“Tre di uno”, l’opera prima di Beatrice Cristalli, come sostiene nella postfazione il lessicografo Silverio Novelli, “è un libro forte”. Un percorso umano, prima ancora che linguistico, rigoroso e tenace, nel quale il lettore è spinto a fare i conti con le proprie certezze, attraversando le pagine di una raccolta che, per intensità stilistica e di tematiche trattate, non può non catturare l’attenzione. Come afferma Giovanna Rosadini all’inizio della prefazione, “fin dalla prima poesia di questa compatta e intensa raccolta, i temi fondanti della poetica di Beatrice Cristalli si annunciano e delineano: quello dell’identità di un soggetto depotenziato dalle dinamiche del mondo contemporaneo, e il suo rapporto con la parola”.
1)-Dabar
Se l’appello poetico è un grido
Obiettivato
Io non sono più soggetto ma sono
Altro
E già nel ritorno non sono più io;
La follia ricostruirà da capo
2)-Del buio esaurito
«Per cui, non farti perdonare».
Mai che mi fosse accaduto considerarti
Un progetto, ma un suono di qualche buona tecnica
Non c’è tuttavia rimedio al voler essere
A tutti i costi; a quest’ora, se hai bisogno, trovi
Qualche pezzo di ciabatta e le immagini
Della sera delle scelte
È tardi – era davvero presto – per
Commettere ancora qualche grosso sbaglio.
Il tempo di riordinare la posa
O di chiarire gli spasmi; ma le chiavi
Non erano già più,
Non erano più gli anni,
Gli attimi, le vigorose alleanze del vivere.
Inventerei,
Per ricominciare dove
La disillusione pesava
Screpolato il ventre – ma non è poi
Così male essere e basta – le parole
Non frugano più. Nell’adagio tutto
Può schiudersi in un’annoiata bugia
O in un pianto che voleva stare da solo
Nell’umido che sempre salva
Guarda che sei libero, verrà un ladro
E vorrà rubarti perché non potrà mai capire.
Essere le immagini della sera
Delle scelte, delle rivolte mature,
Essere tutte le mie volte; al di qua
Della tua mano la riva da cui le buone
Proposte ripresentano le mancanze
E credono di essere cambiate.
Non è vero niente
3)-Uno di uno
C’è un impulso vero
E pochi sobbalzi – entusiasta
Io so cosa fare:
Sentire senza pace le cose
Dicevi che è un dono
«Un dono che fa male»
Ma io guardo sotto
È perfetto nella sua
Inconsistenza – mare
Non può salire
Regge il suo farsi senza fondo
Nel pozzo che vedo anche io
Perché soffro i silenzi come un
Neonato
E solo le comete conoscono
I passaggi – tra sinapsi e globuli
Sparerei un canto che è solo
Sangue trattenuto
Ma quanto bene mi fa
Guardarti dopo anni senza volerti
Musa
Per dirmi quello che rimane fuori
Dalle parole – le altre
Quelle che non si dicono
Con il peso dell’ironia e l’abisso
Facile – è così, è così:
Sentirmi lontana dal mio sentimento
E fingermi a posto.
Dovrei rispondere solo a me,
Dici che troverei la meraviglia
Ma quel verso non sai indirizzarlo
Io non voglio alcun atto
Nel teatro qui sotto
Io pretendo il mare in cima
Che resta:
Ci sono cose che ritornano
E non avvisano
Le vedo, tra una mano mai chiesta
E la voglia di intrufolarsi
Nel giardino privato
Con il piacere di una sola carezza.
Nessuno apre
Ma non chiederti le cause
Vale solo la forza degli effetti,
Come guardare il vento che passa
E volerne prendere parte
In mezzo a una forma,
A un amore che squilla
4)-Il nome delle cose che iniziano
Che fastidio prude tra le banconote
Roma col derby
Ho silenziato ogni radio in quella tratta:
Domanda e risposta
Ho raccontato la mia storia
A un taxista
In corsa
Ma stavo già diventando altro
Tra la concentrazione e un atto meccanico
In fieri, in fieri
Come il cuore di un orologio
E io per questo non sono stata felice
Mai
C’è un nuovo modo di amare
Ma non ne sono capace:
Farò finta di avere un amico
Con cui guardare una pozza d’acqua
Senza niente attorno,
Più avanti metto i pensieri
Che non posso abbandonare,
I pali veri dei sogni
In queste ore che mordono ogni sosta.
Non regge bugia
Una mano, due per ogni cosa
Insieme alle cose che vedo
Dietro i palazzi, dietro ogni cielo
Del nuovo
Sui tetti che non conosco
Prometto di ricominciare
O di iniziare per la prima volta.
Lei chiama Michele
Lei chiama Michele
E Michele non arriverà
Perché è troppo facile
Rispondere ed esistere
Insieme
Allora pensi che frugare
Tra la stoffa che è solo cartone
Sia l’ultima prova
Per dimostrarci
Che di Michele tu
Ne sai
Ma poi riparti
Con nello zaino il peso
Del polistirolo – però!
Tu non lo togli
Tu chiami Michele
E Michele non esiste;
Allora ti ascolto
E mi siedo un secondo perché
Devo sostenere le parole che
Non posso ricevere
Ma non è colpa mia
Se chiamo anche io Michele
E Michele non esiste
Lo chiami ancora nella piazza
E tutti mi stanno guardando:
Ma cosa c’è di male a scrivere
In chiesa e sui gradini di
Questa città
Che odio – per tutto;
Chiamo Michele a voce grossa
Perché non mi interessa
Nessuno risponde mai
C’è solo una chiavetta
C’è solo lei che resta
E condivido questo anche io
Anche se non so
Come mi dovrei comportare
Tra le parole che ripeto
A me:
Non leggerai nulla di così diretto.
Tanto non ci riesco
Perché ne sono cosciente
Michele non arriverà
Ma si incastra negli spazi
Senza alcuna mia subordinazione
Vola da solo – vicino ai miei sogni
Quando la gente ti guarda
Un po’ si vergogna
Ti muovi goffa
Chiami Michele di nuovo
La direzione l’hai presa.
Vorrei essere quel polistirolo
Che finge di essere vero peso
Il mio l’ho dimenticato
In ogni giornata
Negli occhi – tu cercalo di sera
Nota biografica- Beatrice Cristalli (Piacenza, 1992) è laureata in Stilistica del testo presso l’Università degli Studi di Milano.La sua tesi dal titolo “L’invenzione della colpa. L’antropologia negativa leopardiana tra Zibaldone e Operette morali” ha vinto il secondo premio al Concorso per il Premio Giacomo Leopardi riservato alle tesi di laurea specialistica e dottorato 2017 del Centro Nazionale di Studi Leopardiani. Collabora con diverse testate culturali online, tra le quali Treccani, Il Tascabile, Doppiozero e Cultweek. Per il Portale Treccani, in particolare, ha condotto una indagine a puntate sulla critica letteraria del web. Un suo saggio su Mario Luzi è presente nella raccolta saggistica dal titolo “Un’idea di poesia. L’officina dei poeti in Italia nel secondo Novecento”, a cura di Laura Neri (Mimesis, 2018). “Tre di uno” è la sua prima opera in versi.
sopra i rami spogli del pino marittimo in giardino.
Con i silenzi edificammo muri
su cui incidere a punta di coltello
il poema delle nostre incomprensioni.
Aspettavamo come ombrelli
lasciati a sgocciolare
davanti alle porte d’ingresso
dei bar sulla spiaggia.
La reciproca fiducia inaridiva
come il pane avanzato a tavola,
persino l’attesa dell’alba sul mare
perdeva ogni senso del sacro.
Per trovare il coraggio di scriverci
attendemmo si consumasse la forza
della separazione, scemasse la magnitudine
dei nostri corpi che regolavano maree,
desideri, orologi da parete.
Pollice verde
1.
L’orto dietro casa è un quadrato
di terra fertile tre metri per tre.
Ai primi di Aprile ho piantato
parole comuni nell’angolo al sole
tra i pomodori, la lattuga e l’indignazione.
Sono germogliate quattro poesie
incivili, piccole piantine fragili.
Se annaffiate con cura, mi hanno detto,
daranno frutti all’inizio dell’estate.
2.
Strappo le erbacce con cura
per lasciare un silenzio pulito,
la misura a spanne dell’accudire,
lo sguardo quotidiano che salva.
3.
Ogni piantina è differente dall’altra.
Ogni frutto ha un gusto differente:
il seme di ogni parola
matura a suo modo.
Una, nata da un racconto di mare,
ha un gusto salato, una mi ha portato
le lacrime agli occhi, un’altra al suono
delle campane nei giorni di festa.
La quarta non è commestibile
ma il suo fiore è uno squillo,
è il più profumato.
Seduta numero 12 (settembre 2021)
È una questione di percentuali,
dottore, e di grumi di memorie
insolubili. Equilibri incerti
tra contrappesi, puntelli e zeppe
per non fare crollare lìimpalcatura.
