-Poeti cinesi contemporanei a cura di Maria Borio-
Tre poesie di Ming Dinella traduzione tramite l’interlineare inglese di Franca Mancinelli. I testi sono tratti da “Argo. Annuario di poesia 2016” in uscita in questi giorni, di cui potete trovare il link per sostenere e ordinare il numero qui, e con essi prosegue la collaborazione tra la sezione poesia di “Nuovi Argomenti” ed “Argo”, già iniziata con la pubblicazione condivisa del saggio La realtà della poesia. Su “Questo inizio di noi” di Mario Benedetti.
Foglia di mare
Il mare è un albero e i pesci
i pesci sono foglie
che si diffondono nell’acqua.
Madre – lei appartiene al cielo
e mio padre, lei dice, alla terra
perche lei è una credente,
e lui, lei dice – non lo è.
Da dove sono nata, Wuhan, Cina,
non so che cosa significhi
essere credente ma vedo molti pesci volare
attraverso il cielo
ogni notte. Qualcuno cade
sulla terra, altri restano là più a lungo.
Quelli fissi formano una Grande Orsa che illumina
la notte di aprile.
Ma guarda giù, madre, guarda dentro i miei occhi,
vedrai molte più stelle –
sono alberi, punti in cui si accende il dolore
nelle mie retine
*
海叶集
从水的方向看,海是一棵树
鱼,是海里的风吹动叶
你说你和他风水不合,一个属天
一个属地,一个信教,一个对教水土不服
教为何物我不知,出于孝,你走之后我每夜观天
看星象,二十五年了
很多鱼飞上天,有些掉下来,有些留驻,双翅合十
最坚定的那一批,合成了北斗星
如果你低头看我的眼睛,你会看见更多的星
栖息于我的视网膜——它们是一些有痛感的树
***
Costellazione della Brocca d’Acqua (Acquario)
Corvi dal cielo basso si alzano in volo, a un tratto come
la tristezza che è in me. Essi preannunciano che il buio
si disperderà, ma l’enorme ombra,
come un nuovo stormo di corvi, incombe. Vedo
me stessa, una brocca alla deriva tra terra
e cielo. Il vento si frange come acqua, avvolto
nell’oscuro odore del corvo. Le parole
sono un interruttore che mi spegne
qui. Anni più tardi mi troverai
ancora limpida,
a custodire lo spazio vuoto, da cui scorre
il tempo, le sue bianche promesse.
*
水瓶•座
乌鸦从低空飞起时,我总是一阵悲哀
它们预示着黑暗将被带走,但阴影
巨大,像一群新的乌鸦
在四周盘旋
我看见自己像一个瓶子
在天地之间
漂,风像水一样涌来,裹夹着乌鸦
的黑色气味,而词语,像开关一样
把我就地密封。多年以后你会发现我
还是这么透明
守着空间的空,而时间正从瓶口
流出一些白色谎言
***
Isolauccello
Ci sono giorni in cui sogno a occhi aperti
tutto il tempo, come quest’isola
nell’acqua, così quieta che persino l’acqua
non può dire sia qui.
Quando un uccello vola sulla montagna
a un tratto mi sveglio.
Sotto la montagna, sinuoso, è il mio corpo, quattro arti
e un fiume.
Tutta la notte i miei occhi sono spalancati,
neri, profondamente neri,
come l’ombra degli occhi
di un uccello
che si riflette
nell’acqua.
L’uccello apre i suoi occhi
nei miei
oceano scuro.
Sopra me l’isola
l’uccello nero canta un bianco assolato Buon giorno
con i miei occhi nei suoi occhi
e vede ciò che io vedo:
la mia terra
con alberi di cocco e banani,
ma l’uccello sogna a occhi aperti di lasciarmi, di restare in [alto a mezz’aria
diventando la sua stessa isola.
Maria Borio-Caporedattrice Poesia-Rivista Nuovi Argomenti
Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite (“XII Quaderno italiano di poesia contemporanea”, Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).
Porta il vento le rose
dal bavero schiuso.
Parole nuove e colori
decorati dal tempo.
(poesia inedita)
Sognare rive labili di mondo
Sognare rive labili di mondo
discendere dall’ugola del tempo
su varchi di cielo senza luce.
Babelico squilibrio di memorie.
Fuori dal tempo perdersi sognare
da finte ombre e da pensieri umani.
La luce li attraversa li fa vani
come dissolti nodi di esistenza.
Da “Un asciugar di tempo” (Noubs 2014)
TANKA
L’alba nascente
s’è lasciata cullare
aprendo gli occhi
ai colori del mondo.
Arcobaleno raro.
*
Giochi di luce
sopra i tetti innevati,
arcobaleni.
Un pesante fardello
colorato di luce.
*
Pesa la terra –
ghirigoro di ghiaccio –
fascino arcano
d’armoniosa bellezza
di mutevoli forme.
*
Oh le violette
germogliate anzi tempo
sotto la neve.
Come luci nell’ombra
d’una muta stagione.
*
Osservo andare
sonnolenta la luna.
Fiore di luce
nel viaggio incantato
sotto lampi di neve.
Antiche lontananze
Torna a abitarmi la paura
nell’isola che mai il vento doma.
Sono quel vento…
nuvola di turbamento.
Tra orme e ombre – segno degli dei –
la tela si sfilaccia a larghe trame
d’antiche lontananze…
S’illivida il pensiero come piuma
che si fa barca in mare. Vibra
in silenzio e lentamente spare.
Mi insegue ovunque la mia terra
e punge d’ingombro un sentimento
nei boschi e nei declivi di olivi
dai contorti fili. Come in un sacro
tempio sembra che all’acqua si leghi
il cielo. E di bellezza m’assale
uno sgomento.
(poesia inedita)
Il giorno resta vuoto
Il giorno resta vuoto come appeso
al fragile sentiero del pensiero.
Il mondo s’è fermato su una foglia
vaga di sogni stinta è la corolla.
Altro non chiedi del viaggio amaro
che rimembrare la melodia di ieri.
Non i sorrisi mancano ma gli anni
a spalancare impensabili segreti.
Nel dubbio che ogni cosa senza forma
sia guscio morto di bellezza.
(poesia inedita)
In un viavai di indugi e pensieri
In un viavai di indugi e di pensieri
liane oscillano della memoria.
in ombra taciturne si passano
parola e filigrane intessono
a una canzone nuova.
Quale filo t’incatena nella valle
oscura? Eri farfalla d’oro.
Brucavi l’erbe in orizzonti estremi-.
Io non ricordo questo vuoto appeso
non ricordo turbamento e peso.
in angoli smarriti
la vita trema come rena sparsa.
Indecisione estrema come seme
d’erba in un cristallo di neve. Da “Un asciugar di tempo” (Noubs 2014)
Poesia di Marijan Grakalić tradotta da Božidar Stanišić
è un commiato per Dubravka Ugrešić
Fonte -East Journal-
Pubblichiamo una poesia di Marijan Grakalić, apparsa su Radio Gornij Grad e tradotta per noi dal celebre scrittore bosniaco Božidar Stanišić. La poesia, sincera e antiretorica, è un commiato per Dubravka Ugrešić, scrittrice croata morta lo scorso 17 marzo, e a cui East Journal ha dedicato un paio di articoli in ricordo del suo formidabile contributo letterario. Con lei se ne va un altro pezzo di quella generazione di scrittori e intellettuali che seppero descrivere – vivendolo sulla propria pelle – la disgregazione jugoslava, il rimontare del nazionalismo – non solo nei Balcani – e la riflessione sul ruolo della letteratura nella società. Alcuni dei suoi libri sono tradotti in italiano.
