laboratorio dove si lavora il legno”) allude a un luogo di confronto e impegno operativo, aperto alla realtà. Si è distinta in questi anni, conquistandosi un posto preminente fra i periodici militanti, per il rigore critico e l’accurato scandaglio delle voci contemporanee. In particolare, si è resa levatrice di una generazione di poeti (si veda, per esempio, la pubblicazione dell’antologia L’Opera comune, la prima antologia dedicata ai poeti nati negli anni Settanta, cui hanno fatto seguito molte pubblicazioni analoghe). Si ricordano anche diversi numeri monografici: un Omaggio alla poesia contemporanea con i poeti italiani delle ultime generazioni (n. 10), gli atti di un convegno che ha radunato “la generazione dei nati negli anni Settanta” (La responsabilità della poesia, n. 24), un omaggio alla poesia europea con testi di poeti giovani e interventi di autori già affermati (Giovane poesia europea, n. 30), un’antologia di racconti di scrittori italiani emergenti (Racconti italiani, n. 38), un numero dedicato al tema “Poesia e conoscenza” (Che ne sanno i poeti?, n. 50).
Direttore responsabile: Giuliano Ladolfi Coordinatore delle redazioni: Luca Ariano
Redazione Online Direttori: Eleonora Rimolo, Giovanni Ibello Caporedattore: Carlo Ragliani Redazione: Mario Famularo, Michele Bordoni, Gerardo Masuccio, Paola Mancinelli, Matteo Pupillo, Antonio Fiori, Giulio Maffii, Giovanna Rosadini, Carlo Ragliani, Daniele Costantini, Francesca Coppola.
Redazione Cartaceo Direttore: Giovanna Rosadini Redazione: Mario Famularo, Giulio Greco, Alessio Zanichelli, Mattia Tarantino, Giuseppe Carracchia, Carlo Ragliani.
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Golnoosh Nour è una poeta, scrittrice di prosa e docente universitaria iraniana residente nel Regno Unito, dove insegna letteratura e scrittura creativa. La sua raccolta di racconti The Ministry of Guidanceand other stories (2020) e la sua raccolta di poesie Rocksong (2021) sono state entrambe selezionate per il premio Polari. Le poesie qui pubblicate sono tratte dalla sua ultima silloge IMPURE THOUGHTS [PENSIERI IMPURI] (2022). Attualmente Golnoosh sta lavorando a un’altra raccolta di poesie incentrate sul tema del desiderio.
Dogs Masquerading as Wolves
I was not cursing, but cruising
looking for a boy
ethereal and deranged
as you, for this danger is easier than confessing,
‘I miss you,’ or ‘I’m sorry I hurt you,’ or worst of all
‘You hurt me,’ yes, it is my portentous pride, my
anaemic violence, the arrogance of my flesh, this glass
shield of mine will eventually cut me – a happy ending –
my head is full of death already.
Cani mascherati da lupi
Non bestemmiavo, gironzolavo
alla ricerca di un ragazzo
etereo e squilibrato
come te, perché è più facile un pericolo del genere che confessare
“mi manchi” o “scusa se ti ho ferito” o peggio ancora
“Mi hai ferito”, sì, è il mio orgoglio portentoso, la mia
anemica violenza, l’arroganza della mia pelle, il mio scudo
di vetro finirà per tagliarmi – un lieto fine –
in testa ho già un fiume di morte.
*
Cemetery
Always, I end up in ruins, no
matter where I start; I must
be taking the wrong pills, the
wrong boys, the wrong schedules; I
must’ve said yes to a murderous tendency.
The ruins might be warm or cold, I prefer them
hot, so I can sweat all my urges that are choking me
– a serpent around my neck – I don’t think I
am even breathing correctly. Mother should’ve killed
me when I was a foetus, not when I was a teen.
Mother! I’m still bleeding, why can’t you hear me
scream? Listen to my blood, and it will
confess what we’ve done wrong.
Cimitero
Finisce sempre in rovina, non
importa da dove parta; forse
scelgo le pillole sbagliate, i
ragazzi sbagliati, i programmi sbagliati; devo
aver assecondato una tendenza omicida.
Le rovine possono essere calde o fredde, io le preferisco
calde, così posso smaltire tutte le pulsioni che mi soffocano
– un serpente intorno al collo – non credo nemmeno
di saper respirare. Mia madre avrebbe dovuto
uccidermi quando ero ancora un feto, non da adolescente.
Madre! Qui sanguino ancora, perché non senti
le mie urla? Ascolta il mio sangue, confesserà
le nostre colpe.
*
Of Rumours and Regrets
The rumours are often correct
I was born with regrets. The largest one:
In that sizzling café: when he stretched his neck towards me
over our table so I’d smell his cologne (something Noir, in fact I
remember the exact brand, but this is not a perfume advert, it is a
poem, or at least it is begging to be one) when he threw his neck at
me to smell it/ him, I should’ve kissed it!
The scented throat of his, my lips full of quivering hysterics
a kiss of mine might’ve slashed his throat but
it would’ve been worth it.
And this revelatory regret only comes to me
a week a month a year after the lost moment when
I’m in the bath, dirty and sick like
a drugged-up visionary.