Più parliamo del passato, dottore,
più lo riportiamo in vita.
Gli scheletri riesumati rischiano
di alterare la statica già precaria.
Se ogni sette anni,
secondo quanto la biologia suppone,
rinnoviamo ogni nostra particella
questi ricordi appartengono ora
ad un corpo differente dal mio.
Il mio corpo oggi è composto
per il 60 per cento di acqua,
10 per cento di rassegnazione,
un 6 per cento di irrisolte concessioni,
un 3 per cento di misantropia.
Qualche punto percentuale di compassione
e stupore ancora è presente
perlomeno se diamo credito
al referto degli esami.
Il resto è materia di analisi
biologica. Gli esami del sangue
evidenziano un eccesso di glicemia.
Eppure io, Dottore, non mangio dolci.
Sarò dolce di mio.
Breve autobiografia di Giuseppe Carlo Airaghi-Sono nato e vivo in provincia di Milano.Una moglie, paziente. Due figli recentemente usciti incolumi dall’adolescenza. Sul comodino mi ostino ad accumulare libri che tento di leggere contemporaneamente senza riuscire a terminarne uno. Malgrado abbia iniziato ad accumulare testi da riporre nei cassetti fin da quando ero ragazzo ho soltanto da poco trovato il coraggio è la sfacciataggine di condividerli.Ho pubblicato le raccolte di poesia “Quello che ancora restava da dire” (Fara Editore,2020), “La somma imperfetta delle parti” (Ladolfi Editore 2021), il poemetto “Monologodell’angelo caduto”(Fara Editore 2022), “Ora che tutto mi appare più chiaro” (PuntoaCapo Editrice 2023) e il romanzo “I sorrisi fraintesi dei ballerini” (Fara Editore 2021).
Nella poesia di Giuliana Piovesan si intrecciano, con tenera misura, tre livelli: l’immagine del passato, il riconoscimento d’amore e la ricomposta testimonianza del presente. E i tre livelli coesistono in un discorso di piena maturità umana ed espressiva che conosce e pratica, nel continuo reciproco rispecchiamento, accanto all’esperienza della vita il gioco dell’intelligenza e i riferimenti della cultura. La chiave di lettura è il filo onirico: quel tanto di inventività fantastica, di visionarietà che interviene sempre ad animare le situazioni facendole levitare e caratterizzando in aerea leggerezza le presenze di persone, ciascuna nello “spessore della sua filigrana” e di paesaggi, anch’essi sempre in “filigrana”, per virtù dell’autrice nel suo stesso farsi leggera. I luoghi sono sognati o intravisti nella visione piuttosto che effettivamente documentabili, anche se reali. E questo vale anche per le presenze umane, rese diafane e lattiginose da uno schermo che, mentre le vela, nella loro improvvisa luminosità anche le rivela e, in particolare, per forza e suggestione la presenza di un “tu”, sottolineato con partecipazione anche nel disinganno, che attraversa tutta la raccolta. Del resto tutto vive nella raccolta “Le immagini dell’aria” in una intermittenza dominata da una direttrice intellettuale: la presenza costante dell’assenza, che è sostanza stessa della visione, dell’invenzione fantastica che rappresenta il mistero, anche nella consapevolezza dei suoi aspetti più disincantati. Ma la voce della cancellazione non è tanto un’ossessione quanto invece una misura di consapevolezza, nel rapporto e nel colloquio costante con le ombre dentro l’alone di una musica particolarissima.
Biografia di Giuliana Piovesan è nata a Velletri (Roma) nel 1947 e vive a Padova.Ha pubblicato per le Edizione del Leone: Il giorno dell’anno (Edizioni del Leone, 1992), Al ponte Rosso (Edizioni del Leone, 1999), Passo a due (Edizioni del Leone, 2003, con Franco Gentilucci), Le immagini dell’aria (Biblioteca dei Leoni, 2017). È presente con suoi scritti, pezzi critici, poesie, in volumi monografici, antologie, riviste. È da oltre vent’anni attiva nella realtà culturale della sua città. Collabora inoltre alla conduzione di più biblioteche nell’ambito del sistema civico di Padova.
LA LEGGEREZZA DI GIULIANA PIOVESAN
Il titolo della raccolta di Giuliana Piovesan, Le immagini dell’aria (Biblioteca dei Leoni), evoca un senso di indeterminatezza, di leggerezza, che catapulta subito nell’atmosfera onirica, ariosa e ricca di musicalità dei suoi versi. Sono molti quelli che rivelano queste caratteristiche: «Mordeva vaga lo spicchio di luna / quando nell’indaco del sogno il cielo / ingoiava avido tutte le stelle -» (p. 30); «Mi sgusciavi sottile dalle mani / per lasciarmi intatta la tua forma. / (Sei colomba e sali al tuo azzurro) / Rimani piuma d’aria, sarò la tua voce» (p. 58).
Giuliana Piovesan, nelle composizioni, tratteggia immagini reali, spesso però ne sfuma i contorni proiettandole in spazi chiari e azzurri, nei quali sembrano dissolversi o confondersi con l’aria stessa. Perfino il peso dei ricordi, affioranti da un passato, intreccio di presenze e assenze, di eventi e storie d’amore finite o non completamente vissute che lasciano “l’amaro in bocca”, è mitigato e reso più leggero, più arioso. Nei testi parla, inoltre, della vita e della morte, di amore e musica, e si serve di profumi, suoni, colori (come il bianco, il rosso, il nero), per accentuarne i significati metaforici presenti. Anche il senso del trascorrere del tempo è molto vivo in Giuliana Piovesan e Carpe diem variazione, unica poesia della seconda e ultima sezione del libro, ne è un esempio lampante. La raccolta, infatti, è strutturata in due sezioni: Nell’aria sottile e Nel tempo. La prima, a differenza della seconda, consta di ben quattro sottosezioni, evidenziando così un’architettura articolata della stessa. I testi hanno una lunghezza contenuta, mentre i versi, raramente di breve respiro, si distendono sulla pagina bianca in modo regolare e armonioso.
Dissi forse la Patagonia, e immaginavo
una penisola, grande abbastanza
per un paio di sedie a sdraio
su cui dondolare nell’alta marea. Pensavo
a noi in un freddo mozzafiato, davanti
a un orizzonte tondo come una moneta, avvolti
nell’intreccio del ripiglino che i gabbiani giocano
dal mare fino al sole. Pensavo di aspettare
finché le onde non si fossero addormentate
dalla noia.
Posa
Ora faccio sedere mio figlio
sull’anca e reggo
il suo peso con la curva
della vita, come un albero
diviso da una forcella,
come amanti inclinati in un valzer.
Niente è perduto. Mai stata
una di quelle ragazze
rimaste magre come un fuscello.
Ai balli spesso ero da sola.
* * *
Amore
Non ne avevo mai incontrati così prima.
Una faccia da sollievo – davvero,
come una battuta su suo padre – sfocata
come da anni di lucidatura;
mani aggrinzite come foglie secche;
il calore licenzioso che emetteva,
emetteva, i suoi respiri corti,
prudenti: pensavo
che i suoi filamenti esplodessero,
pensavo fosse un imperatore,
morente su cuscini di seta.
Non sapevo come tenerlo
avvolto, non sapevo
come allattarlo, non avevo
alcuna idea su di lui. Di notte
cercavo di ricordare la sensazione
della sua testa sul mio collo, il cranio
piccolo come un gatto, quell’affetto
caldo come un soldo fuso,
e i capelli, la peluria, fine
come lo strato più interno nel pelo
di qualche rara creatura delle nevi,
un’aureola di pelliccia, se mai
incontrassi una bestia così potresti
andarci vicino. Ho cominciato da lì.
* * *
Il ponte oltre il confine
Qui, dovrei senz’altro pensare a casa:
il mio paese e la città ripida e pulita
dove sono cresciuta: i suoi banchi di nubi,
i venti e la luce cangiante, teatrale,
i suoi scrosci di pioggia burbera e gelida, o altrimenti,
la volta che il treno rimase qui un’ora e mezza.
Era caldo, per una volta. Il motore sembrava
borbottare e respirare con noi,
e nel silenzio, il suonatore sul retro
strimpellava Scotland the Brave. C’era
una luce dorata, da film, e l’uomo di fronte
soffriva, diceva, per amore.
Vide un paese nei miei occhi.
Ma era di Los Angeles,
e io pensavo a un altro ponte.
Era ottobre. Io correvo a incontrare un uomo
con cui le cose non erano proprio stabili,
e in effetti non lo sarebbero mai state, e mi fermai
a mezza strada per guardare gli uccelli – rondini
in lontane migliaia, trascinate
verso l’Africa, o il caldo, o la casa, senza sapere
cosa, ma certamente come. Scivolavano sul cielo di carta
erano croci sui grafici del mercato azionaio,
erano sabbia in un canestro scosso,
e io le fissavo, come a setacciare l’oro.