Con partenza di Dubravka U.
Di nuovo nella notte il freddo bagliore del tempo che è passato
bussa alla porta, non si preoccupa degli ideali di mente, di salute
o sforzi di fortuna, tiene la sua campana
nascosta nel campanile costruito di ricordi e monumenti
di pietra. Scappo da loro, lì più che altrove
si può sentire la morte, e anche la tua morte. Allora pubblicherà
qualcuno, chiunque, la propria foto con te
sulla facciata di qualche palazzo, sul muro del castello descritto in
qualche vecchio libro. Lo farà per il desiderio
che anche lui sia nell’aura della gloria oltremondana, che si distingua
come custode della memoria propria o altrui, che
si presta attenzione a come è per lui la tua partenza
la stessa perdita, non importa quale, ma assolutamente
già allontanata dalle fauci della vita all’ombra, in un luogo
dove la luce si ritira prima dell’oscurità, da qualche parte
dove finiscono tutti i saluti dal buio. L’unica cosa in cui credo
ora son le parole che salgono dritte al mio
cuore, esse non immortaleranno niente e nessuno, nemmeno
te, saranno solo oneste e piene della loro stessa stanchezza,
della stanchezza del mondo che scompare con noi nelle strade deserte
delle città. Non è rimasto quasi nulla, in primavera
si dimentica ancora di più che in inverno, e presto forse
non ci sarà proprio nessuno a sentire il freddo bagliore del tempo,
la vibrazione della mano intorpidita e delle labbra gettate lungo la strada.
(Dubravka Ugrešić, 1949-2023)
di Marijan Grakalić Traduzione dal croato: Božidar Stanišić
—
Marijan Grakalić (1957) è uno scrittore, poeta, storico e pubblicista croato. È direttore del portale di cultura e letteratura Radio Gornji Grad, uno dei più letti dell’ex Jugoslavia, al quale collaborano numerosi autori della regione; è il fondatore del Festival della Cultura di Gornji Grad, che si tiene ogni anno a Zagabria. Negli anni Ottanta e Novanta è stato direttore della nota casa editrice Azur, poi direttore della casa editrice Mladost.
—
Di Dubravka Ugrešić sono usciti in lingua italiana:
Il museo della resa incondizionata, traduzione di Lara Cerruti, Milano, RCS Libri Bompiani, 2002
Vietato leggere, traduzione di Milena Djoković, Roma, Nottetempo, 2006
Il ministero del dolore, traduzione di Lara Cerruti, Milano, Garzanti, 2007
Baba Jaga ha fatto l’uovo, traduzione di Milena Djokovic, Roma, Nottetempo, 2011
Cultura karaoke, traduzione di Olja Perišić Arsić e Silvia Minetti, Roma, Nottetempo, 2014
Europa in Seppia, traduzione di Olja Perišić-Arsić e Silvia Minetti, Roma, Nottetempo 2016
Joan Dalmases- Dones que mengen el cor de l’amant-
La poesia de Guillem de Cabestany, el Châtelain de Coucy i Reinmar von Brennenberg
Viella Libreria Editrice-ROMA
SINOSSI
La llegenda del cor menjat va gaudir d’una gran popularitat durant la Baixa Edat Mitjana, concretament a partir de les primeres dècades del segle XII. L’expansió d’aquest relat per Europa va propiciar l’aparició de múltiples versions en els territoris occità, francès, italià i alemany, que donaren lloc a reelaboracions que es nodrien de la idiosincràsia cultural de cada zona.
Tot i l’interès que aquesta llegenda ha desvetllat des de fa segles en filòlegs i historiadors, sovint no s’ha remarcat prou que alguns dels seus protagonistes fossin personatges reals, concretament poetes, entre els quals destaquen l’occità Guillem de Cabestany, el francès Châtelain de Coucy i l’alemany Reinmar von Brennenberg. ¿Què tenien en comú aquests tres autors, tan distants geogràficament i cronològica, per acabar esdevenint protagonistes de les versions més conegudes de la llegenda del cor menjat? Hi ha alguna relació entre les seves vides i el relat?
Dones que mengen el cor de l’amant proposa una anàlisi de les dades històriques i del corpus líric d’aquests tres poetes, per tal de contrastar el tractament metafòric que cada territori fa de la llegenda i reconèixer el procés segons el qual cada autor n’acaba esdevenint objecte i protagonista, fusionant-se, així, realitat i ficció.
INDICE
Introducció
1. El cor a l’Edat Mitjana
1. Cor, símbol d’amor: els antecedents
2. El cor en la medicina
3. La simbologia del cor en la mística i en la religió
4. El cor i la fin’amors
2. Guillem de Cabestany
1. Estat de la qüestió
2. Dades històriques
3. Obra lírica
4. La Vida de Guillem de Cabestany
3. Châtelain de Coucy
1. Estat de la qüestió
2. Dades històriques
3. Obra lírica
4. Le roman du Châtelain de Coucy et de la dame de Fayel
4. Reinmar von Brennenberg
1. Lírica trobadoresca amorosa alemanya: el Minnesang
2. Estat de la qüestió
3. Dades històriques
4. Obra lírica
5. De Minnesänger a màrtir: el Bremberger Ton
6. La Bremberger-Ballade
Conclusions
Apèndix
1. Guillem de Cabestany
1. Obra lírica
2. La Vida de Guillem de Cabestany
2. Châtelain de Coucy
1. Obra lírica
3. Reinmar von Brennenberg
1. Obra lírica
2. Meistersang
3. Bremberger-Ballade
Bibliografia
Índex de noms
L’AUTORE-
Joan Dalmases és Doctor en Cultures Medievals per la Universitat de Barcelona i membre de l’Institut de Recerca en Cultures Medievals (IRCVM). La seva recerca se centra en les relacions literàries entre Occitània, França i Alemanya durant l’Edat Mitjana, sobretot pel que fa a la lírica trobadoresca.
NOTE
Fotografies de la coberta: 1- Suetoni, Vida de Cèsar, 1433, Princeton University Library, MS Kane 44, f. 113r. 2 – Roman d’Alexandre, 1338-1344, Bodleian Library, Ms. 264, f. 59r. 3 – Boccaccio, Décaméron, 1414-1418, Biblioteca Apostolica Vaticana, Pal. Lat. 1989, f. 144r. 4 – Her Reinmar von Brennenberg, 1340, Universitätsbibliothek Heidelberg, Pal. germ. 848, f. 188r.
Ivančica Đerić-POESIA: I falchi volano troppo bassi-
a cura di Andrea Zambelli- (*vedi nota)
Fonte -East Journal-
Ivančica Đerić è una poetessa, vive in Canada dopo esser fuggita da Prijedor quando la guerra ha ingolfato la Bosnia Erzegovina. “I falchi volano troppo bassi” è una poesia che ha scritto l’11 ottobre 2023 sulla guerra tra Israele e Gaza, per il sito di Miljenko Jergovic, Ajfelov most.
La proponiamo in lingua originale e in una veloce traduzione (senza pretese letterarie) per i nostri lettori italofoni.