Di dicerie e rimpianti
Spesso le dicerie sono fondate
Sono nata in preda ai rimpianti. Il più grande:
In quel torrido caffè: quando lui seduto al tavolino allungò il collo
verso di me per farmi annusare la sua colonia (qualcosa tipo Noir, anzi ricordo la
marca esatta, ma qui non si fa pubblicità a un profumo, è una poesia, o almeno ci
prova ad esserla) quando allungò il collo per farsi/farmelo annusare, avrei dovuto
baciarlo!
La sua gola profumata, le mie labbra cariche di fremiti isterici
un mio bacio avrebbe potuto tagliargli la gola ma
ne sarebbe valsa la pena.
E l’epifania di questo rimpianto mi arriva solo
una settimana un mese un anno dopo il momento perduto
nella vasca da bagno, io sporca e malata come
una tossica visionaria.
*
Towards Gods
I turn my mouth into a wound
my eyes into the moon
before leaving the nest
one never knows what urges
await our surrender
and what desires our permission
but I am the only one I contradict
by carrying myself from one battle
to the next, I am tired and obscene
trembling through my shameless
powers, painful and impure
in my godless quest for purity
Verso gli dei
Trasformo la mia bocca in ferita
gli occhi in luna
prima di lasciare il nido
non si sa quali pulsioni
attendano la nostra resa
e quali desideri il nostro assenso
ma io sono l’unica a contraddirmi
trascinandomi di battaglia
in battaglia, sono stanca e oscena
e tremo attraverso i miei poteri
spudorati, sofferente e impura
nel cercare una purezza senza Dio
* * *
Golnoosh Nour
Golnoosh Nour è una poeta, scrittrice di prosa e docente universitaria iraniana residente nel Regno Unito, dove insegna letteratura e scrittura creativa. La sua raccolta di racconti The Ministry of Guidanceand other stories (2020) e la sua raccolta di poesie Rocksong (2021) sono state entrambe selezionate per il premio Polari. Le poesie qui pubblicate sono tratte dalla sua ultima silloge IMPURE THOUGHTS [PENSIERI IMPURI] (2022). Attualmente Golnoosh sta lavorando a un’altra raccolta di poesie incentrate sul tema del desiderio.
Piero Toto è un poeta bilingue residente a Londra, dove lavora come traduttore dall’inglese e come senior lecturer in traduzione presso la London Metropolitan University. In Italia ha pubblicato la silloge tempo 4/4 (Transeuropa Edizioni, 2021), segnalata al Premio Internazionale Mario Luzi 2021. Sue traduzioni dall’inglese e inediti in italiano sono rinvenibili su «Atelier», «Interno Poesia», «Laboratori Poesia», «Menabò online», «La Repubblica» e «Queerographies». Le sue poesie in lingua inglese sono apparse su riviste e blog letterari britannici e internazionali. Twitter/Instagram: @pierototoUK.
La rivista «Atelier» ha periodicità trimestrale (marzo, giugno, settembre, dicembre) e si occupa di letteratura contemporanea. Ha due redazioni: una che lavora per la rivista cartacea trimestrale e una che cura il sito Online e i suoi contenuti. Il nome (in origine “laboratorio dove si lavora il legno”) allude a un luogo di confronto e impegno operativo, aperto alla realtà. Si è distinta in questi anni, conquistandosi un posto preminente fra i periodici militanti, per il rigore critico e l’accurato scandaglio delle voci contemporanee. In particolare, si è resa levatrice di una generazione di poeti (si veda, per esempio, la pubblicazione dell’antologia L’Opera comune, la prima antologia dedicata ai poeti nati negli anni Settanta, cui hanno fatto seguito molte pubblicazioni analoghe). Si ricordano anche diversi numeri monografici: un Omaggio alla poesia contemporanea con i poeti italiani delle ultime generazioni (n. 10), gli atti di un convegno che ha radunato “la generazione dei nati negli anni Settanta” (La responsabilità della poesia, n. 24), un omaggio alla poesia europea con testi di poeti giovani e interventi di autori già affermati (Giovane poesia europea, n. 30), un’antologia di racconti di scrittori italiani emergenti (Racconti italiani, n. 38), un numero dedicato al tema “Poesia e conoscenza” (Che ne sanno i poeti?, n. 50).
Direttore responsabile: Giuliano Ladolfi Coordinatore delle redazioni: Luca Ariano
Redazione Online Direttori: Eleonora Rimolo, Giovanni Ibello Caporedattore: Carlo Ragliani Redazione: Mario Famularo, Michele Bordoni, Gerardo Masuccio, Paola Mancinelli, Matteo Pupillo, Antonio Fiori, Giulio Maffii, Giovanna Rosadini, Carlo Ragliani, Daniele Costantini, Francesca Coppola.
Redazione Cartaceo Direttore: Giovanna Rosadini Redazione: Mario Famularo, Giulio Greco, Alessio Zanichelli, Mattia Tarantino, Giuseppe Carracchia, Carlo Ragliani.
La rivista «Atelier» ha periodicità trimestrale e si occupa di letteratura contemporanea.
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Per tutte le comunicazioni e proposte per Atelier Online, sia di pubblicazione di inediti che di recensioni vi preghiamo di scrivere al seguente indirizzo mail di direzione: eleonorarimolo@gmail.com
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