* * *
Un uomo sposato
L’uomo sposato la notte scorsa sognava
di una casa che gli era stata lasciata: una casa come quelle che hai nei sogni,
mille stanze, un corridoio. Vagava
in giro da solo, mi disse, sorrideva
con suo sorriso quieto e interiore. Trovavo
un giardino segreto, mura alte, chiuso, uno strano verde vellutato. Lì, una finestra guardava verso l’oceano. Piegava le mani pallide,
avevo, diceva, la chiave. Sua moglie toccava
la figlia addormentata, pesante lussuoso animale,
e lo guardava, d’intesa, soddisfatta.
traduzioni di Sergio PASQUANDRA
Breve biografia di Kate Clanchy –Nata a Glasgow nel 1965, Kate Clanchy ha studiato ad Edimburgo e Oxford, città in cui oggi vive e lavora come insegnante, giornalista e scrittrice freelance. Ha vinto numerosi premi prestigiosi con diversi libri di poesia tra cui “Newborn”, una raccolta dedicata ai temi della gravidanza, della nascita e della cura di un bambino. Il suo ultimo libro è la biografia “What Is She Doing Here?: A Refugee’s Story”, con cui ha vinto il Writer’s Guild Best Book Award for 2008 e che è stato mandato in onda dalla BBC
Poesie di Elizabeth Barret Browning-Poetessa inglese
“Come ti amo”
Come ti amo? Lascia che te ne conti i modi.
Ti amo fino alla profondità, la vastità e l’altezza
che l’anima mia può raggiungere allorquando
persegue, irraggiungibili agli sguardi, i fini del bene
e della grazia ideale.
Ti amo al livello delle calme
necessità quotidiane, alla luce del sole ed al lume
della candela.
Ti amo liberamente come gli uomini
tendono al giusto, ti amo puramente, come essi
rifuggono dalle lusinghe.
Ti amo con la passione
sperimentata nei miei antichi dolori e con la fede
della mia fanciullezza.
Ti amo d’un amore che mi
sembrò smarrire coi miei santi perduti: ti amo col
respiro, i sorrisi, le lacrime di tutta la mia vita e, se
Dio vorrà, ti amerò ancor meglio quando sarò
morta.
In quanti modi ti amo?
In quanti modi ti amo? Fammeli contare.
Ti amo fino alla profondità, alla larghezza e all’altezza
Che la mia anima può raggiungere, quando partecipa invisibile
Agli scopi dell’Esistenza e della Grazia ideale.
Ti amo al pari della più modesta necessità
Di ogni giorno, al sole e al lume di candela.
Ti amo generosamente, come chi si batte per la Giustizia;
Ti amo con purezza, come chi si volge dalla Preghiera.
Ti amo con la passione che gettavo
Nei miei trascorsi dolori, e con la fiducia della mia infanzia.
Ti amo di un amore che credevo perduto
Insieme ai miei perduti santi, – ti amo col respiro,
I sorrisi, le lacrime, di tutta la mia vita! – e, se Dio vorrà,
Ti amerò ancora di più dopo la morte.
Se devi amarmi
Se devi amarmi, per null’altro sia
se non che per amore.
Mai non dire:
‘L’amo per il sorriso,
per lo sguardo,
la gentilezza del parlare,
il modo di pensare
così conforme al mio,
che mi rese sereno un giorno’.
Queste son tutte cose
che posson mutare,
Amato, in sé o per te, un amore
così sorto potrebbe poi morire.
E non amarmi per pietà di lacrime
che bagnino il mio volto.
Può scordare il pianto
chi ebbe a lungo
il tuo conforto, e perderti.
Soltanto per amore amami
e per sempre, per l’eternità.
Quando forti e diritte le nostre anime
Quando forti e diritte le nostre anime
si stringono in silenzio sempre più vicine,
finché le punte ricurve delle loro ali
aperte prendono fuoco, quale amaro
torto può farci la terra per impedirci
d’essere a lungo felici? Pensa! Mentre
saliamo in alto, gli angeli, incalzandoci,
sfere d’oro di canto perfetto vorrebbero
far cadere nel nostro profondo e caro
silenzio. Ma, amore, restiamo sulla terra
dove l’avverso, indegno umore degli umani
fugge gli spiriti puri, li isola e consente
un luogo dove stare, amare per un giorno,
con l’ombra e l’ora della morte intorno.
La prima volta che lui mi baciò
La prima volta che lui mi baciò,
baciò solamente le dita della mano che scrive,
che si fece così più delicata e bianca,
restia al mondo ma non coi suoi. ‘ Senti?’,
al brusio degli angeli. Ora io non vorrei
un anello di ametista alla vista più puro
di quel bacio. Fu più in alto il secondo
e, cercando la fronte, si perse una metà sopra i capelli.
O dono supremo! Crisma
d’amore che con benefiche dolcezze
precede la vera ghirlanda d’amore. Il terzo fu
deposto, perfetto, sulla mia bocca, e fin d’allor
superba, io ripeto:’mio unico, mio amato!
In verità questo grande amore è il mio vanto
In verità questo grande amore è il mio vanto,
che, quando sale dal petto alla fronte,
mi incorona di porpora tanto
da attirare gli occhi degli uomini e mostrare la sofferenza interiore, –
anche se questo amore, per me è il massimo
non dovrei tuttavia amare, finché tu
non mi abbia dato una prova, e raccontato di
quando per la prima volta i tuoi occhi sinceri si sono incrociati con i miei,
e l’amore chiamò l’amore. E perciò, non posso nemmeno
parlare d’amore, come qualcosa di bello che mi è proprio
la tua anima ha reso la mia, completamente debole e incerta,
e l’ha posta accanto a te su un trono d’oro, –
E quello che amo (O anima, dobbiamo essere pazienti!)
è solo in te, il solo che amo.
Come i bambini al sole
Come i bambini al sole, a mezzogiorno,
siedo al tuo sguardo, e tremano le anime
tra le felici palpebre, per l’inespressa,
intima, prodiga gioia. Vedi, nel dubbio
errai. E non rimpiango la colpa, ma
l’occasione che ci privò, anche per un
istante, della reciproca, benefica
presenza. Ah, tienimi vicino, proteggimi
tu, o amorevole colomba. E alle mie paure,
se tornassero, opponi sereno il forte cuore:
nella tua divina sicurezza trovino il nido
i miei pensieri, che, senza te vacillano
come implumi smarritisi nei cieli.
Cenni biografici– Elizabeth Barrett nacque a Coxhoe Hall [Durham, England] nel 1806. Di salute malferma, visse per anni nel castello paterno dedicandosi allo studio dei classici e alla composizione poetica.
Era il 10 gennaio del 1845 quando il poeta Robert Browning scrisse la prima ardente lettera nella quale dichiarava tutta la sua ammirazione ad Elizabeth Barrett, la poetessa inglese definita in patria la Shakespeare al femminile. Cominciò così la loro romantica storia d’amore, che sembra uscire direttamente dalle pagine di un romanzo ottocentesco, con la corrispondenza durata un anno, il padre ostile e severo, il matrimonio celebrato segretamente, la fuga in Italia, la nascita del figlio.
Fino ad allora, per circa quarant’anni, la vita di Elizabeth, in seguito ad una caduta da cavallo, alla tragica morte per annegamento del fratello, ad una malattia di cui mai ben chiarite furono le cause, forse fisiche, forse psicologiche, era trascorsa in modo grigio ed immobile, sotto la tirannia paterna, in una strana dimora fiabesca, fra pareti silenziose, in una stanza buia dalle imposte ben serrate, tra medicine e libri impolverati, con la sola compagnia dell’inseparabile cagnolino Flush e dell’appassionato bisogno di leggere e studiare, curiosamente incoraggiato e consentito dall’austero padre.
Quando giunse quella prima lettera fu come un’esplosione di luce in quella casa tetra, in quella stanza buia, in quel cuore avvezzo all’ombra e alla solitudine: la passione s’innescò e brillò fino ad esplodere, e così la poetessa ammalata, famosa eppure chiusa nel cerchio del suo isolamento, uscì alla luce e assaporò la felicità inattesa ed improvvisa.
Si sposarono segretamente Elizabeth e Robert, poi fuggirono in Italia e si stabilirono a Pisa. Trascorsero insieme 15 anni, in splendida armonia, quasi sempre a Firenze dove poi si erano trasferiti, scrivendo entrambi, lei prendendo molto a cuore la causa indipendentista italiana e componendo diverse poesie in tema, con il proposito di far conoscere anche nella sua terra d’origine la situazione italiana.
Morì a Firenze nel 1861 e fu seppellita con tutti gli onori nel cimitero degli inglesi, dove ancora riposa.