Jastrebi prenisko lete
Gledam to jato jastreba, kočopere se na stazi,
upravo se umire, u Izraelu, u Gazi,
a jastrebi se šetkaju, nijedan dalje da leti,
ovo je moja zemlja, za koju će golubi mrijeti,
jer jasno je da sam ja jastreb,
a on je svemoćna ptica,
dočim to krdo goluba, to su nebitna lica,
njima pobij golubiće, i krenuće slijepo da ginu
za tvoju konačnu korist i povijesnu veličinu,
izgubiće sve što imaju, a nisu ni imali mnogo,
prsima će na bombe, da se susretnu s bogom,
ubijaće jedni druge, to im je komplementarnost,
dok jastrebi vječno vladaju,
i ostaju premoćna stvarnost,
izruguju humanizam, podstiču fanatizam,
žrtvuju tuđe i svoje, jer bitan je pragmatizam,
ruše svačije gnijezdo, i čine to slamku po slamku,
a te što ne mrze nikog, trpaju složno u raku,
jer ne treba jastrebu takav, da širi defetizam,
jastreb je željan plijena, i prezire pacifizam,
jastreb se hrani mesom goluba koji gine,
jastreb se tome smije, ah vidi gozbe fine,
dok nad njim nisko slijeće,
dok ga u kandže lovi,
dok leš mu baca na smeće,
dok mu se mesom tovi,
dok usput stalno krešti
one šećerne fraze
da milost božja bliješti
na djecu-kamikaze,
da je potrebno klati,
pa neka i drugi pati,
i bombe unatrag slati,
jer primi, pa onda vrati,
dok tako nam jastrebi vele
i tamo nas oni nose,
naše su nevažne želje,
njihove naše kose,
za njih treba ubijati
za njih se mora mrijeti,
za jastreba koji nas prati,
i usput prenisko leti.
Gledam ih tamo jato, keze se tamo na stazi,
upravo majke plaču, u Izraelu, u Gazi,
njihova djeca su mrtva, ubijaju ih k’o muhe,
i dobrodošla su žrtva, mole na uši gluhe,
njima ne pripada ništa, čak ni njihova glava,
jer otkako svijeta i vijeka to je istina prava,
golubi samo postoje da hrane strojeve bojne,
djeca da im se uzmu, i šalju u redove vojne,
jer jastrebu tako paše, da ubija i njih i naše,
da se sveti, da prijeti,
da uvijek nisko leti,
taj jastreb je ptica zlica,
i kočoperi se na stazi,
i gorko plaču majke
u Izraelu i Gazi.
I falchi volano troppo bassi
Guardo quello stormo di falchi, si pavoneggiano sulla via,
si muore proprio ora, in Israele, a Gaza,
e i falchi passeggiano, nessuno vola più lontano,
questa è la mia terra, per la quale moriranno le colombe,
perché è chiaro che sono un falco,
ed è un uccello onnipotente,
invece quello stormo di colombe, quelle sono facce irrilevanti,
uccidete con essi i pulcini, e cominceranno a perire alla cieca
per il vostro massimo beneficio e per la vostra grandezza storica,
perderanno tutto ciò che hanno, e non avevano molto,
disarmati verso le bombe, per andare incontro a dio,
uccideranno gli uni gli altri, questa è la loro complementarità,
mentre i falchi regnano per sempre,
e rimangono una realtà potentissima,
deridono l’umanesimo, incoraggiano il fanatismo,
sacrificano i propri cari e quelli degli altri, perché ciò che conta è il pragmatismo,
distruggono il nido di tutti, e lo fanno paglia per paglia,
e poiché non odiano nessuno, restano uniti nel cancro,
perché non serve al falco per diffondere il disfattismo,
il falco è avido di preda e disprezza il pacifismo,
il falco si ciba della carne della colomba che perisce,
il falco se la ride, oh guarda che tavola imbandita,
mentre atterra basso sopra di lui,
mentre lo afferra con gli artigli,
mentre getta il suo cadavere nella spazzatura,
mentre si nutre della sua carne,
urlando costantemente lungo la strada
quelle dolci frasi
che la grazia di Dio risplende
ai bimbi-kamikaze,
che è necessario macellare,
quindi lascia che anche gli altri soffrano,
che le bombe tornino indietro,
perché ricevi e poi restituisci,
mentre ce lo dicono i falchi
e lì ci portano,
i nostri desideri non sono importanti,
i loro sono di falciare la nostra gente,
per loro devi uccidere
per loro si deve morire,
per il falco che ci segue,
volando troppo basso.
Li guardo lì, uno stormo, che si divertono lì sul sentiero,
le madri stanno piangendo, in Israele, a Gaza,
i loro figli sono morti, li uccidono come mosche,
e gradite sono le vittime, pregano alle orecchie sorde,
niente gli appartiene, nemmeno la propria testa,
perché dall’inizio del mondo e dei tempi è l’unica verità,
le colombe esistono solo per nutrire le macchine del battaglione,
i loro bambini per essere portati via e mandati tra le fila dell’esercito,
perché il falco pascola così, uccidendo i loro e i nostri,
vendicandosi, e minacciando,
volando sempre basso,
quel falco è un uccello del male,
e si pavoneggia sulla via,
e amaramente piangono le madri
in Israele e a Gaza.
ivančica đerić11. 10. 2023.
Foto : 1911 Encyclopædia Britannica volume 10, pages 509–519
Chi è Andrea Zambelli?
Andrea Zambelli è uno pseudonimo collettivo usato da vari membri della redazione di East Journal.
I versi di Federico Ratti si snodano come in una «danza d’opposti», manifestano la posizione contrastante di una umanità che celebra la vita e accarezza la morte. Una scrittura poetica che fa riaffiorare il suono di certe meravigliose partiture di maestri novecenteschi. Ricorrono temi del quotidiano: la noia del presente, la memoria e il tempo; Ratti si serve di immagini asciutte come chi, dopo averle manipolate a lungo, le rende lisce come i ciottoli del mare.
Vengono proposti, di seguito, alcuni suoi componimenti inediti, in attesa della sua prima raccolta poetica.
Elena Verzì
*
Se ci rivedremo
chiedilo al tempo – ma cos’è, poi
il tempo? Sicuro
non la lancetta sul muro
intenta a ticchettare
più forte mentre scende
più debole mentre risale;
neppure una forza che sovrasta
un destino che avanza; neanche
un flusso esterno
che trascina per il colletto
verso qualche avvenimento.
Il tempo non è un appuntamento.
Difatti, sono io il tempo; tempo
di me stesso – e nessun altro.
Di questo, nessun vanto.
Ma se ci rivedremo
chiedilo a me – me soltanto.
*
Questa mancanza d’inventiva
questa sterilità d’idee
a cosa è dovuta?
Ragionare troppo – ragionare forte
sulla vita il senso il perché
può condurre all’oblio:
un foglio bianco, la morte.
*
Ciò che sento, ciò che vivo
può esser la storia di altri
lo stesso identico cammino.
Oppure mistero tutto mio:
ciò che sento, ciò che vivo
lo so soltanto io.
*
Il tuo nome è un coltello
che ripeto a bassa voce
infilato sotto la lingua
– in mezzo al torace.
Dirlo da lontano – salutarti
mentre con altri
ti baci e ti dai la mano
è l’ultimo vagito
del bambino che era in me.
Resto a bocca aperta – spalancata
come il cadavere sgomento
il pesce slamato: la postura
di chi non ha futuro
di chi vorrebbe e non può urlare.
L’amore fa bene, l’amore fa male.
*
D’un tratto si è giovani
e poi si scopre
di non esserlo più.
Come il battito d’ali
di uno stormo destato
dal rintocco della neve
è il migrare dell’età.
Ma la vita ha meno grazia
della coltre intatta
che cresce ad orlo sui tetti.
I suoi messaggi viaggiano
su sinistri ambasciatori:
l’addio alla giovinezza
sveglia nella notte
col suono schietto
di un colpo di fucile.
*
Impasto è la vita
di cielo e fango
sporco e santo
mani e occhi legati
ad alterne vicende
di male e bene
zucchero e fiele.