Scrisse molto Elizabeth, cominciando addirittura ad 8 anni, pubblicando per la prima volta a 13 e collaborando a riviste e circoli letterari; scrisse ballate, poesie ispirate al quotidiano, componimenti appassionati, con i quali voleva incidere sui costumi sociali del tempo, e d’impegno sociale, contro l’oppressione straniera in Italia, in un bisogno intimo di espressione, di comunicazione, di denuncia, ma i suoi versi più belli restano quelli dedicati al suo amore per Robert.
Vale davvero la pena leggere e rileggere i suoi Sonetti dal portoghese , scritti parallelamente alle lettere scambiate con Robert (che chiamò poi sempre la moglie my little portuguese) e da lei conservati fin dopo il matrimonio, versi d’amore intensi e rivoluzionari, perché per la prima volta la donna diveniva in poesia soggetto attivo e dominante e l’uomo era trasformato in oggetto d’amore al quale indirizzare con audacia le pulsioni e i desideri, e di fronte al quale affermare e rivendicare il proprio diritto all’amore.
Con un linguaggio colto eppure semplice, che ben coniuga eleganza e raffinatezza, in preziosa alchimia di classicità e suggestioni romantiche, i versi di Elizabeth esprimono al meglio ancora oggi l’immaginario femminile, riuscendo a trasmettere con intatta efficacia i desideri che pulsano nei cuori delle donne e l’amore che sbocciò nel suo cuore oppresso dalla lunga solitudine.
Elizabeth Barrett fu poeta aggraziato e vibrante. La critica successiva le imputò una certa mancanza di controllo formale. Le cose migliori sono nei Sonetti dal portoghese (1850). Poema in blank verse è Aurora Leigh, in cui espresse le sue idee su questioni filosofiche e sociali del suo tempo.
Elizabeth Barrett simpatizzò politicamente per la causa dell’indipendentismo italiano, alla quale dedicò le poesie de Finestre di Casa Guidi (1851).
Siempre me canso de contar
Antes de completar el inventario
De todo lo que tengo
Tantos amaneceres y crepúsculos
Y altas noches calladas
Tantos árboles por todo el mundo
Casi todos con pájaros
Tantas delicias para el tacto y para el ojo
Y el oído hasta donde todavía me llega
Para el olfato y el taimado gusto
Y tantas horas para estar despierto
Y otras para soñar dormido
Y tantos días con sus noches
Como el fiel renovarse de las olas
Todo eso tengo y además
La mujer que me tiene.
da Estuario
Edizioni Pre-textos 2011
Collezione La croce del sud
Dimmi donna
Dimmi donna dove nascondi il tuo mistero
donna acqua pesante volume trasparente
più segreta quanto più ti spogli
quale è la forza del tuo splendore inerme
la tua abbagliante armatura di bellezza
dimmi non posso più con tante armi
donna seduta sdraiata abbandonata
insegnami il riposo il sonno e l’oblio
insegnami la lentezza del tempo
donna tu che convivi con la tua carne ignominiosa
come accanto ad un animale buono e calmo
donna nuda di fronte all’uomo armato
togli dalla mia testa questo casco d’ira
calmami guariscimi stendimi sulla fresca terra
toglimi questi vestiti di febbre che mi asfissiano
sommergimi indeboliscimi avvelena il mio pigro sangue
donna roccia della tribù sbandata
discingimi queste maglie e cinture di rigidezza e paura
con cui mi atterrisco e ti atterrisco e ci separo
donna oscura e umida pantano edenico
voglio la tua larga fragrante robusta sapienza,
voglio tornare alla terra e ai suoi succhi nutritivi
che corrono sul tuo ventre e i tuoi seni e irrigano la tua carne
voglio recuperare il peso e la completezza
voglio che tu m’inumidisca, m’ammolli, m’effemini
per capire la femminilità, la morbidezza umida del mondo
voglio appoggiata la fronte nel tuo grembo materno tradire
il ferreo esercito degli uomini
donna complice unica terribile sorella
dammi la mano torniamo ad inventare il mondo noi due soli
voglio non distaccare mai gli occhi da te
donna statua fatta di frutta colomba cresciuta
lasciami sempre vedere la tua misteriosa presenza
il tuo sguardo di ala e seta e lago nero
il tuo corpo tenebroso e raggiante plasmato di slancio senza incertezze
il tuo corpo infinitamente più tuo che per me quello mio e che
dai di slancio senza incertezze senza tenerti niente il tuo
corpo pieno e uno illuminato tutto di generosità donna mendicante
prodiga porto del pazzo Ulisse non permettere che io
dimentichi mai la tua voce di uccello memorioso
la parola calamitata che nel tuo intimo pronunci sempre nuda
la parola sempre giusta di folgorante ignoranza
la selvaggia purezza del tuo amore insensato
delirante senza freno abbrutito invidiato
il gemito nettissimo della tenerezza
lo sguardo pensieroso della prostituzione
la cruda chiara verità dell’amore che assorbe e divora e
si alimenta l’invisibile zampata della divinazione
l’accettazione la comprensione la sapienza senza strade
la spugnosa maternità terreno di radici
donna casa del doloroso vagabondo
dammi da mordere la frutta della vita
la stabile frutta di luce del tuo corpo abitato
lasciami reclinare la mia fronte funesta
sul tuo grave grembo di paradiso boscoso
spogliami acquietami guariscimi di questa colpa acre
di non essere sempre armato ma soltanto io stesso.
Versione originale: Dime mujer
Dime mujer dónde escondes tu misterio
mujer agua pesada volumen transparente
más secreta cuando más te desnudas
cuál es la fuerza de tu esplendor inerme
tu deslumbrante armadura de belleza
dime no puedo ya con tantas armas
mujer sentada acostada abandonada
enséñame el reposo el sueño y el olvido
enséñame la lentitud del tiempo
mujer tú que convives con tu ominosa carne
como junto a un animal bueno y tranquilo
mujer desnuda frente al hombre armado
quita de mi cabeza este casco de ira
cálmame cúrame tiéndeme sobre la fresca tierra
quítame este ropaje de fiebre que me asfixia
húndeme debilítame envenena mi perezosa sangre
mujer roca de la tribu desbandada
descíñeme estas mallas y cinturones de rigidez y miedo
con que me aterro y te aterro y nos separa
mujer oscura y húmeda pantano edénico
quiero tu ancha olorosa robusta sabiduría
quiero volver a la tierra y sus zumos nutricios
que corren por tu vientre y tus pechos y que riegan tu carne
quiero recuperar el peso y la rotundidad
quiero que me humedezcas me ablandes me afemines
para entender la feminidad la blandura húmeda del mundo
quiero apoyada la cabeza en tu regazo materno
traicionar al acerado ejército de los hombres
mujer cómplice única terrible hermana
dame la mano volvamos a inventar el mundo los dos solos
quiero no apartar nunca de ti los ojos
mujer estatua hecha de frutas paloma crecida
déjame siempre ver tu misteriosa presencia
tu mirada de ala y de seda y de lago negro
tu cuerpo tenebroso y radiante plasmado de una vez sin titubeos
tu cuerpo infinitamente más tuyo que para mí el mío
y que entregas de una vez sin titubeos sin guardar nada
tu cuerpo pleno y uno todo iluminado de generosidad
mujer mendiga pródiga puerto del loco Ulises
no me dejes olvidar nunca tu voz de ave memoriosa
tu palabra imantada que en tu interior pronuncias siempre desnuda
tu palabra certera de fulgurante ignorancia
la salvaje pureza de tu amor insensato
desvariado sin freno brutalizado enviciado
el gemido limpísimo de la ternura
la pensativa mirada de la prostitución
y la clara verdad cruda
del amor que sorbe y devora y se alimenta
el invisible zarpazo de la adivinación
la aceptación la comprensión la sabiduría sin caminos
la esponjosa maternidad terreno de raíces
mujer casa del doloroso vagabundo
dame a morder la fruta de la vida
la firme fruta de luz de tu cuerpo habitado
déjame recostar mi frente aciaga
en tu grave regazo de paraíso boscoso
desnúdame apacíguame cúrame de esta culpa ácida
de no ser siempre armado sino sólo yo mismo.