Danza d’opposti
su un unico palco,
pazienza e quiete
dentro ad un salto.
Leva del mondo
è la contraddizione:
azione e reazione
sul viscido crinale
fra grazia e dannazione.
Vivere è ordinare il primo
e mangiare il contorno
– matrimonio e funerale
nell’arco di un sol giorno.
*
Simile a me è la notte
che non vede mai giorno;
sempre prima dell’alba si sveglia
e gioia non trova dal sorgere del dì:
non è detto che il sole
faccia sempre compagnia
alle persone sole.
*
Ogni volta che mi vinco
e convinco ad uscire
trovo sempre un’occasione
una nuova lezione
a farmi ricredere
a non farmi cedere.
Il volto che scontro
la voce che incontro: tutto
è nuovo – imprevedibile
meraviglia inattesa.
Solo nell’uscita
ci si converte alla vita.
Breve biografia di Federico Ratti è nato alla Spezia nel 1990. Dopo il diploma Classico, si laurea in Filosofia all’Università di Pisa e in Scienze Religiose presso l’Istituto Superiore Niccolò V della Spezia. Insegna Religione negli istituti superiori e presso la Casa Circondariale Penitenziaria della sua città. Dopo un’esperienza giornalistica fra i quotidiani locali, si dedica con più assiduità alla narrativa e alla poesia. Nel 2016 viene premiato al concorso internazionale “Percorsi Letterari… dal Golfo dei Poeti Shelley e Byron, alla Val di Vara”. Si classifica secondo al Concorso Internazionale di poesia e narrativa “Le Grazie-Portovenere La Baia dell’Arte”, mentre l’anno successivo è quarto al Premio Internazionale di Narrativa “Il Prione” con un racconto sul tema dell’Alzheimer. Nel 2018 riceve il premio della critica al Premio Thesaurus di Aulla. La sua prima pubblicazione arriva nel 2021 con “L’ultima riga della dimenticanza e altri racconti” (Helicon), dodici racconti brevi che cercano di gettare luce sulla parte meno illuminata della società.
La Rivista “clanDestino” nasce come una sfida di giovani amanti della poesia a Forlì.
Nel 1988 nove ragazzi, tra cui Gianfranco Lauretano e Davide Rondoni, decidono di dar vita alla rivista, proseguendo con nuovo nome e taglio, il lungo lavoro per la poesia italiana che aveva fatto la casa editrice Forum di Forlì di G. Piccari, con la rivista “Quinta Generazione”.
Da quel momento in poi una serie di voci importanti hanno viaggiato con clanDestino; ma non solo grandi nomi, anche tanti poeti e scrittori hanno esordito e si sono incontrati con la rivista e ne hanno tratto spunti per la loro arte.
Fin dall’inizio clanDestino si è distinto per il suo essere in un certo modo, mai neutro né banale, ospitale e attento, vivace compagno di strada che cerca la vita nella vita.
Responsabile della Rivista clanDestino: Davide Rondoni via Altabella, 3 – Bologna
Vessillo di pace. La sua bandiera, i suoi colori, un intreccio di pensieri, arcobaleno di immagini. Il rosso è il primo scalino, il colore del sangue, quel sangue che scorre nelle vene e fino al cuore, al suo battito giunge. Rosso che si intreccia con l’arancione, il colore della buccia di molti agrumi, frutti di alberi, prezioso cibo per gli inverni freddi. Arancione che si intreccia con il giallo, il colore del grano nei campi da raccogliere e far divenire pane; un raggio di sole a riscaldare il suolo. Giallo che si intreccia con il verde, il colore della speranza, dell’erba e di un albero le sue foglie; un prato su cui correre. Verde che si intreccia con l’azzurro, il colore del cielo limpido, schiarito dopo il passaggio delle nuvole; in una favola il nome di un principe. Azzurro che si intreccia con il blu, il colore del mare, sguardo verso l’orizzonte a scrutare terre lontane. Blu che si intreccia con il viola, il suono dolce di uno strumento musicale, il nome di un fiore, per concludere il percorso.
La grolla dell’amicizia
Si narra una storia tra le case in pietra della Valle d’Aosta. Si tramanda il tempo che fu seduti davanti ad un camino, in una baita di montagna. Occasione preziosa a conclusione di una fredda giornata, al calare della sera, con le impronte di vita lasciate ormai sulla neve. Intorno al fuoco si ripercorrono i momenti, gli attimi trascorsi insieme. Si ripercorrono i ricordi, emozioni che si imprimono dentro. Gli sguardi si incrociano, le mani attendono la presa i legami si rafforzano. Il dolce profumo nell’aria inebria gli animi, riscalda i cuori. Giunge il momento del passaggio. Un grazie, un prego, un tesoro al suo interno, la bevanda è da sorseggiare, il rito, il calore della convivialità, la grolla dell’amicizia.
Sarebbe tempo
Sarebbe tempo di pace, sarebbe il tempo di seminare il grano nei campi d’Ucraina. Sarebbe tempo di pace, sarebbe il tempo di raccogliere il cibo di una terra coltivata. Sarebbe il tempo di dare spazio, alle stagioni, il loro trascorrere, lento e inesorabile. Sarebbe il tempo della natura, scende la neve in inverno, il sole scalda i germogli in primavera. Sarebbe tempo di pace, sarebbe il tempo di non dimenticare, di ricordare. Di costruire, di ricostruire, di risollevare. Sarebbe il tempo di mani, occhi e volti, sguardi che si intrecciano, diritti che si fondono, si infondano in luoghi dove sono ancora negati. Sarebbe il tempo della gente comune, di Russia e Ucraina. Di Iran, di chi ogni giorno è in lotta.
L’AUTORE
Andrea Figari è nato a Torino nel 1983 e ha conseguito la Laurea specialistica in Giurisprudenza presso la Facoltà di Torino. È autore fin qui di quattro raccolte, tutte pubblicate con Carta e Penna Editore: “Sentieri d’Esperanza” (2009), “Schegge di Rwanda” (2010), “ChiScac? Ovvero scacchi inVersi” (2013), “POeLITICA, Schegge di Poesia” (2020). Partecipa attivamente ad iniziative, incontri letterari oltre che aver ottenuto riconoscimenti in concorsi. Gestisce il blog: https://scheggedipoesia.wordpress.com/
L’Altrove -Chi siamo
“La poesia non cerca seguaci, cerca amanti”. (Federico García Lorca)
Con questo presupposto, L’Altrove intende ripercorrere insieme a voi la storia della poesia fino ai giorni nostri.
Si propone, inoltre, di restituire alla poesia quel ruolo di supremazia che ultimamente ha perso e, allo stesso tempo, di farla conoscere ad un pubblico sempre più vasto.
Troverete, infatti, qui tutto quello che riguarda la poesia: eventi, poesie scelte, appuntamenti di reading, interviste ai poeti, concorsi di poesia, uno spazio dedicato ai giovani autori e tanto altro.
Noi de L’Altrove crediamo che la poesia possa ancora portare chi legge a sperimentare nuove emozioni. Per questo ci auguriamo che possiate riscoprirvi amanti e non semplici seguaci di una così grande arte.
Da: Alibi -Longanesi, 1958- Da: Il mondo salvato dai ragazzini e altri poemi-Einaudi, 1968-
Da: Alibi -Longanesi, 1958-
ALIBI
Solo chi ama conosce. Povero chi non ama! Come a sguardi inconsacrati le ostie sante, comuni e spoglie sono per lui le mille vite. Solo a chi ama il Diverso accende i suoi splendori e gli si apre la casa dei due misteri: il mistero doloroso e il mistero gaudioso.
Io t’amo. Beato l’istante che mi sono innamorata di te.
Qual è il tuo nome? Simile al firmamento esso muta con l’ora. Sei tu Giulietta? o sei Teodora? ti chiami Artù? o Niso ti chiami? Il nome a te serve solo per giocare, come una bautta. Vorrei chiamarti: Fedele; ma non ti somiglia.
La tua grazia tramuta in un vanto lo scandalo che ti cinge. Tu sei l’ape e sei la rosa. Tu sei la sorte che fa i colori alle ali e i riccioli ai capelli. La tua riverenza è graziosa come l’arcobaleno.
Sono i tuoi giorni un prato lucente dove t’incontri con gli angeli fraterni: il santo, adulto Chirone, l’innocente Sileno, e i fanciulli dai piedi di capra, e le fanciulle-delfino dalle fredde armature. La sera, alla tua povera cameretta ritorni e miri il tuo destino tramato di figure, l’oscuro compagno dormiente dal corpo tatuato.
Tu eri il paggio favorito alla corte d’Oriente, tu eri l’astro gemello figlio di Leda, eri il più bel marinaio sulla nave fenicia, eri Alessandro il glorioso nella sua tenda regale. Tu eri l’incarcerato a cui si fan servi gli sbirri. Eri il compagno prode, la grazia del campo, su cui piange come una madre il nemico che gli chiude gli occhi. Tu eri la dogaressa che scioglie al sole i capelli purpurei, sull’alto terrazzo, fra duomi e stendardi. Eri la prima ballerina del lago dei cigni, eri Briseide, la schiava dal volto di rose. Tu eri la santa che cantava, nascosta nel coro, con una dolce voce di contralto. Eri la principessa cinese dal piede infantile: il Figlio del Cielo la vide, e s’innamorò.
Come un diamante è il tuo palazzo che in ogni stanza ha un tesoro e tutte le finestre accese. La tua dimora è un’arnia fatata: narcisi lontani ti mandano i loro mieli. Per le tue feste, da lontani evi giungono luci, come al firmamento. Ma tu in esilio vai, solo e scontento. Il mio ragazzo non ha casa né paese.
La bella trama, adorata dal mio cuore, a te è una gabbia amara. E in tua salvezza non verrà mai la sposa regina del labirinto. Per il sapore strano del bene e del male la tua bocca è troppo scontrosa. Tu sei la fiaba estrema. O fiore di giacinto cento corimbi d’un unico solitario fiore!
La folla aureovestita del tuo bel gioco di specchi a te è deserto e impostura. Ma dove vai? che mai cerchi? invano, gatta-fanciulla, il passaggio d’Edipo sul tuo cammino aspetti. O favolosa domanda, al tuo delirio non v’è risposta umana. Riposa un poco vicino a chi t’ama angelo mio.
Quando mi sei vicino, non più che un fanciullo m’appari. Le mie braccia rinchiuse bastano a farti nido e per dormire un lettuccio ti basta. Ma quando sei lontano, immane per me diventi. Il tuo corpo è grande come l’Asia, il tuo respiro è grande come le maree. Sperdi i miei neri futili giorni come l’uragano la sabbia nera. Corro gridando i tuoi diversi nomi lungo il sordo golfo della morte.
Riposa un poco vicino a chi t’ama.
Lascia ch’io ti riguardi. La mia stanza percorri spavaldo come un galante che passa in una strage di cuori. Allo specchio ti miri i lunghi cigli ridi come un fantino volato al traguardo. O figlio mio diletto, rosa notturna! Povero come il gatto dei vicoli napoletani come il mendico e il povero borsaiolo, e in eleganza sorpassi duchi e sovrani risplendi come gemma di miniera cambi diadema ogni sera ti vesti d’oro come gli autunni.
Passa la cacciatrice lunare coi suoi bianchi alani…
Dormi. La notte che all’infanzia ci riporta e come belva difende i suoi diletti dalle offese del giorno, distende su noi la sua tenda istoriata. I tuoi colori, o fanciullesco mattino, tu ripiegasti. Nella funerea dimora, anche di te mi scordo.
Il tuo cuore che batte è tutto il tempo. Tu sei la notte nera.
Il tuo corpo materno è il mio riposo.
(1955)
MINNA LA SIAMESE
Ho una bestiola, una gatta: il suo nome è Minna.
Ciò ch’io le metto nel piatto, essa mangia, e ciò che lemetto nella scodella, beve.
Sulle ginocchia mi viene, mi guarda, e poi dorme, tale che mi dimentico d’averla. Ma se poi, memore, a nome la chiamo, nel sonno un orecchio le trema: ombrato dal suo nome è il suo sonno.
Se penso a quanto di secoli e cose noi due livide, spaùro. Per me spaùro: ch’essa di ciò nulla sa. Ma se la vedo con un filo scherzare, se miro l’iridi sue celesti, l’allegria mi riprende.
I giorni di festa, che gli uomini tutti fan festa, di lei pietà mi viene, che non distingue i giorni. Perché celebri anch’essa, a pranzo le do un pesciolino; né la causa essa intende: pur beata lo mangia.
Il cielo, per armarla, unghie le ha dato, e denti: ma lei, tanto è gentile, sol per gioco li adopra. Pietà mi viene al pensiero che, se pur la uccidessi, processo io non ne avrei, né inferno, né prigione.
Tanto mi bacia, a volte, che d’esserle cara io m’illudo, ma so che un’altra padrona, o me, per lei fa uguale. Mi segue, sì da illudermi che tutto io sia per lei, ma so che la mia morte non potrebbe sfiorarla…
(1941)
AMULETO
Quando tu passi, e mi chiami, assente son io. Per lunghe ore ti aspetto, e tu, distratto, voli altrove. Ma tanto, il mezzano serafico del nostro amore, il sultano dello zenit che muove sul quadrante le sfere con le dita infingarde e sante, ha già segnato l’istante del nostro convegno. Molli si volgono i miei giorni a quella imperiosa stagione. Candida e glaciale essa risplende alta salendo, come fuoco. Ah, nostra incantevole stanza! Che importa a me, infido spirito, dei tuoi diversi pensieri? Il presagio inchina già la fronte all’annuncio. Sorte e amore ti congiungono a me.
(1945)
LETTERA
Tutto quel che t’appartiene, o che da te proviene, è ricco d’una grazia favolosa: perfino i tuoi amanti, perfino le mie lagrime. L’invidia mia riveste d’incanti straordinari i miei rivali: essi vanno per vie negate ai mortali, hanno cuore sapiente, cortesia d’angeli. E le lagrime che mi fai piangere sono il mio bel diadema, se l’amara mia stagione s’adorna del tuo sorriso.
Stupisco se ripenso che avevo tanti desideri e tanti voti da non sapere quale scegliere. Ormai, se cade una stella a mezzo agosto, se nel tramonto marino balena il raggio verde, se a cena ho una primizia nella stagione nuova, o m’inchino alla santa campana dell’Elevazione, non ho che un voto solo: il tuo nome, il tuo nome, o parola che m’apri la porta del paradiso.
Nel mio cuore vanesio, da che vi regni tu, le antiche leggi del mondo son tutte rovesciate: l’orgoglio si compiace d’umiliarsi a te, la vanità si nasconde davanti alla tua gloria, la voglia si tramuta in timido pudore, la mia sconfitta esulta della tua vittoria, la ricchezza è beata di farsi, per te, povera, e peccato e perdono, ansia e riposo, sbocciano in un fiore unico, una grande rosa doppia.