Biografia di Tomàs Segovia (1927-2011)- Nació en Valencia, España, el 21 de mayo de 1927; murió en la Ciudad de México, el 7 de noviembre de 2011. Poeta, ensayista y narrador. Radicó en México desde 1940. Estudió Filosofía y Letras en la Facultad de Filosofía y Letras de la unam, y Lengua Francesa en el Institut Français d’Amérique Latine (México). Certificat d’Aptitude à l’Enseignement de la Langue Française (La Sorbona). Fue editor de la Dirección General de Publicaciones de la unam; secretario de la colección de clásicos universales; organizador y director de La Casa del Lago; profesor de El Colegio de México, donde creó el Centro de Enseñanza e Investigación de la Traducción; director de la Revista Mexicana de Literatura; jefe de redacción de Plural. Traductor de Giuseppe Ungaretti, André Breton, Alain Borer, Cesare Pavese, Victor Hugo, L. Febre, Roman Jacobson, Paul Vignaux, Mircea Eliade, Rainer María Rilke, Jacques Lacan, Frances Yates, William Shakespeare, Gérard de Nerval y muchos otros. Colaborador de Plural, Revista Mexicana de Literatura, Revista de la Universidad de México y Vuelta. Becario de El Colegio de México, 1953; del cme, 1954 y 1955; y de la Fundación Guggenheim, 1968 y 1976. Miembro del snca desde 1994. Premio Xavier Villaurrutia, 1973 por Terceto. Premio Magda Donato 1974 por Trizadero. Premio Alfonso x de Traducción Literaria, 1982, por Atalía, de Jean Racine. Premio Alfonso x de Traducción Literaria, 1984 por Poesías completas de Gérard de Nerval. Premio Juan Rulfo 2005 por su trayectoria. Premio de Poesía Federico García Lorca 2008 por su aportación a la literatura.
Obra de consulta: Catálogo biobibliográfico de la literatura en México
Proponiamo quattro poesie inedite di Giuseppe Carlo Airaghi, che ha pubblicato di recente le raccolte I quaderni dell’aspettativa (2019) e Quello che restava da dire (2020).-Fonte –Blog Pane e Scorpioni-
L’ultimo scompartimento
“Quante stazioni dovremo passare
per ritornare di nuovo alla luce?”
chiede la signora che stringe la borsa
e la vita al grembo serrato
mentre dispensa sorrisi senza obiettivi,
sospesi a mezz’aria.
Viaggiamo tra palazzi periferici
che ci voltano coscienti le spalle
prima di venire inghiottiti dal buio ipogeo
tra le stazioni di Lancetti e porta Vittoria.
“La luce ci riaccoglierà
poco prima di giungere a destinazione”
vorrei rispondere
ma taccio nella consapevolezza
della soggettività di ogni mia risposta.
L’ultimo scompartimento del treno
è luogo riservato agli ultimi,
ai viaggiatori con biciclette moleste al seguito,
alle ombre senza biglietto da esibire,
rintanate nei cessi ad evitare il controllore
o tesi nel corpo in allerta a scrutare,
lungo il corridoio immisurabile,
l’arrivo della divisa che pretenderà
un compenso che non possono permettersi,
in bilico tra la sopravvivenza,
la rivolta
e la normalità anormale
di uomini dal destino segnato
e uomini senza neppure un destino
a cui affidare il peso del corpo nel viaggio.
C’è chi, guadagnato un precario posto nel mondo,
custodisce nella tasca la legittimità
di un biglietto obliterato
seduto sui sedili di chi non teme
il giudizio del controllore
e chi fugge la voce che pretende un biglietto
in una lingua non conosciuta
ma riconosciuta come lingua di una legge divina.
Io non so più quale sia
la giusta forma di comportamento,
vorrei scendere a ogni fermata non mia
(magari a Porta Garibaldi dalle tante alternative)
dimenticare il dovere della destinazione,
riscrivere una nuova storia da onorare.
Ma non lo faccio
per senso del dovere
mi limito a spiare fuori dal finestrino
le sagome e le ombre sotto i neon,
nel tempo sufficiente
a leggere un’ultima poesia
tra le stazioni di Forlanini e Segrate.
Chi resta si dia pace
Nelle viscere dell’ospedale vecchio di Garbagnate
spingiamo il letto medicale
verso il magazzino dell’economato.
Restituiamo il letto in comodato
e il dolore che vi è giaciuto
e la morte ospitata senza invito,
subita nella resa, lucidamente attesa.
Tornati a casa nell’espressione di rito
riapriremo le imposte alla luce
che entrerà senza cerimonie
ne cordoglio, ne vergogna.
Ritorneremo a un amore privo di rimorso,
a fischiettare cucinando il sugo,
ad ascoltare canzoni sceme alla radio
ad alto volume da una stanza all’altra,
malgrado la foto con lo sfondo di cielo
sistemata sulla mensola alta in soggiorno,
quotidiano arredo
su cui poseremo e toglieremo la polvere
per il resto dei giorni a venire.
Sei ancora sveglia?
Sei ancora sveglia? domando.
Sono ormai le due del mattino.
I sogni arrivano in punta di piedi,
approdano al respiro del tuo seno bianco
dopo avere percorso le strade di campagna
che ricuciono i lembi dei campi arati,
i quartieri addormentati
nelle ore sillabate, una ad una,
dalle donne che condividono l’attesa
con la ruggine fiorita
sulla ruota abbandonata nel cortile.
Alla mia domanda rispondi
con un sorriso silenzioso
e quel silenzio mostra
la bellezza capace
di far vacillare il mondo,
il mio buon senso,
i fogli bianchi
che dovrei stracciare
come si stracciano i sogni interrotti.
La finestra
Dalla parte in silenzio della strada
osservo la casa
(qualcuno direbbe la spio),
la finestra ancora illuminata,
il pudore tenue di una tenda bianca.
Dietro il vetro
ci sono io,
una mano a scostare la tenda.
Guardo fuori
l’uomo che dalla strada mi osserva
(qualcuno direbbe mi spia)
e forse mi somiglia.
Trattengo a stento un cenno di saluto
per timore di essere frainteso.
Giuseppe Carlo Airaghi è nato a Legnano nel 1966 e vive attualmente a Lainate, sempre in provincia di Milano.
Come racconta lui stesso, in passato è stato geometra, animatore di villaggi turistici, venditore di prodotti siderurgici e cantante di una band rock-blues. Sognava una carriera da ballerino ma la sua completa mancanza di coordinazione si è rivelata un ostacolo insormontabile. Attualmente lavora presso un’azienda di servizi, “cassa integrazione Covid-19 permettendo”.
Ha una moglie paziente e due figli recentemente usciti incolumi dall’adolescenza.
Sul comodino si ostina ad accumulare libri, che tenta di leggere contemporaneamente senza mai riuscire a terminarne uno.
Per una bibliografia dettagliata e le indicazioni per acquistare i suoi libri, consultate il profilo dell’autore.
(Da poco uscita ne’ Lo Specchio Mondadori una raccolta antologica delle poesie di Michael Longley, a cura di Piero Boitani e Paolo Febbraro, con un saggio introduttivo di Piero Boitani, traduzioni di Paolo Febbraro, Piero Boitani e Marco Sonzogni. Proponiamo un estratto dell’introduzione e una selezione di poesie a cura di Piero Boitani.)
Il maestro del lume di candela (il “Maître à la chandelle”) è un pittore barocco che molti hanno identificato con Trophime Bigot (1579-1650), provenzale attivo per una decina d’anni anche a Roma, autore di tele di stile così diverso da essere stato persino sdoppiato, un artista più anziano e uno più giovane. E che a Roma è invece identificato, sulla base di documenti relativi al pagamento, con un “maestro Jacomo”, al secolo Giacomo Massa. Il modo di dipingere di Trophime-Jacomo cambia considerevolmente, apparendo più tradizionale in Provenza, assai più aperto alla nuova maniera caravaggesca nella capitale pontificia, ma sua caratteristica costante è quella di presentare una scena, o una figura, immerse nell’oscurità, e tuttavia illuminate, dentro per così dire il buio, da una luce che talvolta viene emanata appunto da una candela fisicamente presente nella tela. La luce della candela, di per sé non forte, possiede però nella fitta oscurità potenza tale da fare del quadro una ostensione: una rivelazione vera e propria. Michael Longley ha descritto molto bene il fenomeno in una lirica brevissima intitolata “Poem” della sua raccolta “The Candlelight Master”, del 2020, nella quale dichiara di essere lui stesso il maestro del lume di candela:
I am the candlelight master
Striking a match in the shadows.
A smoky wick, then radiance.
I am the candlelight master.
Sono il maestro del lume di candela
che fra le ombre accende un fiammifero.
Dallo stoppino fumo, poi fulgore.
Sono il maestro del lume di candela.
La concisione estrema, alla quale Longley si avvicina sempre di più negli ultimi due decenni, non consente allusioni al mistero dell’identità del maestro pittore, ma serve a far esplodere la luce «fra le ombre» (il plurale contenendo in inglese anche un accenno all’aldilà), in una radiance che è fulgore irraggiante, claritas radiosa. «Striking a match», letteralmente “lo sfregare un fiammifero”, è il gesto semplice e minimo di una creazione che ha per oggetto la luce e i volti e le cose che essa rivela, e il breve calore che il fuoco produce. Nel presentarsi come il maestro del lume di candela, Longley si mostra come il poietes umano: forte, diretto, immediato, ma anche coscientemente caduco come appunto una candela e la sua luce.