Ma la frase celeste, che la mia mente ascolta, io ridirti non so, non c’è nota o parola. Ti dirò: tu sei tutto il mio bene, ad ogni ora questa grazia di amarti m’è dolce compagnia. Potesse il mio affetto consolarti come mi consola, o tu che sei la sola confidenza mia!
(1946)
CANTO PER IL GATTO ALVARO
Tra le mie braccia è il tuo nido, o pigro, o focoso genio, o lucente, o mio futile! Mezzogiorni e tenebre son tue magioni, e ti trasformi di colomba in gufo, e dalle tombe voli alle regioni dei fumi. Quando ogni luce è spenta, accendi al nero le tue pupille, o doppiero del mio dormiveglia, e s’incrina la tregua solenne, ardono effimere mille torce, tigri infantili s’inseguono nei dolci deliri. Poi riposi le fatue lampade che saranno al mattino il vanto del mio davanzale, il fior gemello occhibello. E t’ero uguale! Uguale! Ricordi, tu, arrogante mestizia? Di foglie tetro e sfolgorante, un giardino abitammo insieme, tra il popolo barbaro del Paradiso. Fu per me l’esilio, ma la camera tua là rimane, e nella mia terrestre fugace passi giocante pellegrino. Perché mi concedi il tuo favore, o selvaggio? Mentre i tuoi pari, gli animali celesti gustan le folli indolenze, le antelucane feste di guerre e cacce senza cuori, perché tu qui con me? Perenne, tu, libero, ingenuo, e io tre cose ho in sorte: prigione peccato e morte. Tra lune e soli, tra lucenti spini, erbe e chimere saltano le immortali giovani fiere, i galanti fratelli dai bei nomi: Ricciuto, Atropo, Viola, Fior di Passione, Palomba, nel fastoso uragano del primo giorno… E tu? Per amor mio?
AVVENTURA
per Luchino Visconti
Hai tu un cuore? La leggenda vuole che tu non l’abbia. Al vedermi, che per te mi consumo d’amore, tutti mi dicono: «Ah, pazza, mangiata dalle streghe, rosa dalle fole, soldato d’imprese disperate, marinaio senza veli né remi, dove t’avventuri? in quali deserti di sabbia, dietro Morgane, e fuochi fatui, e larve canzonatrici tu vuoi spegnere la tua sete nella solitaria morte! Ah, chi ti gettò questa rete, povero pesciolino?» Così dice la gente; ma lasciamo che dica! A chi di te mi sparla, nemica io mi giurai. Per te, mio santo capriccio, volto divino, senz’armi e senza bussola sono partita. Non v’è riposo alla speranza mai. A difficili amori io nacqui. Come una rosa in un giardino d’Africa o d’Asia assai lontano, come una bandiera alzata in cima a una nave pirata, come uno scudo d’argento appeso in un barbaro tempio, difficile splende il tuo cuore il tuo frivolo, indolente cuore, l’eroico, femmineo tuo cuore. il tuo regale, intatto cuore, il cuore dell’amore mio. Io credo nel tuo cuore! Le caverne terrestri son tutte una gioielleria. Funerea primavera per le mie feste vanesie, l’ametista viola e l’agata lunare e i diamanti simili a rose cangianti e il topazio vetrino, il topazio d’oro. Hanno i cristalli aloni e code di fuoco, mille comete e lune per la mia notte. M’offron conchiglie i golfi, e giochi oceanici, e il cielo boreale riposi e meditazioni. Dolcezze ha l’aranceto, come salive d’amore, e l’Asia graziose belve, mie tenere schiave. Le Maestà dei re conversazioni m’accordano, e al mio comando s’accendono circhi e teatri. Ma alla conquista io partii d’un frutto aspro. Il tuo cuore: altro frutto non voglio mordere. Non voglio i doni terrestri, al mio potere mi nego. Il solo mio volere è questa impresa! Alla conquista d’un frutto amaro andai. Le cose amare sono le più care. Segreta, lo so, è la stanza del prezioso cuore ch’io cerco. Lungo e incerto il viaggio fino al nido di questa civetta-fenice. Inesperta son io, compagno né guida non ho, ma giungerò alla camera felice del mio bell’idolo. Addio, dunque, parenti, amici, addio! Prima bisogna guadare il lago stagnante della paura, e i Grandi Orgogli oltrepassare, fastosa catena di rupi. Snidare bisogna l’invidia che s’imbosca e i mostri di gelosia mettere in fuga, (ah, San Michele e San Giorgio, datemi il vostro scudo!) per notti occhiute, selve purpuree, dove incontrare potrò centauri e ippogrifi, e bere il magico sangue dei narcisi. Si levan poi le triplici mura di Sodoma intorno a campo straniero dalle sette torri merlate. Incantare dovrò i guardiani, riscattare le spose comprate, e a lungo errerò per corti e fughe di scale, fra un popolo d’echi e d’inganni fino alla cara porta, che reca la scritta crudele: Indietro, o pellegrina. Non riceve. Ah, fossi alato usignolo, foss’io centaura, ah, sirena foss’io, foss’io Medoro o Niso, che forse a te più amico sarebbe il nome mio, grazioso cuore! Invece, Lisa è il mio nome, nacque nell’ora amara del meriggio, nel segno del Leone, un giorno di festa cristiana. Fui semplice ragazza, madrina a me fu una gatta, e alla conquista partii d’un dolce cuore. Or che mi presentai, siimi cortese, o amore. Di che temi, o selvatico? d’esser preso al laccio? Ah, no, dell’amara pampa la figlia io non sono. D’esser trafitto? Io non ho coltello, né pungiglione. Né son io sbirra, per gettarti in carcere, né fata, per averti compagno notte e giorno, mutato in corvo, dentro gabbietta d’oro. Ah, dall’impresa non giudicarmi eroe! Leggera è la mia mente più del fuoco, più che un riccio dei tuoi fulvi capelli. Per la mia pena, per il tuo vinto amore, con te soltanto un poco giocare io voglio come una foglia scherza con l’ombra e il sole, o una ragazza col suo gatto rosso. E poi ti dirò addio. Tu dirai: Lisa! supplicherai: Lisa! Ah, Lisa! Lisa! chiamerai. Ma io ti dirò addio.