Piero Boitani
***
ANTICLEIA
Se alla roccia dove confluiscono i fragorosi fiumi, l’Acheronte,
il Piriflegetonte e il Cocito, affluente dello Stige, scavi
una fossa larga, lunga e fonda un cubito, dalle nocche al gomito,
e vi sacrifichi un montone e una pecora nera, piegando loro il capo verso le
tenebre esterne mentre tu volgi la fronte all’acqua,
tante di quelle anime anemiche dei morti ti si affolleranno attorno che dovrai
tenerle lontano dal sangue con la baionetta,
ma tra questi zombi a un tratto riconoscerai tua madre,
e se, dopo averle dato del sangue da bere e parlato di casa,
tre volte ti farai avanti per abbracciarla, per tre volte
come un’ombra o un’idea lei ti svanirà tra le braccia
e le chiederai perché evita di toccarti e lacrime verserai
perché ecco qua tua madre e perfino quaggiù nell’Ade
un abbraccio tremante sarebbe a entrambi di conforto,
ti spiegherà lei che i tendini non legano più la sua carne
alle ossa, che il fuoco irresistibile ha tutto demolito,
che l’anima prende il volo come un sogno e fluttua nel cielo,
che questo è quel che accade agli esseri umani quando muoiono?
ARGOS
Di separazioni ce n’erano state altre, così numerose
che Argo, il cane che attese Odisseo per vent’anni,
ha continuato ad aspettarlo, trascurato sul mucchio di letame
davanti la nostra porta, pieno di pulci, più morto che vivo,
lui che un tempo inseguiva capre selvatiche e caprioli; il cane
preferito, di razza pura, un fenomeno a cogliere l’usta,
che ancor oggi agita la coda e tiene le orecchie basse
sforzandosi di farsi più vicino alla voce che riconosce
e muore nello sforzo; finché anche noi come Odisseo
piangiamo per il cane Argo e per tutti gli altri cani,
per le retate di criceti e il panico dei ratti albini
e la deportazione di un canarino di nome Pepiček.
CAMPFIRES
Tutta la notte fuochi crepitanti tennero alto il morale
mentre nella terra di nessuno sonnecchiavano e sui campi di battaglia.
(Notti miti – non un alito, costellazioni in cielo
splendenti attorno a una luna abbagliante –
quando in alto una radura nell’aria svela
spazio sconfinato, e tutte le stelle appaiono
e illuminano le cime dei colli, le valli, i promontori e le punte
come Tonakeera e Allaran dove la marea
volge verso Killary, dove i salmoni lasciano il mare,
dove il pastore sorride sul suo campo lucente.
Tanti fuochi brillavano davanti a Ilio
tra il fiume e le navi: mille fuochi, e attorno
a ciascuno cinquanta uomini riposavano nella luce
delle fiamme.) I cavalli attendevano l’alba
muovendosi accanto ai carri, masticando orzo e avena lucente.
L’UOVO DEL LUCHERINO
Considera l’uovo del lucherino,
finemente screziato – macchie
e trattini – lilla, pallida ruggine
rossiccia, spruzzi di sangue
sparsi su un bianco verdastro –
tramonto a finis terrae – insomma
considera l’uovo del lucherino.
PROSEGUENDO AMERGIN
Sono la trota che si dilegua
fra le pietre di guado.
Sono la giovane anguilla
che indugia sotto il ponticello.
Sono il leprotto che mangiucchia
presso la siepe di fucsia.
Sono l’ermellino che danza
attorno al masso erratico.
Sono la matassa di lana
che vento e filo spinato ingarbugliano.
Sono il fango e lo sputo
che edificano il nido della rondine.
Sono il canto del saltimpalo,
sasso che percuote il sasso.
Sono il corvo aereo
che ha l’occhio in quello dell’agnello.
Sono il chiurlo notturno
che zufola nella canna fumaria.
Sono il pipistrello
che dimora tra costellazioni.
Sono la goccia di pioggia che racchiude
lino di fata oppure Samolus.
Sono il bocciolo di ninfea
e l’autunnale orchidea Spirantes.
Sono il temporale che penetra
nel buco della serratura.
Sono il chicco di grandine annerito
che il camino torna in acqua.
Sono la tana della lontra
e il covo del tasso nelle dune.
Sono il tasso che nell’alta marea
annega fra i detriti galleggianti.
Sono la lontra che muore
in cima al tumulo funebre.
IL MODELLINO DI AMELIA
I
Nel suo modellino del sistema solare
la mia cosmologa settenne
lega a uno spiedino da barbecue
con filo fusibile i pianeti, bottoni:
Venere, un bottone d’avorio,
Mercurio argento accanto al sole,
per Giove madreperla,
rosso e verde per Marte e la Terra,
per gli anelli di Saturno uno scovolino:
sicché nell’oscurità esterna
accanto alla cucina i suoi occhi castani
rappresentano Urano e Nettuno.
II
Amelia, nel filo non hai aggiunto Plutone
alla tua scultura del sistema solare:
minuscolo e remoto, un mondo gelido
di gelidi monti e neve di metano,
la danza di cinque lune sconosciute al sole,
il regno del dio dell’aldilà –
è lì, bambina mia, che andremo quando moriamo.
STELLE BAGNATE
Ho destato – al di là delle pietre di guado
sulla marea di luna piena – l’immaginazione –
guarda solo – costellazioni momentanee –
stelle bagnate fra i piedi – fosforescenza –
ardore dell’acqua del mare.
La storia della rivista «Nuovi Argomenti»
1953-1964
Alberto Carocci e Alberto Moravia fondano «Nuovi Argomenti». «L’idea», ricorderà Moravia, «era quella di creare una rivista di sinistra come “Temps Modernes” di Sartre, la quale avrebbe avuto un’attenzione per la realtà italiana di tipo oggettivo e non lirico». Il bimestrale ha la sua redazione in via dei Due Macelli 47 (segretario di redazione: Giovanni Carocci) e viene stampato presso l’Istituto Grafico Tiberino di Roma.
Il primo numero (marzo-aprile 1953) porta in sommario una Inchiesta sull’arte e il comunismo con interventi di Moravia, Lukacs, Solmi e Chiaromonte, ma anche racconti di Franco Lucentini e Rocco Scotellaro e un saggio di Franco Fortini.
Dal 1953 al 1964, sui 71 numeri che compongono la prima serie di Nuovi Argomenti scrivono, tra gli altri, Arbasino, Bassani, Bianciardi, Bobbio, Calvino (che pubblica La nuvola di Smog e il Diario americano) Cassola, Ginzburg, Fenoglio, Maraini, Montale, Morante, Ortese, Ottieri, Piovene, Pratolini, Raboni, Rea, Vittorini, Zolla.
Sul n. 10 del 1954 esce l’Inchiesta su Orgosolo di Franco Cagnetta; quest’ultimo – assieme ai direttori Carocci e Moravia – verrà denunciato dall’allora Ministro dell’Interno Mario Scelba per «reato di vilipendio delle forze armate» e «pubblicazione di notizie atte a turbare l’ordine pubblico», e la rivista venne sequestrata. Nel 1956, sul n. 17-18, Moravia pubblica alcuni capitoli inediti del suo romanzo La ciociara e la rivista per la prima volta apre alla poesia con Le ceneri di Gramsci di Pier Paolo Pasolini. Sul n. 20 (maggio-giugno 1956) trovano spazio 9 domande sullo stalinismo, con un’intervista a Palmiro Togliatti. È una formula che verrà replicata spesso, con le 9 domande sul romanzo (n. 37 del 1959, con scritti di Bassani, Calvino, Cassola, Montale, Morante, Moravia, Pasolini, Piovene, Solmi e Zolla), le 7 domande sulla poesia (n. 55-56 del 1962, con interventi di Baldacci, Bertolucci, Caproni, Devoto, Forti, Legnetti, Luzi, Montale, Paglierini, Pasolini, Pedio, Pignotti, Roversi, Sereni, Siciliano, Solmi, Vivaldi e Zolla) e le 10 domande su «neocapitalismo e letteratura» (n. 67-68 del 1964, con articoli di Arbasino, Baldini, Chiaramonte, Contessi, Cusatelli, Eco, Guglielmi, Leonetti, Moravia, Ottieri, Pasolini, Raboni, Rosso, Roversi, Siciliano, Saccà, Vittorini).
1966-1980
Nel gennaio del 1966 esce il primo numero della seconda serie – trimestrale – pubblicata da Garzanti. Ai due fondatori si è aggiunto nella direzione Pier Paolo Pasolini. Segretario di redazione è Enzo Siciliano che nel 1972, alla morte di Carocci, sostituisce quest’ultimo come direttore. Siciliano può considerarsi colui che su «Nuovi Argomenti» pratica la saggistica letteraria più compiuta, con attenzione, anche nella rivisitazione dei classici, alla sensibilità civile, ai rapporti della letteratura con la storia. Sulla rivista aveva esordito nel 1962, rispondendo al questionario sulla poesia e, due anni dopo, a quello su neocapitalismo e letteratura. Ma la caratteristica della sua presenza è data dal dittico intitolato L’anima contro la storia, due saggi su Bassani e su Elsa Morante che, dal 1966, vedono iniziare la sua presenza sempre più continua.
La seconda serie dura per 66 numeri e chiude nel 1980, segnando un percorso dove il fatto letterario tende sempre più a prendere il posto della discussione politica. Come un ciclone, nella seconda serie sta il nome di Pier Paolo Pasolini. Si può dire che la seconda serie di «Nuovi Argomenti» sia la serie di Pasolini, come la prima stagione della rivista era stata quella di Moravia, come la terza a quarta serie saranno soprattutto segnate da Siciliano. Pasolini dirige la rivista con una vitalità che tende a rompere i margini, assecondando una serie di collaborazioni dei cui autori il tempo perderà le tracce; ma tra i nomi rimasti, per esempio, ci sono Dario Bellezza, Franco Cordelli, Antonio Debenedetti, Dacia Maraini (che esordì nella prima serie, ma trovò nella seconda una vena di interesse civile), Giorgio Montefoschi, Vincenzo Pardini, Renzo Paris. A partire dal n. 10 della seconda serie (aprile-maggio 1968), Pasolini accantona discussioni di linguistica, cinema e poesia e irrompe con forza nel fascicolo della rivista. A sua firma compaiono sei interventi (Il PCI ai giovani!, Una risposta a Siciliano, Anche Marcuse adulatore, Aneddotica dell’integrazione a sinistra, Ah, Italia disunita!, e infine, come notizia da ultim’ora, Hanno sparato a Bob Kennedy). L’ultima firma è posta a 1951 nell’ultimo numero del 1975, che si sovrappone alla tragica notte all’Idroscalo di Ostia.
Nel primo numero dell’anno seguente, l’Omaggio a Pasolini coprirà la quasi totalità del fascicolo. Attilio Bertolucci affianca Moravia e Siciliano nella direzione. Redattori della rivista, dal 1974, sono Dario Bellezza e Piero Gelli. Nel 1978, Bellezza appare come segretario di redazione, con Gelli e Franco Cordelli come redattori. Tra gli autori invitati a collaborare alla rivista, Celati, Cerami, Consolo, Cucchi, Elkann, Giudici, Magrelli, Magris, Malerba, Montefoschi, Rosselli, Scialoja, Sereni, Siti, Spaziani, Zanzotto. Si pubblicano scritti di Octavio Paz, Julio Cortazar, Roland Barthes, Michail Bulgakov, Henry Michaux, José Lezama Lima, Michail Bachtin, Boris Pasternak, Joseph Brodskij.
1982-1994
«Scrivere di politica: portare o costringere gli scrittori a occuparsi di quei fatti che assediano da vicino l’esistenza quotidiana, e che ci appaiono indecifrabili, lugubremente enigmatici. Con questa ambizione si apre la terza serie di “Nuovi Argomenti”», scrive Enzo Siciliano nell’editoriale del numero di gennaio-marzo 1982 intitolato La letteratura delle cose, inaugurando i cinquanta numeri della terza serie pubblicati da Mondadori. Direttori sono Moravia, Siciliano e Leonardo Sciascia. Il collegio di direzione è composto da Dario Bellezza, Giulio Bollati, Franco Cordelli, Enzo Golino, Carlo Gregoretti, Leonardo Mondadori, Massimo Piattelli Palmarini, Lucio Villari. Nel 1984 entra a farne parte Edoardo Albinati, nel 1986 Leopoldo Fabiani. Dal 1988 Sandro Veronesi è segretario di redazione. Lo stesso anno Antonio Debenedetti entra nel collegio di direzione. Nell’89 ci sono anche Bruno Guerri, Rasy, Tondelli, Montefoschi, Elkann e Guarini e Giorgio Caproni affianca per breve tempo i direttori della rivista, fino alla sua morte che avverrà l’anno seguente.
Nel 1990, il n. 33 di «Nuovi Argomenti» (con una copertina di Mario Schifano) rende omaggio aLeonardo Sciascia, appena scomparso. Francesca Sanvitale diventa direttore accanto Moravia e Siciliano. Quest’ultimo, dall’anno seguente, avvia regolarmente la pubblicazione di un suo “diario” come editoriale della rivista. Sempre nel 1990, alla morte di Alberto Moravia, accanto a Siciliano e alla Sanvitale arrivano alla direzione Furio Colombo e Raffaele La Capria, con Dacia Maraini e Franco Cordelli in veste di vicedirettori. La rivista pubblica scritti di Bufalino, Eco, Ferrara, Mafai, Manganelli, Parazzoli, Scalfari, Tabucchi, Tobino, Vattimo, Villari, Viola, Zeichen e prosegue nella sua vocazione al talent-scouting aprendo alla collaborazione di giovani autori tra cui Abbate, Affinati, Albinati, Busi, Carbone, Colasanti, Covito, Lodoli, Mazzucco, Onofri, Picca, Tamaro, Tondelli, Trevi, Valduga, Veronesi, oltre a pubblicare scrittori stranieri quali Borges, Brodkey, Carver, Chatwin, Doctorow, Grossman, Kundera, Lowry, McEwan, McInerey, Oates, Perec, Updike, Walcott, Wolfe, Yeoshua. Nel 1993, per decisione di Enzo Siciliano e Sandro Veronesi, sul numero 48 (ottobre-dicembre) viene pubblicato il racconto lungo La baracca di Andrea Carraro, da cui successivamente lo scrittore romano trarrà il romanzo Il branco.
1994-1997
Nel 1994 la rivista cambia casa per la quarta volta. L’editore è Giunti che pubblicherà 12 fascicoli. La direzione, già dall’ultimo numero della serie Mondadori (n. 50), è composta da Dacia Maraini, Raffaele La Capria, Furio Colombo e Enzo Siciliano (direttore responsabile). Della redazione sono entrati a far parte Eraldo Affinati, Antonella Anedda, Luca Archibugi, Rocco Carbone, Massimo Onofri, Aurelio Picca, Emanuele Trevi. Al collegio di direzione si aggiungono Vincenzo Pardini, Giovanni Raboni, Nico Orengo, Sapo Matteucci, Giorgio Ficara. Segretario di redazione è Simone Caltabellota. Caporedattore Arnaldo Colasanti.
«Nuovi Argomenti» si conferma palestra per i giovani critici scrittori e poeti che in molti casi parteciperanno poi direttamente alla sua redazione: Scarpellini, Manica, Martini, Gibellini, Susani, Giartosio, Galaverni, Tripodo, De Bernardinis. Nel 1994 esordisce Niccolò Ammaniti, nel 1997 Alessandro Piperno. Sulla rivista trovano spazio Luca Doninelli, Antonio Riccardi, Claudio Piersanti, Enzo Fileno Carabba, Giulio Mozzi, Giuseppe Montesano, Antonio Franchini, Maurizio Maggiani. Vengono pubblicati Paul Auster, Don DeLillo e Seamus Heaney. Il formato non è più in ottavo ma diventa quello di un libro tascabile (sull’esempio della «Paris Review»).
1998-oggi
Dal 1998 «Nuovi Argomenti» torna ad essere stampata da Mondadori. Il primo numero della quinta serie è intitolato Terrore e terrorismo. Arnaldo Colasanti diventa direttore con Colombo, Maraini, La Capria e Siciliano (che è sempre il direttore responsabile). Lorenzo Pavolini è caporedattore. Alla redazione partecipano anche Andrea Salerno e Massimiliano Capati; collaborano Abeni, Guerneri, Tarquini, Santi. Sulle pagine della rivista continuano a passare scrittori e vita politica: Pascale, Fois, Riccarelli, Raimo, Ferracuti, Lagioia, Armitage, Strand, Hughes, Annunziata, De Angelis, Veltroni, Riotta, Moresco, Asor Rosa, Mari, Pascale, Guglielmi, Cortellessa, Voltolini.
Il n. 21 (gennaio-marzo 2003) festeggia una data importante e si chiama appunto Abbiamo 50 anni– Prologo. Seguiranno Abbiamo 50 anni – Atto Primo, Abbiamo 50 anni – Atto Secondo e Abbiamo avuto 50 anni. A partire dal numero di luglio-settembre 2003 inizia l’assidua collaborazione di Alessandro Piperno che firma un pezzo dal titolo Lettera aperta a Enzo Siciliano sul caso Philip Roth. Mario Desiati viene chiamato da Siciliano per svolgere le funzioni di segretario di redazione, in cui entrano Carlo Carabba, Leonardo Colombati, Helena Janeczeck e Roberto Saviano.
Per la rivista si apre una nuova stagione, suggellata nel 1994 dall’uscita del n. 28, Italville, e un anno dopo dal n. 30, Atlantide – Luoghi e personaggi sommersi, due numeri in cui intervengono molti dei più promettenti giovani autori del panorama italiano, tra cui Leonardo Colombati, Mario Desiati, Giuseppe Genna, Nicola Lagioia, Francesco Pacifico, Massimiliano Parente, Valeria Parrella, Tommaso Pincio, Alessandro Piperno, Flavio Santi, Roberto Saviano, Wu Ming 1.