Da: Il mondo salvato dai ragazzini e altri poemi (Einaudi, 1968)
ADDIO
Dal luogo illune del tuo silenzio mi riscuote ogni giorno l’urlo del mattino. O notte celeste senza resurrezione perdonami se torno ancora a queste voci. Io premo l’orecchio sulla terra a un’eco assurda dei battiti sepolti. Dietro la belva in fuga irraggiungibile mi butto sulla traccia del sangue. Voglio salvarti dalla strage che ti ruba e riportarti nel tuo lettuccio a dormire. Ma tu vergognoso delle tue ferite mascheri i cammini della tua tana. Io fingo e rido in un ballo disperato per distrarti dall’orrenda mestizia ma i tuoi occhi scolorati di sotto le palpebre non ammiccano più ai miei trucchi d’amore. Alla ricerca dei tuoi colori del tuo sorriso io corro le città lungo una pista confusa. Ogni ragazzo che passa è una morgana. Io credo di riconoscerti, per un momento. E mendicando rincorro lo sventolio di un ciufietto o una maglietta rossa che scantona… Ma tu rintanato nel tuo freddo nascondiglio disprezzi la mia commedia miserabile. Buffone inutile io deliro per le vie dove ogni fiato vivente ti rinnega. Poi, la sera, rovescio sulla soglia deserta un carniere di piume insanguinate. E chiedo una tenerezza al buio della stanza, almeno una decadenza della memoria, la senilità, l’equivoco del tempo volgare che medica ogni dolore… Ma la tua morte cresce ogni giorno. E in questa piena che monta io vado e mi riavvento in corsa dirotta, per un segno, un punto nella tua direzione. O nido irraggiungibile e caro, non c’è passo terrestre che mi porti a te. Forse fuori dai giorni e dai luoghi? La tua morte è una voce di sirena. Forse attraverso una perdizione? o vna grazia? o in quale veleno? in quale droga? forse nella ragione? forse nel sonno? La tua morte è una voce di sirena. Voglia di un sonno che pare una tua dolcezza ma è stata già l’impostura dove ti ho perso! La tua morte è una voce di sirena che vorebbe sviarmi da te nelle sue fosse. Forse, io devo accettare tutte le norme del campo: ogni degradazione, ogni pazienza. Non posso scavalcare questa rete spinata mentre al tuo grido innocente non c’è risposta. La tua morte è una luce accecante nella notte, è una risata oscena nel cielo del mattino. Io sono condannata al tempo e ai luoghi finché lo scandalo si consumi su di me. Io devo, qui, trescare e patteggiare con la belva per rubarle il segreto del mio tesoro. O pudore d’una infanzia uccisa, perdonami questa indecenza di sopravvivere. Tu sei partito credendo di giocare alla fuga. Era per fare il bravo, la tua smorfia d’addio. Al solito! Che poi ti bandisci nella tua stanzuccia minaccioso dietro le porte sbarrate come un gran capitano nel suo forte supremo. Guai per l’audace che si arrischi all’assedio! Ma ti conosco. Che invece se nessuno si arrischia ti strazi, e piangi nella tua rabbia infantile perché non c’è amore al mondo e ti lasciano solo. Ma stavolta, la tua porta fu sbattuta dagli uragani. Le piogge entrarono nel vano abbandonato e una fanghiglia come sangue ha imbrattato i muri. Quando eri vivo, la tua stanza era la stella del quartiere, ricercata da tutti. E adesso tutti ne rifuggono, come fosse appestata. Il mio piede incíampa nella tua camiciola che nessuno ha più raccolto da terra. Sul terrazzo devastato dagli inverni, le piante sono morte. Perfino i ladri hanno schifato questo tuo feudo estremo dove infatti c’era poco di valore, da rubare! Ritagliàti dalle riviste, i ritratti dei tuoi eroi adornano ancora le pareti: Gautarna il Sublime, il barbuto Fidel, Billie Holiday la suicida. In un angolo, c’è ancora la scodella della tua gatta. Una cravattina rossa pende nell’armadio. Alla partenza, ti caricasti dei tuoi beni principali: il canestro con la gatta e il fonografo a valigia. «Il resto dei bagagli, speditelo per via mare». Trecento volte quella nave ha ripercorso quel mare e i tuoi tesori sono dispersi, e io sono qui, vivente. Anche se vivo tremila anni, e se corro tutti i mari, non posso più raggiungerti per riportarti indietro. Lo so che tu credevi di giocare all’addio. Era una braveria, la tua smorfia… Ma contro una scommessa impaziente di ragazzo è un’altra lunga agonia la posta che qui si chiede. La ladra delle notti è una cammella cieca e folle che gira per Sahara incantati, fuori d’ogni pista. L’itinerario è lunatico, non c’è destinazione. Le sabbie disfanno le tracce dei suoi furti. Le sue pupille bianche fanno crescere miraggi dai corpi lacerati che lei semina per le sabbie. E i miraggi si spostano a distanze moltiplicate irraggiungibili nei loro campi solitari. Amputati dai corpi, si disperdono separati senza rimedio, eterne mutilazioni. Nessun miraggio può incontrare un altro miraggio. Non ci sono che solitudini, dopo il furto dei corpi.
…
A P. P. P.
In nessun posto
E così, tu – come si dice – hai tagliato la corda. In realtà, tu eri – come si dice – un disadattato e alla fine te ne sei persuaso anche se da sempre lo eri stato: Un disadattato. I vecchi ti compativano dietro le spalle pure se ti chiedevano la firma per i loro proclami e i “giovani” ti sputavano in faccia perché fascisti come i loro baffi: (già, tu glielo avevi detto, però avevi sbagliato in un punto: questi sono più fascisti dei loro baffi) ti sputavano in faccia, ma ovviamente anche loro ti chiedevano la propaganda per i loro volantini e i soldi per le loro squadrette.
E tu non ti negavi, sempre ti davi e ti davi E loro pigliavano e poi: “lui dà” – bisbigliavano nei loro pettegolezzi – “per amore di se stesso”. Viva, viva chi ama se stesso e gli altri ama come se stesso. Loro odiano gli altri come se stessi e in tale giustizia magari si credono di fondare una rivoluzione. Loro ti rinfacciavano la tua diversità dicendo con questo: l’omosessualità. Difatti, loro usano il corpo delle femmine come gli pare. Liberi di usarlo come gli pare. Il corpo delle femmine è carne d’uso ma il corpo dei maschi esige rispetto. E come no!
Questa è la loro morale. Se una femminella di strada avesse assassinato uno dei loro non la giustificherebbero perché immatura. Ma in verità in verità in verità quello per cui tu stesso ti credevi un diverso non era la tua vera diversità. La tua vera diversità era la poesia.
È quella l’ultima ragione del loro odio perché i poeti sono il sale della terra e loro vogliono la terra insipida. In realtà, LORO sono contro-natura. E tu sei natura: Poesia cioè natura. E così, tu adesso hai tagliato la corda. Non ti curi più dei giornali– [la] preghiera del mattino – con le crisi di governo e i cali della lira, e decretoni e decretini e leggi e leggione. Io spero che un’ultima sola grazia terrena ti resti ancora – per poco – ossia ridere e sorridere. Che tu di là dove sei– ma per poco ancora – di là, dal Nessun Posto dove ti trovi ora di passaggio – che tu sorrida e rida dei loro profitti e speculazioni e rendite accumulate e fughe dei capitali e tasse evase e delle loro carriere ecc. Che tu possa riderne e sorriderne per un attimo prima di tornartene al Paradiso.
Tu eri un povero E andavi sull’Alfa come ci vanno i poveri per farne sfoggio tra i tuoi compaesani: i poveri, nei tuoi begli abitucci da provinciale ultima moda come i bambini che ostentano di essere più ricchi degli altri per bisogno d’amore degli altri. Tu in realtà questo bramavi: di essere uguale agli altri, e invece non lo eri. DIVERSO, ma perché?
Perché eri un poeta. E questo loro non ti perdonano: d’essere un poeta. Ma tu ridi[ne]. Lasciagli i loro giornali e mezzi di massa e vattene con le tue poesie solitarie al Paradiso. Offri il tuo libro di poesie al guardiano del Paradiso e vedi come s’apre davanti a te la porta d’oro Pier Paolo, amico mio.
(1976)
Breve Biografia di ELSA MORANTE
ELSA MORANTE – nata a Roma il 18 agosto del 1912 – morì a Roma il 25 novembre 1985– la maggiore di quattro figli, figlia di Francesco Lo Monaco e Irma Poggibonsi. Elsa è cresciuta credendo che il secondo marito di sua madre, Augusto Morante, fosse suo padre. Nel 1922 a famiglia si trasferì a Monteverde Nuovo dove Elsa Morante fin da giovanissima iniziò a scrivere racconti e poesie. Dopo aver completato gli studi, lasciò la famiglia, mantenendosi dando lezioni di greco e latino. I suoi primi racconti sono stati pubblicati su riviste come Il Corriere dei Piccoli, I diritti della scuola e Oggi, alcuni di essi pubblicati con lo pseudonimo di Antonio Carrera.Grazie al pittore Capogrossi, nel 1936 conosce Alberto Moravia il grande scrittore romano, autore tra gli altri de Gli indifferenti e La noia. Il matrimonio della Morante con Alberto Moravia, oppositore del governo fascista di Mussolini, la mise in contatto con i maggiori scrittori e intellettuali italiani dell’epoca, tra cui Umberto Saba e Pier Paolo Pasolini. Le sue raccolte di poesia sono Alibi (Longanesi 1958, Garzanti 1988, Einaudi 2004) e Il mondo salvato dai ragazzini e altri poemi (Einaudi, 1968, 2006, 2012). I suoi romanzi: Menzogna e sortilegio (1948), L’isola di Arturo (1957), La storia (1974), Aracoeli (1982). Numerosi i racconti e gli scritti vari, saggi e interventi. È uno dei maggiori narratori italiani. Menzogna e sortilegio viene pubblicato nel 1948 vincendo il premio Viareggio, con L’Isola di Arturo Elsa Morante divenne la prima donna a vincere il Premio Strega.
L’antologia racchiude quasi cento poesie (versione originale e traduzione italiana di Bruno Argenziano a fronte) tratte dalla multiforme produzione di Edith Södergran, madre dell’espressionismo finlandese, e principalmente dalle raccolte Poesie (Dikter, 1916), La lira di settembre (Septemberlyran, 1918), L’ombra del futuro (Framtidens skugga, 1920), La terra che non è (Landet som icke är, 1925).
Bruno Argenziano:”Nella rivista letteraria svedese “Horisont” n°1 del 1992 avente per tema “Edith Södergran”, in occasione del centenario della sua nascita, una nota scrittrice svedese contemporanea intitola il suo contributo così: “Il coraggio di non censurare la propria anima”. Chi ha avuto modo di studiare la multiforme produzione poetica della scrittrice finno-svedese, non può non sottoscrivere il succitato giudizio, pregnante quanto mai nella sua lapidaria semplicità. Che sia stata una donna ad esprimerlo non è strano se si pensa alla fascinazione che la Södergran tuttora esercita sull’animo femminile (Bruno Argenziano).
Una Poesia di Edith Södergran copertina
Notturno
Ho intonato un canto. Venuto non so da dove – è scivolato come seta sulle mie corde. Che sia dovuto agli sciolti capelli neri della notte? O forse ai bianchi tratti sognanti della luna? E la notte cantava, cantava della solitudine che cullando a tutto dà pace, cantava delle sognanti naiadi, dei ruscelli senza brusio, del segreto della gora… La notte aveva il fiato sospeso – una rosa mi si è avvizzita tra le mani – e tale la quiete come fosse svanito l’ultimo sospiro del tutto.
Mauro Pagliai -Dopo aver fondato e diretto per quasi cinquant’anni la casa editrice Polistampa, Mauro Pagliai ha dato vita nel 2007 alla nuova sigla Mauro Pagliai Editore, con l’obiettivo di conquistare una posizione significativa nell’industria libraria nazionale. L’ambizione è far uscire presso la nuova casa editrice sia talenti poco conosciuti sia i “pesi massimi” del panorama italiano e, al tempo stesso, approfondire il legame con i maggiori premi e festival letterari, con le Università e i centri di ricerca, oltre che con le più accreditate e prestigiose rassegne artistiche italiane. Per rendere effettivo questo ambizioso progetto editoriale, Mauro Pagliai ha formato una redazione di giovani professionisti e collaboratori che, con la direzione del figlio Antonio, vuol essere competitiva nei confronti delle grandi case editrici e aperta alle nuove ricerche e ai nuovi talenti del mondo della cultura.
molti i semi molti i fiori morto il bel canto il culto continua ma fuori dalla finestra dentro le campane suonano in cella aorta ferrata trasporto ver sacro
*
La notte come un telo potrebb’esser ampio lenzuolo e non l’avvicendarsi delle piccole ombricole che nel suono si fanno uova nate
una macchina si è affranta sul marciapiede di mattina l’asfalto è tutto specchio
un vecchietto aveva forse scritto una carezza sul viso a una carcassa sembrava come dire il rosso a un uomo di fango.
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Ocra essere un tubero come l’oro dal terriccio inavvicinabile quando vicino alla morte e coi corni viola senz’ossa diventare tutto frutto oppure come faceva il nonno a casa si chiama cucumarazzo farsi cibo senza pelle e figli superare acerbo la maturità, fresco.
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COSÌ POTRÒ GUARDARTI LE FESSURE
Qualcuno avrebbe potuto mettere i fiori nel vaso della ricotta come a dire terra espungimi mostra fuori l’approvvigionamento
non si va dove una casa è come la casa la cintola ammira lo spazio cerimoniale appunta il trionfo sopra l’omero vittoria della vita rudimento.
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Tra un po’ sarà finito il tempo della calendula la persiana rafferma un rettangolo spanciato quadro urbano dell’agosto fatto acqua il suono è lontano – lo si ascolta dalla schiena la finestra è aperta, guarda al mezzo: sarà smessa l’ora che noi in un poco avemmo in dote.
Luca Tommasi (Bari, 1991) è Architetto e Dottore di ricerca in Composizione Architettonica e Urbana. Cura l’identità visiva della libreria Millelibri – Poesia & altri mondi. Ha pubblicato una raccolta di haiku e piccole tirature di libri d’arte.
La rivista «Atelier»ha periodicità trimestrale (marzo, giugno, settembre, dicembre) e si occupa di letteratura contemporanea. Ha due redazioni: una che lavora per la rivista cartacea trimestrale e una che cura il sito Online e i suoi contenuti. Il nome (in origine “laboratorio dove si lavora il legno”) allude a un luogo di confronto e impegno operativo, aperto alla realtà. Si è distinta in questi anni, conquistandosi un posto preminente fra i periodici militanti, per il rigore critico e l’accurato scandaglio delle voci contemporanee. In particolare, si è resa levatrice di una generazione di poeti (si veda, per esempio, la pubblicazione dell’antologia L’Opera comune, la prima antologia dedicata ai poeti nati negli anni Settanta, cui hanno fatto seguito molte pubblicazioni analoghe). Si ricordano anche diversi numeri monografici: un Omaggio alla poesia contemporanea con i poeti italiani delle ultime generazioni (n. 10), gli atti di un convegno che ha radunato “la generazione dei nati negli anni Settanta” (La responsabilità della poesia, n. 24), un omaggio alla poesia europea con testi di poeti giovani e interventi di autori già affermati (Giovane poesia europea, n. 30), un’antologia di racconti di scrittori italiani emergenti (Racconti italiani, n. 38), un numero dedicato al tema “Poesia e conoscenza” (Che ne sanno i poeti?, n. 50).
Direttore responsabile: Giuliano Ladolfi Coordinatore delle redazioni: Luca Ariano
Redazione Online Direttori: Eleonora Rimolo, Giovanni Ibello Caporedattore: Carlo Ragliani Redazione: Mario Famularo, Michele Bordoni, Gerardo Masuccio, Paola Mancinelli, Matteo Pupillo, Antonio Fiori, Giulio Maffii, Giovanna Rosadini, Carlo Ragliani, Daniele Costantini, Francesca Coppola.
Redazione Cartaceo Direttore: Giovanna Rosadini Redazione: Mario Famularo, Giulio Greco, Alessio Zanichelli, Mattia Tarantino, Giuseppe Carracchia, Carlo Ragliani.
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