Il 9 giugno 2006 muore Enzo Siciliano. Il n. 35 di «Nuovi Argomenti» gli rende omaggio con un numero speciale, Officina Siciliano, in cui lo ricordano tra gli altri Alberto Arbasino, Bernardo Bertolucci, Franco Buffoni, Arnaldo Colsanti, Franco Cordelli, Alain Elkann, Miriam Mafai, Valerio Magrelli, Raffaele Manica, Dacia Maraini, Vincenzo Pardini, Elisabetta Rasy, Giorgio van Straten. Quest’ultimo, assieme a Raffaele Manica, entra nella direzione affiancando Colasanti, Colombo e La Capria. Direttore responsabile diventa Dacia Maraini.
Nel gennaio 2009 Carlo Carabba diventa coordinatore della redazione. Gli succederanno Francesco Pacifico, Marco Cubeddu e Francesca Ferrandi.
Dal 2019 la direzione è composta da Colombati, La Capria, Manica, Maraini e van Straten.
Marcello Di Gianni-nasce il 2 aprile 1992 a Menziken, Svizzera.Qui trascorre i primi otto anni e frequenta la seconda elementare.In Italia riprende gli studi e si diploma presso l’Istituto Tecnico Industriale di Bisaccia (AV) nel 2012.Subito dopo ha cominciato a nutrire un elevato interesse nella lettura di centinaia di volumi riguardanti soprattutto classici della letteratura moderna e contemporanea spaziando in numerosi generi: poesia, narrativa, teatro, saggi filosofici e contestualmente inizia a comporre le prime poesie.Particolarmente graditi all’autore sono i poeti russi dell’epoca moderna e contemporanea e che hanno contribuito alla sua crescita culturale e di influenza poetica: Puskin, Blok, Mandel’štam,Cvetaeva, Lermontov, Pasternak, Esenin, Tjutcev, Majakovskij.Tra i suoi autori maggiormente apprezzati si annoverano: Kafka (di cui ha letto la quasi totalità delle opere), James Joyce, Dostoevskij, Tolstoj, Oscar Wilde.Fin dai primi anni, ha ottenuto il primo posto in prestigiosi Premi Letterari italiani a carattere nazionale e internazionale.Nel 2017 partecipa con quattro poesie al Premio “Montreal International Poetry Prize”, tra i premi letterari più importanti e rinomati a livello mondiale.E’ pubblicato su varie riviste letterarie nazionali e le sue poesie sono recensite da personaggi illustri della Letteratura Italiana.Le sue liriche confluiscono in tematiche accomunate da un leitmotiv di perenne ricerca ed espressione di stati d’animo intrisi di una profonda inquietudine velata da un senso di fitta consapevolezza delle sfaccettature della vita.E’ appassionato di Pittura, letteratura Russa, Filosofia, cinema, lingua tedesca, medicina. Ha iniziato la sua carriera quale membro di Giuria letteraria all’età di ventuno anni presso il Concorso Nazionale di Saggistica divulgativa a tema libero “C’è un argomento in cui sei esperto?” organizzato dal Comitato Culturale Orangita Books di Lecco. Alla I Edizione (2022) del Concorso letterario nazionale “Dania Musumeci” è stato Presidente di Giuria per la sezione Poesia. Successivamente è stato giurato presso altri e prestigiosi Premi Letterari e Filosofici principalmente per quanto riguarda la Poesia e la Narrativa e continua a esserlo regolarmente, assolvendo i suoi compiti sempre con spirito critico, obiettivo e coscienzioso. E’ socio dell’Associazione Professionisti Pratiche Filosofiche – A.P.P.F. e membro di giuria del relativo Prestigioso premio Nazionale di Filosofia “Le figure del Pensiero”, XVII edizione – 2023, sezione saggi inediti. Personalità del tutto indipendente e riservata, neutrale e imparziale nel suo modo di essere ed agire,anteponendo l’obiettività ed oggettività quale unici elementi di rilievo.
In fondo all’anima c’è la notte,
non la muta il desiderio,
e non sprofonda tra le necessità, i vizi.
Ma non è oggi, è domani
per guardare indietro
con gli orologi che non scattano
e il sapere che nel buio
il bagliore, a scatti, scava sotterranei
sincopati, e non si torna indietro
ma si lascia la briglia
il cavallo veloce, primo a vittoria.
Ritornare dove i morti parlano
Nel nucleo delle cause
in scatti insensati
e sfioriture turbate
da un’immensa e tanto sola notte,
nel fondo quieto in ripidi ripari. Anima al fondo in.
*
Our enemy, our own loss how repair,
How overcome this dire calamity
What reinforcement we may gain from hope,
If not, what resolution from despair
Paradise Lost, Milton
Sono l’angelo scartato da Dio
che la fede non prese
nelle schiere delle antitesi dei contrari.
l’ammissione dell’accettazione
di un vuoto che sapeva di candido
ma che la maldestra natura
saturava tra gli intervalli
spazi dove il vento
Lambisce il sole
dichiarando morti i tempi
sfumate le stagioni
nella nebbia in fondo ai ponti
di collegamenti mancati.
Il dolore che mi portò
a voler uccidere Dio
è lo stesso silenzio
del boia
nel minuto prima
Ricordati,
nell’indifferenza
tra i tagli
ci hai condannati ad amarti.
*
Vivere nell’angolo
svoltare in un incontro
Tradire gli incroci
Perdonare i lati opposti,
Rincorrere gli intrecci
sdraiarsi nei margini.
Siamo nelle direzioni spezzate,
senza toccarle e senza soffrirne
l’assenza.
È nell’esercizio di caduta
Che s’acquista la vita.
Breve biografia di Vladislav Karaneuski(Minsk, Bielorussia, 1999) vive a Monza, è laureato in lettere all’Università degli studi di Milano con una tesi in filologia romanza, sta attualmente continuando gli studi specializzandosi nella medesima disciplina. Suoi articoli di letteratura, critica, storia, linguistica e filologia romanza sono usciti per riviste online come ilSuperuovo, Frammenti Rivista, Magma Magazine e Arateacultura. In via di pubblicazione è una sua plaquette poetica per un progetto antologico sostenuto dall’Università IULM di Milano.
Biblioteca DEA SABINA
-La rivista «Atelier»-
http://www.atelierpoesia.it
La rivista «Atelier» ha periodicità trimestrale (marzo, giugno, settembre, dicembre) e si occupa di letteratura contemporanea. Ha due redazioni: una che lavora per la rivista cartacea trimestrale e una che cura il sito Online e i suoi contenuti. Il nome (in origine “laboratorio dove si lavora il legno”) allude a un luogo di confronto e impegno operativo, aperto alla realtà. Si è distinta in questi anni, conquistandosi un posto preminente fra i periodici militanti, per il rigore critico e l’accurato scandaglio delle voci contemporanee. In particolare, si è resa levatrice di una generazione di poeti (si veda, per esempio, la pubblicazione dell’antologia L’Opera comune, la prima antologia dedicata ai poeti nati negli anni Settanta, cui hanno fatto seguito molte pubblicazioni analoghe). Si ricordano anche diversi numeri monografici: un Omaggio alla poesia contemporanea con i poeti italiani delle ultime generazioni (n. 10), gli atti di un convegno che ha radunato “la generazione dei nati negli anni Settanta” (La responsabilità della poesia, n. 24), un omaggio alla poesia europea con testi di poeti giovani e interventi di autori già affermati (Giovane poesia europea, n. 30), un’antologia di racconti di scrittori italiani emergenti (Racconti italiani, n. 38), un numero dedicato al tema “Poesia e conoscenza” (Che ne sanno i poeti?, n. 50).
Direttore responsabile: Giuliano Ladolfi Coordinatore delle redazioni: Luca Ariano
Redazione Online Direttori: Eleonora Rimolo, Giovanni Ibello Caporedattore: Carlo Ragliani Redazione: Mario Famularo, Michele Bordoni, Gerardo Masuccio, Paola Mancinelli, Matteo Pupillo, Antonio Fiori, Giulio Maffii, Giovanna Rosadini, Carlo Ragliani, Daniele Costantini, Francesca Coppola.
Redazione Cartaceo Direttore: Giovanna Rosadini Redazione: Mario Famularo, Giulio Greco, Alessio Zanichelli, Mattia Tarantino, Giuseppe Carracchia, Carlo Ragliani.
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La rivista «Atelier» ha periodicità trimestrale e si occupa di letteratura contemporanea.
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Per tutte le comunicazioni e proposte per Atelier Online, sia di pubblicazione di inediti che di recensioni vi preghiamo di scrivere al seguente indirizzo mail di direzione: eleonorarimolo@gmail.com
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